JACQUES RANCIÈRE:

Giovanni Campailla
JACQUES RANCIÈRE:
dalla rottura con Althusser
alle scene dell’emancipazione
Introduzione
Analizzare un pensiero in corso di svolgimento1 è un’impresa che può rivelarsi ardua.
A maggior ragione quando si tratta di un filosofo come Jacques Rancière, il quale si autodefinisce uno «studente perpetuo», si scaglia veementemente contro tutti coloro che
si proclamano essere «maestri» ed è restio a sistematizzare le sue idee in una dottrina.
Su queste basi, il nostro proposito non è di dare una forma definitiva ad un’opera di
per sé aperta. Ma piuttosto di situare la riflessione rancièriana nelle congiunture storiche
che l’hanno determinata, perché crediamo siano le sole a renderla intelligibile. L’autore
francese va così inserito in un dialogo – polemico o interrotto, a seconda dei casi, ma
mai statico – con gli intellettuali contemporanei a lui più vicini. Il principale dei quali è
Louis Althusser, col quale egli dapprima ha collaborato nella stesura di Leggere il Capitale
e in seguito ha ingaggiato una contesa tale da segnare l’evoluzione successiva della sua
prospettiva teorica.
La rottura con Althusser costituisce – come suggerisce già il titolo – uno dei fili
principali del libro. Se ne parla soprattutto nei primi due capitoli, relativi agli anni
Sessanta e ai primi Settanta, ma continua di fatto ad essere al centro anche di quelli
successivi. L’insistenza su questo rapporto dipende dalla volontà di mettere in luce
l’origine del pensiero rancièriano. Molto spesso, infatti, gli studi recenti che gli sono
dedicati si concentrano sui libri degli ultimi anni, tralasciando la sua genesi. Riteniamo, invece, che concentrarsi sul “giovane” Rancière sia molto importante per capirne gli sviluppi odierni.
Ciò, chiaramente, ci ha condotto nello studio di dibattiti che probabilmente al lettore
sembreranno datati – i dibattiti anteriori e posteriori al ‘68, quelli maoisti dei primi anni
Settanta e quelli riguardanti la “crisi del marxismo”. Ma che sono fondamentali per capire i problemi suscitati dal pensiero politico contemporaneo.
In questo percorso “archivistico” è Althusser a fare da protagonista. Sebbene non
proprio tutto il suo pensiero, ma soltanto alcuni dei suoi scritti compresi nel decennio
1963-1973, cioè dagli articoli del Per Marx fino alla Risposta a John Lewis. Andando oltre,
la critica che ne viene fatta non sarebbe completamente corretta, perché, come ha giustamente notato Étienne Balibar, dopo il 1976 Althusser comincia un’opera di rovesciamento del suo pensiero precedente2.
Questo periodo è decisivo per tutta la teoria emancipatrice novecentesca. Gli anni
Sessanta si aprirono in Francia con le contestazioni alla guerra d’Algeria, che generarono
la necessità di riformulare le coordinate rivoluzionarie. Vi era bisogno di un pensiero
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nuovo, capace di tenere insieme rivendicazioni diverse: non più soltanto la lotta della
classe operaia, ma anche la battaglia anticolonialista o quella studentesca. L’interpretazione strutturalista dei testi marxiani condotta dagli allievi di rue d’Ulm e del loro “caimano” (così veniva chiamato Althusser) era adatta all’uopo.
Eppure, con il Maggio, quest’ultima rivelò tutta la sua impermeabilità agli avvenimenti,
a tal punto da trasformarsi, poco dopo, in strumento in mano a quei reazionari che mal
avevano sopportato le barricate del Quartiere Latino. Bisognava, dunque, riflettere su
quale fosse stato il problema esiziale di questa impostazione teorica. Rancière fu il primo
ad accorgersene: a suo parere, il ‘68, insieme all’autorità, aveva minato lo statuto del
Teorico, che lo strutturalismo aveva eretto a unico detentore di quel sapere capace di
guidare le masse sfruttate.
Ciò basta a spiegare come mai per i pensatori di quella generazione, soprattutto i
francesi, quella vicenda abbia costituito una cesura importante. Rancière, rispetto agli
altri – come ha osservato un altro attore e spettatore di quegli anni, Alain Badiou –, è
rimasto «fedele all’evento»3, ha fatto cioè di quella critica al Teorico il programma di
tutta la sua opera, spiegando, libro dopo libro, come l’obiettivo del maître (da intendere
come “difensore della legge”: maestro, padrone e procuratore), che insegna la “necessità” dell’ordinamento sociale, sia quello di chiudere la possibilità dell’emancipazione.
Era esattamente questa “necessità” che negli anni Settanta bisognava sconfiggere,
una “necessità” che immette gli individui in posti e fornisce loro delle funzioni inflessibili. Secondo Rancière, essa deriva dalla teoria del dominio, tipica dello strutturalismo
e dei suoi seguiti, che sancisce, forse inconsapevolmente, l’ineluttabilità del capitalismo.
La “crisi del marxismo” di quella congiuntura storica dipendeva, dunque, dalla maniera
stessa in cui veniva formulata una simile teoria del dominio. Per uscirne occorreva rilanciare un’idea di emancipazione capace di fuggire dal paradigma per cui il disciplinamento sfrutta tutti i membri di una comunità sociale senza che questi se ne accorgano
e senza alcuna via d’uscita.
È questo il secondo filo che tiene l’interpretazione del percorso di Rancière da noi
fornita. Ossia, la ricerca di un altro pensiero della trasformazione sociale: un pensiero
che non si limiti al mero studio dello sfruttamento, ma punti la propria attenzione sulle
possibilità dell’emancipazione. Questa altra idea, indicata dall’autore, è costituita dalle
scene dell’emancipazione, ovvero dai “momenti” che scardinano l’ordine istituente le parti
della società, facendo venire alla luce la parte dei «senza-parte» – la parte, cioè, inclusa
nel calcolo delle partizioni, ma al contempo esclusa dalle deliberazioni. Tale parte dei
«senza-parte» divide e condivide lo spazio comune che è già di per sé diviso e condiviso.
Rancière riassume questo doppio procedimento col termine partage, identificando la di4
stribuzione ordinata con la polizia e lo scardinamento con la politica.
C’è chiaramente il rischio di leggere queste scene come degli eventi meramente contingenti, rari e accidentali che intaccano solo momentaneamente l’ordine di dominio.
Ciononostante, non le si deve confondere, benché abbiano qualche somiglianza, con
l’evento di Badiou. L’ipotesi rancièriana, infatti, parte da un prospettiva diversa, che è
l’uguaglianza delle intelligenze del «maestro ignorante» Joseph Jacotot. Quest’uguaglianza
viene pensata da Rancière come il presupposto dal quale ogni pratica emancipatrice deve
partire, anziché come un obbiettivo da raggiungere. Partire dall’uguaglianza significa
verificarla nei regimi di disuguaglianza che viviamo quotidianamente, perché è evidente
come qualsiasi sistema di dominio, affinché domini realmente, sia costretto a scendere
sullo stesso piano di colui o di coloro di fronte ai quali vuole porsi come superiore. Partire dall’uguaglianza vuol dire, dunque, sostenere che dietro il dominio e la disuguaglianza ci sia sempre l’«uguaglianza di chiunque con chiunque altro».
È così che, negli ultimi anni, Rancière ha sviluppato un’originale tematizzazione della
democrazia, in polemica con tutte quelle teorie per cui la democrazia si possa “portare”
in altri Stati, per cui essa sia una forma di governo o sia uno spazio di concertazione tra
le parti sociali. La democrazia, nella sua ipotesi, è anteriore alla costituzione delle parti sociali in quanto parti, poiché è il principio che svela la mancanza di un ideale ordinatore
capace di tenere compatto l’insieme della società.
Questa prospettiva di lettura, però, privilegiando l’itinerario politico di Rancière, mette
in secondo piano la sua importante riflessione estetica, alla quale andrebbe collegato,
anziché esserne staccato. Diciamo subito che, sebbene ad essa ci siano qui dei rimandi,
è stato scelto di privilegiare il percorso politico, in quanto il fine ultimo del presente
libro è di interrogarsi sulle possibilità e i limiti dell’odierno pensiero d’emancipazione.
Rancière, infatti, ha attraversato, durante la sua esperienza teorica, un singolare movimento di declino del pensiero critico. Fino a pochissimi anni fa, la politica rivoluzionaria sembrava ormai essere diventata qualcosa di assolutamente utopistico. Tanto da
essersi imposta, al suo posto, una politica ridotta alla gestione amministrativa delle necessità empiriche del mercato globale, tale da non lasciare spazio alle richieste popolari
e democratiche. Oggi, dopo le primavere arabe e le miriadi di rivolte disseminate in
tutto l’Occidente, sembrano aprirsi delle nuove possibilità, e l’aspetto interessante di
questi avvenimenti pare essere il tentativo di costituire una nuova stagione emancipatrice
che sfugga a qualsiasi teoria forte.
Al di là di questi ultimi episodi (o forse, potremmo anche dire, in ragione di questi),
al movimento «a passo di gambero», che ha segnato l’ultima metà del Novecento, ha
sicuramente contribuito il fenomeno strutturalista. Come abbiamo già accennato, alcune
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delle analisi che avevano nutrito la generazione degli anni Sessanta, sono diventate le
armi in mano ai quegli opinion makers che proclamano, giorno dopo giorno, l’impossibile
uscita, malgrado i pericoli ambientali e le crisi finanziarie, dalla struttura capitalistica.
Tuttavia, crediamo sia giusto porsi la seguente domanda: la rottura con Althusser, e con
lo strutturalismo in generale, è sufficiente per accedere alle scene dell’emancipazione, oppure
Rancière detiene comunque un certo debito nei confronti del suo ex maestro? Vedere in
cosa sia consistita questa rottura e di quali problematiche nuove essa sia stata feconda,
ci porta a capire se la riflessione rancièriana più matura si situi in un altro campo teorico
rispetto a quello althusseriano, oppure se permanga un debito nei suoi confronti.
Sennonché, questa domanda non va confinata al solo itinerario rancièriano, in quanto
potrebbe essere allargata anche a quella di altri importanti pensatori contemporanei.
Come infatti ha suggerito Slavoj Žižek, gli «edifici teorici», non solo di Rancière, ma
anche di Alain Badiou, di Étienne Balibar e di Ernesto Laclau, «devono essere concepiti
come quattro modi diversi per negare questo punto di partenza comune, per mantenere
(o, piuttosto, per guadagnare) una distanza nei confronti di Althusser»4.
L’idea di Žižek è interessante. Il confronto di Rancière e degli autori che provengono
dalla sua stessa storia con il proprio passato, può risultare una maniera efficace per porsi
la questione delle potenzialità e dei limiti dell’odierno pensiero d’emancipazione. Ci
confronteremo più dettagliatamente con la proposta di Žižek nell’ultimo capitolo.
Al momento, limitandoci al pensiero di Rancière, concludiamo dicendo questo.
Quello rancièriano può essere preso come un percorso esemplare dell’odierno pensiero
d’emancipazione, perché la sua operazione teorica, esaminando le vicissitudini profonde
di un’idea emancipatrice che ha via via conosciuto un’inesorabile scomparsa, non mira
più ad enunciare verità uniche e definitive per cambiare il mondo, ma apre piuttosto
nuovi spazi di riflessione, spiazzando i significati e le relazioni abituali, per ridisegnare
le partizioni gerarchiche di dominio.
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noscimento popolare e possono pertanto decidere quali siano le esigenze mondiali
in maniera assolutamente autonoma316.
Come chiamare allora questi Stati? Rancière propone il nome di «post-democrazie»
o anche di «democrazie consensuali»317. Stati, cioè, che hanno superato e inglobato il
demos nel consenso che li mantiene. Post-democrazia, dunque, non – come potrebbe
suggerire il termine – nel senso di democrazia dell’epoca post-moderna, bensì di un regime poliziesco del sensibile, che, calcolando e suddividendo in maniera “geometrica”
le identità sociali, separa gli esperti di governo dai semplici consumatori, costituendo
una sfera dell’opinione in cui le conflittualità sociali vengono trasformate in problemi
da risolvere per mezzo di una scienza competente. È questo regime del sensibile a coincidere con quello che viene chiamato il consenso. Il consenso, spiega l’autore, è la maniera
più efficace e astuta per mostrare alla società sé stessa nella sua totalità. Esso va inteso,
pertanto, come il discorso della scienza sociale che accusa l’edonismo individualistico
per distogliere lo sguardo da chi lo organizza, il cui miglior esempio è l’apologo che
Menenio Agrippa fa ai plebei allo scopo di riportarli alla “realtà” di essere solo le membra di un corpo che senza anima non potrebbe funzionare.
La post-democrazia del consenso, insomma, è, per Rancière, il risultato della proclamazione della “fine delle utopie”, della filosofia politica e del suo realismo. Essa è la
forma di governo che ha finalmente dimenticato le soggettivazioni politiche e copre
tutti gli spazi in cui queste possano sorgere. Ed infine, è il prodotto ultimo di una Teoria,
quella strutturalista, che, volendosi porre come l’arma indispensabile per la rivoluzione,
ha in realtà sotterrato i sogni dell’emancipazione nella descrizione degli individui ormai
votati ai desideri dell’edonismo contemporaneo.
c) La lezione della soggettivazione democratica
Possiamo volgerci adesso alla seconda domanda. La democrazia – che finora è stata
descritta come l’istituzione di una comunità divisa, cioè una comunità non ordinata da
un’idea o da un arché (che sia il Bene platonico o il Progresso ottocentesco), bensì attraversata da una molteplicità di soggettivazioni che nei propri atti ne costituiscono il
modo d’essere – può essere considerata come quella configurazione politica che installa
il principio di uguaglianza? Possiamo pensarla, così come Marx pensò la Comune di
Parigi, come la «forma politica finalmente scoperta»318 dell’emancipazione?
Rispondere a questa domanda non è semplice. Spesso Rancière appare come un pensatore che ad una buona diagnosi non faccia seguire una relativa prognosi. È lecita
quindi, a questo proposito, la domanda di Bruno Boostels se Rancière ci dia o meno
una lezione319. Alla quale Rancière stesso replica negativamente, perché, tirando delle
conclusioni e dei programmi d’azione, egli si porrebbe come un “maestro sapiente”.
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Eppure, nonostante noi crediamo che in ciò l’autore abbia ragione e in tutto il libro
non abbiamo fatto altro che spiegare il complesso rapporto tra chi presume di sapere
e chi viene presunto essere ignorante, è necessario indagare l’insegnamento rancièriano.
Infatti, dal momento in cui, in alcune parti dei suoi libri, Rancière diventa esplicito
sugli obiettivi politici, pensiamo che il ruolo di uno studioso della sua opera debba
essere quello di fargli dire quel che in fondo è solo suggerito. È quanto hanno fatto, a
differenza delle miriadi di interviste a cui viene sottoposto l’autore negli ultimi tempi,
Laurent Jeanpierre e Dork Zabunyan320. Seguendo dunque le tracce disseminate nei vari
testi e l’intervista realizzata da quest’ultimi, tentiamo di rispondere alla domanda che ci
siamo posti.
Partiamo da un concetto. Rancière parla di istituzione della democrazia. A cosa rimanda
tale istituzione? Non si tratta certamente dell’istituzione che mantiene le leggi sociali e
non riguarda neanche il partito come istituzione. Ciononostante, Rancière è distante non
soltanto dal partito- organizzazione, ma anche dallo spontaneismo. L’istituzione rancièriana
è quella della parte dei senza-parte che, immettendosi nello spazio della polizia e rompendone l’ordine, si fa vedere in esso creando uno spazio e un tempo del tutto suoi.
Per spiegare meglio questo concetto, un facile riferimento potrebbe essere il Marx
de Le lotte di classe in Francia, il quale descrive la repubblica borghese del febbraio 1848
come una repubblica costretta dalla pressione del popolo a dotarsi di istituzioni sociali321.
L’istituzione della parte non contata dalla comunità coincide, a nostro parere, esattamente
con le marxiane istituzioni sociali.
Così, a ben vedere, viene fuori una ulteriore riflessione sull’emancipazione intesa
come soggettivazione. A una questione posta dagli intervistatori, «vorremmo meglio
cogliere come lei concepisce gli effetti del processo di soggettivazione politica», Rancière
è molto chiaro: «c’è per me un criterio fondamentale dell’effettività politica, è quando
quest’ultima crea, intende e permette l’istituzionalizzazione delle condizioni stesse del
suo esercizio»322. Ovvero – puntualizza l’autore più avanti –, tutto ciò che oggi i tentativi
neoliberisti cercano di distruggere: «il fatto che i poveri possano andare negli stessi
ospedali dei ricchi, l’uguaglianza nelle forme di vita per l’educazione, le cure mediche,
i trasporti, ecc». Queste infatti – al di là dell’aspetto materiale e a dispetto di coloro i
quali sostengono che esse servano solo per imbrogliare le classi povere, le quali dovrebbero ancora aspettare il “sol dell’avvenire” promesso dalla scienza – sono state delle
conquiste, degli «effetti misurabili della lotta politica», che attualmente vanno incontro
a delle sconfitte, alla «disfatta della politica»323.
Con questa osservazione non si vuole affatto sostenere che l’obiettivo dell’emancipazione debba essere una battaglia per le buone riforme e che a queste debba fermarsi.
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Ma che la modalità in cui si svolge l’azione emancipatrice sia quella di apparire all’interno
della totalità sociale. Come spiega Rancière relativamente al problema degli immigrati:
è importante che agli stranieri (un esempio di senza-parte) venga data la possibilità di potere votare, ma non per dire che questo cambierà chissà che cosa, piuttosto perché il
voto significherebbe una «riconfigurazione dello spazio comune, dell’idea stessa di identità, di ciò che è essere francese, essere cittadino di un paese»324.
L’istituzione della soggettivazione politica è, in breve, un primo nucleo di quel che
Rancière intende per “democrazia”. La lotta non deve rifugiarsi in un mondo separato
da quello reale325, ma deve piuttosto immettersi nelle contraddizioni del regime poliziesco, scardinandolo e guadagnando in esso delle posizioni di visibilità tali da imporsi
all’insieme della comunità ridisegnandone l’aspetto – o, detto nel lessico rancièriano,
il partage.
A questo punto cogliamo quel che Rancière dice quando, alla fine de La Mésentente e
de L’odio per la democrazia, afferma che la scena della democrazia sia «rara», «locale», che
la si abbia «qui e ora»326, che sia «affidata alla costanza dei propri atti»327.
La politica d’emancipazione – dicevamo all’inizio di questo capitolo – è (ri)pensata
da Rancière, a partire dagli anni Novanta, alla luce di due fatti, la contestazione mondiale
e la globalizzazione. Abbiamo già visto (nel 4.3.b), come sulla globalizzazione si innesti
una riflessione più ampia relativa alla post-democrazia e al consenso. La contestazione,
invece, è al centro della caratterizzazione problematica della soggettivazione. Egli infatti
non la vede in modo pienamente positivo. Certo, non la demonizza neanche: nella prospettiva rancièriana «è importante la costituzione di un nuovo spirito internazionale».
Tuttavia, a suo parere, la singolarità di un atto di soggettivazione passa sempre per la
situazione che essa scompone e in cui si costituisce328.
L’esempio è il movimento no-global delle giornate di Seattle, Genova e Porto Alegre.
Per Rancière (anche se noi non condividiamo del tutto quel che egli afferma su tale argomento), «questi movimenti dicevano che, poiché la scena è mondiale, bisogna agire
mondialmente. Ma questa azione è per l’essenziale un’azione simbolica che se la prende
con gli organi del governo mondiale laddove essi si riuniscono periodicamente e non
laddove essi producono i loro effetti di distruzione degli impieghi e del tessuto sociale
in tale o talaltro paese»329. L’efficacia di una politica alter-mondialista, spiega Rancière
altrove, dipende dalla capacità di mantenere la pluralità delle lotte locali legandole in
una rete di collegamento che non li sussuma330.
Questo ci pare l’autentico significato della frase de La Mésentente: «vi è una polizia
mondiale […]. Ma non esiste una politica mondiale»331. La democrazia riguarda la propria
relazione con quanto si vive tutti i giorni, con i rapporti di dominio che si subiscono in
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prima persona o rispetto ai quali, se non si agisce, si è agenti-supporti. E non ha nulla a
che fare, dunque, con la Teoria studiata da intellettuali che darebbero la giusta scienza
della rivoluzione o direbbero chi sia il vero sfruttato e chi semplicemente un “piccolo
borghese”. È questa coerenza dell’itinerario di Rancière a portarlo all’asserzione per cui
la politica sia rara, locale e che essa dipenda dalla costanza degli atti. Ecco il significato
intimo dell’occasionalità della politica rancièriana, che non va assimilata, perciò, all’idea
di Badiou secondo cui la politica sia evenemenziale, cioè caduta da non si sa quale nube
dell’Idea.
È tale soggettivazione assolutamente singolare a rappresentare l’emancipazione rancièriana. È bene ricordare, a questo proposito, un’ultima scena: la lotta della sua generazione contro la guerra d’Algeria. Questa si situa addirittura all’inizio del percorso di
Rancière, quando egli era ancora uno studente dell’École Normale Supérieure di Parigi
e allievo di Althusser. Negli anni Novanta l’autore ripercorre quella lotta, confrontandola
con le immagini provenienti dalla Bosnia. E si chiede: perché gli algerini avevano provocato negli ideali dei giovani francesi un conflitto tale da aprire la stagione che portò
fino al Maggio ‘68, e al contrario la vista dei massacri bosniaci non crea lo stesso legame
conflittuale? Qualcuno potrebbe dire che siano cambiate le epoche. Qualcun altro che
i corpi degli algerini buttati nella Senna dalla polizia francese durante la nota manifestazione dell’ottobre 1961 non venissero visti, e che quelli dei bosniaci, viceversa, vengano
mostrati e testimoniati. Ma sarebbero tutte delle risposte parziali. La risposta di Rancière,
invece, ci sembra essere più convincente. Il legame di lotta degli anni Sessanta non era
determinato da alcuna identificazione con le vittime e neppure con la loro causa. Gli
studenti francesi scesi in piazza non chiedevano la fine delle barbarie perpetrate da parte
dei francesi per un mero sentimento di compassione, bensì perché essi stessi erano francesi e, in quanto tali, si disidentificavano nei confronti del soggetto francese che sottraeva quei corpi ad ogni giustizia. Fu tale disidentificazione a provocare, secondo
Rancière, la nascita di un movimento di soggettivazione che attraversò il futuro suo e
della sua generazione332.
Tirando allora le conclusioni da queste tracce sparse, crediamo si possa dire che la
democrazia per Rancière sia effettivamente la forma politica che installa il principio di
uguaglianza nel regime disegualitario e gerarchico. E che, tuttavia, essa non fondi alcuna
configurazione del politico, che non sia cioè né una delle politeiai né una politeia, ma piuttosto l’azione che le rende pensabili. La democrazia è lo scarto, ogni volta da ripetere ed
affermare, tra un’identità data e una disidentificazione da dichiarare. È appunto una
scena capace di svelare la contingenza di qualsiasi presunta struttura che determini a priori
la partizione dei posti sociali: è l’avvenimento dell’Aventino, è lo scambio linguistico
tra Blanqui e il suo giudice, è la protesta contro la guerra d’Algeria. Si tratta chiaramente
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di un’eccezione: gli operai de La nuit des prolétaires che utilizzano la notte per studiare
facendo quel che la naturale divisione della giornata lavorativa non gli permetterebbe
di compiere, non rappresentano certo la maggioranza statistica degli operai ottocenteschi. Ma è proprio l’eccezione a non permettere profeti che prescrivano le strade da
percorrere o i giusti modi di essere. “Democrazia”, insomma, è il nome che indica l’istituzione di una comunità polemica conflittuale che sta al cuore dell’esercizio della politica. Essa quindi, per finire, è la maniera rancièriana per rilanciare un’idea emancipatrice
attraverso il medesimo termine, proprio quello di democrazia, usato da altri per seppellire la politica sotto le logiche del consenso e del realismo governativo.
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5.
CONCLUSIONI
POTENZIALITÀ E LIMITI DI UN ODIERNO PENSIERO DELL’EMANCIPAZIONE
Oggi l’interesse verso Rancière è considerevolmente cresciuto: in Francia chiaramente,
ma anche in Sud America dove la sua riflessione politica è al centro di un vivo dibattito,
nei paesi anglosassoni e perfino in Italia, in cui il suo pensiero più ripreso è però quello
estetico a dispetto di quello politico. Non è un caso forse se qui da noi la tematizzazione
politica rancièriana venga messa in secondo piano: abituati come siamo ad una teorizzazione politica ancorata alla realtà empirica, non vediamo spesso di buon occhio le
sottigliezze intellettualistiche d’Oltralpe. In effetti, ciò è un po’ il risultato dei diversi
modi in cui si è presentata la politica d’emancipazione nell’ultimo secolo. Per portare
un esempio che riguarda l’esperienza dell’autore, il lungo ‘68 italiano si è caratterizzato
diversamente dal breve ‘68 francese.
Ma di questo fatto non se ne vuol fare una ricostruzione storica, piuttosto lo si deve
prendere da spunto per ragionare sul percorso di Rancière, che partendo da un milieu
strutturalista si è via via spostato verso una posizione del tutto contraria. Qual è la distanza e simultaneamente il debito che egli detiene con questa tradizione, e che contraddistingue lui e il pensiero d’emancipazione odierno?
Per rispondere a questa domanda cominciamo riassumendo alcune questioni che abbiamo trattato finora.
1. Dalla struttura alle scene
Lo strutturalismo è una teoria molto variegata e difficile da sintetizzare unitariamente,
che all’alba degli anni Sessanta comincia ad avere in Francia un rilievo sempre maggiore.
Per opera di Althusser, esso viene importato nell’interpretazione dell’opera di Marx dividendo quest’ultima in due parti: un pensiero giovanile preda di un umanesimo professato poi dagli esistenzialisti filo-marxisti; ed un pensiero maturo capace di superare
le ambiguità del passato risemantizzandole scientificamente. È questa “pratica teorica”
produttrice di scienza a cogliere, secondo lo strutturalismo, la struttura che le apparenze
ideologiche nascondono. Così, al di là delle semplici analisi sociologiche, storiche e filosofiche, questa nuova tematizzazione osserva nella realtà una rete complessa di rap85
porti contraddittori di cui uno, quello dominante, surdetermina gli altri conferendogli
senso e funzione.
Lo scopo di questa impostazione analitica non sembra inizialmente, nonostante le
sue origini linguistiche ed epistemologiche, meramente teorico. Essa infatti coagula vari
intellettuali non legati al Pcf intorno al marxismo. Ciò, tra l’altro, va di pari passo con
un movimento di crescita delle soggettività politiche, intervenuto a partire dalla contestazione alla guerra d’Algeria del 1961 e approdato al Maggio ‘68. L’autonomia della
teoria dalla concretezza empirica, dalla quale, beninteso, lo strutturalismo non si allontana, bensì nella quale si immerge per scovarne la costituzione più intima, permette insomma di far uscire la dottrina marxiana dal patrimonio autorizzato dal Partito.
Rancière è partecipe di questo movimento e collabora anche alla stesura di Leggere il
Capitale, incentrandosi su questioni liminari dell’interpretazione strutturalista, come
quella del feticismo. Ma nel ‘68 capisce come le soggettività nascenti non possano più
essere sussunte sotto una teoria che, nell’atto di autoproclamarsi, le liquida come “piccolo borghesi”. Tale, d’altronde, è la critica che viene mossa allo strutturalismo da tutta
la galassia del maoismo francese post-sessantottino.
Tuttavia, curiosamente, gli ex strutturalisti, alcuni dei quali passati finanche per il maoismo, dalla metà degli anni Settanta approcciano la “crisi del marxismo” in maniere
differenti: ci sono coloro che, come i nouveaux philosophes, imboccano un cammino antimarxista; chi, in particolare Foucault, si concentra sullo studio delle discipline del potere;
chi tenta di allontanarsi dalle impasses strutturaliste avvicinandosi alle tematiche foucaultiane senza, malgrado ciò, abbandonare la spiegazione marxiana – è il caso, a cui abbiamo accennato, di Poulantzas; e chi, per esempio Balibar, tentando di preservare il
nucleo rivoluzionario (sia in senso politico che in senso epistemologico) di Althusser,
cerca di mostrare la parte migliore del pensiero del maestro.
L’operazione teorica e politica di Rancière, come abbiamo visto lungo tutta il libro, è invece alquanto singolare. Egli, a partire da La leçon d’Althusser, abbandona il commento del
testo marxiano. Nondimeno, benché possa sembrare altrimenti, questo abbandono non
significa rinnegare la dottrina di Marx, con la quale egli intesse, al contrario, una relazione
complessa tesa ad una contestualizzazione storica e critica, più che ad una sua esegesi accademica. Il distacco dal “marxismo” viene portato avanti attraverso uno spostamento
dalle polemiche del momento nel passato ottocentesco, indagandone – tramite una ricerca
d’archivio che è poi divenuta la passione della sua vita – le parole e i moti emancipatori di
cui le medesime teorie rivoluzionarie del XIX secolo ne rappresentavano l’eco.
È in seno a questa ricerca che Rancière si imbatte, fra le altre, nella enigmatica figura
del «maestro ignorante» Joseph Jacotot, nella cui proclamazione dell’uguaglianza delle intelligenze il pensatore francese vede un’inversione dei principi dell’emancipazione, che, a
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suo parere, si impone come l’unico rimedio per far risorgere la politica d’emancipazione
in un’epoca in cui la politica stessa viene ridotta alla gestione delle necessità economiche
globali. Tale inversione è per l’appunto quella del posto che deve occupare l’uguaglianza:
questa non dev’essere più pensata come un fine da raggiungere, bensì come un presupposto
da verificare nei regimi gerarchici e disegualitari.
Il presupposto dell’uguaglianza conduce Rancière a narrare le scene, molteplici e diverse tra loro, dell’emancipazione. È importante sottolinearne il plurale: in Rancière
non c’è mai una scena dell’emancipazione, cioè un paradigma rivoluzionario privilegiato,
ma sempre delle modalità inattese e originali di trasformare una totalità data.
Ora, quel che pare evidente in questa impresa teorica è la distanza presa dal dogmatismo strutturalista. Nell’idea di Rancière non soltanto non abbiamo più un’avanguardia
intellettuale che sappia come sia costituita la struttura di dominio, ma addirittura una
simile avanguardia è rigettata in quanto controrivoluzionaria e reazionaria. L’emancipazione, nella sua prospettiva, si istituisce in netto antagonismo nei confronti di chi,
dichiarandolo puro e indistinto, afferma di detenere il requisito governativo del sapere.
Ciò che invece è meno evidente nell’opera rancièriana è il debito nei confronti dello
strutturalismo. Parlare di debito probabilmente può indurre in qualche ambiguità. Precisiamo che non si vuole affatto sostenere che Rancière sia ancora strutturalista, ma
piuttosto che lo strutturalismo funzioni nel suo pensiero come un elemento simultaneamente ammesso e negato.
Infatti, il nemico dell’emancipazione non è forse quella struttura althusseriana che
bisogna comunque ammettere affinché l’emancipazione stessa abbia luogo? Detto altrimenti, Rancière, sebbene si stacchi notevolmente da Althusser, perché in luogo di un
Maestro propone un anti-Maestro, proprio in virtù di una tale torsione, è poi costretto
a fare una diagnosi della società partagée (divisa e condivisa) in parti con posti e funzioni
(o rapporti) contraddittori fra loro. Cos’altro è, a ben vedere, la polizia se non un ripensamento, mediato da Foucault e dalla ricerca archivistica che Rancière ha compiuto per
anni, della struttura althusseriana?
È questa distanza e debito, secondo Žižek333, a caratterizzare non solo Rancière, ma
quattro fra i maggiori pensatori contemporanei dell’emancipazione – oltre Rancière,
anche Badiou, Balibar e Laclau –, i quali, a parte Laclau, sono stati tutti allievi di Althusser.
2. La politica dell’impossibile
A conferma di questa relazione complicata dell’odierno pensiero d’emancipazione
con la riflessione di Althusser, includiamo nella nostra analisi, oltre gli autori proposti
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da Žižek, anche Antonio Negri e Michael Hardt. Questi infatti, nonostante si inscrivano
in una tradizione differente da quella althusseriana, ne riprendono (senza dirlo) un concetto centrale che abbiamo esaminato nell’articolo del 1964 Problèmes étudiants: ovvero,
che si debba preservare la divisione tecnica del lavoro, ma non la divisione sociale, come
se l’una non fosse legata all’altra334. La prospettiva di Negri e Hardt è certamente molto
differente da quella di Althusser, in quanto essi cercano nelle contraddizioni dello sviluppo capitalistico un nuovo gruppo sociale che riunisca le molteplici soggettività spontanee (il proletariato cognitivo), ma, allo stesso modo di Althusser, puntano il loro
sguardo su una scienza prodotta dal medesimo capitalismo per ritorcergliela contro, così
da generare implicitamente la necessità di una nuova avanguardia335.
Quest’aspetto – perché credo che per altre questioni le loro proposte teoriche siano
molto illuminanti – è forse il limite maggiore di Negri e Hardt, che non viene invece riproposto da Laclau, Badiou, Balibar e Rancière, le cui idee sono accomunate da un passaggio decisivo, cioè quello dalla categoria di soggetto (nel doppio senso del termine
francese sujet, soggetto e assoggettato) a quella di soggettivazione. Sappiamo già come tale
passaggio abbia costituito l’oggetto principale della rottura politica, ancorché filosofica,
di Rancière col suo antico maestro, ma è importante notare come, per vie diverse, pure
gli altri tre suddetti pensatori abbiano operato un simile spostamento. In maniere che
mantengono ognuna una propria singolarità, nessuno dei quattro propone l’individuazione di un soggetto rivoluzionario. Al contrario, essi ragionano su un elemento o su un
avvenimento particolari, che, identificandosi con il tutto della società o della storia, si
smarcano dalla configurazione determinata di queste ultime ponendo in essere – soggettivizzandolo – un fattore che prima restava invisibile.
L’altro elemento cruciale, poi, che unisce questi pensatori – a parte Laclau, il cui percorso è un po’ differente da quello dei francesi – è che, per pensare un tale passaggio,
impongono l’Universale politico non come di là da venire, bensì come un presupposto
da dichiarare nello spazio di dominio. E, di conseguenza, una separazione netta tra due
logiche del tutto opposte. Rancière pone come premessa l’uguaglianza, Balibar l’égaliberté
e Badiou l’Idea del comunismo. Quindi, il contrasto rancièriano tra la politica e la polizia
ha un qualche parallelismo con la contrapposizione di Balibar tra la dichiarazione egalibertaria e l’ordine universale immaginario o con quella di Badiou tra l’ordine dell’Evento e l’ordine dell’Essere336.
Con ciò, tuttavia, non si vuole assolutamente confondere dei pensieri che per altri
versi detengono delle differenze rilevanti. (Abbiamo già visto ad esempio, nel capitolo
4.3.c, come sia errato assimilare l’evento di Badiou, che si caratterizza come una rarità
storica, con la politica di Rancière, la cui contingenza riguarda piuttosto il rapporto conflittuale in prima persona con i regimi di sfruttamento).
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Si vuole soltanto osservare che i tre presupposti proposti dagli autori siano delle richieste ammesse dall’ordine dominante come inviolabili, o addirittura eterne, e simultaneamente come irrealizzabili. La modernità nasce infatti con le Dichiarazioni
dell’uguaglianza settecentesche, ma gli Stati che seguono ad esse sono marcatamente
discriminatori. Certo, si potrà sempre ricordare la vecchia critica secondo cui queste
Dichiarazioni, in quanto borghesi, nascondono la dualità tra l’uomo e il cittadino. Ma,
oltre questo motivo ormai logoro, un punto – sottolineato soprattutto da Rancière e
da Balibar – resta innegabile: le parole d’ordine operaie ottocentesche si presentano
come una rivendicazione di quei principi che le costituzioni moderne avevano assunto
come tali, ma che ciononostante relegavano in una concretizzazione impossibile.
L’ipotesi, indicata dagli autori francesi in questione, di pensare la politica emancipatrice come l’enunciazione di un tale Universale, ha perciò il pregio di mostrare lo
scarto della comunità politica moderna – la quale, proclamandosi essere una forma
democratica, esclude la vita democratica, e pertanto è negativamente allacciata all’Universale proclamato.
Eppure, questa ipotesi pone la pratica politica di fronte ad una marginalità inevitabile.
Come infatti abbiamo visto in Rancière, le due logiche della politica e della polizia sono
correlate, perché la prima è lo scardinamento della seconda, ma se questa non ci fosse,
la politica non avrebbe nulla da scardinare. L’azione trasformatrice ha bisogno, in tal
modo, di una struttura a cui opporsi, che non viene più analizzata in quanto tale, ma
che viene ammessa come elemento contrastante.
È esattamente in questo aspetto che si situa il debito maggiore dell’odierno pensiero
d’emancipazione nei confronti di Althusser. Nella presa di distanza dallo strutturalismo,
esso non intende più limitarsi a scovare il significato più recondito della realtà per farne
un’arma rivoluzionaria, bensì afferma il dato contraddittorio – l’uguaglianza posta e negata, o l’«universalità scissa» – dell’ordine di dominio. Una simile politica, tesa a chiedere
l’impossibile della struttura, è costretta a chiudere per sempre la possibilità dell’egemonia.
Arriviamo così al duro giudizio di Žižek, il quale, con un peculiare eclettismo di hegelismo e lacanismo, sostiene, riducendo le differenze tra gli autori «ai diversi modi in
cui, secondo la psicanalisi, si può negare/“rimuovere” un nucleo traumatico»337, che la
loro sia «una logica che racchiude in anticipo il proprio fallimento, che considera cioè
il successo completo come suo fallimento definitivo, che si attiene al suo carattere marginale come segno sommo della sua propria autenticità, e che perciò intrattiene un atteggiamento ambiguo nei confronti del suo contrappunto politico-ontologico, l’Ordine
dell’Essere poliziesco: essa deve riferirsi a questo, ne ha bisogno come suo grande nemico
(“Potere”) che deve restare là affinché sia possibile impegnarsi in un’attività marginale
e sovversiva; l’idea stessa di portare a termine una sovversione totale di quest’Ordine
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(“rivoluzione globale”) viene rigettata come protototalitaria»338. E conclude che un simile
«atteggiamento marginalista da sinistra kantiana», al contrario di quello di «un autentico
leninista» che non è «irresponsabile» in quanto «non ha paura del passage à l’acte»339 –
cioè della presa del potere –, dipenda, rievocando uno scritto di Lacan sul carattere isterico della ribellione studentesca del Maggio ‘68, dalla sua «richiesta nascosta di volere
un Padrone sotto la maschera della provocazione pubblica»340.
3. 1968: il «nucleo traumatico» dell’odierno
pensiero d’emancipazione
Žižek, insomma, fa lo psicanalista dei pensatori francesi – mettendo da parte Laclau,
alla cui teoria dell’egemonia riserva delle critiche di moderatismo che non potrebbe
muovere agli altri. Ma i suoi pazienti non vanno spontaneamente da lui, e anzi quando
li incontra, come accade con il suo «amico» e «compagno» Badiou, ne accetta a tal punto
le ragioni fino ad autocontraddirsi341.
D’altra parte, è Laclau a spiegare il motivo profondo della sua riflessione. Žižek ha
una visione dell’economia come istanza omogenea ed autoistituente, tanto da porla
quale unico obiettivo della lotta. Così, per lui le battaglie multiculturaliste, anti-sessiste,
anti-razziali, perfino le richieste sindacali, ecc., non hanno alcuna ragion d’essere se non
quella di non comprendere che la sola contesa importante sia quella anticapitalistica342.
Il filosofo sloveno, quindi, compie una strana operazione, che nasconde un trauma ben
diverso da quello dei francesi: ossia, tenta di riaffermare la surdeterminazione strutturalista
di un rapporto contraddittorio (l’economia) sugli altri e, al contempo, torna al di qua
dello stesso strutturalismo negando qualsiasi legittimità alle altre sfere contraddittorie
per riproporre, in fin dei conti, la «dittatura del proletariato»343.
Un elemento tuttavia è notevole nell’ipotesi di Žižek: situare il germe del pensiero
d’emancipazione francese nella breve ma eclatante esperienza del Maggio. In effetti, limitandoci al cammino di Rancière, l’evento sessantottino rappresenta il costante cardine
di riferimento per considerare le dimensioni dell’emancipazione nella contemporaneità.
Non solo perché, come sostiene Badiou, esso – insieme alla Rivoluzione culturale cinese
– è «l’ultima sequenza dell’ipotesi comunista»344. Piuttosto, perché ha messo in scena
un tale contrasto tra il marxismo pensato come scienza accademica o di partito e il marxismo pensato come focolaio di aspirazioni conflittuali, che ha di fatto generato la necessità di un ripensamento complessivo delle categorie antagonistiche così da aprire
diverse direzioni di ricerca.
Non è un caso che in quella congiuntura storica neanche Althusser parlasse più di
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centralità della classe operaia o che un sociologo di marca lukácsiana oggi poco studiato
come Goldmann capisse che il soggetto rivoluzionario stesse cominciando il suo tramonto345. Il passaggio dal soggetto alla soggettivazione non è perciò, come dice Žižek, frutto
di una «irresponsabilità» a prendersi il «Potere» da parte di una «sinistra kantiana» e
«marginalista» che segretamente lo desidera. Al contrario, è la consapevolezza del fatto
che pensare la Rivoluzione dopo il ‘68 significa ripensare la modalità in cui si costruisce
la Rivoluzione.
Lo psicanalista ha pertanto colto il «nucleo traumatico», sbagliandone però l’analisi.
Forse perché in fondo, come insegna Rancière, la lezione del ‘68 è che non servano più
psicanalisti – o più in generale maître – se non per ammaestrare una eterogeneità di conflitti, che, rompendo puntualmente le divisioni che organizzano il partage du sensible, mettono in scacco qualsiasi intelligibilità voglia razionalizzare la contingenza da cui nasce
il potere. È questa la ragione per cui l’itinerario di Rancière, più degli altri, nell’aver indagato le ragioni della proclamata “fine della politica” negli archivi operai ottocenteschi
colmi di disintese (mésententes) tra filosofia e politica, è stato preso come esemplare al fine
di mostrare le «disavventure del pensiero critico»346 dagli anni Sessanta ad oggi.
Rispondiamo, allora, alla domanda che ci siamo posti in queste conclusioni. Se il percorso rancièriano è esemplare, quali sono le potenzialità e i limiti dell’odierno pensiero
d’emancipazione?
I limiti possono essere individuati in un problema storico. La disillusione post-sessantottina e la risultante propensione a fare della marginalità una scelta, hanno pian
piano cessato di nutrire le speranze “micropolitiche” e/o inedite atte ad aprire un’alternativa all’alternativa comunista tradizionale. Quindi, prima di ripensare ad una nuova
strategia, si impone al pensiero critico contemporaneo l’esigenza di fare l’inventario
della propria storia. Però, non soltanto allo scopo di rendersi conto della sua disfatta
(come fa Rancière), bensì per saldare le varie direzioni di ricerca esplorate sin dagli anni
Sessanta (che il marxismo non aveva precedentemente saputo percepire a causa del difetto derivante dall’idea della presa del potere) all’analisi del neocapitalismo così come
si configura attualmente – in quanto quest’ultimo, dalla crisi dei subprimes del 2008, pare
sempre di più avere difficoltà ad istituire la propria legittimità verso le sue politiche di
austerità, altrimenti che insistendo sui bisogni vitali che esso stesso assicurerebbe347.
La potenzialità dell’attuale pensiero critico, di conseguenza, è che riflettendo sulle
contraddizioni che investono il suo medesimo statuto dalla nascita – tale è l’importanza
dello studio archivistico del movimento operaio ottocentesco condotto da Rancière –,
non cede ad una posizione dogmatica e aprioristica su come debba verificarsi l’emancipazione, tanto da accogliere le diverse modalità in cui prende forma il conflitto come
molteplici procedure di riapertura di una concezione della politica come costruzione di
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una comunità polemica e divisa. Questo, in definitiva, è il contributo maggiore di tutta
l’opera politica e teorica di Rancière. L’emancipazione, dopo il ‘68 e i suoi effetti, non
può più essere predeterminata da una scienza che ne prescriva il modello, ma piuttosto
dev’essere concepita come uno scarto sempre da mostrare all’interno della situazione
di sfruttamento che si vive in prima persona, così da scardinare a tal punto la partizione
gerarchica da ridisegnarne l’aspetto.
Alla luce dunque di questa parziale panoramica sulle varie posizioni del dibattito attualmente in corso, possiamo cogliere la specificità del contributo della riflessione di
Rancière. La sua filosofia, la quale – come abbiamo ripetuto – va letta nelle congiunture
storiche che l’hanno segnata, apporta alla teoria critica la coscienza della propria impotenza nello stilare le strategie d’azione. Egli, infatti, ci fa comprendere come la tendenza
ad annettere la politica in un metadiscorso riguardante i valori politici (la buona concordia comunitaria, cambiare la vita, elaborare un progetto per l’avvenire) non vada sostituita con nessun altro metadiscorso348, bensì con una interpretazione della politica
come «atto estetico» non limitato a delle sfere particolari, ma capace di riconfigurare i
rapporti dominanti. Quel che invece resta il limite del suo pensiero è l’incapacità –
dipesa anch’essa dal «nucleo traumatico» del ‘68 – di ragionare al di qua del metadiscorso, cioè nella concretezza del neocapitalismo.
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- INDICE INTRODUZIONE ..................................................................................3
1.IL PERIODO STRUTTURALISTA
..................................................7
1) Rottura epistemologica, struttura, ideologia ....................................7
a. Rottura epistemologica ................................................................................8
b. Struttura ........................................................................................................9
c. Ideologia ......................................................................................................11
2) Critica e critica dell’economia politica.................... ......................12
a. Anfibologia e causalità metonimica............... ..........................................12
b. Ai limiti dello strutturalismo....................... ..............................................15
2.LA ROTTURA CON ALTHUSSER.................................. ................19
1) La svolta del ‘68. ..............................................................................19
a. La critica alla teoria dell’Ideologia............................... ............................19
b. Problèmes étudiants.................................... ....................................................22
c. Althusser dimentica la lotta di classe..................... ..................................25
d. Su un articolo di Michel Verret...................................... ..........................28
2) Da Althusser a Mao................................ ........................................29
a. Rancière di fronte alle autocritiche di Althusser................. ..................31
b. A proposito di una riedizione di Leggere il Capitale.................................34
c. La leçon d’Althusser................................ ......................................................38
d. Pensiero della rappresentazione e pensiero dell’emancipazione ........42
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3.GLI ARCHIVI DELL’EMANCIPAZIONE..... ..................................45
1) Dall’identità alla disidentificazione ................................................46
a. Nella notte dei proletari ............................................................................47
b. Il metodo dell’uguaglianza. ......................................................................49.
2) Rancière e la crisi del marxismo .................................................... 50
a. Plebe e disciplina ........................................................................................51
b. La prospettiva Poulantzas..........................................................................53
3) Sociologia e filosofia: la critica a Bourdieu ....................................55
4) Una fase affermativa ......................................................................59
4.LE SCENE DEI SENZA-PARTE: UGUAGLIANZA, POLITICA,
DEMOCRAZIA ......................................................................................62
1) La scena dell’uguaglianza .............................................................. 63
a. L’avventura intellettuale di Joseph Jacotot..............................................64
b. L’opinione dell’uguaglianza ......................................................................66
c. La comunità divisa ......................................................................................68
2) La scena della politica ....................................................................70
a. La politica come mésentente ........................................................................71
b. La filosofia contro la politica ....................................................................73
3) La scena della democrazia ..............................................................76
a. Lo scandalo della democrazia ..................................................................77
b. Post-democrazia del consenso..................................................................79
c. La lezione della soggettivazione democratica ........................................80
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5.CONCLUSIONI.
POTENZIALITA’ E LIMITI DI UN ODIERNO PENSIERO DELL’EMANCIPAZIONE ............................................................................85
1) Dalla struttura alle scene ................................................................85
2) La politica dell’impossibile ............................................................87
3) 1968: il «nucleo traumatico» dell’odierno pensiero
d’emancipazione ............................................................................90
NOTE ......................................................................................................93
BIBLIOGRAFIA ....................................................................................114
Ringraziamenti ..........................................................................120
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JACQUES RANCIÈRE:
dalla rottura con Althusser alle scene dell’emancipazione
L’immagine in copertina è stata realizzata da Gaspare Marziano
Finito di pubblicare nel mese di gennaio 2014
© Associazione Culturale Golena 2014
www.associazionegolena.com