Ballando con Cecilia

PINO ROVEREDO
BALLANDO CON CECILIA
ROMANZO
BOMPIANI
© 2014 Bompiani / RCS Libri S.p.A.
Via Angelo Rizzoli 8 – 20132 Milano
ISBN 978-88-452-5887-9
Prima edizione Bompiani marzo 2014
Realizzazione editoriale studio pym / Milano
... A tutte le bertucce della vita mia
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Il ballo del pazzo arrivava improvvisamente, e di solito
partiva dopo la musica tranquilla e rasserenante di una
fisarmonica. Una vecchia fisarmonica appoggiata sulla
pancia esagerata del signor Gaetano che, al prezzo di un
ottavo di vino per canzone, faceva girare le danze dentro l’osteria del rione di Servola, quello incastrato tra il
cimitero di Sant’Anna e i fumi indifferenti dell’Italsider.
La domenica sera, coppie di morosi, fidanzati e amanti mascherati si toccavano o si sfioravano le guance e le
anche facendole girare nell’atmosfera innamorata del solito motivo, sempre quello: “Rosso corallo per te, rosso
tramonto per noi...”.
Di tanto in tanto gli agganci innamorati venivano staccati dall’intromissione di una canzoncina allegra, sempre quella: “Mi sono innamorato di Marina, una ragazza
mora ma carina...”, e allora la serata danzante si allargava per far entrare i genitori delle coppie, i movimenti imbarazzati di qualche anziano e le buffe moine dei
bambini che cercavano di imitare le agitazioni musicali
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degli adulti. E in quel repertorio di due canzoni due,
con l’aggiunta di qualche motivo inventato, le dita del
signor Gaetano scorrevano tranquille sulla tastiera fino
alle nove, quando, puntuale, entrava nell’osteria la figura strana di Paolino, il matto del rione.
Magro come uno stecco di gelato e alto come uno
sguardo all’insù, Paolino indossava la solita camicia
bianca col collo nero, la giacca di due misure in meno e,
sopra la testa, per coprire quattro centimetri di fronte,
un basco blu che non si toglieva nemmeno d’estate.
Paolino era un matto da ridere, che si divertiva a saltare fuori dagli angoli e dai portoni per il piacere di sfogare il vizio di un urlo animale, un urlo che poteva presentarsi come l’abbaiare del cane incazzato, il ruggito
e la corsa di un leone affamato, oppure come il nitrito
esultante del cavallo su due zampe, tutti spassi bestiali
che facevano sobbalzare di spavento le vittime di passaggio. Ma non era cattivo, Paolino, e anche gli spaventi
che procurava, con il tempo diventavano l’abitudine di
un piccolo balzo e lo sfogo energico di un “Ma vaffanculo!”.
No, non era cattivo, però, alle nove di sera di quelle
domeniche in osteria, soprattutto per i bambini, le sue
entrate non erano mai divertenti, anzi, spesso mettevano
su una paura da voltare il viso...
Alle nove di sera, dentro l’osteria, si cambiava repertorio. I soliti ballerini sgombravano la danza lasciando
solo in mezzo alla pista Paolino, che felicemente imbarazzato si torturava le mani aspettando il suo turno.
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– E allora, sei pronto, Paolino?
Appena arrivava l’assenso, la faccia immobile del signor Gaetano acquistava un sussulto e subito le dita partivano agili sui tasti e sui bottoni neri, offrendo virtuosismi veloci, sempre più veloci, sempre più veloci... Mentre
il pubblico intorno scandiva la musica con l’incitamento.
– pao-li-no! pao-li-no! pao-li-no!...
E Paolino, ogni domenica sera, si esibiva nel ballo del
pazzo. Come lo scoppio di una bomba, liberava braccia
e gambe senza la disciplina logica delle giunture e, come
una marionetta mossa da un attacco epilettico, si scatenava nei movimenti impossibili. La mano toccava il piede, il tacco colpiva la schiena, il ginocchio si conficcava
nell’ascella, il collo scuoteva violentemente la testa quasi
volesse staccarla via dal corpo.
– pao-li-no! pao-li-no! pao-li-no!...
E Paolino ballava, ballava il ballo del pazzo per il piacere del pubblico che gli girava intorno veloce come una
trottola con la forza di cento cariche. Voci che urlavano, mani che picchiavano, piedi che scalciavano, bocche
con dentature intermittenti che si spalancavano, sorrisi
nascosti tra le mani, risate meravigliate e sghignazzi di
godimento senza ritegno che si aprivano e chiudevano
intorno.
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– pao-li-no! pao-li-no! pao-li-no!...
E Paolino ballava, ballava la sua offesa per allietare la
serata dei sani. Ballava con il basco incastrato in testa
che gli spediva giù fiumi di sudore, ballava con la lingua
fuori mentre righe di saliva gli colavano giù dal mento. Paolino ballava tutta l’agitazione che aveva in corpo,
con le ginocchia che s’intrecciavano e confondevano, le
braccia che gli volavano nell’aria e gli occhi che gli giravano, giravano, giravano... Giravano fino all’arresto ordinato da uno sfinimento, e da un ritmo impossibile che
senza pietà scaraventava la marionetta a terra.
– pao-li-no! pao-li-no! pao-li-no!... pao-li-no! pao-li...
Finita l’esibizione, la sagoma di Paolino veniva sollevata e buttata su una sedia di lato, e lì dimenticata fino
al prossimo spettacolo. La fisarmonica, tolta la frenesia
del virtuosismo, riprendeva il ritmo della solita musica,
sempre quella: “Rosso corallo per te, rosso tramonto per
noi...”.
Da bambino, ogni domenica notte, puntuale, ero svegliato dalla solita agitazione che veniva a tormentarmi il
sogno: folle di mani che picchiavano su enormi tamburi per scandire il ballo del pazzo e, dentro il delirio di
quel rimbombo, una marionetta era fatta girare, volare,
e infine gettata a terra e uccisa per il piacere dell’applauso. Quindi, immancabile, sopra la mia paura, arrivava il
suono lento di una fisarmonica che si portava via l’agi10
tazione, lasciando in pegno una tristezza lunga tutto il
giorno...
Un suono malinconico e lento di fisarmonica mi gira
nella testa mentre, sotto la pioggia e senza la precauzione dell’ombrello, sto percorrendo i larghi viali dell’ex
Manicomio.
Qui, quando piove, l’acqua non scende come fuori,
nella città dei sani, ma dieci volte più forte, arrabbiata,
furiosa... Talmente forte, arrabbiata e furiosa che può
distruggere il riparo della copertura, poi, con la complicità del suo amico vento, c’è anche il rischio che ti tolga
il telaio di mano e te lo sbatta il più lontano possibile. E
allora, hai voglia a rincorrerlo...
Chissà mai perché la temperatura, qui, si presenta
sempre così rabbiosa. Forse sarà per l’ubicazione strategica dei viali, che belli larghi si prostrano alla riverenza di un corridoio per lasciar passare le intemperie che
scendono dalla collina verso il mare, o sarà per la strana
congettura di un pensiero che gira qui dentro, un pensiero che a volte, per rispetto di una salute mentale, si
preferisce non dire...
Qui, qualcuno pensa che nell’aria girino ancora le imprecazioni delle anime dei vecchi internati. Fiati rabbiosi che arrancano sulle salite, o deliri prigionieri aggrappati ai tronchi degli alberi. Imprecazioni bestemmiate
che sbattono e rimbalzano sui muri circondariali del
comprensorio. Alienazioni mentali morte e resuscitate
che si cercano una giustizia negli infiniti viavai nottur11
ni. Lamenti che, maledizione alla salute, si lamentano di
un’intelligenza che non li ha resi partecipi.
– infermiere, una sigarettaaa! Una sigaretta, una sigaretta, una sigaretta, una...
– Papà, pipì! Pipì, papà! Papà, pipì, pipì, papà, papà,
pipì, pipì...
– No, dottore, no, no... via il diavolo, via, via, via! Niente puntura, niente puntura, no, no, non voglio la puntura!
Via, via, via...
– Fatemi uscire da questa camiciaaa... Ho detto che voglio uscire dalla camiciaaa... La camiciaaa...
– Mamma! Mamma!... mammaaa!...
Ecco, può essere che, quando l’umore meteorologico entra in questa miscela rabbiosa, è facile che perda
il controllo del suo manifestarsi. Se fuori dalle mura
dell’ex ricovero psichiatrico gira un sole da sudore, dentro trovi un fuoco che ti squaglia. Se fuori c’è una normale bora a ottanta, dentro si raddoppia l’accelerata fino
a spostarti la figura e farti cambiare direzione. Se fuori
c’è un freddo da guanti e cappotto, dentro devi combattere con un gelo che congela mani, piedi, testa e cuore.
E se fuori c’è una normale pioggia da ombrello, nei viali
dell’ex Manicomio bisogna rassegnarsi alla vittoria degli
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