MORESCA DEL SUD piccolo glossario Kanuri/Italiano

piccolo glossario
Kanuri/Italiano
dei termini presenti nelle canzoni moresche
Ai = veramente
A la curà = Allah è grande
Allalà! = per Allah!
A la gura giddè = Dio ti protegga (?)
Are, ari = vieni (venite) qui
Ate, ati = questo
Barbunì = ladro-tu
Biscanìa, biscamìa = festa da ballo,
danzatori (?)
Calìa = schiavo (maschio)
Camocàn = gente (maschi e femmine?)
Cilùm, celùm, celù [dialetto Mabire] = nero
Graminì (karaminì) = fratello o sorella minore
Guà guà [wáwá] = ideofono per “chiasso
festoso”
Pampàna (ampàma) = guardiano (di schiavi)
Tubba = onore, rispetto, riverenza
Uh = io
Za za [dialetto Hausa] = andare
MORESCA DEL SUD
commedia in musica
in un prologo e sette quadri
dai testi lirici delle canzoni moresche
di Orlando di Lasso e altri autori del Cinquecento
con
Jean-Baptiste Hamado Timtoré (Giorgio)
Amina Diouf (Lucia)
Antonio Ancora (lo Scià / Martino)
Roberto Chiga (Cristoforo / tamburelli)
Gianluca Milanese (Martino 2 / flauti barocchi)
Gianfranco Salvatore (Giorgio 2 / oud, colascione)
Gloria Pisacane (arpa)
libero adattamento e regia
di Gianfranco Salvatore
Musiche di Orlando di Lasso,
Girolamo Kapsberger, Giulio Cesare Barbetta,
Anselmo de Reulx, Massimo Troiano,
E.A. Mario, Lennon/McCartney,
Nino Ferrer, Gianfranco Salvatore
Prodotto da Università del Salento
in collaborazione con Astragali Teatro
Maestro liutaio: Antonio Dattis
Coordinamento musica e palco: Giovanni Arsenio
Fotografo di scena: Bekala Marwan
Sound: Andrea Litti
Luci: Antonio Palumbo
Ufficio stampa: Francesco Spadafora
Staff: Elisa Giacovelli (coordinamento),
Teresa Zimbaria, Chiara Massari, Marta Poloni
Un ringraziamento particolare a Fabio Tolledi
MORESCA DEL SUD
Africani in Italia. Suoni e danze africane nella
Napoli del Cinquecento. Un Rinascimento
afromediterraneo…
Non una fantasticheria, ma un
patrimonio dell’umanità. La canzone moresca
rappresenta un giacimento culturale d’immensa
portata simbolica, un manifesto di tolleranza,
simpatia, fratellanza, integrazione culturale e
razziale. Che avvia precocemente il nostro Sud,
quello di cinquecento anni fa, sul percorso
compiuto poi durante il Novecento dalla black
music occidentale di retaggio africano - blues,
jazz, soul, reggae, fino alla cultura hip hop - in
una ricezione ormai universale. Ma non si tratta
solo di una curiosità culturale d’antan.
Oggi pochissimo studiate, ancor meno
eseguite, spesso fraintese, le canzoni moresche
costituirono nel Rinascimento italiano una
sorta di appendice “nera” alla tradizione della
villanelle. Singolare stilizzazione, che pure
ci trasmette una quantità di informazioni e
vibrazioni, sentimenti e nozioni autentiche.
Rappresentavano gli africani a Napoli probabilmente liberti, ex schiavi a cui i
padroni avevano restituito la libertà, talvolta
gratificandoli con prebende, lasciti, eredità
- che s’ingegnavano nei mestieri a loro
tradizionalmente congeniali: artigiani del
vimini, venditori ambulanti, artisti e musicanti
di strada. In quest’ultima veste li ritraggono le
moresche, mentre amoreggiano in serenate,
bisticci, corteggiamenti e intrighi erotici con le
belle e civettuole more napoletane, mescolando
il dialetto napoletano “comicamente storpiato”
a parole e frasi in kanuri: la lingua nilosahariana parlata nell’impero del Bornu, da cui
provenivano attraverso la tratta schiavistica
transahariana.
La storia di queste canzoni abbraccia
il sud tra Napoli e la Puglia. Si tratta di un
ciclo carnevalesco di otto brani (poi espanso
a dieci) musicati da Orlando di Lasso, la
star europea della polifonia fiamminga, a
Napoli dal 1549 al 1551 al servizio di Giovan
Battista d’Azzia, marchese della Terza - cioè
di Laterza, in Terra d’Otranto - e fondatore
dell’Accademia dei Sereni. Le versioni originali
a tre voci furono stampate a Roma nel 1555
dall’editore e musicista Antonio Barré, che
le pubblicò dedicandole a Francesco De La
Mola, identificato con Gian Francesco Carafa di
Stigliano, detentore del feudo di Mola di Bari.
Con il CBMR/Europe, centro di ricerca
dell’Università del Salento e del Columbia
College di Chicago, studiamo da alcuni
anni - assieme a un’équipe internazionale
e interdisciplinare di prestigiosi specialisti
- questo repertorio unico e straordinario di
musica, canto, passioni afromediterranee.
Nel quale si ha la prima occorrenza scritta
della lingua del più grande impero africano
dell’epoca, evidentemente compresa almeno
in parte da intellettuali e gente comune del
nostro sud; e da cui trapela non solo una
certa conoscenza di usi, costumi sociali e
tradizioni del continente nero, della cui pratica
gli schiavi da noi non venivano privati, ma
anche a
​ ffermazioni ed espressioni identitarie. E
l’esistenza di una vera e propria comunità nera,
che poteva riunirsi a festeggiare in occasioni
particolari, come le nozze.
Oggi ne presentiamo a Lecce - al
Teatro Paisiello, con la collaborazione di
Astragali Teatro e il supporto del Monte
dei Paschi di Siena - un primo studio sulla
messa in scena, frutto di un seminario
della nostra operosa Università, realizzato
con studenti, studiosi, artisti e operatori
culturali attivi nel Salento, bianchi e neri.
Scegliendo in questa fase iniziale, per quello
che potrebbe diventare uno straordinario (e
autentico) “musical rinascimentale”, la forma
umile e divertente della farsa napoletana e
meridionale: in una tradizione di umorismo
caldo e melodioso, che dalle commedie e
dalle villanelle del Cinquecento, attraverso
Petito e Scarpetta, i De Filippo e Nino Taranto,
e fino ​alle malinconie di Massimo Troisi, ha
incarnato e consolato per secoli lo spirito
meridiano.
Nella giornata delle elezioni europee
siamo felici di poter dedicare questo
monumento di cultura afromediterranea,
modello ante litteram dell’integrazione
socioculturale di Europa e Africa, a tutti gli
immigrati di colore che oggi sudano, sfruttati,
nelle campagne campane e pugliesi; alle quasi
trecento ragazzine della Nigeria settentrionale
(regione di quell’antico impero del Bornu da
cui provenivano i protagonisti delle canzoni
moresche) ignobilmente sequestrate dai
guerriglieri jihadisti in questi mesi crudeli; ai
sogni e alle speranze di un’Africa più libera
e felice, di un’Europa più consapevole, di
un’umanità bianca e nera che invoca un
mondo migliore.
Gianfranco Salvatore