Rammino C acconti in Il 50°... A CURA DELLA PARROCCHIA SAN FILIPPO NERI - MILANO QUANDO NASCE UNA CHIESA. È… per sempre! “Lo sviluppo edilizio di questi ultimi anni impose lo stralcio di S. Mamete dalla matrice di Santa Giustina. Nel novembre del 1956 veniva eretta la Vicaria Curata di S. Mamete. Nell’agosto scorso la Vicaria si trasformava in Parrocchia di San Filippo. È cominciata così una nuova era per la zona di S. Mamete e della Bovisasca, come ora si vuol dire”. don Luigi Tognola, Parroco di Santa Giustina (16 giugno 1960) L’ALBA DI UNA NUOVA CHIESA: SAN MAMETE, AUTUNNO 1957 Don Giuseppe Lazzati è deciso. Lui è o non è il Parroco di S. Mamete? Finché resterà in carica, sarà battaglia. Sì, sarà lotta vera per far tornare a vivere decentemente quei quattordici esseri umani di Cascina Cristina che non hanno più il tetto dopo il crollo causato da quella tempesta di vento e grandine che ha deciso di imperversare proprio su quelle poche e povere abitazioni. Uomini, donne e bambini senza una casa, riparati in una cantina di un loro generoso vicino che non ha altro da offrire che quel rifugio sacrificato e provvisorio. Sta camminando con passo deciso e N. 26 - 14 settembre 2014 spedito verso il Comune di Milano per perorare la causa dei suoi parrocchiani ma anche di tutti i restanti centotrentasei della Cascina Cristina, degli altri cinquecento della frazione di S. Mamete e dei mille e cento del “nuovo villaggio” perché, ovunque si guardi, manca tutto: i mezzi di comunicazione, le strade, l’illuminazione comunale, persino l’acqua pubblica che fornisce, per fortuna, la Montecatini, ma non si sa per quanto. Come se non bastasse mancano anche 2 QUANDO NASCE UNA CHIESA… È per sempre le scuole, gli asili e l’oratorio per garantire alle bambine ed ai bambini spazi di gioco e di sicurezza. Quando don Giuseppe entra nel palazzo del Comune, di corsa e carico di cose da dire, com’è nel suo spirito battagliero di sempre, deve aspettare. L’appuntamento era stato precedentemente fissato, ma l’attesa del ricevimento è immancabile, come sempre, nei palazzi in cui si esercita il potere. Sanno che così, nei soggetti più sensibili, i problemi si ridimensionano, la carica emotiva si affievolisce, l’aspettativa si sgonfia. Non hanno fatto i calcoli con la determinazione di don Giuseppe. Finalmente l’udienza comincia, il funzionario del Comune prende nota dei fatti ma ascolta solo quello che vuole e si capisce subito che la sua è una presenza di rito. La conversazione non decolla. Il “coscienzioso” funzionario oppone alle richieste del sacerdote tanti “se” e tanti “ma”, tanti “forse” e molti “non si può”. Don Giuseppe parla invece un linguaggio diretto, vicino ai problemi reali delle persone e vuole uscire da quell’ufficio con soluzioni in mano e con un impegno preciso del Comune. Purtroppo, per il battagliero sacerdote e per gli abitanti dei suoi quartieri, il resoconto di quel giorno ci parla di “un’udienza concitata” ma improduttiva, al punto che il burocratico funzionario, in chiusura dei lavori, si sentì di chiosare in questo modo: “Staremmo freschi se ci dovessimo interessare anche di quella gente lì”. Non è noto cosa abbia provato il battagliero sacerdote e cosa abbia risposto al “coscienzioso” funzionario; non osiamo nemmeno immaginarlo. È certo che fuori da quel luogo grigio e sordo, sentiva di stare di nuovo bene con i suoi pensieri. Si ripassò una per una le parole che avrebbe utilizzato per convincere i suoi parrocchiani a tenere viva la speranza e trovò persino la forza di sorridere pensando che le partite nella vita non finiscono mai. Proprio in quegli istanti in lui si crearono i contorni, sempre più nitidi, di un’idea: uno di quei fulmini a ciel sereno che cambiano il senso di una giornata, di un periodo, a volte, di una vita; occorreva una nuova chiesa, bella, più spaziosa e capace di diventare il simbolo di una riscossa civile e soprattutto di una rigenerazione spirituale. Di questo aveva bisogno la gente che viveva in quell’area della periferia nord di Milano. Ne avrebbe parlato presto con le persone giuste. VILLAGGIO BOVISASCA: NOVEMBRE 1961 Con un decreto arcivescovile emesso a Milano il 23 luglio 1960, veniva eretta canonicamente la “Parrocchia di San Filippo Sacerdote e Confessore alla Bovisasca”, alla cui guida era contestualmente nominato il prevosto parroco: don Piero Uggeri. Nella Bovisasca che si affaccia agli anni sessanta, c’era una chiesetta in legno, più nota con il nome da battaglia di “Baracca”, affiancata da un campo di 3 calcio improvvisato; alcuni di coloro che avrebbero in seguito dato l’anima per la nostra Comunità già vi giocavano partite epiche, forse sulla scia luminosa delle imprese calcistiche che Milan ed Inter cominciavano a tracciare in Italia ed in Europa. La “Baracca” attirava e richiamava. Nella “Baracca” si combatteva una meravigliosa battaglia giornaliera fatta di funzioni da svolgere ad ogni costo, di ricorrenze e pesche di beneficenza da garantire per onorare la gioia e la festa, di biblioteche per i bambini da realizzare, di corsi del catechismo da svolgere in spazi impossibili, e c’era persino il tempo per ritrovarsi a discutere con passione attorno ai tanti stimoli che l’enciclica di Giovanni XXIII “Mater et Magistra” aveva saputo presentare all’attenzione del mondo. Erano tempi eroici in cui don Piero Uggeri, con la sua personalità, riusciva ad imprimere, nonostante le difficoltà, una forza di indirizzo spirituale assolutamente straordinaria. Era però indicativo che già nell’opuscolo del luglio 1960, insieme alla nomina di don Piero ed alla fotografia della chiesetta in legno, apparisse contestualmente la fotografia del progetto della nuova chiesa, geometricamente poderosa ed architettonicamente proiettata al futuro. Il sogno cristiano di un nuovo traguardo da realizzare era lì, a portata di mano, concentrato in un’immagine di chiesa moderna ed al tempo stesso solenne, capace di comunicare, tra le sue linee di nuova concezione, la paziente e salda tenuta della Chiesa nei secoli. Era davvero bella quell’immagine, ma era soprattutto importante ritrovarvi che la riflessione sull’identità del quartiere, sulla necessità di unirlo spiritualmente e culturalmente con una grande costruzione, aveva fatto strada ed era diventata progetto esecutivo. I fatti di quell’autunno del 1957 e della coraggiosa opera di don Giuseppe sembravano avere lasciato fecondi spunti di riflessione; se all’inizio c’è un paese o un quartiere di una città, se lì vivono donne e uomini di ogni età, se lì sono evidenti i loro problemi, le loro ansie, le loro difficoltà, se lì si legge la loro vita di tutti i giorni fatta di pane, libertà, lavoro e famiglia, lì ci deve essere una chiesa capace, accogliente, un’opera fatta di fondamenta e muri, mattoni e piastrelle, tegole e travi, architetture d’interno e di spazio, che tutti possano ammirare, toccare e vivere personalmente. Una chiesa come una grande casa che 4 ospita, ripara, conforta e che, come una fabbrica o un ufficio, sa persino occupare in mille attività chi la frequenta e fa vivere le sue radici spirituali. Hanno il dono di una sintesi vibrante, quasi fossero il corollario di una Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e della Fede, le parole contenute nell’inserto al periodico “La Fiamma” del novembre 1961, anonimamente proposte da “uno della comunità parrocchiale” e che rispecchiano il clima generalizzato di forte aspettativa che avvolge il progetto di costruzione della futura chiesa: “Tutti attendiamo la nuova chiesa, tutti ci domandiamo, dopo aver costruito le nostre case, quando sorgerà la chiesa. Ogni comunità cristiana ha bisogno di un ambiente per trovarsi unita in preghiera alla presenza di colui che è Creatore e Redentore. Noi stiamo costruendo lo spirito del Signore”. È la descrizione di una “mission” perfetta, lucida, l’aspirazione finale, a cui però si aggiunge subito il richiamo verso la concretezza dell’opera che è ancora lì, tutta da realizzare: “Non basta però che i muri siano innalzati; occorrerà pensare all’arredamento, agli oggetti di culto, ai paramenti sacri, ma soprattutto si dovrà pensare a dare grande impulso alle opere (oratorio, circoli giovanili, biblioteca, centro culturale, opere sociali caritative) in modo da formare un ambiente dove la gioventù possa crescere serenamente, dove i più deboli possano trovare sostegno, dove le menti e i cuori trovino alimento”. Affascinano ancora queste parole nette, precise, meditate, forse perché ricordano quelle di un condottiero che sa perfettamente verso quale orizzonte spingere i suoi uomini o forse più semplicemente perché sanno di oggi, sono parole ancora attuali che rispecchiano le nostre sfide quotidiane, le tante battaglie delle tante chiese del terzo millennio. VILLAGGIO BOVISASCA: MARZO - NOVEMBRE 1963 Il don Piero Uggeri che agisce dentro la Comunità parrocchiale, negli anni che precedono la costruzione della nuova chiesa, è un leader che manifesta un’ampia visione strategica ma anche un deciso impatto sulle cose da fare ogni giorno. Nasce nei primi mesi del 1963 il Comitato Chiesa che, attraverso una sua precisa connotazione organizzativa e con l’apporto di tanti parrocchiani del nuovo quartiere, agisce costantemente sul territorio per raccogliere, tra le famiglie, i fondi che coprano i costi per le opere infrastrutturali della nuova costruzione. 5 Puntuali e trasparenti report, periodicamente pubblicati su “Parrocchia Comunità di vita”, danno la dimensione delle cifre raccolte e delle opere cui i fondi sono destinate: pavimentazione, impianto di riscaldamento, recinzione, illuminazione, impianti di amplificazione, strutture di areazione delle volte, altari, battistero, via Crucis, confessionali, armadi, panche, sedie, sistemazioni delle zone esterne alla chiesa. Si pensi che il solo valore raccolto nei dieci mesi che vanno da febbraio a novembre del 1963, dietro l’impulso del Comitato Chiesa, equivaleva alla stessa cifra che era stata raccolta a partire dal 1961. Tale risultato avrebbe consentito in quel periodo, nevralgico per l’economia della Parrocchia, di evitare il ricorso a prestiti finanziari e conseguentemente ai relativi oneri di interesse. Poteva sembrare che i giochi fossero fatti e che il processo di avvicinamento alla data di realizzazione definitiva della chiesa fosse una strada in discesa, completamente lineare e prevedibile; non fu così. Più crescevano le capacità di organizzarsi sulle cose concrete, più si lavorava efficacemente sui potenziali delle donne e degli uomini che andavano costituendo il futuro nucleo di base su cui strutturare le attività e i compiti del volontariato, meno si riusciva ad incidere sulla crescita della comunità territoriale in termini di integrazione e di relazioni interpersonali. Si avvertivano segnali di scollamento tra persone e gruppi, frizioni di difficile interpretazione. Sembrava fatta, ma non lo era, forse perché, come in qualunque parte del mondo ed in qualunque tempo, unire sotto uno stesso tetto giovani, anziani, donne e uomini provenienti da territori, classi sociali, culture, persino Comunità differenti, non è mai facile e scontato. Di questa frattura si accorse don Piero Uggeri, se ne accorse in tempo e tuonò con tutta la forza che aveva in corpo. Indicò, senza scorciatoie, i mali ed i pregiudizi che allontanavano le persone invece di unirle, ma era evidente che la responsabilità di intervenire su quella deriva, pericolosa più dei ritardi della costruzione della chiesa, se la sentiva tutta su se stesso come parroco e gestore delle persone a lui affidate. Rileggere il suo scritto del Novembre 1963 apparso sul numero 11 di “Parrocchia Comunità di vita” dello stesso mese, fa ancora profonda impressione, sia per la graffiante forza delle parole usate, sia per il richiamo profondo che esse implicano: “Carissimi, più volte abbiamo ripetuto che la parrocchia è una Comunità d’Amore. La nostra parrocchia è veramente tale? È veramente una comunità di amore? In certi momenti, dal comportamento di certi parrocchiani sembrerebbe di no. (…) Se ho alzato la voce qualche domenica fa in chiesa è stato per questa ragione. Non avrei mai creduto che tanti parrocchiani sputassero giudizi sui propri fratelli come se fossero dei padreterni. (…) Tutto questo è cattiveria. Tutto questo vuol dire tanta ignoranza. A chi giova questa cattiveria? Abbiamo già preoccupazioni per la famiglia, la casa, il lavoro, la salute… Ed offendiamo il Signore criticandoci, nello spettegolare, nel fare discriminazioni tra parrocchiani della stessa parrocchia. (...) Si fanno distinzioni fra persone, fra categorie, fra quartieri. (...) Ci sono alcuni che pretendono di dare il tono al rione; non so poi a quale titolo e 6 con quale diritto. (…) Il tono della nostra parrocchia lo darà solo il Signore con il suo Vangelo di amore.” Nello stesso numero di novembre, in perfetto coordinamento con il parroco, appariva un altro fondo intitolato “Formare la Comunità”, chirurgicamente rivolto ad incidere sul nodo strutturale inquadrato da don Piero. Lo scriveva uno dei più importanti dirigenti del Comitato Chiesa, nonché Presidente dell’Azione Cattolica, a riprova di quanto la grande tensione di quel momento fosse presente non solo nel parroco: “Se il problema di avere presto un edificio adeguato per ospitare i fedeli è importante, ancor più lo è quello di formare una vera comunità cristiana. Sembra quasi che le remore dei primi mesi dell’anno, le difficoltà incontrate ci vogliono mettere in guardia dal dare più importanza a quello che è esteriore e materiale che a quello che è di spirito ed interiorità. Una chiesa è pur sempre una cosa morta mentre una comunità che veramente cerchi e si sforzi di essere cristiana, è una cosa viva e pulsante.(…) Formare la nostra comunità vuol dire per ciascuno di noi allargare lo spirito ad abbracciare tutti gli aspetti della vita,(…) maturare il proprio fino a comprendere il bisogno degli altri. (…) È un compito più grande di quello di costruire una chiesa.” IL PRIMO GIORNO: PASQUA, 26 APRILE 1964 Don Piero Uggeri giunse all’incontro del 26 aprile 1964 con questo pregresso di ricostruzione e di rigenerazione che lo aveva impegnato fino al limite. Quel giorno, per la prima volta si apriva la nuova chiesa all’interno della celebrazio- ne della santa Messa di Pasqua e nell’aria c’era una fortissima effervescenza: sembrava quasi di poter toccare il Sacro, di sentirne la sua forma, di percepirne la sua presenza fisica. Erano trascorsi quasi quattro anni dalla sua nomina, in quel ormai distante mese di giugno del 1960, ma quel tempo era volato perché gli anni della costruzione materiale, spirituale e culturale erano stati intensi, combattuti e votati giorno dopo giorno a far nascere un uni- co spirito di solidarietà e carità entro le differenti sensibilità delle frazioni territoriali della Bovisasca. Il tempo dell’inaugurazione, 4 ottobre 1964, e della futura consacrazione, 26 maggio 1967, sarebbero arrivati, più avanti, nel segno delle liturgie e dei procedimenti rituali previsti per queste occasioni, ma quel 26 aprile del 1964 sarebbe stato l’inizio, il vero inizio di una storia sia per don Piero Uggeri sia per il popolo della Comunità che era pronto a varcare la nuova casa del Signore dopo molti anni di attesa. Era giunta l’ora della Pasqua e dell’accoglienza nella nuova chiesa, questo era quello che contava. 7 Lui, là sull’altare, mentre sta per iniziare la santa Messa, ne ammira ancora per qualche istante la volta, la sua dimensione, la sua perfezione e poi guarda negli occhi quel piccolo universo di donne e di uomini che si sono riuniti in quel giorno davanti a lui per celebrare la Pasqua. Inizia la funzione e ad un tratto don Piero decide di rimarcare un passaggio in modo forte, inconfondibilmente più forte delle frasi che seguiranno nel corso della funzione liturgica: “Abbiamo ammirato la costruzione possente della nostra chiesa e da quelle mura abbiamo sentito una voce che ci parlava di lotte, di speranze, di sacrifici e dal nostro cuore saliva una risposta: …è la nostra chiesa, la chiesa della grande famiglia della Parrocchia; anch’io ho contribuito ad innalzarla. O Signore, benedici noi tutti, aiutaci a formare una vera comunità”. Era la visione perfetta del tempo passato e futuro. IL VALORE DELLA CHIESA DI SAN FILIPPO NERI E DI TUTTE LE CHIESE Prima di scrivere questa breve storia sulla nascita della nostra chiesa, ora che ricorre il 50° della sua fondazione, sono andato a sbirciare un po’ di esperienze in internet; esperienze relative alla costruzione di altre chiese. Volevo carpire qualcosa che rispondesse alle mie esigenze di catturare l’essenza delle cose che stanno all’origine di una scelta così importante. Mi è capitato di trovare frasi così: “un giorno la chiesa di… nel lontano… venne fondata per rispondere alle esigenze di carattere spirituale e religioso dei nuovi residenti e per cercare di creare, fra que- sti, una vera e propria comunità”. Queste frasi sono titoli didascalici più o meno azzeccati ma non rendono giustizia all’intelligenza ed all’amore che c’è in quelle donne e in quegli uomini che decidono, in ogni tempo e condizione sociale e territoriale, di innalzare dal nulla i muri della loro “Casa” comune. Rileggendo, con pazienza ed attenzione, le testimonianze scritte del Parroco, dei sacerdoti e di molti di coloro che nel nostro quartiere hanno aperto la strada della nostra chiesa, ho capito fino in fondo il valore e la qualità del loro lavoro concreto, del loro ingegno, del loro investimento di speranza e di amore per elevare al cielo la casa del Signore. Forza, passione, determinazione e soprattutto intelligenza per capire anche quando le cose non andavano e si dovevano correggere. È stato un contributo del corpo e dello spirito, di sudore e di fatica, di gioia e di sofferenza, ma è stato appagante non solo per loro, ma anche per noi che della chiesa viviamo il presente e per quelli che scopriranno il valore di una chiesa nei giorni a venire. L’indimenticabile chitarrista dei Beatles, George Harrison, scrisse un giorno una splendida ballad intitolata “All things must pass” (tutte le cose devono passare), icona elegante e struggente sul limite insito in ogni cosa che l’uomo percepisce e crea. C’è molto di vero. Ogni oggetto fabbricato dall’uomo, ogni costruzione edificata dall’uomo, ogni spazio circoscritto dall’uomo prima o poi ha una fine ma non le chiese. Le chiese resistono agli anni, ai secoli, alla storia. Provate a pensarci: quando costruiscono una chiesa è per sempre. Walter Cristiani 8 50 ANNI DELLA NOSTRA CHIESA OTTOBRE 2014 Sabato 4 18.00 S. Messa con Mons. Carlo Faccendini, Vicario di Milano 19.30 Cena comunitaria (iscrizioni entro giovedì 2) Sabato 4, domenica 5, lunedì 6: mostra fotografica in Cappellina Lunedì 6 21.00 S. Messa con i preti e le suore passati in Parrocchia Martedì 7 e Mercoledì 8 Pellegrinaggio a Roma Domenica 12 15.30 In teatro: Commedia in dialetto milanese SIETE TUTTI INVITATI!!! Ricordiamo con riconoscenza i preti e le Suore passati dalla nostra Parrocchia: Don Piero Uggeri, primo parroco dal 1960 al 1984, don Bartolomeo Tosetti, don Carlo Cardani, don Enrico Magnani, padre Alfredo Galessi, don Leonardo Grasso, padre Luciano Pleuteri, don Tommaso Lentini, don Adrio Cappelletti, secondo parroco dal 1984 al 1996, padre Benigno Scarpazza, don Giuseppe Sanzeni, don Alberto V itali, don Cristian Cantea, don Enzo Zago, terzo parroco dal 1996 al 2007, fra Luca Bianchi, don Francesco Palumbo, coparroco dal 2007 al 2010. Nativo della Parrocchia: don Primo Bolzoni. Le suore di S. Marta alla Scuola materna dal 1957 al 1981: suor Cornelia Cordini, suor Alfonsina Messeri, suor Eugenia Filippini, suor Rosa Samuelli, suor Lucia Zuccali, suor Cecilia Macelloni, suor Rosaria Marzan, suor Pasqualina Furnari, suor Tommasa Vivenzi, suor Angelina Peraboni, suor Elisabetta Di Bucci, suor Angela Panzera, suor Marina Pirovano, suor Eliana Martinelli, suor Veronica Belotti, suor Stefania Benini, suor Renata Vivenzi, suor Elena Mariani, suor Ida Galanti, suor Annunziata Primato, suor Francesca Consolini, suor Michela Pinna, suor Filippina Franchi, suor Giulia Pezzotti, suor Paolina Longoni. Le suore per la Parrocchia: suor Marisa Bottini, suor Mariagrazia Lovato, suor Emma Chistè, suor Letizia Chistè, suor Giampaola Cauda, suor Maria Regina Banfi, suor Anna Merla. Native della Parrocchia: suor Elisabetta Oschetti, suor Andreina Macalli, suor Marta Storti.
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