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OSSERVATORIO SULLA GIURISPRUDENZA DELL’UNIONE EUROPEA
MAGGIO - GIUGNO 2014
AGGIORNATO AL 30 GIUGNO 2014
a cura di MARIA NOVELLA MASSETANI
Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea
nella causa C – 129 / 14 PPU
Zoran Spasic
Un cittadino serbo viene condannato, in un procedimento penale in Germania, per una
truffa commessa in Italia, ad una pena detentiva di un anno e ad una multa di 800 euro.
Essendo già detenuto in Austria per altri reati, ha pagato la multa, ma non ha scontato la
pena detentiva.
A seguito di un mandato di arresto europeo emesso dalla Germania, le autorità
austriache hanno consegnato alle autorità tedesche il soggetto in questione.
Ai sensi della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen una persona che
sia stata giudicata con sentenza definitiva in uno Stato non può essere sottoposta ad un
procedimento penale per i medesimi fatti in un altro Stato. Il principio del “ne bis in
idem”si applica solo se la pena inflitta sia stata eseguita o sia attualmente in corso di
esecuzione oppure, secondo la legge dello Stato di condanna, non possa più essere
eseguita.
La Corte di Giustizia adita dichiara che la condizione supplementare dell’esecuzione
contenuta nella Convenzione costituisce una limitazione del principio del “ne bis in
idem” compatibile con la Carta dei diritti fondamentali. La condizione non rimette in
discussione il principio in quanto tale, poiché essa mira unicamente ad evitare
l’impunità di cui potrebbero giovarsi persone condannate in uno Stato membro con
sentenza penale definitiva. La Corte considera, infine, che la condizione dell’esecuzione
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è proporzionata alla finalità perseguita e non va oltre quanto è necessario per evitare
l’impunità delle persone condannate. I giudici affermano che, nel momento in cui una
pena detentiva e una pena pecuniaria sono pronunciate a titolo principale l’esecuzione
della sola pena pecuniaria non è sufficiente per considerare che la pena sia stata eseguita
o sia in corso di esecuzione ai sensi della Convenzione. Pur se la Convenzione dispone
che la pena deve essere eseguita o essere in corso di esecuzione, tale condizione
ricomprende la situazione in cui sono state pronunciate due pene principali. Qualsiasi
diversa interpretazione condurrebbe a privare di significato il principio del “ne bis in
idem” enunciato nella Convenzione e comprometterebbe l’utile applicazione di
quest’ultima.
Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea
nella causa C – 539 /12
Z. J. R. lock / British Gas Trading Limited
Nella fattispecie in esame la Corte si occupa del caso di un consulente alle vendite
interne di energia dal 2010 presso la British Gas. Le mansioni dell’impiegato consistono
del persuadere i clienti professionali ad acquistare i prodotti energetici del suo datore di
lavoro. La sua retribuzione si compone di due elementi principali: uno stipendio di base
e una provvigione. Quest’ultima, pagata anch’essa su base mensile, è calcolata in
funzione delle vendite realizzate dagli impiegati.
Il Tribunale competente chiede alla Corte di Giustizia se la provvigione che il lavoratore
avrebbe guadagnato nel corso delle ferie annuali debba essere presa in considerazione
all’atto del calcolo dell’indennità per le ferie annuali e, eventualmente, in che modo la
somma dovuta al lavoratore debba essere calcolata.
La Corte ricorda che, durante il periodo delle ferie annuali, il lavoratore deve percepire
la propria retribuzione ordinaria. Infatti, la retribuzione delle ferie è diretta a collocare il
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lavoratore, nel corso di tale periodo di riposo, in una situazione che sia paragonabile ai
periodi di lavoro con riferimento allo stipendio.
Secondo la British Gas, tale scopo era raggiunto poiché il soggetto in questione aveva
fruito durante il suo periodo di ferie annuali retribuite di uno stipendio composto non
soltanto dello stipendio di base, ma anche della provvigione derivante dalle vendite
realizzate nel corso delle settimane anteriori. La Corte disattende tale argomentazione.
Essa valuta che, malgrado la retribuzione percepita dal signore in questione durante le
ferie annuali, quest’ultimo potrebbe essere dissuaso dall’esercitare il suo diritto alle
ferie annuali a causa dello svantaggio finanziario, differito ma concreto, subito nel
periodo successivo a quello delle ferie annuali. La Corte rileva che la diminuzione della
retribuzione dovuta a titolo di ferie annuali retribuite è idonea a dissuadere il lavoratore
dall’esercitare effettivamente il suo diritto alle ferie; il che è in contrasto con lo scopo
perseguito dalla direttiva sull’organizzazione dell’orario di lavoro. Qualora la
retribuzione percepita dal lavoratore sia composta da più elementi, la determinazione
della retribuzione ordinaria dovuta nel corso delle ferie annuali necessita di un’analisi
specifica. Già nella sentenza del 15 settembre 2001 la Corte ha dichiarato che qualsiasi
inconveniente collegato all’esecuzione dei compiti del lavoratore secondo il contratto di
lavoro e compensato da un importo pecuniario che rientra nel calcolo della retribuzione
del lavoratore deve necessariamente far parte dell’importo cui il lavoratore ha diritto nel
corso delle ferie annuali.
Spetta al giudice nazionale valutare se, sulla base di una media calcolata nel corso di un
periodo di riferimento giudicato rappresentativo in applicazione del diritto nazionale, i
metodi di calcolo della provvigione dovuta a un lavoratore a titolo di ferie annuali
raggiungano l’obiettivo perseguito dalla direttiva 2003/88/CE che prevede che ogni
lavoratore abbia diritto a ferie retribuite di almeno quattro settimane.
Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea
nella causa C – 131 / 12
Google Spain SL, Google Inc. / Agencia Espanola de Proteccion
de Datos, Mario Costeja Goncalez
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La fattispecie che ha dato origine alla pronuncia della Corte di Giustizia prende inizio
dal reclamo presentato da un cittadino spagnolo contro un editore di un quotidiano
molto diffuso in Spagna e contro Google Spain e Google Inc. Il soggetto in questione
lamentava che, quando il proprio nome veniva introdotto nel motore di ricerca del
gruppo Google l’elenco dei risultati mostrava dei link di un quotidiano, che
annunciavano una vendita d’asta di immobili organizzata a seguito di un pignoramento
effettuato per la riscossione coattiva di crediti previdenziali.
La direttiva in materia, 95/46/CE, ha lo scopo di tutelare la libertà e i diritti
fondamentali delle persone fisiche in occasione del trattamento dei dati personali,
eliminando al tempo stesso gli ostacoli alla libera circolazione di tali dati.
La Corte afferma che, esplorando internet in modo costante e automatizzato alla ricerca
delle informazioni ivi pubblicate, il gestore di un motore di ricerca raccoglie dati ai
sensi della direttiva. I giudici affermano, inoltre, che il gestore estrae, registra e
organizza tali dati nell’ambito dei suoi programmi di indicizzazione, prima di
conservarli nei suoi server e eventualmente di comunicarli e metterli a disposizione dei
propri utenti sotto forma di elenchi di risultati. Tali operazioni, previste in maniera
esplicita dalla direttiva, devono essere qualificate come trattamento indipendentemente
dal fatto che il gestore del motore di ricerca applichi le medesime operazioni anche ad
altri tipi di informazioni diverse dai dati personali. Tali operazioni contemplate dalla
direttiva devono essere considerate come
un trattamento anche nel caso in cui
riguardino esclusivamente informazioni già pubblicate tali e quali nei media. Una
deroga all’applicazione della direttiva in un’ipotesi siffatta avrebbe come effetto di
svuotare quest’ultima del suo significato. La Corte ritiene che il gestore del motore di
ricerca sia responsabile di tale trattamento, ai sensi della direttiva, dato che è lui a
determinarne le finalità e gli strumenti del trattamento stesso. Rileva a tal proposito che,
nella misura in cui l’attività di un motore di ricerca si aggiunge a quella degli editori di
siti web e può incidere significativamente sui diritti fondamentali alla vita privata e alla
protezione dei dati personali, il gestore del motore di ricerca deve garantire che detta
attività soddisfi le prescrizioni della direttiva.
La Corte constata che il gestore del motore di ricerca è obbligato a sopprimere
dall’elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di
una persona, dei link verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni
relative a tale persona. Tale obbligo può esistere anche nel caso in cui tale nome o tali
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informazioni non vengano previamente o simultaneamente cancellati dalle suddette
pagine web e ciò eventualmente anche quando la loro pubblicazione sulle pagine in
questione sia di per sé lecita. In questo contesto un trattamento di dati personali
effettuato da un tale gestore consente a qualsiasi utente di internet, quando effettua una
ricerca a partire dal nome di persona fisica, di ottenere una visione complessiva
strutturata delle informazioni relative a questa persona su Internet. La Corte rileva,
inoltre, che tali informazioni toccano potenzialmente una moltitudine di aspetti della
vita privata e che, in assenza del motore di ricerca, esse non avrebbero potuto essere
connesse tra loro. Gli utenti di internet possono così stabilire un profilo più o meno
dettagliato delle persone ricercate. Inoltre, l’effetto dell’ingerenza nei diritti della
persona risulta moltiplicato in virtù del ruolo importante che svolgono internet e i
motori di ricerca nella società moderna, che conferiscono alle informazioni contenute
nelle liste di risultati carattere ubiquitario. Poiché la soppressione di link dall’elenco di
risultati potrebbe avere ripercussioni sul legittimo interesse degli utenti di internet
potenzialmente interessati ad aver accesso a quest’ultima, i giudici comunitari
affermano che occorre trovare un giusto equilibrio tra tale interesse e i diritti
fondamentali della persona interessata ed anche il diritto al rispetto della vita privata e il
diritto alla protezione dei dati personali. Rilevano anche che, se sicuramente i diritti
della persona interessata prevalgono, anche sul detto interesse degli utenti di internet,
tale bilanciamento può nondimeno dipendere, in casi particolari, dalla natura
dell’informazione di cui trattasi e dal suo carattere sensibile per la vita privata della
persona, nonché dall’interesse del pubblico a ricevere tale informazione, il quale può
variare a seconda del ruolo che tale persona riveste nella vita pubblica. Qualora si
constati, in seguito a una richiesta della persona, che l’inclusione di tali link nell’elenco
è incompatibile con la direttiva, le informazioni e i link devono essere cancellati. La
Corte osserva al riguardo che anche un trattamento inizialmente lecito di dati esatti può
in certe circostanze diventare incompatibile con la direttiva in materia nel caso in cui,
valutate le circostanze del caso concreto, tali dati risultino inadeguati, non pertinenti o
non più pertinenti o eccessivi.
In conclusione, la persona interessata può rivolgere domande direttamente al gestore del
motore di ricerca, che deve in tal caso procedere all’esame della loro fondatezza.
Qualora il responsabile del trattamento non dia seguito a tali domande, la persona
interessata può adire l’autorità di controllo o l’autorità giudiziaria affinché effettuino le
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verifiche necessarie e ordinino se del caso al responsabile stesso l’adozione di misure
precise conseguenti.
Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea
nella causa C - 557 / 12
Kone AG e altri / OBB Infrastruktur AG
La Commissione ha inflitto ai gruppi Schindler, Kone e ThyssenKrupp un’ammenda in
considerazione della loro partecipazione ad intese riguardanti l’installazione e la manutenzione
di ascensori e scale mobili.
Una filiale della società delle ferrovie austriache che ha acquistato ascensori e scale mobili da
imprese non aderenti all’intesa, ha richiesto agli aderenti all’intesa di risarcirla del danno
procurato dal fatto che i fornitori hanno fissato prezzi più elevati rispetto a quelli che avrebbero
applicato se l’intesa non fosse esistita.
Il diritto dell’Unione europea vieta le intese anticoncorrenziali; le imprese aderenti alle intese
sono responsabili del pregiudizio che altri soggetti possano subire a causa di tale violazione del
diritto di concorrenza.
La Corte di Giustizia interpellata afferma che l’effetto utile del divieto di intese
anticoncorrenziali risulterebbe rimesso in discussione se i singoli non potessero chiedere il
risarcimento del danno subito per effetto di violazione delle norme in materia di concorrenza.
Rileva che chiunque è legittimato a chiedere il risarcimento del danno subito se esiste un nesso
di causalità tra il danno fatto valere e il relativo accordo. Un’intesa può produrre l’effetto di
indurre le società non aderenti ad aumentare i loro prezzi di mercato risultanti dall’intesa, cosa
che i membri di quest’ultima non possono ignorare: il prezzo di mercato è uno dei principali
elementi presi in considerazione da un’impresa nel determinare il prezzo cui offrire i propri
prodotti o i propri servizi. Quando la determinazione del prezzo offerto sia considerata quale
decisione autonoma adottata a livello di ogni singola impresa terza, tale scelta può essere stata
presa in considerazione di un prezzo di mercato falsato dall’intesa. Conseguentemente, qualora
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risulti che, in base alle circostanze del caso di specie e delle peculiarità del mercato, possa aver
determinato l’aumento dei prezzi applicati dai concorrenti non aderenti all’intesa, le vittime del
rialzo dei prezzi devono poter pretendere dai membri dell’intesa stessa il risarcimento del danno
subito. La vittima può chiedere il risarcimento del danno anche in assenza di qualsiasi rapporto
contrattuale con i membri dell’intesa.
Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea
nella causa C - 118 / 13
Gulay Bollacke / K+K Klass & Kock B.V. & Co. KG
La fattispecie concreta, oggetto della pronuncia, si occupa del caso di un soggetto che ha lavorato
presso la società K + K fino al 19 novembre 2009, data del suo decesso. Ha sofferto di una grave
malattia a causa della quale è stato dichiarato inabile al lavoro e alla data della morte aveva
maturato 140,5 giorni di ferie annuali non godute. La vedova ha chiesto alla società l’indennità
finanziaria corrispondente alle ferie non godute da suo marito. L’impresa, però, ha respinto la
domanda poiché non ritiene trasmissibile l’indennità in questione per via successoria.
La direttiva 2003/88/CE del parlamento europeo e del consiglio dispone che ogni lavoratore ha
diritto alle ferie annuali retribuite di almeno quattro settimane e che tale periodo non può essere
sostituito da un’indennità finanziaria, salvo in caso di fine rapporto.
La Corte di Giustizia chiamata a pronunciarsi sulla controversia ricorda la sentenza del 20 gennaio
2009, Schultz-Hoffin cui aveva già affermato che il diritto alle ferie annuali retribuite è un principio
di diritto sociale di particolare importanza e che il diritto alle ferie annuali e quello al pagamento
dovuto a tale titolo costituiscono i due aspetti di un unico diritto. I giudici comunitari hanno già
dichiarato nella sentenza del 3 maggio 2012, Neidel che, quando il rapporto di lavoro finisce, il
lavoratore ha diritto ad un’indennità per evitare che sia escluso qualsiasi godimento del diritto alle
ferie. Il diritto dell’Unione osta a disposizioni o prassi nazionali in virtù delle quali un’indennità
finanziaria non è dovuta al lavoratore alla fine del rapporto di lavoro quando quest’ultimo non ha
potuto beneficiare delle ferie annuali retribuite per malattia. Il beneficio di una compensazione
pecuniaria nel caso in cui rapporto di lavoro termini a causa del decesso del lavoratore garantisce
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l’effetto utile del diritto alle ferie. La sopravvenienza fortuita della morte del lavoratore non deve
comportare retroattivamente la perdita del diritto alle ferie annuali retribuite. La Corte sottolinea
che il diritto comunitario non ammette legislazioni o prassi nazionali che prevedono che,
nell’ipotesi in cui il rapporto di lavoro finisca per morte del lavoratore, il diritto alle ferie annuali
retribuite si estingua senza dare diritto ad un’indennità finanziaria a titolo di ferie non godute.
Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea
nella causa C - 345 / 13
Karen Millen Fashions Ltd / Dunnes Stores
La questione esaminata dalla Corte riguarda una società britannica specializzata nella
produzione e vendita di abbigliamento femminile che ha creato e messa in vendita in Irlanda
particolare abiti. Alcuni rappresentanti hanno acquistato alcuni esemplari di tali capi e hanno
fatto realizzare copie degli stessi.
Il regolamento sui disegni e modelli comunitari dispone che i disegni e modelli, registrati o
meno, sono protetti dall’Unione qualora siano nuovi e presentino un carattere individuale, cioè
l’impressione che essi suscitano su un utilizzatore informato deve differire da quella suscitata
dai disegni o modelli anteriori.
La Corte di Giustizia investita della controversia afferma che il carattere individuale di un
disegno o modello, ai fini della concessione di tutela ai sensi del regolamento, deve essere
valutato rispetto a uno o più disegno o modelli precisi, individualizzati, determinati e identificati
tra l’insieme dei disegni o modelli divulgati al pubblico anteriormente. Tale valutazione non può
essere effettuata rispetto a una combinazione di elementi specifici e isolati, tratti da più disegni
o modelli anteriori.
Nelle azioni di contraffazioni, il regolamento prevede una presunzione di validità dei disegni o
modelli comunitari non registrati , dunque il titolare di un disegno o modello comunitario non
registrato non è tenuto a provarne il carattere individuale. Il titolare deve indicare in cosa il suo
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disegno presenta un carattere individuale, vale a dire deve indicare l’elemento o gli elementi del
disegno interessato che conferiscono ad esso tale carattere.
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