Premio Parthenope Giovani talenti per la Città IV Edizione - 2013-2014 Napoli, città del futuro Coordinamento redazionale e progetto grafico: Elio de Rosa editore In copertina: Il futuro non è scritto di Gianmarco Capezzuto Finito di stampare nel mese di Maggio 2014 © 2014 Elio de Rosa editore - Tutti i diritti riservati - Riproduzione vietata 80133 Napoli - Piazza Matteotti, 7 - Tel. 081.552.92.47 - Fax 081.790.1965 00195 Roma - Piazzale Clodio, 14 - Tel. 06.3972.1038 - Fax 06.3972.3543 www.elioderosaeditore.it [email protected] Sommario Saluto del Presidente.............................................................................5 Introduzione di Pasquale Malva .........................................................7 Giudici e giudicati di Mauro Giancaspro ............................................9 Nota dell’editore di Elio de Rosa ........................................................11 NARRATIVA Una Margherita per Napoli di Sara Rosa Napolitano .......................15 (un) Sospeso di Ferdinando Genovese...............................................23 Napoli in un click di Serena Durante .................................................27 Napoli: ritorno al futuro di Flaminia Clemente .................................35 Ci sarà una volta Napoli di Ludovica Fontanella...............................39 La scatola della speranza di Alessandra Gallucci ..............................43 Un nuovo inizio di Michele Gilostri ....................................................47 Nel silenzio del tramonto di Vittorio Mocerino .................................55 La strada giusta di Marisa Pesaola ....................................................63 Pasta la revoluciòn, siempre di Lorenzo Porcelli ...............................69 GIORNALISMO Una nuova ripartenza per Napoli di Chiara Varricchio ....................79 Una città proiettata verso il futuro di Federica Palumbo ..................81 Il futuro di Napoli ricomincia dalla solidarietà di Edoardo Rocco....85 FOTOGRAFIA Il futuro non è scritto di Gianmarco Capezzuto ................................93 La prima pietra di Enrica Greco.........................................................94 Oltre le macerie di Emanuela Falcone ...............................................95 3 Il Rotary rappresenta un'organizzazione no profit che ha a cuore progetti per migliorare la qualità della vita dei cittadini del mondo sostenendo la pace, la cultura, l'approvvigionamento di acqua e cibo, la salute, la scolarizzazione. Il Rotary Napoli Posillipo da quattro anni porta avanti un progetto per incentivare le giovani intelligenze a migliorare le loro attitudini nel campo della narrativa, del giornalismo e dell'arte della fotografia, istituendo il progetto Parthenope- Giovani talenti per la città, dedicato ai ragazzi delle scuole superiori della nostra città. La enorme partecipazione al progetto ci spinge a continuare nella nostra opera di affiancamento agli insegnanti, ai genitori e all'istituzione scolastica regionale, sostenendo questo evento ideato e promosso dal nostro socio e past president Benedetto Gravagnuolo. Un ringraziamento a Pasquale Malva che dall'istituzione del Premio Parthenope investe tempo e risorse in sostegno dei nostri giovani talenti e a tutta la squadra dei giurati che hanno avuto l'onere e l'onore della scelta dei migliori studenti. Con l'augurio che i nostri premiati si facciano onore in Italia e nel Mondo. Grazie Rotary! Annamaria Colao Presidente 2013-2014 Rotary Napoli Posillipo 5 Introduzione Un mare di creatività: potrebbe così sintetizzarsi l’afflusso record di partecipazione alla IV edizione del Premio Parthenope- Giovani talenti per la città- che anche quest’anno il Rotary Club Napoli Posillipo, in collaborazione con Elio de Rosa editore, ha voluto promuovere e destinare agli studenti degli Istituti superiori di Napoli , coinvolgendoli in una “singolar tenzone” nel campo della narrativa, del giornalismo e della fotografia. I Rotariani del Posillipo, guidati dall’attuale presidente Annamaria Colao, hanno voluto proseguire e rinnovare l’idea del nostro amato e compianto Benedetto Gravagnuolo, che alcuni anni fa volle offrire ai nostri giovani l’opportunità di cimentarsi in una sfida esaltante di grande spessore culturale. Il Premio Parthenope, avvalendosi come sempre del patrocinio morale della Direzione Generale Scolastica della Campania, dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Napoli, della Camera di Commercio, Industria ed Artigianato di Napoli, a cui si affianca quest’anno la Direzione della Biblioteca Nazionale di Napoli, ha visto un’adesione convinta di oltre trenta scuole napoletane ed ha mobilitato le energie positive di circa centocinquanta alunni di varia provenienza e formazione su di un tema beneaugurale: Napoli, città del futuro. L’entusiasmo dei nostri giovani è un segnale significativo di resistenza, non solo morale, per sfatare e confutare un’immagine della città di Napoli offuscata, mai come in questo periodo, da episodi di violenza e di degrado. Resistenza ad un luogo comune che vuole erroneamente accomunare in un giudizio di superficialità, di pigrizia, di insensibilità i giovani che , al contrario, sollecitati ad impegnarsi in una sana competizione, gettano il cuore oltre l’ostacolo in vista del raggiungimento di un traguardo, che non è soltanto di natura premiale ma legato soprattutto ad un riconoscimento delle loro compe7 tenze espressive, artistiche e creative da parte di una giuria altamente qualificata. Come coordinatore del Premio Parthenope-Giovani talenti per la città mi corre l’obbligo di ringraziare, oltre che la Presidente pro tempore del Rotary Posillipo, il Direttore della Biblioteca nazionale, l’Editore che ha curato la pubblicazione delle opere premiate e menzionate, l’Hotel Santa Lucia e lo staff che ha reso possibile questa quarta edizione. Un vivo ringraziamento ai colleghi Dirigenti scolastici, ai docenti degli Istituti partecipanti e soprattutto ai nostri giovani studenti, veri protagonisti di questa splendida avventura. Un grazie speciale per l’impegno profuso nella selezione delle opere va alle giurie, composte da Beatrice Cecaro, Mauro Giancaspro e Aldo Putignano per la narrativa; Ottavio Lucarelli, Massimo Milone e Armida Parisi per il giornalismo; Fabio Donato, Luciano Ferrara e Sergio Riccio per la fotografia. Un arrivederci all’edizione del 2015. Pasquale Malva Coordinatore del Premio Parthenope 8 Giudici e giudicati Ecco cosa succede a proporre ai nostri ragazzi di scrivere un racconto ambientato nella Napoli di oggi. Succede che la città, con la sua sfiorita e inutile bellezza, con le sue inguaribili ferite e i suoi irrisolvibili problemi, prenda il sopravvento sulle vicende raccontate. Il che, di per sé, non è un male, anzi: molti grandi scrittori, come Alberto Savinio e Italo Calvino, solo per citarne due, ci hanno abituato, in forme diversissime e parimenti affascinanti, ad avvertire la città come corpo vivente con i suoi odori e i suoi sentimenti, o come veri e propri fantasmi. Ascolto il tuo cuore città e Le città invisibili sono i tioli di due opere che hanno lasciato un segno indelebile nel nostro immaginario urbano e nel rapporto simpatetico, di odio o di amore per una città, che sia o meno quella nativa, quella in cui viviamo o quella della pura fantasia. Ma succede anche che i ragazzi, come sempre in buona fede, non facciano alcuno sconto a chi nel tempo ha ridotto Napoli in un posto dal quale fuggire e nel quale ritornare dopo molto tempo con tanta speranza che qualcosa sia cambiato in meglio, per verificare, alla fine, che nonostante tutto, non è cambiato niente. Infatti una delle formule narrative ricorrenti, in queste giovanissime opere, variamente e diversamente sfociate negli esiti imprevedibili suggeriti dalla fantasia, è quella dell’allontanamento dalla città, per lavoro, per studio, per amore, per bisogno di viaggiare. Si tratta per lo più di un abbandono, definitivo o provvisorio, al quale si contrappunta il ritorno, anch’esso provvisorio o definitivo, nel corso del quale si rivede la propria città e si mette a confronto ciò che si vede con ciò che si ricorda. Perché ricorre questa formula? Probabilmente perché c’è nei ragazzi il desiderio di fuggire da questa inquieta e difficile città, senza la certezza di non mettervi più, ma con 9 la tacita speranza che al ritorno sarà cambiato qualcosa. Questo desiderio, diffusissimo tra i ragazzi che hanno scritto, anima diverse vicende, di volta in volta appassionate e dolenti, ironiche e disincantate, gioiose e sorridenti, rapide e concise quasi a ritmo di rap. Altra formula ricorrente è quella della proiezione nel futuro che parimenti manifesta il fastidio della città contemporanea che sollecita il bisogno fantastico di vederla da un futuro nel quale Napoli potrà essere diventata vivibile, pulita e organizzata. Una terza, ancora: quella di affidare la testimonianza al nonno o alla nonna che ricordano tempi migliori. E certamente ci sono tanti altri espedienti e tante altre fantasiose articolazioni e ambientazioni narrative. Ma tra tante varianti e costanti, c’è alla base, quasi di tutti i racconti costruiti ora con il taglio del romanzato breve, ora con l’impronta del thriller, ora con un’impronta agilmente cronachistica, il rifiuto della città per le condizioni in cui vive, rifiuto esasperato, più che mitigato, da un profondo attaccamento a Napoli e dalla convinzione che l’antica capitale di un regno possiede, in fondo, certamente tutti i numeri per ridiventare capitale europea. Questa edizione del premio Partenope ha messo i giurati, bisogna riconoscerlo, non solo nella sempre difficile condizione di dover fare graduatorie e scegliere, ma anche e soprattutto in una sorta di disagio; perché ci si è resi conto che mentre noi giudichiamo il loro modo di scrivere, essi giudicano quelli della nostra generazione per quello che hanno fatto di questa città: e il loro giudizio, c’è poco da stare allegri, è assai poco lusinghiero. Mauro Giancaspro Presidente della Giuria 10 Nota dell’editore È un doppio piacere per me contribuire alla IV edizione del Premio Parthenope – Giovani talenti per la città – che anche quest’anno il Rotary Club Napoli Posillipo promuove, in primo luogo per la mia appartenenza al Club, poi per la mia vocazione di editore attento a tutto ciò che di positivo e di creativo nasce e si sviluppa nella nostra città. È mia sincera speranza che questo piccolo riconoscimento dell’impegno e del talento degli studenti coinvolti, ed anche di tutti coloro che hanno partecipato ma che non è stato possibile includere in questa piccola antologia, sia un incoraggiamento a fare sempre più e sempre meglio, per poter poi affrontare al meglio un ingresso nella vita reale che per loro sarà particolarmente impegnativo. Elio de Rosa Editore 11 NARRATIVA GIURIA Beatrice Cecaro, Mauro Giancaspro, Aldo Putignano NARRATIVA Primo classificato Sara Rosa Napolitano Liceo Classico Vittorio Emanuele II - Classe II B Una scrittura matura e coinvolgente che coniuga con amore il desiderio di sognare e una visione lucida di quel che ci circonda. Secondo classificato Ferdinando Genovese Liceo Classico Jacopo Sannazaro - Classe I E Parole intime e intense, pregne di sensazioni forti e contrastanti, narrano di una Napoli nascosta e preziosa che non si vende ma si dona solo a chi riesce ad accarezzarla. Terzo classificato Serena Durante Liceo Scientifico Elio Vittorini - Classe III M Un incantesimo in cui si mescolano realtà e fantasia, luci ed ombre, in un delicato sovvertimento. 14 Una Margherita per Napoli Sara Rosa Napolitano Stava lì, fissava il foglio, ma niente. Il bianco sconcertante di quelle pagine vuote le metteva ansia. Niente, ecco cosa le veniva in mente: il vuoto. Era in cerca di nomi, situazioni ed eventi, ma nella sua mente girovagavano pensieri senza meta, senza destinazione, un insieme disordinato di parole messe a caso a cui cercava di dare un senso, ma più ci provava e più le sembrava impossibile. Napoli, città del futuro: questo il tema. In fondo, si diceva, che le importava del futuro di quella città? Tanto un giorno se ne sarebbe andata, il tempo di finire gli studi e via di lì, via da quella città senza un domani. Ecco, senza un domani, appunto, senza futuro: come avrebbe fatto a scrivere di una Napoli del futuro se non esiste? Intanto la data di scadenza per la consegna degli elaborati si avvicinava e nel frattempo Margherita pensava che le sarebbe tanto piaciuto vincere quel premio, ma più passava il tempo e più quel sogno pareva rimaner tale. «Scrivi di una Napoli apocalittica, le catastrofi piacciono a tutti, sono avvincenti!» Così le avevano suggerito, ma le pareva assurdo, tra l’altro ci aveva già pensato Cappuccio – non un principiante, ecco – e sicuramente gli era riuscito così bene che riproporre quel tema sarebbe stato solo sconveniente. Tra l’altro tutta questa “apocalitticità” non la convinceva per niente: avevano frainteso, avevano preso il tema troppo alla lettera, il futuro non era domani, il futuro era già oggi, lei questo lo sapeva, ma le pareva comunque difficile associare quel tipo di futuro a quel tipo di città e più ci pensava e più perdeva le parole. Spense quel caos che aveva in testa nel momento in cui decise di lasciar perdere carta e penna. «I racconti si scrivono vivendoli» Si disse, una volta presa la decisione di fare un giro in centro. È impossibile scoprire tutta Napoli nell’arco di una vita intera, figurarsi in una sola giornata! Margherita sapeva anche questo, d’altronde non voleva scoprirla tutta quella città, voleva solo trovare un posticino, un angolo, un pezzo di futuro da raccontare. Prese la bi15 cicletta ed uscì. Piazza Dante, Port’Alba, via San Sebastiano, davanti alla sua scuola, poi verso piazza del Gesù e ancora in direzione di piazza Monteoliveto. Niente. Vicoli stretti che, come affluenti di un grande fiume, sfociano tutti in via Toledo, poi piazza del Plebiscito fino al lungomare. Niente. Trovò storia, mare, sapori e gente che già conosceva, ma niente di più. Così rifece la strada a ritroso e passò per la bottega del nonno. Tornitore: un mestiere che non fruttava più, un lavoro antico, senza futuro, come quella città. Margherì lo salutò ed un sorriso enorme l’accolse in quell’umile riparo, quella botteguccia che vedeva in suo nonno la terza o quarta generazione di tornitori. Parlavano molto Peppe e Margherì, o meglio lui parlava, lei gridava, chè era l’unico modo per farsi sentire da quel vecchietto vigoroso. «Nonno, devo scrivere una storia, ma non so che scrivere!» L’anziano uomo alzò il capo con lo stesso sorriso di prima ancora stampato sul volto: «Eh, ma tu si brava!» Margherì rivelò i propri denti in un sorriso riconoscente e si rese conto che suo nonno non avrebbe potuto aiutarla: quell’uomo che ne poteva sapere del futuro? Com’era giusto che fosse tra l’altro. Quando quella tornò a casa si convinse che durante le vacanze pasquali imminenti avrebbe avuto l’illuminazione: niente scuola, nessun impegno ed una maggiore tranquillità avrebbero contribuito alla stesura di quel racconto che stentava a nascere. Trascorse qualche giorno e, nella monotonia di quel mercoledì che precedeva il giovedì santo, Margherita provò a rimettere in mano carta e penna, così, sperando che un’idea avrebbe riempito tutto quel bianco. Appena due secondi dopo qualcuno bussò alla porta. Aprì. Era sua madre con almeno quattro buste della spesa. «Mamma, non mi viene proprio niente in mente, la storia della catastrofe e del Vesuvio che erutta non mi piace proprio. Io voglio raccontare la realtà, ma la realtà è davvero pessima, la realtà è che non esiste una Napoli del futuro!» I carciofi e i funghi in barattolo nella dispensa, il latte e la panna in frigo, poi la frutta fresca nel cestello e… «Scrivi la realtà allora» Ancora cibo da mettere a posto, poi bagnoschiuma e balsamo per capelli, ma adesso anche Margherita dava una mano, «Ma non vincerò quel maledetto premio se racconto le cose come stanno! A chi piace sapere che non c’è niente di 16 buono in questa città?!» Due confezioni di carta igienica e un pacco di fazzoletti. Questo va lì, questo va qua e ancora: «Marghe, io credo che, in fondo, qualcosa di buono ci sia anche qui. Non parlo della storia, dei panorami e dei monumenti che il mondo ci invidia: io parlo della gente, qua c’è la gente del futuro, quella che ogni giorno costruisce il domani di questa città, bisogna solo scovarla!» Ancora combattuta e titubante, Margherita perse un po’ di speranza, la stessa che, in vista di una probabile vittoria, l’aveva accesa quando decise di partecipare a quel concorso. Non era il denaro ad averla motivata, ma quel riconoscimento, quella possibilità di dimostrare a tutti quanto valesse. Eppure iniziava a dubitare di se stessa, delle sue capacità. Non trascorse molto tempo quando Margherita scoprì che, dopo tutto, non avrebbe dovuto guardare così lontano per trovare quella gente, quelle persone di cui sua madre parlava. Cominciò a rendersene conto il martedì seguente, dopo un temporale che aveva profumato l’aria di muschio e terriccio bagnato. Sua zia, la sorellastra di sua madre, abitava nei pressi dei quartieri spagnoli, in un piccolo stabile pregno di muffa e dalle scale ripide. «Entrate care,» Un paio d’occhiali grandi e tondi, una chioma bruna ed un nasino sporco di farina le si presentarono sull’uscio della porta, mentre un acre odore di bruciato invase dapprima le narici di Margherita, poi anche quelle di sua madre. «Si sente un buon profumino, non è vero? Sto preparando un dolce allo yogurt davvero delizioso!» E, nemmeno il tempo di concludere, già si trovava in cucina, fra mestoli e contenitori vari, in cerca di un guanto e una presina per sfornare quel dolce dall’aspetto tutt’altro che delizioso. Ecco che, da una teglia rotonda, un ammasso bruciacchiato di farina, zucchero, yogurt e chissà quali altri ingredienti si ergeva come a voler scoprire il mondo oltre la stessa casseruola. Margherita non riuscì a frenare un risolino, uno di quelli che sfuggono nonostante le labbra serrate, il quale le costò un buffetto dietro la nuca da parte di sua madre. A quel punto la zia rise rumorosamente: «Va bene, l’aspetto non è il massimo, l’ho lasciata troppo tempo in forno, ma ti assicuro che, per il resto, ho seguito per filo e per segno le indicazioni che dà questa ricetta,» disse zia Maria mostrando una rivista 17 «non un grammo di zucchero in più, non uno in meno!» Questa simpatica parentesi lasciò, per un po’, il sorriso stampato sul volto delle tre donne che, accomodatesi su di un vecchio divano in soggiorno, cominciarono a parlare del più e del meno. Zia Maria era vecchia ma non troppo, bella ma non troppo, svampita, troppo; due occhi verdi e grintosi testimoniavano una vitalità ed una forza d’animo notevoli. Quella donna, difatti, aveva cresciuto da sola suo figlio, quello che, nonostante i trent’anni passati, rimaneva ancora “il piccolo”, e che riusciva a darle sempre mille soddisfazioni. «Fabio mio,» cominciò «proprio ieri, per l’ennesima volta… ah, piccolo mio!» A metà tra l’amarezza per l’accaduto e l’orgoglio per il figlio, la zia iniziò a raccontare ogni cosa con minuzia di particolari: «Ecco, sarà stata almeno la quarta volta, ma mica s’è lasciato scoraggiare, anzi! Un grande e grosso “recchione” sulla saracinesca, uno schifo! Che ignoranza, che ignoranza!» E aveva ragione zia Maria, ignoranza era il termine più adatto: l’ignoranza porta alla paura e la paura all’odio e alla repulsione. Omofobia: lo dice la parola stessa, “paura dell’uomo”, ecco cos’era, paura dettata dall’ignoranza e dalla disinformazione. Ma Fabio, come diceva anche la zia, non s’era lasciato scalfire da quelle parole d’odio e, anzi, questa volta non si era limitato a cancellarle, ma le aveva trasformate in un’ironica provocazione. “Anche simpatico, bello e single” aveva aggiunto. Ora la saracinesca del suo negozio di intimo poteva dirsi sicuramente la più originale di via Foria e, chissà, magari per un po’ non avrebbe avuto a che fare con uno o più anonimi idioti. Intanto, tra un sorso di caffè e l’altro, l’attenzione cadde su di una coperta bianca e rosa, interamente realizzata dalla zia con l’uncinetto. «Questa mi piace di più dell’altra!» Affermò Rosa – sì, era così che si chiamava la madre di Margherita –, mentre la sorella continuava, animatamente, a sostenere il contrario: «Questa è bella, sì, ma niente in confronto all’altra, così piena di colori! Con quei decori che ho fatto, poi… un amore! La signora Giuseppina mi ha detto che la vuole assolutamente comprare, hai capito? Quella! Quella pidocchiosa, chella spilorcia…» Aggiunse, alzando il tono della voce «Vo’ dicere ca ‘a cupèrta tene valore, no?» Margherita rise di nuovo, questa volta insieme con la madre e senza 18 provare a trattenersi. Tuttavia come darle torto? E non s’intende riguardo la tirchieria della signora Giuseppina, o almeno non solo, bensì sulla bellezza di quelle coperte fatte a mano, con quei giochi di colore e quelle fantasie geometriche così particolari. Maria e Rosa l’avevano imparato dalla loro nonna paterna: era un’arte, quella dell’uncinetto, che apparteneva al passato, ma che forse avrebbe avuto modo di non estinguersi attraverso le nuove generazioni, magari, attraverso Margherita. D’un tratto un bip, ecco, un sms: “Magghi, domani da me allora?” Era Valeria, compagna di classe, amica di sempre. La risposta fu un “sì” secco, da sms, seguito da una faccina sorridente. Così comunicano i giovani: risposte brevi e coincise, domande che vanno subito al punto, frasi sconnesse, segmenti, assenza di connettivi; e come scrivono, così vivono, passando velocemente da un discorso all’altro, tralasciando i “poiché” o i “semmai”, abituati alla rapidità della rete, alla possibilità di aprire, con un click, una nuova pagina, di accedere a un nuovo sito internet. «È ora di andare… ah, quasi dimenticavo, devo anche comprare due cosine al supermercato!» Così dicendo, Rosa risvegliò – si fa per dire – sua figlia, ancora attaccata a quel telefono cellulare, dunque presero ciascuna il proprio spolverino, salutarono Maria e s’avviarono verso il supermercato di sempre, quello vicino casa. Reparto ortofrutta, una lattuga e mezzo chilo di pomodorini, l’una dalla Spagna e quelli dalla Sicilia: ormai, dopo lo scandalo della terra dei fuochi, dopo la paura per Margherita, Rosa aveva preso l’abitudine di controllare sempre la provenienza dei prodotti agroalimentari, assicurandosi che provenissero da qualsiasi parte dell’Italia o dell’Europa, ma non da lì. Camorra, clan dei Casalesi, sversamento illegale di rifiuti tossici, inquinamento delle falde acquifere, diossina, alto tasso di tumori, bonifica dei territori: i telegiornali e i quotidiani ne parlavano da tempo e tante manifestazioni erano già state fatte, ma intanto l’orgoglio napoletano, ancora una volta, era stato offeso dalla corruzione e dalla criminalità; e nel frattempo si moriva, si moriva di camorra e nel silenzio di un Paese codardo e corrotto. Intanto arrivarono alla cassa, madre e figlia, l’una che pagava, l’altra che imbustava, il solito “gioco di squadra”. Quella sera trascorse in fretta e Margherita 19 si lasciò andare a un sonno senza sogni, profondo e rigenerante. Il giorno successivo, poi, poté avere una nuova testimonianza di quella Napoli ancora viva, quella Napoli che ancora combatte per il domani: accadde proprio in compagnia di Valeria, tra i vicoletti del centro storico. «Passiamo un attimo da Anna, dai, è da un po’ che non la vedo, mi farebbe piacere fare due chiacchiere…» Margherita non si fece pregare, tra l’altro la conosceva bene e trovava fosse una personcina molto cordiale: si trattava di un’amica della madre di Valeria, una persona piena di risorse, ricca di qualità morali e dal forte senso dell’umorismo. La donna, una quarantenne assai minuta, accorreva qua e là, prima da un cliente poi vicino gli scaffali, poi ancora un cliente e rieccola a sistemare cassette piene di frutta e verdura. Anna aveva aperto un punto vendita di prodotti biologici e gli affari parevano andare abbastanza bene: l’idea era quella di offrire ai napoletani prodotti del luogo, genuini, sicuri, controllati. «Roba buona, questo è sicuro!» Ed aveva ragione Anna, roba buona eccome! Le due ragazze, tuttavia, non si trattennero a lungo per non disturbare la commerciante intenta a servire un paio di clienti, così salutarono e continuarono a girovagare per il centro storico. «Purtroppo non c’è stato modo di chiacchierare...» Esordì Valeria «Non è stato facile avviare l’attività, sai? Ma Anna è una che non si arrende facilmente: si era messa in testa che avrebbe venduto prodotti biologici e l’ha fatto, tra l’altro l’orto è proprio suo, suo e del compagno, e quante procedure, non ne hai idea! Procedure su procedure, tanti soldi investiti, un sacco di tempo per avviare il tutto e tantissima determinazione.» Negli occhi di Valeria si poteva leggere una profonda stima per quella donna che l’aveva praticamente cresciuta, accompagnata in ogni fase della sua vita. Più avanti comprarono un pacco di patatine e, arrivate a piazza Luigi Miraglia, si sedettero su di una panchina: «Che hai fatto poi con quel lavoro? Quella roba del concorso...» La domanda fu seguita da un rumoroso sgranocchiare «Niente, proprio niente. Non mi viene un’idea, vorrei scrivere qualcosa di vero, ma originale, qualcosa che mostri la Napoli di oggi in prospettiva di un domani migliore, ma mi mancano le idee… beh, forse qualcosa… non lo so...» Qualche secondo per masticare 20 un’ultima patatina e poi Valeria: «Senti, perché non fai un’intervista ad Anna? Potrebbe essere un buon inizio, no? “Il biologico, agricoltura del futuro”: l’ho letto da qualche parte su internet, potrebbe andare!» Non le piaceva, Margherita non voleva dirglielo, ma non ne era convinta: ecco, l’idea non era niente male in verità, raccontava una piccola grande realtà napoletana, questo sì, ma non tutto, una sola parte e non abbastanza. Margherita voleva far vedere di più, voleva mostrare ancora altro, ma come inizio, in effetti, poteva andare bene. «Mi hai dato un’idea, potrei raccontare alcune storie di gente comune, persone che danno a questa città un futuro diverso e migliore… sì, mi piace, ma voglio storie vere e poi non mi basta solo Anna, di chi altro posso parlare?» Le due si alzarono dalla panchina e si fecero strada tra il via vai di gente sino a piazza Bellini, continuando a discuterne: «Non saprei… una ricerca su internet?» Propose Valeria, suscitando il riso dell’amica «Sì, e cosa scrivo su Google? “Napoletani per il futuro”? Magari tra le immagini trovo pizze volanti e un Pulcinella in versione Goldrake!» L’amica, sentitasi derisa e al contempo divertita, scosse il capo e accennò un sorrisino. Nel frattempo eccole arrivate, portoncino rosso, secondo piano. La terza casella sul citofono riportava due cognomi: Esposito e Della Corte. «Chi è?» La voce di Anselmo, il padre di Valeria, attraverso il citofono pareva ancor più roca, si direbbe quasi cupa. Fu lo stesso ad accoglierle. Un uomo semplice, pochi capelli, una barba folta e grigia, un paio d’occhialetti sul naso e due orecchie fin troppo piccole: «Buongiorno, tutto bene? Margherita, è da un po’ di tempo che non ti vedo, come stai? Hai trascorso una buona Pasqua?» Intanto, occupata a preparare il pranzo, Lina si sporse appena dal muro che separava il cucinotto dal soggiorno per salutare sua figlia e l’amica. Poco dopo si ritrovarono tutti a tavola: «Stamattina ho parlato con Gianni: dice che sta meglio e non vuole tornare là…» Anselmo parlava alla moglie di un ragazzo della Sanità, uscito dal tunnel della droga e quello della malavita: il padre di Valeria lavorava in una comunità di sostegno per tossicodipendenti e giovani “difficili” e, spesso, Margherita aveva avuto modo di ascoltare le loro storie. Qualcuno riusciva ad uscirne davvero, qualcun altro non ce la faceva. “La debolezza e il senso di 21 vuoto portano a drogarsi,” Le disse una volta lo stesso Anselmo “c’è chi si fa di eroina, chi si uccide i polmoni con le sigarette, chi beve per sentirsi meglio: sempre questione di debolezza!” Ed era per questo che aveva deciso di fare quel lavoro, per dare forza a chi non ne avesse a sufficienza. «Gianni deve capire che può esserci un futuro migliore!» Non appena Anselmo pronunciò quelle parole, Margherita ebbe un sussulto: aveva trovato un’altra storia da raccontare. Così, improvvisamente illuminatasi, capì cosa avrebbe dovuto scrivere, e questa volta a mancarle non erano le parole, ma carta e penna o un computer acceso. Dopo aver mangiato Margherita e Valeria si rifugiarono nella cameretta di quest’ultima. Era fatto, era pronto, tutto già scritto nella sua testa. Capì che poteva esserci un filo conduttore fra la vicenda di suo cugino Fabio, la battaglia di Anna per il biologico e il continuo sostegno ai tossicodipendenti da parte di Anselmo. Adesso aveva qualcosa da raccontare, adesso che anche i capelli ricominciavano a crescere, capì che quella città doveva avere un’altra possibilità. Ne parlò all’amica che, entusiasta, le mise subito a disposizione il proprio computer portatile. «Ecco, scrivi tutto!» e Margherita lo fece eccome: scrisse dapprima della leucemia e di come fosse riuscita, grazie al supporto di amici e parenti, a non abbattersi mai; scrisse di quanto avesse poi odiato quella città, o meglio quella gente che aveva reso Napoli una discarica, un luogo di morte; scrisse ancora della sua rinascita, della sua guarigione, ma anche della voglia di andar via, in un posto migliore. Continuò a scrivere, arrivando a narrare le storie di quelle persone che, forse, erano riuscite a farle cambiare idea, quelle persone che ancora ci credevano e che erano più forti dei forti: Napoli era anche e soprattutto quella gente e Margherita adesso lo sapeva, l’aveva finalmente capito. Eccola la Napoli del futuro, l’aveva trovata. Guardò Valeria e sorrise. Era felice. 22 (un) Sospeso Ferdinando Genovese La speranza l’ho persa tra la pioggia, tra i rantoli dell’inverno e il fumo delle sigarette alla stazione. L’ ho smarrita tra i vicoli e tra la sporcizia, dove ignorata e silenziosa si nasconde la bellezza vera, che si espande e dilaga in rivoli di sangue tra le pietre dei marciapiedi. La speranza l’ho masticata, e vomitata nella solitudine delle luci notturne appese per i capelli ai radi lampioni. In solitudine e in compagnia. Giorgio s’alzò presto quella mattina. Accadeva raramente, tuttavia quel giorno il suo corpo si trovava comodo e a proprio agio con il resto del mondo, decidendo così di tornarne a farne parte il prima possibile. Quando s’alzo però quella sensazione interna gli scivolò di dosso portandolo alla drastica decisione di uscire di casa per evitare l’indiscreto sguardo della solitudine che lo cingeva e gli formicolava su tutto il corpo. Uscito, si trovò immerso in un mondo mattiniero diverso da quello che gli era consueto, tutto era più calmo e per quanto fosse concentrato sui suoi passi non riusciva ad ignorare la luce che scendeva e si adagiava delicata sui palazzi del corso, s’appoggiò al muretto con le braccia incrociate per guardare la città sdraiata sotto di lui abbracciata ai ricordi e rimpianti, incagliata a questo rovo di disagio, di urla troncate. Impassibile e spietata. Meravigliosa. Decise quindi di percorrere il corso fino a giungere ad un piccolo mercato dove dalle prime luci dell’alba la gente s’era messa a correre contro la disperazione. E gliela si leggeva in faccia la disperazione, sotto gli occhi arresi e decisi, nei tendini tesi e nelle bocche affamate, Giorgio si muoveva tagliando tutt’altro che disinvolto quella danza frenetica, coperta da un velo di allegria consolatoria e contagiosa, come un ultimo, ennesimo grido. 23 Tra i rifiuti un banchetto rivoltato con delle carte a terra, dietro di questo una vecchia piegata su se stessa, una chiromante, una lettrice di sogni, il viso rigato dall’esasperazione, le gambe troppo esili per reggere la sua anima e la sua forza. Parla con dio, gli dice di avere più neanche lacrime da piangere, ma lui se ne sta in disparte, per non lordarsi i piedi. E fame rabbiosa scuote il corpo di lei rassegnato. Mentre Giorgio camminava, il tempo sembrava rallentare ad ogni passo, le spine dorsali brillavano di sudore sotto al sole, qualcuno s’asciuga la fronte, qualcuno canta, un vecchio amico gli fa un cenno con la mano, gli sorride e gli urla qualcosa, ma Giorgio è troppo lontano per sentirlo, ma non per ricambiare il sorriso. L’atmosfera mattutina iniziava a dissiparsi nell’aria e la gente a mescolarsi tra le strade, i vicoli si illuminano della luce riflessa dei panni appesi che, mentre li si guarda dal basso, frastagliano il cielo, e quiete per qualche secondo, spezzata dall’eco d’un grido giocondo, e il sole si stempera fino a sfioragli un lembo di volto, e una risata lontana lo contagia, poi attimi di silenzio. Quando si sedette al tavolino d’un piccolo bar che affacciava su via Costantinopoli erano da poco passate le dieci, una fresca brezza gli accarezzò il viso, Giorgio sorrise, si tolse gli occhiali e sospirò, quasi sessant’anni prima di fermarsi e guardare davvero quello che lo circondava; la luce che batteva sulle imperfezioni dei mattoni, i colori di Port’Alba, le rughe del libraio sull’uscio e l’odore di sigaro. Da lì poteva vedere i ragazzini giocare alla fontanella schizzarsi e ridere, poteva vedere la preoccupazione gravare sulle sopracciglia dei lavoratori e sulle loro mani, che ogni mattina vivevano la giornata. In ogni secondo si consuma il loro domani, o presunto tale. Un anziano seduto sulla panchina, gli occhi vivi e trascorsi piegati sulle sue scarpe, lucide, di tempi persi tra gli odori della città, tra la carne e la passione, e gli occhi d’un amore estinto tra i fiori estivi, bagnati dal temporale, tra l’amarezza e la gioia d’essere vivi. E tutta quella gente in movimento frenetico e irregolare, che con le risa e la gioia tradiva l’immensa pietà che provava nei confronti della vita, e la cingeva, la consolava, le baciava i piedi. 24 Che buon caffè, il più buono della sua vita, come sempre. Dietro di lui due signori parlano della nuova metropolitana di Garibaldi “signò l’avete vista? questo è il futuro!”, mentre li ascolta a capo chino Giorgio sorride, si rimette gli occhiali e s’accende una sigaretta, e di nuovo il tempo sembra immergersi sott’acqua, e tutto viene filtrato. Poi torna serio, come se tutto gli fosse chiaro e gli occhi iniziano ad abituarsi allo stupore. Tutto sfugge tra le dita delle mani, tra le luci logore e giallognole del sabato sera, tra il vomito d’un compagno sbronzo, tutto accompagnato da questa musica che galleggia ora tra le nuvole riflesse, ora tra i gradini bui e le piazze desolate; e se non riuscirete a sentire che le urla, e non i silenzi tra di esse, il calore e la gioia di vivere, non sarete biasimati, sono cose che non possono essere regalate. Ma accadono, e sono un dono meraviglioso. Pagò un caffé. E un sospeso. 25 26 Napoli in un click Serena Durante Non chiedetemelo, per favore, non chiedetemi cosa mi spinse a entrare in quel negozio di antiquariato. Non lo so e non lo saprò mai. Era cominciato tutto come una normale mattina. Terminati i corsi all’Accademia delle Belle Arti, mi incamminai fischiettando lungo Port’Alba per tornare a casa. Il tipico odore dei tranci di pizza appena sfornati mi pizzicò il naso, accompagnato purtroppo dal puzzo di alcuni sacchetti della spazzatura abbandonati ai lati degli edifici. Napoli è sempre stata così, del resto: perfetta e dannata. Era di questo che volevo trattare nella mia tesina, il modo per cui questa città potesse perdere la sua fama infelice e diventare di nuovo un luogo magico e invidiato. Non so bene che cosa mi attrasse di quel negozietto nascosto fra le mura crepate di un palazzo: forse la porta di legno di un marrone stinto, piccola e bassa e quasi incastrata fra i mattoni spaccati; forse la finestra coperta da una pesante tenda rossa che mi impediva di vedere cosa ci fosse all’interno; forse la maniglia argentata a forma di corno napoletano e il batacchio dalle sembianze della maschera di pulcinella; non lo so, fatto sta che mi fermai. Non avevo mai notato quel negozio, nonostante passassi di là tutti i giorni. Se non avessi avuto la consapevolezza che era impossibile, avrei detto che fosse comparso il giorno precedente, anzi la mattina stessa, perché davvero non ne avevo memoria. Ed era tanto bizzarra quella dimenticanza – e tanto curioso il fatto che gli altri passanti non sembravano nemmeno degnare di uno sguardo la porta quando ci passavano – che senza nemmeno rendermene conto mi avvicinai. Io, che non ero mai stata un tipo curioso, non trovai appagamento nel restare immobile fuori l’uscio di legno, fissando gli occhi del batacchio che sembravano guardare me, soltanto me. Un’ansia mista a in27 condizionata anticipazione mi fece battere forte il cuore mentre abbassavo la maniglia. La prima cosa che mi arrivò, dopo nemmeno due passi all’interno, fu un acre odore di polvere che mi face starnutire. La porta si chiuse dietro di me con un tonfo sordo che mi rimbombò nelle orecchie. L’ambiente era più spazioso del previsto ma piuttosto buio: la luce proveniva solo dalle finestre ed era filtrata dalle tende, donando così alla stanza un’illuminazione rossastra alquanto spettrale. Pensai che non avrei mai voluto trovarmi lì dentro di notte. Del proprietario non c’era traccia: del resto avrebbe facilmente potuto confondersi fra i vari articoli che il negozio offriva e passare ai miei occhi completamente inosservato. Cianfrusaglie, solo cianfrusaglie, cianfrusaglie di tutti i tipi. Vecchie lampade a olio, vasi che volevano spacciarsi per copie malfatte di quelli greci, orologi a pendolo, radio; e poi tipici oggetti napoletani quali la maschera di Pulcinella, i corni, sorpassate edizioni dei libri della Smorfia e statuine del presepe di varie dimensioni dai volti scoloriti e un po’ inquietanti. Storsi il naso, non solo per la polvere: per qualche motivo, la mia mente si era convinta che avrei trovato qualcosa di spettacolare una volta oltrepassata la porta. Seccata per aver solo sprecato tempo, mi voltai per andarmene. «Oh, un cliente! Da quanto tempo!» Sobbalzai, colta di sorpresa, e quasi inciampai in una vecchia poltrona. «Vieni, vieni pure avanti giovinetta! Cosa posso fare per te?» Un uomo anziano, più peli sul mento che in testa, sbucò lentamente da dietro un’ennesima tenda rossa che nascondeva probabilmente un ripostiglio o un magazzino. Andando per esclusione, conclusi che dovesse trattarsi del proprietario. Rimasi immobile, boccheggiando senza capire perché non trovassi le parole. La cosa più intelligente da fare sarebbe stata dire che non avevo trovato ciò che stavo cercando e andarmene, eppure non lo feci. La voce non mi obbediva, e quando finalmente tornò fu per 28 dire ciò che voleva lei. «Io… Stavo solo curiosando». «Ma certo, ma certo!» sorrise il vecchio, sistemandosi meglio sul naso gli occhiali spessissimi. «Fa’ come se fossi a casa tua». A disagio, strinsi le braccia al petto e presi a girare nel negozio, nella speranza di sfuggire allo sguardo del proprietario. Mi ritrovai a fissare quadri antichi – tutti falsi – e mobili polverosi in stile Roccocò alla disperata ricerca di qualcosa che attirasse la mia attenzione abbastanza da convincere il vecchio che avevo intenzione di comprarla, per poi fingere di ricordarmi che non avevo soldi e uscire di corsa e con una parvenza di dignità. Sbirciai mappamondi con ancora l’Unione Sovietica segnata sopra, ombrelliere decorate, un servizio da tè sbeccato, quadretti con la caricatura di Totò ed Eduardo de Filippo, statuine di San Gennaro, e più passavano i minuti più sentivo il sudore imperlarmi la fronte. Avrei voluto sparire. «Studi all’Accademia delle Belle Arti?». La voce del vecchio mi fece sobbalzare di nuovo e nel voltarmi urtai un pianoforte che diffuse la sua eco scordata in tutto il negozio. «Uh… Sì» balbettai. Il proprietario annuì piano. «Lo sapevo, ti vedo spesso passare di qui» spiegò, e io pensai che era curioso come questa conoscenza non fosse affatto reciproca. «Aspetta, credo di avere ciò che fa al caso tuo». E sparì dietro la tenda. La parte più sveglia della mia mente mi urlava di girare i tacchi e scappare, facendogli credere di aver avuto solo l’allucinazione di un cliente, eppure non riuscivo a muovermi. Il resto del mio corpo era paralizzato e pizzicava, in attesa, come se sapesse che qualcosa stava per accadere. Il vecchio riapparve dopo poco con in mano una macchina fotografica, di quelle antiche, con il soffietto. «Questa» mi illustrò, avvicinandosi, «è una Zeiss, più o meno degli anni cinquanta. Ne ha passate tante ma funziona ancora». Me la porse e io la guardai, ma non potei impedirmi di sollevare un 29 sopracciglio con aria scettica: il vecchio se ne accorse e ridacchiò. «Non mi credi? Provala, se vuoi. Ha già il rullino all’interno». Io scossi la testa e sbrigativamente gli allungai l’apparecchio. «Guardi, sono sicura che sia perfetta» disse, «ma mi è appena venuto in mente che non ho soldi qui con me. Mi scuso per averle fatto perdere tempo. Arrivederci». Feci per andarmene ma lui mi afferrò per un braccio con una forza e una decisione che non mi sarei mai aspettata da quelle braccia stanche. Sorrideva. «Prendila» mormorò, come se fosse un gran segreto, e mi parve di vedere un luccichio nei suoi occhi grigi. «Non sono i soldi che mi interessano. Sono sicuro che ti risulterà utile. Coraggio, non farti pregare». Che altro potevo fare? Farfugliando parole confuse sul fatto che una macchina fotografica ce l’avessi già, e di ultimo modello per giunta, presi l’apparecchio, ringraziai a mezza voce e scappai a passo svelto da quel negozio bizzarro. Quando mi ritrovai nuovamente in strada tirai un sospiro di sollievo come se l’aria mi mancasse da tempo. Il Sole mi sembrava più luminoso che mai. Feci qualche metro in mezzo alla folla e mi appoggiai a un edificio, cercando di riprendere il fiato che nemmeno mi ero resa conto di aver perso. Guardai l’apparecchio che avevo portato via da quell’avventura: un’antica e inutile macchina fotografica. Scossi la testa: il peggior affare della mia vita, senza dubbio. Me la misi sotto il braccio e mi immersi nella folla e nei pensieri, incamminandomi finalmente verso casa. Avevo una tesina su cui riflettere, non avevo tempo per un negozio bizzarro e l’ancor più bizzarro suo proprietario. Posso già dirvi che, per quanto in seguito li avessi cercati, né il negozio né il vecchio li ritrovai più. Non sono mai stata un tipo superstizioso. Ma quando, tornata a casa, venni a sapere che spolverando mia madre era riuscita a urtare e a far cadere la mia preziosa – e moderna – macchina fotografica mi ci vollero diversi minuti per riuscire a convincermi che questo in30 cidente non avesse nulla a che fare con la mia visita in quel negozio. Ancora più strano, poco dopo pranzo mi arrivò l’illuminazione per la tesina – e riguardava nuovamente il mondo della fotografia: avrei potuto inserire foto dei luoghi più belli di Napoli alternati a quelle dei posti più degradati, e invitare a immaginare di avere una bacchetta magica per trasformare le immagini negative della città. E senza più la mia fotocamera digitale mi ritrovai costretta a scendere armata solo della mia nuova – antica – macchina fotografica e di un gran nervosismo. Appurai ben presto che il vecchio non aveva mentito sul fatto che l’apparecchio funzionasse ancora. E rapidamente mi tornò il sorriso sulle labbra, come se un’adrenalina inspiegabile mi scorresse nelle vene tutte le volte che premevo il pulsante e la macchina fotografica rumoreggiava per informarmi che aveva registrato l’immagine sul rullino. Forse era la convinzione che le fotografie sarebbero uscite sicuramente in bianco e nero, ma trovavo molto più soddisfacente immortalare le scene più degradanti piuttosto che i monumenti e le chiese più famose: i sacchetti della spazzatura abbandonati vicino a cassonetti vuoti, insulti sgrammaticati e disegni sconci sui muri, buche profonde nelle strade, facciate degli edifici storici degradate, i Quartieri Spagnoli e i suoi purtroppo caratteristici bassi; anche le chiese che avrei dovuto fotografare e inserire nella sezione delle bellezze di Napoli le aggiungevo mentalmente nella categoria opposta quando vedevo che nessuno ne entrava e ne usciva, che tutti ignoravano di avere davanti un capolavoro dell’architettura, dell’arte e in generale della cultura. Continuai a spostarmi da un lato all’altro della città e a fare foto finché il rumoreggiare della macchina fotografica cessò, indicandomi che il rullino era terminato. Scoprii di essere sudata. Come se avessi fatto una fatica terribile a ogni scatto. E in qualche modo mi era salito nuovamente quel senso di rassegnazione davanti alla situazione di Napoli, come se attraverso l’occhio della fotocamera l’avessi vista sotto un’ennesima luce negativa, che amarezza. 31 Decisi di portare il rullino in uno dei pochi negozi ancora attrezzati per svilupparli e dormirci sopra. Due giorni dopo avevo le mie foto, sigillate nella gonfia busta dorata. Ero sola a casa quando decisi di chiudermi nella mia camera e guardarle. Un brivido di eccitazione che non aveva senso, a pensarci, mi faceva tremare le mani mentre aprivo la busta e le tiravo fuori, una a una. Davvero non so spiegarvi perché mi sentissi così felice, eppure sapere che quelle erano le mie foto, scattate con la mia macchina fotografica – che ormai non giudicavo più un affare sfortunato – a quella che era la mia città mi riempiva il cuore di una gioia insensata. Liberai la scrivania di tutto ciò che non mi serviva – libri, fogli, portapenne, anche il portatile che chiusi e posai sul letto – e accesi la lampada per osservare al meglio le foto. La prima cosa che mi fece trasalire e fermare il respiro fu lo scoprire che non erano affatto in bianco e nero come pensavo, bensì a colori. Non mi chiesi come fosse possibile, ma lo accettai come una distrazione inaspettata. E mi accorsi anche che le mie abilità di fotografa erano incredibilmente migliorate, perché ne avevo scattate alcune da angoli che sinceramente non ricordavo nemmeno di aver immortalato. Non so dire, ripeto ancora, perché fossi così felice. Non avevo fotografato niente di allegro, e lo sapevo benissimo. Eppure mi sentivo il cuore leggero e nuovamente la pelle fremeva, come in attesa di qualcosa. E poi me ne accorsi. Avevo fatto una solo foto alla strada, perciò quando la trovai ero sicura che sarebbe stata quella con l’enorme buca nell’asfalto che le automobili facevano di tutto per evitare. Eppure la buca non c’era. Aggrottai le sopracciglia, un senso di confusione e allarme si cominciò a sostituire alla inspiegabile contentezza. Accostai la fotografia al viso e strinsi gli occhi, eppure non riuscii a vedere nulla. Non una sola scanalatura nell’asfalto, che anzi sembrava essere stato appena posato ed era lucido e senza dossi. Confusa, afferrai una seconda foto e lì le differenze erano ancora 32 più evidenti: invece dei sacchetti della spazzatura abbandonati che avrei dovuto vedere c’era un marciapiede pulito, con il cassonetto perfettamente chiuso. E io ero certa di non aver fotografato nulla di simile. Per un momento pensai che mi avessero dato le foto di qualcun altro, ma non era possibile: erano le mie, senza dubbio – ma era come se le avessero modificate al computer. E dovevano essere stati molto abili davvero, perché nessuno avrebbe creduto che non fossero degli scatti autentici. Con mani che tremavano dalla confusione e non più dall’eccitazione ripresi le foto una alla volta e le esaminai con più attenzione: tutte, tutte avevano almeno un dettaglio aggiunto o eliminato. Le crepe e le scritte sui muri erano sparite; le chiese deserte e dimenticate si erano trasformate in luoghi affollati, con dozzine di persone immortalate a metà del gesto di uscirne o entrarne; e i Quartieri Spagnoli, poi, avevano perso i loro bassi e li avevano restaurati in modo decoroso e mostravano tutto tranne che il degrado sociale. E anche la gente sembrava più distinta. Rimasi a fissare quelle foto, immobile, senza sapere bene se sentirmi spaventata o meno. Ero confusa, non comprendevo come fosse possibile e lanciavo occhiate preoccupate alla macchina fotografica che giaceva sul mio letto, fissandomi con il suo obiettivo. E poi improvvisamente capii. Per qualche motivo… per qualche strano, incomprensibile motivo, quelle foto riflettevano ciò che io avrei desiderato mutasse della mia città. Le mie speranze, i miei sogni, erano fissi su quelle foto. Niente di tutto ciò era vero, naturalmente. Napoli era ancora come la conoscevo, ma le fotografie mi stavano parlando, mi stavano dicendo che impegnandomi e convincendo tutti a impegnarsi a loro volta sarebbe giunto il giorno in cui avrei potuto finalmente immortalare la stessa scena nella realtà. Per cambiare le cose, a volte, basta solo volerlo con passione ardente e un... click pieno d’amore. 33 NARRATIVA Menzioni Speciali Flaminia Clemente Liceo Classico Umberto - Classe I L Ludovica Fontanella Liceo Classico Jacopo Sannazaro - Classe IV G Alessandra Gallucci Liceo Scientifico Vittorini - Classe IV H Michele Gilostri Liceo Scientifico Giuseppe Mazzini - Classe III B Vittorio Mocerino Liceo Scientifico Elio Vittorini - Classe IV H Marisa Pesaola Liceo Scientifico Elio Vittorini - Classe V H Lorenzo Porcelli Liceo Umberto I - Classe III L 34 Napoli: ritorno al futuro Flaminia Clemente Un giorno San Gennaro, Santo patrono e protettore della città di Napoli, andò dal Padreterno per manifestargli tutta la sua preoccupazione per la città più bella del mondo che, a suo giudizio, peggiorava di giorno in giorno. “Signore - disse il Santo - come dobbiamo fare? La mia città va sempre peggio, non ha un futuro, i Napoletani giovani se ne vanno a studiare fuori, quelli che rimangono sono rassegnati al declino. Io vorrei che Voi interveniste; mai per comando, ma pensateci Voi ...” “San Gennà, non ti preoccupare - rispose Dio - tu continua sempre a fare il miracolo ... Lo sai i tuoi paeseani come sono, alla fine si organizzano sempre in qualche modo: l’arte di arrangiarsi ce l’hanno nel sangue. Si sono sempre “apparati” con i dominatori stranieri, i francesi, gli spagnoli, gli austriaci, i piemontesi. Poi hanno sopportato pure i politici della prima, seconda e terza repubblica italiana. Ce la faranno anche questa volta”. San Gennaro, pur con il massimo rispetto, obiettò: “Signore, non mi prendete in giro. Qua la situazione è grave bisogna fare qualcosa!” Rispose Dio: “Gennaro, ma tu che vorresti fare? Che proponi? Dimmi e io vedo che si può fare!” “Signore mio - disse Gennaro - io veramente non so da dove cominciare. Questi stanno sempre allegri, come dice la canzone: basta che ci sta ‘o sole ... magari la squadra di calcio che vince ... e di tutto il resto non se ne importano proprio. Io non saprei da dove cominciare.” San Gennaro sperava in una risposta sicura dall’Onnipotente perché si trovava proprio in difficoltà, fino a quando, ormai privo di speranze, riuscì a ricevere finalmente una risposta dal Padreterno, stanco delle lamentele del Santo patrono di Napoli. “Dobbiamo chie35 dere consiglio ai Napoletani - disse il Signore - a quelli migliori che già stanno qua da noi, in Paradiso. Organizza un bel banchetto, scegli tu gli invitati e sentiamo cosa ci dicono.” A San Gennaro l’idea piacque molto e iniziò a fare l’elenco degli invitati. Certo era difficile fare la selezione, più di duemila anni di storia, poi se non inviti qualcuno quello si offende ... Magari sento prima i Napoletani normali, quelli non famosi, mi faccio aiutare a fare una lista, pensò. E così fece, raccolse le opinioni e fece la sua selezione: undici napoletani DOC, famosi e autorevoli che avrebbero aiutato a inquadrare i problemi e a proporre le soluzioni. Il numero fu scelto perché era lo stesso della squadra di calcio. Mandò loro gli inviti e nella data fatidica si presentarono tutti. Ma, poiché erano Napoletani, ognuno si fece accompagnare. Si sa, l’invitato può invitare e le famiglie di Napoli sono molto grandi: fratelli, sorelle, cugini, amici ... stretto stretto un centinaio di persone. Era uno strano spettacolo perché erano tanti e venivano da epoche diverse. Si guardavano straniti tra loro e attendevano qualcuno che gli dicesse cosa dovevano fare. San Gennaro allora disse: “Guagliò, ma quanti siete? A me servivano undici saggi ma voi siete centinaia e centinaia ... Allora facciamo una cosa: gli undici scelti si siedono attorno a questo tavolo e gli altri tutt’intorno, come se fosse uno stadio.” Fattasi un po’ di calma, San Gennaro spiegò che il Padreterno aveva voluto chiamare gli uomini più celebri della storia di Napoli, affidando a lui il compito di coordinare la discussione, per ragionare tutti insieme e cercare una soluzione ai problemi di Napoli e dei Napoletani. Il primo a parlare fu Eduardo de Filippo che urlò “Fuitevenne” ma San Gennaro lo redarguì: “Eduà ... ma allora non hai capito niente ... noi li dobbiamo incoraggiare e tu li fai scappare?”. Aggiunse Massimo Troisi: “Chi parte sa che cosa lascia ma non sa che cosa trova”. San Gennaro prese la parola e cominciò ad illustrare tutti i problemi della città ma questo scatenò un’accesa partecipazione: le voci che si alzavano sempre di più, sfuggendo al controllo di Gennaro. Al36 lora Dio, per ristabilire l’ordine, prese la parola e disse: ”Calma, calma, cari figlioli: la nostra città non è più come una volta. Ormai Napoli è conosciuta come un luogo dove prevale la criminalità e dove ci sono cumuli di spazzatura lungo le strade, non c’è lavoro né futuro per i giovani. Per questo motivo vi ho radunato qui, perché chi più di voi può sapere cosa fare? Dite le vostre proposte e se saranno accettate da me, le realizzerò”. Allora, prima di iniziare la discussione, per mettere ordine, chiesero consiglio ai Greci, primi colonizzatori e abitanti di Napoli. Fu stabilita una regola: poteva parlare solo chi avesse avuto la coppa di vino in mano. Chiunque avesse interrotto o trasgredito questa norma, sarebbe stato cacciato per quarantotto giorni fuori dalle mura del Paradiso e avrebbe passato la giornata arando e zappando il terreno della pianura angelica”. Quando si dice la democrazia! Il primo che ebbe la coppa in mano, come ospite, fu Boccaccio che pure essendo toscano aveva amato tanto Napoli e le Napoletane che ancora la rimpiangeva e infatti disse che tutti questi problemi lui non li vedeva, a Napoli ci si divertiva molto di più che a Roma e Firenze, non ne parliamo di Milano. Poi intervenne un’autorità: parlò don Pedro de Toledo. Bisognava ispirarsi alla Spagna come aveva fatto lui: Napoli come Madrid, Barcellona e Siviglia e passò la coppa a un re, Carlo III di Borbone che sottolineò che Napoli poteva andare oltre trovando una sua strada. Le voci si alzarono di nuovo. La regola della coppa era già stata dimenticata e dalla folla sbucarono sottobraccio Masaniello e Pulcinella, strana coppia, ma certamente napoletanissima. Masaniello diceva che era tutta colpa delle tasse che metteva il viceré e che dovevano ribellarsi. Pulcinella consigliava a Masaniello di starsi attento che manco gli era bastata la lezione che aveva avuto mentre Eleonora Pimentel Fonseca gridava che bisognava fare una bella rivoluzione ma che i Napoletani dovevano organizzarsi meglio perché quella a cui aveva partecipato lei era finita male e le era costata la condanna a morte. A questo punto, Benedetto Croce salì in cattedra sostenendo che 37 solo la filosofia poteva salvare Napoli, ma erano in pochi ad ascoltarlo. “Ai Napoletani piacciono le canzoni, non la filosofia” disse Enrico Caruso e si mise a cantare “O sole mio” trascinando tutti nel suo entusiasmo che diventò ancora più forte quando al coro si aggiunse Renato Carosone. San Gennaro era avvilito e pensava “Ma questi Napoletani sono proprio scombinati, vogliono solo cantare, ballare e divertirsi”. - Silenzio! Sentiamo il Dottore – gridò per tacitare lo schiamazzo e diede la parola a Cardarelli, un medico famoso, che disse: “Voi non avete capito niente: il problema è medico. Qui ci vuole una bella cura ricostituente per la città, non solo le strade e i palazzi ma soprattutto le persone!” “Giusto - disse Totò - siamo uomini o caporali!” e ripresero a parlare tuti insieme … Il Signore lesse nel pensiero di San Gennaro lo sconcerto e la preoccupazione e disse: “Gennaro, non ti preoccupare. I Napoletani sono brava gente, sono generosi e intelligenti, vedrai che ce la faranno da soli. I personaggi della storia possono servire da ispiratori ma sono i Napoletani di oggi che si devono dare da fare ”. “Signore - disse San Gennaro - hai proprio ragione. Ho sbagliato a chiederti di intervenire. Non c’è niente da fare, non ci dobbiamo aspettare che qualcuno risolva i nostri problemi. I Napoletani hanno fantasia da vendere e, nonostante l’apparenza, sono grandi lavoratori, almeno la maggior parte di loro. Ce la faranno da soli, anche questa volta”. E così ancora oggi, la città continua la sua vita, sembra che tutto vada male ma invece qualcosa si muove, cambia, migliora, grazie ai Napoletani di buona volontà. San Gennaro guarda da lassù, con gli illustri concittadini che nei secoli hanno fatto grande la nostra città, fa il miracolo puntualmente e, quando proprio è necessario, dà un piccolo aiuto alla sua e nostra Napoli. 38 Ci sarà una volta Napoli Ludovica Fontanella “Sembrava una giornata come tante” iniziò il nonno. “Era il lontano 2079, più precisamente il 15 aprile 2079” proseguì. Noi tutti lo ascoltavamo come fosse stata l’anteprima di un nuovo brano ancora non uscito su youtube. “Quello fu uno degli anni più importanti del secolo. E sì, proprio così, nel 2079 la città di Napoli conobbe uno splendore inimmaginabile. Sapete era dal…” interrompemmo il nonno prima che iniziasse a raccontarci un altro dei suoi aneddoti, sentiti e risentiti, di cui ormai conoscevamo ogni dettaglio. Il nonno aveva una capacità mai vista prima di cambiare discorso nell’arco di pochi secondi. Gli ricordammo della storia che ci stava raccontando e senza esitare riprese: “Dunque, il 15 aprile del 2079, mi svegliai alle 7.00 com’ero solito fare per andare a lavorare. M’imbarcai sul battello A148 che andava da Posillipo sino ai pressi dei vecchi quartieri spagnoli dove si trovava il mio ufficio.” Tiffany interruppe il nonno per chiedergli cosa fossero i quartieri spagnoli. Il nonno spiegò che erano parte della storia napoletana ma che, purtroppo, in quelle zone non sempre si viveva bene e così, proprio in quegli anni, furono riedificate sino ad avere il magnifico contrasto degli edifici colorati di oggi che incorniciano le meravigliose antiche chiese barocche. Una volta chiarita la spiegazione, riprese la storia: ”Il nonno, cari ragazzi, lavorava in un ufficio di scambi culturali. Era uno dei primi che si vedevano a quei tempi. Ora voi siete abituati a vederne tanti, ma prima non era così. Furono costruiti intorno al 2070 per incrementare il turismo ed anche per ampliare gli orizzonti degli studenti napoletani che in questo modo avevano la possibilità di conoscere nuove culture. Comunque, quando arrivai, trovai il mio capo, il signor Esposito in uno stato di insolita agitazione: non trovava un nuovo progetto che avrebbe dovuto assegnarmi. Dopo estenuanti e 39 meticolose ricerche si accorse che erano stati sottratti anche altri documenti, fascicoli, timbri e sigilli. Allarmati dal capo, tutti i dipendenti, nessuno escluso, si adoperarono per dare il loro contributo affinché venissero individuati i responsabili; così, tutti insieme si decise di rivolgersi alla polizia. Dopo pochi minuti si presentò nel nostro ufficio una poliziotta. Era l’ispettrice Lotswerd…” noi tutti balzammo al sentire quel nome. “Lotswerd? La nonna?” domandò incredulo Giovanni. “E si!” Rispose il nonno sorridendo; “È così che io e la nonna ci siamo conosciuti. A proposito di nonna… Ragazzi, dobbiamo andare ad innaffiare le piante del giardino, è il nostro turno oggi.” Pregammo il nonno di terminare prima la storia, ma lui, inflessibile, iniziò uno dei suoi interminabili discorsi: cominciò dicendo che tutti, ognuno nel proprio piccolo, dobbiamo collaborare nella nuova iniziativa per aumentare le zone di verde e finì spiegando che ogni condominio ha un proprio giardino da curare e di conseguenza ogni condomino ha il compito di aiutare per la crescita di tale giardino. Allora, una volta attrezzati, scendemmo in giardino, innaffiammo tutte le piante e addirittura ne piantammo delle nuove. Una volta rientrati, subito chiedemmo al nonno di continuare la storia e lui così fece. “Dunque, l’ispettrice Lotswerd comprese l’importanza del progetto; infatti il capo le spiegò che si trattava di una grande opportunità che l’Unione Europea offriva alla città di Napoli, poiché, in occasione della visita di rappresentanti europei, sarebbero stati concessi importanti fondi che il capo intendeva utilizzare per depurare le acque del mare, inquinate da fin troppi decenni. L’ispettrice Lotswerd disse che le servivano più elementi e che qualsiasi dettaglio sarebbe stato utile. Al capo venne in mente solo che probabilmente aveva un’altra copia del progetto a casa. Sì, dopo averci pensato, gli si illuminò il viso: ricordò che il signor Gennaro gliene aveva fatto una fotocopia. -Chi è il signor Gennaro?- Domandò la poliziotta. Intervenni io spiegando che il signor Gennaro era uno dei responsabili dell’ufficio e sorridendo aggiunsi che era l’unico in grado di usare la fotocopiatrice! 40 - Dunque mi state dicendo che questo signor Gennaro ha avuto l’occasione di vedere il progetto? - domandò con tono di sospetto la signorina Lotswerd. Il capo assunse un’espressione di disapprovazione ed esclamò: - Lei sta insinuando che sia stato il signor Gennaro a rubare il progetto? È assurdo… Lo dice solo perché vuole archiviare il caso! Cercai di calmarlo, ma la poliziotta chiese di poter parlare con Gennaro. A questo punto il capo, tornato in sé, le disse che non era in ufficio poiché aveva preso una settimana di ferie. La signorina Lotswerd si allontanò. Dopo poco ci comunicò che il signor Gennaro era in spiaggia con amici e che ora si sarebbe recata lì per scoprire qualcosa. Le chiesi di accompagnarla e lei acconsentì. Salimmo sulla volante della polizia, una di quelle con la sirena, ed è lì che iniziammo a parlare e…” Purtroppo, Tiffany interruppe il nonno sul più bello ed esclamò: “ Nonno, davvero sei salito sulla macchina della polizia? Come quelle dei film?” il nonno sorridendo rispose “ Beh, Tiffany, la macchina non era come quelle dei vecchi film… ai miei tempi già c’erano le macchine elettriche e quella era proprio così, come quelle che spesso vedete passare per la strada. “Ma le macchine antiche erano molto più belle. Perché non ci sono più?” chiese Giovanni. “ Vedi, Giovanni, è vero che le macchine antiche erano più belle, ma inquinavano molto l’aria e inoltre erano più grandi e quindi aumentava il traffico. Oggi, grazie alle macchine elettriche ed anche grazie ai battelli intercity e alle nuove linee della metropolitana, l’aria è più pulita e ci si muove più facilmente.”. “Dai, nonno, continua la storia!” esclamai. Lui continuò: “una volta arrivati al mare, trovammo il signor Gennaro, con altre persone, che gettava pericolosi rifiuti in mare. Subito la signorina Lotswerd chiamò rinforzi e il signor Gennaro, insieme ai suoi “amici”, venne arrestato. Io e la signorina Lotswerd continuammo a vederci e mi raccontò che dalle indagini era emerso che a dirigere queste operazioni c’erano dei clan di camorristi i quali avevano paura che, se vi fossero state opere di depurazione del mare, sarebbe stata scoperta la loro terribile attività delittuosa.” Noi tutti rimanemmo a bocca aperta ed io chiesi che 41 ne fosse stato del progetto. “ Ah, giusto, il progetto!” esclamò il nonno e continuò: ”La polizia recuperò i fascicoli rubati e il capo insistette perché il progetto venisse realizzato. E così fu. Guidai io stesso i rappresentanti provenienti da tutta Europa. Rimasero affascinati dallo splendore di Napoli e così ci diedero fondi sufficienti non solo per depurare le acque del mare ma anche per restaurare molti monumenti. Napoli divenne ancor più bella: il mare era più limpido che mai, aumentavano sempre più le macchine elettriche e inoltre, adesso, le bellezze di questa città erano finalmente conosciute in tutta Europa e ogni anno arrivavano milioni di turisti per visitare la città e arricchire la nostra cultura. Ma la cosa più bella, ragazzi, è che, da allora, la polizia ha continuato le indagini contro la camorra, che vanno avanti ancora oggi e probabilmente andranno avanti anche domani, finché, finalmente, non ce ne sarà più bisogno. Così, quell’anno fu fondamentale per darvi Napoli come la conoscete oggi: un mix di arte, storia, tanto verde, ma anche tradizioni e… a proposito di tradizioni, andiamo a mangiare una pizza?! 42 La scatola della speranza Alessandra Gallucci Guardava la sua piccola scatola dei desideri, il suo unico tesoro. Guardava la foto che le aveva dato sua nonna, Napoli durante il suo splendore. Ora Napoli non era più come prima,non c’erano più cosi tanti alberi, fiori, prati, tutto era stato spazzato via da due secoli di rivolte. Lei conservava gelosamente nella sua scatola un petalo di margherita ormai ridotto a brandelli, era il suo tesoro più prezioso. Lei non ne aveva mai vista una, erano davvero difficili da trovare, era la cosa a cui teneva di più, più della sua unica bambola di pezza. Napoli era regredita, lo sviluppo tecnologico aveva fatto arricchire pochi facendo morire di fame molti. C’erano sempre più edifici e sempre meno vita. Le strade erano deserte, affollate solo di insetti e sporcizia, di malinconia e tristezza. Gli abitanti erano ormai lasciati a loro stessi, stanchi di lotte perse in partenza e ormai stremati dalla fame e dalle condizioni in cui vivevano. La piccola Bea andava ancora alle elementari, era una bambina piena di vita e questa vita grigia e triste che l’aspettava non le si addiceva. Viveva in quartiere ormai abbandonato da tutti, pochi erano quelli che avevano il coraggio di viverci o che non potevano vivere altrove. Ogni mattina si alzava all’alba, faceva colazione con acqua e quell’unico biscotto che poteva avere e con il suo zainetto rosa camminava per un’ora e mezza verso la scuola. Con il tempo era diventata una bambina coraggiosa, quella che lei viveva era una vita che ti metteva alla prova tutti i giorni, a tutte le ore. Potevi ritrovarti coinvolta in una protesta da un momento all’altro ma l’importante era nascondersi. Sapersi nascondere ti salvava la vita, e ormai Bea lo sapeva fare benissimo. Aveva capito che il modo migliore per passare le ore nascosta in angolino o in un qualche fessura era quello di immaginare, immaginare qualsiasi cosa, qualsiasi cosa potesse distrarla da quello che stava succedendo intorno a lei. Di solito Bea immaginava la sua vita. Lei voleva diventare una principessa oppure un’archeologa. 43 Ormai non c’era quasi più nulla da scoprire ma molto da dissotterrare, intere città ridotte in brandelli ricoperte da metri e metri di detriti. Bea amava la natura, aveva imparato ad apprezzarla. Aveva moltissimi libri sui fiori e le piante, ma non sapendo ancora leggere bene si limitava a guardare le figure. Guardava tutti quei petali colorati che lei probabilmente non avrebbe visto mai, tutti quei germogli che lei poteva solo ammirare su un libro. Erano fascicoli di sua nonna, li aveva conservati a lungo, erano ormai ingialliti e consumati ma non passava un giorno in cui la piccola Bea non guardasse ogni pagina. La sua immagine preferita era quella di una margherita. Non sapeva perché ma quell’immagine l’aveva sempre attratta. Forse perché era una delle poche immagini che era conservata in condizioni migliori delle altre o forse perché lei ne possedeva una, possedeva quell’unico petalo, che per lei era preziosissimo. Bea nascondeva quel libro nella sua scatola, insieme agli altri tesori lasciati dalla nonna. L’aveva costruita il padre e lei l’aveva decorata. La nascondeva ogni sera nel suo guardaroba per poi cacciarla ogni mattina. Camera sua era la stanza più grande della casa, era piena di finestre e di conseguenza era piena di luce, quando il sole splendeva ogni raggio riusciva a passare e ad arrivare nella sua camera. Un giorno mentre sfogliava il libro vicino alla finestra Bea si accorse che due pagine erano state attaccate, vide in controluce una pagina che non corrispondeva a quella successiva e notò la filigrana più doppia. Non esitò a scoprire perché due pagine erano state incollate. Senza dire niente ai suoi genitori cercò ogni modo possibile per non rovinare il libro e capire cosa era stato nascosto. Era meravigliata, come poteva non essersene accorta prima? Trovò un taglierino nel laboratorio di suo padre; era un falegname, un lavoro modesto ma che riusciva a mantenere la famiglia, a cibarla e a non farla morire di freddo durante l’inverno. In quegli anni nessun lavoro era scontato, ogni lavoro veniva rivalutato. Bea riuscì a separare delicatamente le due pagine con il taglierino del padre. Ci trovò una pagina ingiallita. Le batteva forte il cuore, infondo era una bambina, cose di questo genere non le capitavano tutti i giorni. Aprì il foglio e 44 ci trovò una lettera di sua nonna. Lei sapeva leggere meglio di tutti i suoi compagni di classe, era estremamente intelligente e autonoma, lo aveva imparato in poco tempo quasi da sola. Non esitò a leggere quella lettera. Il cuore le batteva sempre di più ad ogni frase, parola, virgola che leggeva. Batteva, batteva velocemente. “Cara piccola Bea, come ben sai me ne sono andata via prima che tu nascessi. Non ti ho mai potuta vedere, la malattia mi ha portato via da te troppo presto, troppo. Non so se leggerai mai questa lettera, non so se tua madre la troverà prima di te o nessuno la troverà mai. Tu sei intelligente, lo so. La troverai. Capirai. Ti ho lasciato dei “vecchi” ricordi. Non so se parlerete molto di me, ma voglio dirti che ogni singolo oggetto è stato mio. La foto la scattai io, era il giorno del mio matrimonio, Napoli era splendida, ma si iniziava a percepire nell’aria ciò che l’aspettava; non era nulla di positivo. La gente era sempre più irrispettosa di ciò che la terra offriva e prima o poi la terra, sai cara Bea, smetterà di offrire. La terra ci offre tutto ma noi dobbiamo saperlo accettare, e l’uomo ormai non è più capace di questo, si crede superiore, crede che per lui tutto è illimitato, ma nulla è scontato. Prima o poi l’uomo dovrà rendersene conto. Il libro invece Bea era il mio libro preferito. Il giardinaggio era la mia passione. Mi sono laureata in biologia ma poco prima della pensione ho lasciato il mio lavoro in laboratorio per dedicarmi alla botanica. È stata una liberazione ma anche una condanna. Ho paura Bea che tu non potrai mai vedere tutti questi fiori che ora posso vedere io. La vita senza fiori è impossibile sai. I fiori, le piante sono loro a tenerci in vita e noi lentamente stiamo distruggendo tutto ciò che ci fa vivere. Noi non siamo immortali Bea, noi non possiamo distruggere ciò che ci tiene in vita. Non ci è permesso. Per questo ti ho lasciato il petalo, voglio farti sapere che c’è speranza. La speranza non muore. Vive finché anche una sola persona crede di poter cambiare le cose. Bea tu devi sempre essere quella persona, non devi mai abbandonare la speranza. 45 Ora Bea voglio chiederti una cosa, che tu sia una bambina, una piccola donna o una madre promettimi che prima o poi riuscirai a fare ciò che ti sto per chiedere : quando mi sposai con tuo nonno andammo a vivere in provincia, era un luogo più calmo e tranquillo, più adatto a noi. Ti chiedo di andare nella nostra vecchia casa, la casa in cui tua madre è cresciuta e di raccogliere più fiori possibile. C’era un grande giardino, ci portavo spesso tua madre. Sono sicura che troverai molto, voglio che raccogli tutti i fiori che puoi. Una volta tornata a Napoli Bea devi fare un’ultima cosa, dai ad ogni persona che incontri un fiore. Dai speranza alla gente Bea, come hai dato speranza a me. Tua nonna Beatrice” Bea scoppiò a piangere. Nessuno le aveva mai parlato di sua nonna, le era stato raccontato solo il minimo, forse per non farla soffrire. Bea non si era mai sentita cosi responsabile e fiera di esserlo. Lei avrebbe reso felice sua nonna. Corse dalla madre per farle leggere la lettera, non poteva riuscirci da sola. Appena la madre iniziò a leggerla non riuscì a trattenere le lacrime, era sorpresa, non aveva idea dell’esistenza di quella lettera. Corse alla macchina, chiamò il marito e gli disse che non sarebbero tornate per cena, andavano a fare una gita in campagna. Un’ora dopo arrivarono in quella vecchia casa, il passare degli anni si poteva notare, l’intonaco per terra, le crepe nel muro, la polvere sui mobili. La piccola Bea e sua madre arrivarono al giardino, la situazione era cambiata, totalmente opposta, il passare degli anni non aveva intaccato un centimetro di quel parco. C’era un uomo che in quel momento annaffiava le piante, appena le vide sorrise alle due donne e disse solo due parole - Vi aspettavo - dopo di che si girò e se ne andò. Da quel momento era tutto nelle loro mani. Bea corse nel giardino e inizio dolcemente a cogliere più fiori che poteva. Bea aveva speranza e ora poteva far sperare tutta quella gente che aveva dimenticato come si fa, tutta quella gente che non credeva più in nulla, tutta quella gente che aveva smesso di vivere. 46 Un nuovo inizio Michele Gilostri Camminavo stanco, sul quel marciapiede zeppo di foglie gialle che morenti continuavano ad abbandonare i loro rami per dare spazio all’autunno. Avevo le mani nascoste nel tascone della felpa, il cappuccio tirato su e lo sguardo basso di chi non vuole problemi. Silenzioso, a tratti bambino, mi divertivo a calpestare quelle foglie secche per riascoltare quel piacevole scricchiolio da sempre amato. Continuavo a fare passi precisi, mirando all’accumulo prescelto. Le foglie continuavano a spezzarsi e ad apparire quasi croccanti. Il tragitto verso casa così diminuiva senza che me ne accorgessi e in un attimo ero persuaso dal tentativo di capire l’origine precisa di ogni foglia caduta al suolo. Continuavo a immaginare l’albero e il ramo su cui aveva vissuto, cercando di ricostruire il percorso di caduta. Non era difficile dopotutto, considerando che ogni albero distava dall’altro pochi metri. Alzai lo sguardo, e una foglia, si era appena staccata dal ramo più alto. Osservai la caduta. Il vento la spingeva così distante, sempre più lontano. Tanto tempo aveva trascorso in compagnia delle stesse simili, sempre le stesse, strofinandosi l’una con l’altra attraverso quelle poche brezze che le permettevano il fruscìo. Trasferirsi era stato davvero stancante. Il mio nuovo coinquilino, Simone, dipingeva quadri surreali e si reputava uno dei più grandi artisti incompresi di sempre. Appena conosciutici, mi invitò subito a giocare una partita a scopa con le carte napoletane, che poco dopo vinse. Era simpatico, ma da quella volta erano state poche poi le occasioni d’incontro. Ci salutavamo solo al mattino quando lui non andava allo studio oppure la sera quando io rincasavo prima. I giorni passavano lenti e ogni mattina seguivo svogliatamente i corsi all’università, mentre il pomeriggio lavoravo come barista nell’esercizio pochi metri avanti sul marciapiede del mio palazzo. Vivere in città mi risultava diverso dal paese. Notavo la gente uscire dalle grandi stazioni Metrò sempre di fretta, a passo veloce, scrutando ner47 vosamente le lancette dell’orologio e blaterando qualcosa tra sé nel rendersi conto di essere in ritardo. Nessuna pausa, molto stress, tanto caos. La scelta era stata fatta da me medesimo: avevo rinunciato a vivere tra gli affetti per mandare avanti una carriera giuridica di cui forse non ero realmente convinto fino in fondo. Non ero in armonia con la città, mi percepivo disadattato, depresso e ogni sera, dopo aver cenato con un hot dog o un hamburger anche cotto male, mi coricavo con uno strano senso di incompletezza, di vuoto, che mi portava ad acquietarmi e ad abbandonarmi al sonno fantasticando in tutto lo straordinario paesaggio di Sant’Arcangelo, il mio amato paesino d’ origine. Mia madre, quasi ogni sera, mi telefonava sapendo che avevo staccato a lavoro. Mi chiedeva se filava tutto per il verso giusto e ogni tanto, sentendomi particolarmente stanco, mi proponeva di ritornare a casa, da loro. Le rispondevo con un gran giro di parole che tutto sommato serviva più convincere me, anziché lei. Desideravo acquisire maggiore sicurezza nei miei progetti e perciò terminavo la telefonata con una frase tipo : “...Beh, ora vado a letto. Domani mi spetta una giornata impegnativa!”. Un pomeriggio al bar, mentre preparavo qualche espresso al bancone, mi era capitato di scorgere un bambino in un passeggino, accompagnato dalla madre che parlava al cellulare e sorseggiava il caffè. Il piccolo giocava con le sue dita, alternando il pollice e l’indice in bocca. Si divertiva con poco, ma i suoi occhi poggiavano su di me. Insomma, io non lo avevo mai visto e non ci conoscevamo neanche, ma continuava a fissarmi. Ciò che mi sorprese fu che non riuscii a identificare di che sguardo si trattasse o cosa stesse pensando mentre mi osservava con così tanta attenzione, però seppi percepire che non c’era paura o timore in ciò che faceva. Lo definii per un attimo “egoista” perché sembrava non importarsene della reazione che quello sguardo faceva scaturire in me. Di solito quando noti che qualcuno ti sta guardando e incroci lo sguardo, l’altro subito finge di guardare altrove. Quel bambino era lì e nonostante volessi combattere il suo sguardo con il mio, vinceva sempre lui. Mi fissava e sembrava addirittura che volesse giocarci con il 48 mio viso, voleva toccare, dare sfogo al tatto. Guardava attento, sorpreso, stupito, pensieroso. Sembrava che a momenti si facesse delle domande mentre socchiudeva le palpebre e arricciava le sopracciglia per sforzarsi di cercare una risposta. Dopo un po’, mi sembrava che ciò che cercava potessi darglielo io; non c’erano clienti a cui preparare il caffè e perciò mi accostai a lui, piegandomi sulle ginocchia e gli sorrisi. Mi sorrise anche lui, un sorriso vero! Non un sorriso finto come quello che si ha stampato in faccia scartando i regali di parenti lontani a Natale. Era un sorriso pieno, forte, sincero, spudorato. Allungò le manine e toccò le mie guance mentre sorrideva gioioso. Lì capii che forse dovremmo avere meno paura di guardare, osservare o anche studiare le persone. Perché non si può essere liberi di interagire con chi ci pare per quanto tempo vogliamo? Siamo noi i fautori delle domande che ci poniamo e chi ci circonda ha le risposte. Non solo nelle parole, ma anche negli occhi. La giovane donna salutò e uscì dal bar con il passeggino e io mi sentivo veramente bene. Dopo quel giorno cominciai ad osservare in modo accurato i volti e gli atteggiamenti delle persone, cercando in un certo senso di tramutarmi in loro. Avevo trasformato la realtà in un grande spettacolo di cui ogni persona mi capitasse davanti era protagonista. Ognuno interpretava il proprio ruolo e io mi limitavo a guardare, a riflettere e a perfezionarmi. Passavano i mesi e mi accorgevo di guadagnare man mano sempre più autostima, per quanto riuscivo a spingere il mio pensiero oltre tutto il resto. Amicizie nuove non ne avevo fatte e perciò passavo la giornata in silenzio: sia in aula magna la mattina, che al bar il pomeriggio. Le uniche battute scambiate erano con i clienti al bancone o con Enzo, il proprietario del bar. Lo conoscevo sin da piccolo, era un caro amico di mio padre cheera trasferito a Napoli 15 anni prima di me in cerca di fortuna e con il sogno di aprirsi un bar. Anche grazie a lui mi ero deciso a lasciare casa, nessun altro avrebbe dato lavoro in una grande città ad un ragazzo sconosciuto proveniente da un arroccato paesino del centro della Basilicata. 49 Quando ero ai corsi, non facevo altro che interessarmi a ciò che si diceva in modo da non accumulare arretrato. Una mattina, appena finita la lezione di diritto penale, mentre rimettevo in borsa il quaderno con gli appunti, il mio silenzio e la mia concentrazione vennero messi duramente alla prova da una sottile voce femminile molto vicina a me. Mi voltai. «È un po’ che ti osservo, sai? Hai un’ aria molto misteriosa. Non hai amici con cui venire la mattina?» disse lei. In effetti,da quando ero arrivato a Napoli nessuna ragazza che non fosse stata una cliente, mi aveva mai rivolto la parola, perciò risposi imbarazzato mentre passavo le dita nervosamente tra i capelli: «Il pomeriggio sono impegnato a lavoro e la mattina vengo qui, non ho tanto tempo per gli amici». Appena messo penna e quaderno in borsa ci incamminammo insieme verso l’uscita dell’università. Una volta fuori parlammo della laurea in giurisprudenza e dei progetti futuri. Si chiamava Arianna. Mi risultava una conversazione piacevole e lei una compagnia perfetta. Ci rivedemmo anche nei giorni successivi. La prima domenica libera finimmo per pranzare insieme e per passeggiare più volte lungo la meravigliosa via Caracciolo. Ci godevamo insieme quella lieve brezza che faceva svolazzare il suo foulard. Ci gustavamo quello sfondo azzurro di cielo e mare che nel suo fondersi diventava celeste e poi bianco. Consideravo tutto perfetto, sin quando lei dal nulla, propose di salire a casa sua a prendere il caffè del dopo pranzo. Mai, al mio paese una ragazza avrebbe potuto propormi una cosa del genere, sarebbe subito stata considerata male e tutti l’avrebbero guardata con disprezzo. Mi sentii scosso e senza neanche capire il perché annuii. Salimmo da lei all’ ultimo piano di un belpalazzo in piazza Vittoria. Infilò lentamente le chiavi nella serratura, cercando di non far rumore. Girava piano, nell’incertezza della presenza o meno dei suoi genitori in casa. La porta non si apriva ancora, c’erano le mandate. La casa era vuota. Entrammo e come promesso mi avviai in cucina per preparare il caffè. Emozionato e un po’ scosso la guardavo intensamente mentre 50 si sedeva su una sedia di legno, di quelle pratiche, da cucina. Versai lo zucchero nel bicchiere e aspettai che uscisse il primo caffè, quello più denso e cremoso per mettercene giusto un sorso e creare la crema. Lei continuava a fissarmi mentre poggiava il suo gomito sul tavolo d’ acero e giocava ad attorcigliarsi i capelli con le dita. Mi fissava e io, impassibile nello sguardo, mi sfogavo sbattendo la crema nel bicchiere con un cucchiaino. Quel silenzio piacevole interrotto a poco a poco dall’ acciaio stridente sul vetro, mi faceva sentire irrequieto e ansioso nell’ incertezza del dopo. Il fischio della macchinetta catturò la nostra attenzione. Versai il tutto in due tazzine e aggiunsi la crema. Volevo che fosse il migliore che avesse mai assaggiato. Le piacque. Lo sapevo. Mi sedetti anch’io, vicino, e lei impassibile continuava a giocare con i suoi capelli castani mentre con l’altra mano accompagnava la tazzina calda alle sue labbra carnose rivestite dal rossetto. Il silenzio mi piaceva. Non c’era bisogno di parlare… Era la stessa sensazione di quando tutto ti sembra a posto. Di quando rispondi a qualcuno a tono, sicuro di te. Di quando consideri in una frazione di secondo, che ti piace lo svolgersi di una conversazione interessante. Io ero lì e mi sembrava tutto così giusto. Riflettevo su quante e innumerevoli potessero essere le conversazioni da introdurre, ma nulla poteva soddisfarmi più di quel silenzio. Mi godevo quei tre sorsi di caffè… Continuavamo a fissarci. Mi sentii scoperto, invaso, da quello sguardo che per qualche attimo sentivo nella mente. Lo sentivo cercare, frugare tra i miei pensieri. Ipnotizzato, cercavo di difendermi facendo finta di pensare ad altro. Tutto inutile. Era brava, capiva tutto. Ero in enorme difficoltà. La tensione aumentò e mi alzai con la scusa di aprire la finestra dal caldo di quella domenica di metà giugno. Pensai che se mi fossi avvicinato di nuovo così tanto a lei sarei caduto nella trappola, quindi preferii incrociare le gambe e poggiarmi accanto al piano cottura. Poi accesi una sigaretta e spostai le tazzine macchiate di caffè nel lavello. Capì che ero un po’ nervoso perché subito mi invitò a togliere le scarpe e mettermi comodo sul divano bianco di pelle, nell’altra stanza. Finii la sigaretta rapidamente, mi avviai in soggiorno e mi sedetti, lei rimase per un attimo in cucina mentre sciac51 quava le tazzine. Mi urlò da lì di iniziare ad accendere la TV di fronte a me. Era abbastanza grande, doveva essere un plasma da 42’’. Mi sedetti appoggiando un braccio al lato e l’altro in orizzontale tenendo quasi il retro del divano. La vidi uscire dalla cucina con il suo vestitino grigio, si intravedevano due gambe sode, colorite, depilate e prive di grasso, in una camminata che la rendeva irresistibilmente sexy. Manteneva lo sguardo penetrante e io mantenevo il mio. Si sedette al mio fianco e si voltò verso lo schermo. In tv, una fiction perditempo e poco interessante, di quelle che si vedono quando non si ha niente da fare, o per addormentarsi di pomeriggio dopo pranzo. Mi voltai verso di lei per chiederle che canale volesse vedere. Il suo viso abbronzato, gli zigomi alti, le sopracciglia poco folte, castane e curate. I capelli mossi, disordinati a furia di giocarci, e quegli occhi... Valevano più di una vincita alla lotteria, più di qualunque auto importante. Quegli occhi erano la più grande opera mai realizzata. Per lo più aggressivi e spudorati, ma a momenti teneri e compassionevoli, suggerivano una forte corazza all’esterno dettata da grande audacia e stima di sé. Mi fermai. Senza volerlo mi accorsi che ce l’avevo fatta anche io. Ciò che forse lei provava a fare pochi minuti prima con me seduta al tavolo della cucina, l’avevo appena fatto io con lei. Ero entrato dentro di lei, nel profondo, ed ora sapevo come uscirne alla grande. Non persi tempo, mi accostai a lei con respiro profondo, la baciai, sicuro di me, continuai. Sapevo già che non le dispiaceva. Le scostai i capelli accarezzandole il viso. Li spostai dietro l’orecchio che cominciai subito dopo a baciare, lentamente, per poi scendere sul collo. Continuai a sfiorarla con le labbra qualche minuto fino a quando mi strinse il polso di botto e mi guidò rapidamente in camera sua. Si tolse in un attimo il vestitino e io il bermuda beige, poi la camicia e rimanemmo entrambi in intimo. Esplodevo di felicità ammirandola priva di vesti e presi il comando della situazione posandomi su di lei con i gomiti poggiati sul materasso e il petto appena strusciante sul suo. Ripartìi. Incominciai a far scendere i miei baci lenti verso il suo petto mentre 52 mossi le mani per godere del suo corpo. Movimenti lenti e passionali che risvegliavano a poco a poco la sua sensibilità. Osservai per un attimo la sua testa volta all’indietro e il labbro morso dai suoi incisivi. Si catapultò su di me. Prese a baciarmi sulla bocca mentre la sua mano destra si spostava lentamente sul mio corpo con carezze estremamente piacevoli. Quella ragazza che si stava prendendo cura di me era in quel momento tutto ciò che avevo sempre desiderato, era lei, la ragazza dei miei sogni. Quella intrigante, audace e piena di sé, quella bella, con cui ogni discorso vale oro e ogni silenzio diventa ancora più eloquente... Quella ragazza mi aveva rapito. Più la guardavo perso negli occhi, mi veniva quasi voglia di piangere dalla felicità. Sempre movimenti lenti ma decisi. Continuavo a baciarla dappertutto e percepivo le nostre anime e le nostre menti fondersi in un qualcosa di grandioso e celestiale. Sentivo di amarla con tutto me stesso, sempre, in ogni attimo, l’amavo come fosse la migliore, l’unica. La baciavo e continuavo a godermi ogni istante, erano i più belli della mia vita. Sentivo l’odore delle nostre pelli confondersi. Interminabili attimi di pura felicità si susseguivano l’uno dopo l’altro. Due corpi, una sola anima. Alla fine ci abbandonammo soddisfatti, ansimanti e sudati. L’abbracciai, forte. Non ci parlammo ma finimmo per fumare entrambi godendoci il soffitto bianco. Fu proprio in quel momento che pensai a mio padre e a come mi ripeteva sempre di non far passare mai nessun giorno della mia vita senza aver imparato qualcosa, anche la più futile. Sussurrai a bassa voce “Oggi ho imparato ad amare, papà”. Napoli mi aveva segnato irrimediabilmente. Scrutando le vite delle persone che passavano al bar e leggendo i loro pensieri ero cresciuto, maturando consapevolezze sempre più profonde. Il contesto di quella città in così poco tempo mi aveva prima affascinato e poi conquistato. L’aria di mare e l’odore di caffè, lo strano dialetto e i ragazzini che giocavano a pallone per strada, mi cullavano in soffici manti di emozioni impagabili. Sapevo di non poterne più fare a meno. Ero diverso, sicuro 53 di me. Ma soprattutto, Napoli mi aveva fatto conoscere l’amore di una ragazza che riusciva a farmi sentire realmente completo e amato. Forse fino a quel momento ero vissuto soltanto in attesa di certezze su cui fondare il mio futuro. Ma Napoli nella sua straordinaria generosità me le aveva regalate senza che io gliele avessi chieste. Ora avevo tutto ciò che mi serviva per andare incontro al destino. 54 Nel silenzio del tramonto Vittorio Mocerino Il cielo era di un viola spietato, pronto a trasformarsi in blu scuro prima del necessario. “Presto farà buio, devo arrivare prima del tramonto” pensò. Nonostante il sole illuminasse ancora la via, le luci dei lampioni si accesero improvvisamente. Adesso riusciva ad intravedere meglio l’entrata del cimitero. Incominciò a correre verso l’enorme cancello e proprio mentre stava per varcare la soglia si bloccò. Fermo, immobile, guardava dinanzi a sé come se avesse visto un fantasma. Stava avendo un ripensamento, nulla di cui preoccuparsi seriamente. Negli ultimi tre anni non era mai riuscito a varcare quella soglia, aveva timore di non reggere il peso di quegli occhi. Quegli occhi azzurri e privi di cattiveria. Gli occhi di una bambina innocente, morta a causa sua. Terrorizzato e abbattuto era pronto a ritornare indietro, anche oggi la sua impresa non sarebbe riuscita. Un raggio di sole lo colpì in pieno volto, incominciò a intravedere il sole rosso che si nascondeva dietro l’orizzonte. Pensò a quel tramonto e alla promessa fatta. Il suo sguardo mutò improvvisamente. Ritemprato da quei pensieri si diresse a passo deciso verso il cancello, e lo oltrepassò. Ettore dormiva beatamente nella penombra della camera da letto. Sua moglie Elena era da pochi minuti sveglia e lo guardava attentamente. Riusciva a intravedere le spalle muscolose segnate da tanti anni di pallanuoto e con un dito le sfiorava dolcemente. Ettore riprese coscienza lentamente, sentiva il soffice tocco di sua moglie e senza dire una parola si girò e prese tra le mani il viso di Elena, i suoi occhi azzurri splendevano come la prima volte che li vide. La baciò con passione, i loro corpi cominciarono ad avvicinarsi sempre più come se fossero stati fatti per stare uniti. Poi un telefono cominciò a squillare, uno scampanellio acuto che rimbombava per tutta la casa. “Chi può mai essere a quest’ora?” si chiesero entrambi. Ettore prese il telefono e rispose: “ Pronto?” - “Buongiorno Ettore!” Il forte 55 accento inglese del capo Rick era inconfondibile “Scusa per l’orario ma voglio che tu venga immediatamente in sede, meglio non parlare al telefono”. Infine aggiunse “ Ah Ettore, quasi mi ero dimenticato, buona Pasqua” poi richiuse. Il silenzio scese trai due amanti, fu Elena dopo un po’ di tempo a romperlo: “ È proprio necessario che tu vada a lavoro? Potresti dire a quel tuo brutto capo che non ti senti bene ma ti prego resta con noi”. Ettore non rispose. Aveva gli occhi rivolti verso le lenzuola, era immerso profondamente nei suoi pensieri. L’atmosfera d’amore e di passione precedente era scomparsa definitivamente. Elena prese nuovamente la parola: “È da tempo non dedichi neanche un minuto alla famiglia, sei sempre in quell’ufficio a lavorare, Desiree sente la tua mancanza, io sento la tua mancanza.” Il nome di sua figlia lo fece evadere dai suoi mille pensieri, guardò Elena con un’aria determinata: “Lo faccio per la piccola, per te, per tutti quanti. Adesso non posso spiegarti i dettagli ma fidati di me, è per una causa giusta”. Una lacrima si fece strada sul volto di Elena, poi una seconda. Lo sguardo di Ettore si addolcì, le spostò i capelli biondi che le coprivano il viso, asciugò le lacrime con la sua mano e infine si chinò e le diede un bacio. Lei gli sorrise e aggiunse: “Non fare tardi”, poi si rimise sotto le coperte a dormire. Ettore guardò l’orologio, le lancette segnavano le cinque e quaranta. “Non penso che a quest’ora ci sia traffico, per le sei dovrei arrivare in ufficio”. Si preparò in fretta e furia ma senza trascurare la dovuta eleganza della giacca e della cravatta. Si guardò allo specchio per l’ultima volta: i capelli castani corti erano al loro posto, la barba era come sempre poco folta e curata alla perfezione. Prima di uscire di casa, però, passò per la camera della figlia Desiree. La vista di sua figlia gli strappava sempre un sorriso. Dormiva come un angioletto vicino al suo peluche. Si avvicinò alla piccola e la baciò sulla fronte, poi se ne andò e chiuse la porta. Uscì di casa che erano le sei meno dieci e si avviò verso la sua automobile. Il sole non era ancora sorto ma il cielo stava perdendo oscurità per dar spazio alla luce. Quella mattina andare a lavoro fu diverso, non c’era tutto il caos che contraddistingueva gli altri giorni lavorativi ma vi era una pia56 cevole quiete. Ogni mattina si faceva un lungo tratto di strada da piazza Vanvitelli fino all’ufficio in via Caracciolo e in quel lasso di tempo ammirava la sua bella Napoli in tutte le sue sfaccettature: l’ordine e l’eleganza del vomero, la caotica Salvator Rosa, il lungo e bellissimo corso Vittorio Emanuele e infine quel lungomare spettacolare. Ettore era legato come nessun altro alla sua città e non voleva difenderla a tutti i costi. All’età di dodici anni si era trasferito a Londra con la sua famiglia per motivi di lavoro ma il legame con Napoli non si era mai spezzato. Quando a ventiquattro anni si laureò in scienza della criminologia conobbe Rick, il suo capo. Lavorarono insieme per diversi anni fino a quando quest’ultimo non fu trasferito a Napoli per condurre un’indagine di grande importanza. Ettore continuò a lavorare nella capitale inglese per altri tre anni, facendo molta esperienza e guadagnando una bella reputazione nel settore. Poi la chiamata. “Pronto parlo con Ettore?” La voce gli era familiare ma non riusciva proprio a capire chi potesse essere. “Sì sono io, ma chi parla?” rispose Ettore un po’ confuso. “Che tristezza! Neanche il suo vecchio capo riconosce” Disse ridendo. La conversazione durò a lungo, in fondo erano diventati grandi amici lavorando insieme, ma ad un tratto Rick arrivò al punto: “Mi fa piacere che ti sia trovato bene nella mia bella Londra, ma… che ne diresti di tornare a Napoli per lavorare con me? Si è appena liberato un posto e sei stata la prima persona a cui ho pensa...” - “Accetto subito”, rispose Ettore prima che l’amico riuscisse a finire la frase. E così dopo circa venti anni dall’ultima volta era ritornato a vivere sotto lo sguardo dormiente del Vesuvio. Arrivò puntuale in ufficio e si diresse subito dal suo capo. Bussò alla porta e dopo aver sentito “Avanti.” la aprì ed entrò. Vide Rick seduto dietro la scrivania che gli fece segno di accomodarsi. Ettore era pronto a qualsiasi cosa, lo sguardo dell’amico inglese era pesante, la tensione era palpabile, passarono dei secondi prima che parlasse poi iniziò: “Ettore sei sempre stato un fedele amico e un grande collega, penso che tu sia pronto per questa prova. Già tempo fa ti accennai di una missione che sto compiendo da quando sono ar57 rivato a Napoli. Adesso è tempo che tu sappia ogni dettaglio di quest’ultima. Ho bisogno del tuo aiuto.” - “Sono pronto ad accettare questa missione” rispose Ettore con sicurezza. “Abbi pazienza, ascolta con attenzione tutto ciò che sto per dire e poi rispondimi”. Dopo un lungo sguardo riprese il suo discorso: “Sono diversi anni che l’intelligence americana ha stabilito una sua base qui a Napoli per monitorare alcuni movimenti sospetti da parte di camorristi, sospetti fondati” - “Perché mai gli americani dovrebbero interessarsi a questioni tra camorristi?” - “Perché non si tratta del solito spaccio di droga intercontinentale o della faida tra bande, si parla di cose grosse, si parla di chili plutonio da vendere ad Al Qaeda! Gli americani sono subito intervenuti ed ne hanno discusso con la Nato durante un convegno straordinario. Hanno discusso per vari giorni e infine hanno trovato una soluzione. Eliminare per sempre tutti gli esponenti della camorra in un unico giorno. Li hanno classificati come terroristi, vogliono tutti morti.” Lo sguardo di Rick era gelido. “È una follia, non può essere. Ci vorrebbero migliaia di agenti specializzati, anni di ricerca spionistica, non dovrebbero trapelare notizie all’esterno e poi…” Ettore fu bloccato con un segno della mano di Rick. “Milleottocento agenti provenienti dalle file delle migliori organizzazioni militari del mondo, in sei mesi abbiamo localizzato tutti gli obiettivi. Non si sono sparse voci perché gli enti locali non sono stati presi in considerazione. Questa notte alle tre guiderai una squadra di cinque agenti per eliminare due importanti boss. Adesso a te la scelta”. Ettore rimase spiazzato, non poteva credere a quelle parole. Poi tutta la tensione accumulata sul suo viso si trasformò in un grande sorriso: “Staniamoli tutti a quei bastardi!” Arrivò a casa verso le sei, aveva passato la Pasqua a pianificare la strategia per quella notte, adesso aveva solamente voglia di dedicarsi alla sua famiglia. Entrato a casa vide la sua bambina: aveva il suo solito peluche con sé, lo guardava con quegli occhi azzurri che Ettore amava più di ogni altra cosa al mondo. In pochi istanti tutta la tensione e i brutti pensieri si dispersero, voleva passare tutta la serata a giocare con la sua piccola Desiree. 58 “Sono le due, cinquantadue minuti e trenta secondi... Siete nel luogo stabilito?” Rick parlava alla ricetrasmittente. Seduto sul sedile posteriore dell’auto nera poco lontana dalla villa, Ettore era pronto a confermare: “Si signore, pochi minuti e l’operazione avrà inizio. Passo e chiudo.” La pioggia era forte, l’aria fredda ma Ettore sudava sotto il giubbotto antiproiettili. “Entreremo in azione alle tre in punto. Non attiriamo l’attenzione, questa pioggia ci nasconderà. Ricordate di eliminare subito il bersaglio, potrebbe essere armato.” Ettore e i suoi uomini aspettavano solo che le lancette segnassero l’ora stabilita per uscire allo scoperto e compiere la loro missione. Mentre le lancette scattavano sempre più lentamente, un vortice di pensieri invasero la sua mente. Pensava alle lacrime versate da sua moglie quella mattina e immaginò le lacrime che avrebbe potuto versare se quella missione fosse andata storta. Poi l’immagine di sua figlia, gli occhi erano diversi. Tutta la luce che li caratterizzava e li rendeva speciali era sparita per lasciar spazio a oscurità e lacrime. Un tuono lo fece sobbalzare, diede uno sguardo all’orologio: l’ora era giunta. Scesero di corsa dalla vettura e si avviarono verso il cancello che portava al giardino. “Sparate ai cardini laterali e alzate senza fare rumore.” ordinò Ettore. Due agenti eseguirono l’ordine con i loro fucili d’assalto silenziati. “E la prima parte è fatta…” pensò. Si avviarono verso l’edificio attraverso un viale in pietra centrale fiancheggiato da una serie di enormi colonne doriche. La pioggia aumentò di intensità coprendo il rumore dei loro passi che oramai avevano raggiunto l’ingresso. “La casa è enorme, avranno sicuramente qualche passaggio segreto per fuggire, non dobbiamo farci vedere né tantomeno sentire fino a quando non saremo faccia a faccia con l’obiettivo.” poi, dopo aver ripreso fiato, continuò: “Sfrutteremo il rumore di un tuono per rompere una finestra, Harry entrerà ed aprirà la porta agli altri”. Non appena Ettore terminò la frase, un fulmine si scaglio non lontano da lì, Harry corse subito verso la finestra e, proprio nel momento in cui il suono del tuono raggiunse la casa, ruppe la finestra con il calcio del fucile. La porta dopo pochi secondi si aprì e il resto del team fece 59 irruzione nella casa. Ettore la osservò per qualche attimo e con pochi gesti indicò a tutti che strada prendere: si dividevano. Avanzò lentamente e con il fucile puntato in direzione delle scale e cominciò a salire. “Probabilmente le stanze da letto si trovano al piano superiore”, pensò. Salite le scale, si ritrovò dinanzi a un lungo corridoio buio, si fece coraggio e avanzò. La prima porta a sinistra era socchiusa e notò subito che era un bagno. Continuò a camminare, i suoi occhi si erano adattati all’oscurità e riusciva a vedere altre due porte davanti a sé. Poi un rumore, la maniglia di una porta cigolò. Ettore puntò l’arma verso la seconda porta, pronto a far fuoco, e intravide una sagoma, l’indice poggiato sul grilletto. Una bambina uscì dalla porta con un orsacchiotto in mano. “Dio mio stavo per ucciderla!” Ettore abbassò l’arma e corse subito verso di lei. Un attimo prima che le tappasse la bocca, la bambina emise un grido acuto. Un’altra porta si spalancò con violenza e un uomo in boxer e maglietta bianca uscì con una pistola tra le mani. Ettore alzò subito la sua arma, non in tempo. L’uomo aveva già sparato una raffica micidiale di colpi. Via Roma era affollatissima, migliaia di turisti invadevano le strade e il sole brillava alto nel cielo. Ettore, insieme alla sua famiglia, si dirigeva in piazza del Plebiscito per assistere al discorso del nuovo sindaco di Napoli. Il discorso era iniziato da un pezzo e riuscirono ad ascoltare solamente l’ultima parte. “Sono ben due anni che la camorra è stata sradicata dalla nostra bella città e le conseguenze sono visibili a tutti. Migliaia di aziende investo ogni anno nella nostra città, offrendo posti di lavoro e benessere a tantissimi cittadini. Migliaia di studenti lasciano i propri paesi d’origine per venire a studiare nelle nostre meravigliose università! In soli due anni, con grandi impegni e sacrifici, abbiamo reso questa città, ex capitale dei rifiuti e della corruzione, la città più visitata e bella del mondo!” La folla urlava ed esultava, il sorriso e la gioia invadevano quella piazza… non per un uomo, non per Ettore. Riaprì gli occhi. Era disteso sul pavimento e guardava il soffitto di quel corridoio oscuro. “Non sono morto!” pensò. Un dolore intenso al petto rese arduo alzarsi in piedi. Poi lo vide, quell’uomo era 60 disteso a pancia sotto sul pavimento, in un lago di sangue. Quattro proiettili lo avevano colpito dietro la schiena. Harry era all’altezza del bagno con un fucile tra le mani. Era stato lui a sparare al camorrista e a salvare la vita ad Ettore. Quest’ultimo però notò del sangue sul suo giubbotto antiproiettili ed impaurito si girò indietro. La bambina era a terra. L’orsacchiotto era zuppo di sangue. Aveva due fori, uno in pieno petto e l’altro in prossimità del cuore. Ettore si avvicinò tremante, le mise una mano dietro il collo e la osservò: era ancora viva, ma non sarebbe sopravvissuta a lungo. L’uomo scoppiò in lacrime. La bambina aprì gli occhi, erano azzurri e splendenti come quelli di sua figlia Desiree. Mentre sputava sangue pronunciò le sue ultime parole: “Papà qui è buio… voglio il tramonto…” - “Ti prometto che lo vedremo insieme.” disse l’uomo guardandola negli occhi. Poi quegli occhi si spensero. Ettore correva, non voleva che il sole tramontasse prima di averla trovata. Correva in quel dedalo di tombe cercando disperatamente la foto della bambina. Molte persone stavano uscendo dal cimitero, aveva poco tempo. Smise di correre. Una tomba fu improvvisamente illuminata da un raggio di sole. L’aveva trovata. La croce era adornata da una marea di fiori e lumini che quasi nascondevano la foto della ragazza. Ettore piegò le ginocchia e incominciò a parlare: “Perdonami se ho impiegato tre anni a venire, ho avuto molta paura. Sono arrivato, è il momento di guardare il tramonto insieme”. L’uomo con le lacrime agli occhi si girò verso il sole, la sua luce era bellissima. Dopo circa tre anni Ettore si sentì nuovamente felice. Spostò alcuni fiori per guardare meglio la bambina e rimase molto colpito. Quella bambina gli stava sorridendo, un sorriso che non aveva mai avuto il piacere di vedere, ma che da quel momento non avrebbe mai dimenticato. 61 La strada giusta Marisa Pesaola Forza. Libertà. Volontà. Chiunque ci veda passare, ci riconosce in queste parole. I piedi si muovono con solenne costanza, superandosi a vicenda a ogni passo, eppure non sto semplicemente camminando. Trascino pensieri, mi lascio governare da risolute speranze stanche di essere astratte proiezioni di una comune insofferenza. Sono un granello d’idea mosso da un’immensa ondata di gente che bagna via Toledo. L’anima si mischia al corteo, si unisce ai cori gridando con la voce di tutti, urla e alzate di mani sono amalgamate in quell’aria che oggi sceglie il profumo dell’agitazione. Siamo il movimento di un unico corpo, siamo l’espressione di un’unica voglia, siamo il volto di un unico pianto. Oltrepassiamo lo sguardo eterno della statua di Dante, i palazzi protesi sulla Ztl, il monumento incombente su piazza Carità. È una sacra processione in onore di possenti, intime radici. Ho difficoltà a distinguere gli odori tra le piante umide della pioggia del giorno prima e gli aromi allacciati alla gente. Chiudendo gli occhi, prevale il muschio, abbarbicato ai presepi e alle vecchie pareti, quando non mi prende la stretta allo stomaco di quello che viene cucinato. Pizza, panzarotti e sfogliatelle sbucano da bar e ristoranti, paralleli alle fragranze casalinghe del ragù e della genovese, quelle che conquistano i vicoli per giorni. Osservo le persone che mi circondano, e sono tutte alla pari, parti uguali e indivisibili di qualcosa di grande. Immagino che ognuno di loro abbia motivi più che validi per combattere, per protestare, per provare a cambiare le cose. Chiudendo gli occhi, posso fingere di essere immobile, ad aspettare che qualcun altro difenda la causa al posto mio. Eppure la magia è proprio in questa danza a cui contribuisce ogni singola parte. Ogni sguardo trasuda frammentari riflessi di ribellioni personali, che in realtà appartengono a tutti. 63 Giro la testa e vedo la mia ribellione farsi strada in un’aura sorridente di tenace dignità: mio fratello Dario, con un megafono tra le mani, accalorato dal coro che sta guidando, e mia madre, che spinge la sua carrozzina, le spalle dolcemente curvate e l’andamento fiero. Non possiamo permetterci di pagare il diritto alla vita che il nostro stato dovrebbe garantirci. Nuovi tagli alla sanità e alla ricerca scientifica, la scomparsa dei fondi per adeguare Napoli ai portatori di handicap, assistenza quasi nulla alle famiglie. E allora noi tre siamo qui. Dario per riprendersi la città che gli viene negata, mia madre per sostenere la sua determinazione, ed io. Io, i miei vent’anni sudati, la piccola camera traboccante di libri, sempre insufficiente lo spazio per la cultura nascosta tra i vestiti. Io, mille strade nelle gambe, mille fantasie negli occhi, mille dubbi nelle unghie rosicchiate, mille lacrime abbandonate in gola. Io, l’amore per le passeggiate consumate strisciando lungo le mura e le storie di Partenope, e l’odio al solo pensiero di trasferirmi. Io non sono qui soltanto per mio fratello, per mia madre, né per le innumerevoli ragioni della manifestazione. Sono qui per ritrovare la terra che amo, i profumi agrodolci e i sapori mediterranei, quella frittura mista di tradizioni e continue metamorfosi. Sto tirando avanti perché Napoli m’incanta, mi attrae, mi scaccia e mi richiama nel suo ventre tormentato ogni giorno. Ogni giorno si aggrappa a me, unghia contro carne, i muscoli tesi e la mente offuscata da incessanti martiri. Mi graffia, se ne pente, mi pulisce le ferite e mi culla con la sua tarantella spaurita e audace. M’infiammo, e s’infiamma il corteo. I quartieri spagnoli, la galleria Umberto I, la funicolare e il teatro a piazzetta Augusteo, la fontana davanti il San Carlo sembrano avere il fiato sospeso, come se volessero farsi da parte per incoraggiare il nostro irrefrenabile cammino. La gente ci osserva, affiorando da portoni avvizziti o da balconi angusti, sbirciando oltre le vetrine dei negozi. Chi non si unisce a noi, di sicuro non ci ostacola. Il sole stesso ci accompagna, e per una volta sembra tutto inatteso, più giusto. Carabinieri e poliziotti non sono il nemico, l’avanguardia pronta al sacrificio dell’esercito rivale, non 64 oggi. Sono parte di noi, sono fratelli, e padri, e figli, e amici, e amanti. Sono napoletani, come Dario, come mia madre, come le mani sventolanti del corteo. Come la ragazza a destra, tutta piercing e tattoo, che fende l’aria con una bandiera, o come l’operaio alto il doppio di mamma che si offre di aiutarla a guidare la carrozzina di mio fratello. Come il vecchietto che ci aspetta all’ingresso del Palazzo Reale in piazza del Plebiscito, perché ieri la mia ostinata energia l’ha convinto che vale la pena accodarsi, o come sua moglie che gli prepara il pranzo lamentandosi dell’osteoporosi. Napoletani come me, a dispetto di tutto, innamorati di Napoli come me. Pacifici guerrieri di truppe diverse, ricopriamo il nome della città di speranza, trepidazione, comune insofferenza, in un disperato sguainato baccano. E non c’è pacifico guerriero migliore di Dario. Mio fratello, con il carattere coraggioso e l’indole gentilmente schietta, è la persona più brillante che conosca. I tre anni di differenza che lo rendono primogenito mi hanno insegnato valori di altri tempi, i suoi occhi fumosi come un vecchio film neorealista mi hanno cresciuto a pane, amore e fantasia. Abbracci vigorosi e rassicuranti mi hanno sorretto quando mi sconvolgeva l’assenza di un padre mai conosciuto. Le sue mani grandi mi hanno rivelato un modo inconsueto, particolare, per ammirare il mare, lasciando penetrare in ogni cellula dell’essere la melodia della sabbia macchiata di sole. La voce di Dario ha il dono di ammaliare, affascinare, forgiare il vento convincendolo di essere un gabbiano. Ed è la sua voce a trainare la manifestazione, a condurre assordanti migliaia di passi con un’imponente andatura, sincronia di mondi disparati, e quasi posso percepire il rumore delle sue parole bussare alle porte dell’indifferenza. Forza. Libertà. Volontà. Aleggiano tra i corridoi all’università e sulle sedie in biblioteca, rischiarano le espressioni fiacche e scuotono la polvere addormentata sulle coscienze. È circa un mese che non si parla d’altro: lo sciopero nazionale più grande da quando se ne ha memoria, di cui Napoli è stata inconsapevolmente eletta leader. La mia città, la nostra città, questo luogo enigmatico che non garantisce nulla, disposto a regalarti la meraviglia del caos in cui 65 piombi. Un paradosso vivente, la contraddizione per eccellenza, è ora teatro di una svolta, di un “Basta!” che s’impone umile in ogni anfratto. Il passato le mette una mano sulla spalla guardando il futuro dritto negli occhi, e sa che Napoli può farcela. Può far esplodere le bombe seppellite da anni sotto un velo di omertosa insensibilità, può condurre un paese intero verso l’esile solco che lo separa da una civiltà migliore. E lo sappiamo tutti, mentre marciamo verso il mare, che questa volta non è come le altre. Questa volta funzionerà. Ci basta un’occhiata alla meraviglia della natura intorno a noi per saperlo. Il golfo soffice delle forme del Vesuvio è il morbido sfondo di un’ostinata camminata, l’incipit di un viaggio. I tavolini salmastri dei bar in via Caracciolo osservano il nostro passaggio, gli scogli attendono lo scorrere del clamore d’idee e progetti pronti a trasformarsi in realtà. Do uno sguardo a mio fratello, poi torno con gli occhi lucidi al viale e aspetto il flusso di ricordi che mi legano a quel luogo. Io e Dario sul pedalò qualche estate prima, o le gare di velocità sui pattini, o i coni gelato gocciolanti di risate e cioccolato. E poi gli ultimi tempi, le passeggiate tranquille, lui con un libro sulle gambe ed io dietro la sua carrozzina, fino alla spiaggia. Ci stendevamo sulla sabbia e sprofondavamo in Proust, Calvino, Tabucchi, La Capria, Rodari. Così potevamo concederci di trascurare per un po’ la frustrazione e la delusione, di assaggiare la salsedine e il riverbero luminoso delle onde. Molte cose sono comunque rimaste invariate dopo l’incidente che due anni fa lo ha paralizzato. Come il nostro appuntamento fisso mai rimandato, il 22 di ogni mese, da piazza dei Martiri dritti in libreria, godendoci un giretto a Santa Lucia e qualche volta un caffè freddo con macarons al Gambrinus. Sin dall’inizio avevamo scelto il giorno 22 perché nella smorfia napoletana questo numero indicava ‘o pazzo, e noi due ci siamo sempre reputati fuori dal comune, non senza un certo orgoglio. Pure le tombolate in pieno agosto sono ancora una piacevole abitudine, inventando storie divertenti, o le partite a tressette sul tavolino tarlato nella camera di mamma, tra battute e sfortuna sfacciata. 66 È anche per questi ricordi che oggi stiamo sfidando un destino inaccettabile. Stiamo affrontando i tabù per distruggerli, la sorte per riscriverla. Stiamo attraversando le viscere che ci hanno generato, portando con fatica l’affanno di una terra gravida di simboli e luoghi comuni. Stiamo plasmando una possibilità che vale molto. Vale per me, per Dario, per mia madre, per la ragazza con la bandiera, per l’operaio gentile, per i due vecchietti inseparabili, per quell’unico corpo che invade e pervade la strada. Forza. Libertà. Volontà. Chiunque parlerà di noi, ci ricorderà in queste parole, perché di queste parole stiamo cambiando il significato. Stiamo sfilando tra bellezza e orrore, impregnando a spicchio a spicchio Napoli per farla riemergere dallo sconforto. Stiamo avanzando verso la strada giusta, verso la città del futuro. La nostra città, nel nostro futuro. 67 Pasta la revoluciòn, siempre Lorenzo Porcelli Il piano aveva funzionato alla perfezione. Sarebbe stato scalpore e scandalo nazionale. Il trascendentale manifesto ro’ Dittator era stato oltraggiato. Sicurezza inutile, elusa in poco tempo: due stencil e cinque bombolette. Ora l’inquietante immagine appesa dal palazzo reale, simbolo della dittatura, aveva assunto un tono ben diverso: nella mano destra gli era magicamente apparsa una forchetta e , sotto, un piatto di spaghetti, simbolo del popolo napoletano. Sotto c’era una scritta fatta frettolosamente : Pasta la revolucion, sempre. Semplice, ma efficace. I napoletani erano diversi, diversi da com’erano un tempo. Quarantasette anni di dittatura, dopo la Strage dei Rifiuti, avevano bruciato ogni speranza. La gente non voleva più scendere in strada. Aveva paura. L’aria di mare era stata sostituita da quella stantia delle tossine che oramai infestavano tutto il territorio cittadino e quello circostante. Ogni attività aveva dichiarato fallimento: nessuno veniva più a Napoli. Ma nessuno neanche usciva. La tirannia ro’ Dittator era ferrea. Quarantasette fatidici anni prima, circa una settimana dopo l’esplosione terribile dei sedici inceneritori di rifiuti cittadini che aveva fatto marcire la città definitivamente, quell’uomo era venuto fuori così, dal nulla. Con le sue truppe paramilitari, promettendo di aiutare il popolo oramai abbandonato dallo stato, velocemente aveva preso il potere e occultato diabolicamente ogni problema, mostrandosi alla gente come un profeta, un salvatore… Ma quei paramilitari, lentamente, erano diventati macellai al servizio del suo enorme po69 tere; stroncavano inesorabilmente nel silenzio, insieme con la vita, le idee e le parole di quelli che avevano capito che in realtà Napoli aveva accolto un altro millantatore. Quarantasette anni di esecuzioni, condanne, terrore, reclusione. Alcune case furono distrutte e molta gente, non avendo un posto dove stare, scendeva e vagabondava per strada. Ma le tossine erano così potenti che bastavano due giorni di inalazioni che il sangue ti usciva da tutti i pori. Le vie divennero mattatoi a cielo aperto. Ma o’Dittator era buono, concedeva un respiratore ed una bombola di ossigeno al mese ad ogni famiglia per non privare il suo amato popolo della libertà di uscire. Solo un respiratore per nucleo familiare. In media ogni nucleo contava quattro, cinque o più persone. Una bombola di ossigeno per dieci persone fa dieci minuti di respirazione a testa. Ogni trenta giorni. I napoletani avevano sempre vissuto la loro vita all’esterno: un caffè, una chiacchiera con gli amici… ma ben presto capirono che fuori non potevano starci più. Allora presero una decisione che fu dura da accettare ma sembrò l’unico modo per sopravvivere: spostarsi giù, nell’altra Napoli…. Fu riscoperto e riattivato l’ antico sistema di sotterranei che correva sotto l’intera città. Così Napoli riprese a vivere un poco . I commercianti, i professionisti, i nullatenenti, gli scugnizzi, tutti si riversarono negli immensi cunicoli per ricercare la libertà di vivere che gli avevano tolto. Mancava il mare, il sole, il caldo ma il popolo si ritrovava di nuovo unito nel sottosuolo, nella rinata Napoli Sotterranea. Grazie a tutti gli ingegneri e agli operai, fu costruito un enorme sistema di illuminazione e di rifornimento idraulico. La gente tornò a sorridere. Ma non tutti. Non Tatore. Tatore aveva ormai diciassette anni e fuori non c’era mai stato, o almeno non lo ricordava. Poco dopo la sua nascita, suo padre fu individuato come un peri70 coloso dissidente e con lui tutta la famiglia. Sua madre, poco prima di essere catturata, riuscì a consegnarlo ad una donna che passava, una perfetta sconosciuta. Ma quella donna lo crebbe con amore, come avrebbe fatto la madre biologica finché ne ebbe la forza poi anche lei lo lasciò ma nelle mani amorose di un’altra donna, una che era sterile… Tutti ricordavano la gioia che si vedeva negli occhi della nuova madre che in quell’attimo di felicità aveva raggiunto lo scopo di una vita. Così Tatore, che aveva avuto ben tre madri, diventò grande in fretta: la gente lo conosceva in tutti i cunicoli e una delle tante cose che spesso si dicevano di lui era che, nonostante la sua giovane età, parlava e ragionava come un uomo fatto, forse perché era cresciuto così, sempre solo dentro. La notte rimuginava su tutto ciò che gli era capitato, se era giusto o no, e si chiedeva che cos’era giusto e se o’ Dittator per caso se lo chiedeva mai o se invece era sempre già sicuro di saperlo. Spesso si domandava se il tiranno avesse mai provato quello che la gente provava tutti i giorni lì sotto, se c’era un motivo in tutto quello che faceva. Se esisteva veramente un dio lì su. Dopo tante notti di insonnia passate a pensare, giunse alla conclusione che se mai fosse esistito un dio di sopra, chi sa dove, lo avrebbe aiutato a realizzare quello che aveva pensato… Sotto non puoi fare le delle cose che puoi fare sopra. Gli spazi sono decisamente ristretti: se sei un bambino, ad esempio, non puoi giocare a pallone. Devi trovarti qualcos’altro da fare. Alcuni imparavano teoria del ritmo per rallegrare gli animi degli altri, altri cercavano parole per descrivere quel poco che avevano attorno, mentre pochi avevano l’immaginazione per disegnare qualcosa che non avevano mai visto. Tatore era uno di questi. Dipingevano con gli spray che avevano portato dai vecchi negozi di sopra, tutti i cunicoli, riempivano e rallegravano muri umidi e tristi, donavano quel tocco di colore che faceva pensare al sole che mancava e la gente guardava e spesso sorrideva, così un semplice disegno riusciva a cambiare un poco la loro giornata buia. 71 Fu da questo che Tatore capì la forza che poteva avere una semplice immagine: forse poteva veramente ribaltare quel dannato sistema marcio che odiava e far scattare la rivoluzione. Fuori non c’era mai stato e non sapeva come comportarsi. Guardando quel poco di immagini sull’unica TV della città che si trovava di sotto e parlando con gli anziani, ormai troppo anziani per comprendere ciò che stava progettando ,iniziò a memorizzare i loro ricordi per fissarsi nella mente la struttura della città, a individuare i punti dove nascondersi, dove uscire e dove entrare, dove i Macellai facevano la ricognizione, i turni, le ronde e soprattutto dove erano le telecamere nascoste che controllavano tutto. Segnò ogni cosa su un quadernino non decidendosi mai a trovare il momento e il mezzo giusto per agire, fino a quando gli capitò di rivedere insieme ad un anziano un cortometraggio- tributo alla presa di potere ro’ Dittator. I Macellai alla fine, come estremo omaggio, affiggevano alla facciata del Palazzo Reale un enorme manifesto che ritraeva il loro leader in una posa tipicamente dittatoriale. Il filmato risaliva a quarantasette anni prima e nessuno in tutto il sotterraneo sapeva dirgli con certezza se si trovava ancora lì. Chi lo sapeva era morto da tempo. L’unico modo per verificare era uscire fuori. La possibilità era unica e significava privare qualche malcapitato del suo respiratore e del suo ossigeno. Non poteva cercare alleati, non lo avrebbero mai aiutato. Disegnare a mano libera significava portarsi dietro troppi spray e soprattutto aver bisogno di più or tempo Gli stencil andavano molto meglio: semplici e cinici. Dopo aver programmato ogni cosa, mentre tutti dormivano, diede un bacio sulla fronte alla sua ultima madre e si avviò verso il Tunnel Borbonico. Lo percorse tutto nel buio, con il fiato corto e la paranoia di ritrovarsi qualcosa o qualcuno di inaspettato davanti. Finalmente trovò l’uscita e, essendosi equipaggiato con respiratore e bombola, aprì la 72 botola che lo separava dal mondo reale... Appena l’aprì senti un odore nauseante e l’ultima cosa che ricordò fu una mano che lo strappava ad ogni esitazione e lo buttava fuori dalla botola. Dopo un iniziale stordimento, si accorse che aveva ancora il respiratore sulla faccia e la bombola dietro, ma la luce era fioca e il pallido plenilunio era l’unico aiuto per riuscire a distinguere le forme nel buio. Tentò di alzarsi ma poggiò le mani su dei frammenti di vetro e si lasciò scappare un flebile grido trattenuto quando si sentì afferrare e in un sibilo, chiare parole “Zitto! Ci farai scoprire!”. La voce era bassa ma dura e ben comprensibile e bastò un attimo per capire che aveva compagnia. “Eh? Chi sei?” “Rimandiamo a dopo le domande, abbiamo un piano da svolgere.” Un piano da svolgere?- Non aveva mai parlato a nessuno di cosa aveva in testa. “Seguimi, ti guido io.” Tatore si trovò a disagio, dovendo seguire qualcuno che non aveva nemmeno ben visto, ma capì che forse ne sapeva più di lui. Attraversarono la strada, e rifugiandosi nelle tenebre riuscirono ad arrivare fino all’ingresso dei giardini del Palazzo Reale. Era uno spettacolo macabro, c’erano ancora corpi di ribelli ormai in decomposizione, attaccati da stormi di corvi famelici, lasciati lì per suscitare terrore in chiunque avesse osato seguirne l’esempio: uscire fuori, gridare alla luce del sole che non era possibile vivere così, che Napoli non voleva morire… Tatore era rimasto sconvolto da ciò che aveva visto, quando finalmente sentì la tensione calare, ripropose la domanda. “Allora chi sei?” La figura misteriosa si tolse allora il cappuccio e nell’ombra Tatore fu felice di ritrovare un volto conosciuto. Era una ragazza che viveva nel suo stesso quartiere, lì sotto, una tipa taciturna ma sveglia. 73 “Pensavi che lì fossimo tutti idioti e che nessuno aveva capito cosa in realtà volevi fare?” Rimase basito. Non sapeva che rispondere, non aveva mai capito le donne, forse troppe madri…. “Ho trovato la tua idea semplice ma geniale, e quindi ho deciso di aiutarti. Non te l’ho detto subito perché sennò avresti mandato tutto all’aria. Conosco bene questo palazzo, se vuoi riuscire nella tua impresa ti conviene stare al passo”. Il silenzio prese di nuovo il potere e la ragazza iniziò a scavalcare il cancello. “Allora ti seguo” fu tutto quello che Tatore riuscì a mormorare. Quando furono entrambi dentro, iniziarono a correre ed era lui che seguiva lei. Le porte erano tutte aperte e c’era un solo uomo a controllare. Tatore fu preso dal panico, ma la ragazza con un guizzo gli scivolò alle spalle. “Strano,” disse Tatore “pensavo che avremmo trovato qualche difficoltà in più” “Mai dire mai” rispose la ragazza con il fiato corto. Giunsero alla scala che conduceva al tetto e salirono. Da lì nell’oscurità piano piano riuscirono a tirare su il manifesto. Pochi secondi e Tatore aveva il suo capolavoro su cui mettere mano. Velocemente tirò fuori dallo zaino gli attrezzi del mestiere: un poco di nastro adesivo, qualche spruzzo e nel buio entrambi riuscirono a sentire il debole riso di compiacimento dell’altro. Il piano aveva funzionato alla perfezione. Sarebbe stato scalpore e scandalo nazionale. Il trascendentale manifesto ro’ Dittator era stato oltraggiato. Sicurezza inutile, elusa in poco tempo: due stencil e cinque bombolette. Ora l’inquietante immagine appesa dal palazzo reale, simbolo della dittatura, aveva assunto un tono ben diverso. Nella mano gli era magicamente apparsa una forchetta, e sotto, un piatto di spaghetti. Simbolo del popolo napoletano. 74 Sotto c’era una scritta fatta frettolosamente: Pasta la revolucion, siempre. Semplice, ma efficace. Avrebbe sicuramente riacceso con una risata dissacratoria un poco di fiducia nei cuori dei napoletani. Tornarono giù silenziosamente e quasi empaticamente si avvicinarono l’uno all’altra, come se entrambi avessero capito qualcosa… Ma una luce accecante ed un rumore metallico li fecero regredire di quel poco che erano avanzati. Tatore aveva capito subito cosa li aveva fatti cadere nel sacco,si erano avvicinati troppo alle telecamere. “Fermi dove siete o spariamo a vista.” Erano circondati. Ma ci fu un guizzo e in un istante vide che la ragazza colpì tre di loro in un solo colpo e scappò dentro il palazzo. “Prendetela! Noi rimaniamo qua.” Tre delle sette guardie rimanenti si affrettarono per scendere a loro volta nel palazzo e rincorrerla. “Tu, mani dietro la testa, oppure te la facciamo saltare.” Era in trappola. Era circondato da quattro Macellai con il grilletto facile e caldo che sicuramente non avrebbero avuto pietà di un traditore ma cominciò lo stesso a correre con quel poco di fiato che gli rimaneva. Lo aveva capito, era tutto finito, però… come era bella Napoli, sotto le stelle... 75 GIORNALISMO GIURIA Ottavio Lucarelli, Massimo Milone, Armida Parisi GIORNALISMO Primo classificato Chiara Varricchio LICEO UMBERTO - III L Partendo dalla descrizione di una stazione della Metropolitana di Napoli, l’articolo constata che l’eccellenza a Napoli esiste e ipotizza, con dovizia di argomentazioni, che può diventare il volano di una concreta via di ripresa della vita economica e sociale. Secondo classificato Federica Palumbo Liceo Vittorini - IV M Parole intime e intense, pregne di sensazioni forti e contrastanti, narrano di una Napoli nascosta e preziosa che non si vende ma si dona solo a chi riesce ad accarezzarla. Terzo classificato Edoardo Rocco Liceo Tito Lucrezio Caro - I D Il mondo della solidarietà, presente in città con gruppi di volontariato molto attivi, è raccontato con vivacità e precisione. L’articolo sottolinea con vigore il valore dell’accoglienza inteso come motore per una convivenza pacifica fondata sull’inclusione. 78 Una nuova ripartenza per Napoli Chiara Varricchio NAPOLI - La stazione Toledo della metropolitana di Napoli è, secondo il quotidiano inglese “The Daily Telegraph”, la più bella d’Europa, vincitrice del premio Emirates leaf International award come “Public building of the year”. Progettata dall’architetto catalano Oscar Tusquets Blanca, arricchita dalle opere di William Kendridge, Bob Wilson e Achille Cevoli, la stazione di Toledo fa parte del progetto “Stazioni dell’arte” promosso dall’amministrazione comunale di Napoli volto alla creazione di un museo decentrato e distribuito sull’intera area urbana che si articola in 13 fermate sulle linee 1 e 6 della metropolitana, dove si possono ammirare 180 opere di 90 tra artisti e architetti di fama mondiale. Questo non è l’unico riconoscimento per il capoluogo campano che occupa anche il 16esimo posto della classifica grazie alla stazione di Materdei. Un’altra ripartenza, insomma, per la città di Napoli che così prova nuovamente a reinserirsi nel panorama culturale e sociale europeo. Sì, perché Napoli di opportunità per essere protagonista della scena internazionale mostrando le sue mille potenzialità ne ha avute tante, non tutte adeguatamente sfruttate. Tra i centri più importanti della cultura italiana, culla di intellettuali e sede di invenzioni e innovazioni che hanno cambiato il modo di vivere di gran parte della popolazione mondiale, Napoli ha sicuramente un passato glorioso, ricco di storia. Ma forse è proprio in questo mastodontico passato che la città è rimasta intrappolata, pietrificandosi come se non ci fosse un domani. Questa immobilità politica e sociale ha creato un terreno fertile per la proliferazione delle numerose forme di illegalità che attanagliano il nostro vivere quotidiano. È arrivato il momento di risorgere dalle ceneri, e sembra che la volontà collettiva di rimettersi in gioco dei napoletani sia forte e motivata dalla ricerca di un riscatto sociale agli occhi dell’Europa e del mondo. La metropolitana che ha puntato i riflettori 79 sul rinnovamento artistico della città deve essere preservata e valorizzata così come Metronapoli sta facendo, organizzando visite guidate gratuite per turisti di ogni nazionalità. Proteggere il nostro patrimonio culturale è indispensabile per costruire su basi solide il futuro della nostra terra, restituendo a Napoli il prestigio che merita così da trasmettere alle generazioni successive l’amore e l’orgoglio di essere napoletani. Un errore comune nella gestione della città, però, è di focalizzarsi su un unico soggetto del quadro, trascurando il resto del paesaggio e la cornice che lo circonda, che spesso sono abbandonati al degrado più totale. Monumenti importantissimi che ornano il centro della città sono rovinati da atti di vandalismo, così come i treni e le metropolitane adibite al trasporto pubblico sono diventati ormai la tela per i graffiti degli emergenti artisti di strada. Napoletano civile sembra essere quasi un ossimoro, ma con l’impegno e la perseveranza di chi tiene veramente al miglioramento della città possiamo auspicare un radicale cambiamento della situazione, vedere Napoli all’interno del processo di globalizzazione che freneticamente avvolge le nostre vite sotto una nuova luce, una luce di speranza e di rinnovamento, la luce della cultura volta alla sconfitta dell’ignoranza che genera illegalità e criminalità. I numerosi eventi internazionali che Napoli ospita, dall’ America’s Cup alla Coppa Davis fino all’attuale mostra di Andy Warhol, devono essere il trampolino di lancio verso un futuro più luminoso che punti sull’immenso patrimonio artistico e culturale di cui la città dispone e di cui i napoletani in primis devono prendere consapevolezza. Napoli ha ancora tanto da offrire al mondo, non c’è da meravigliarsi se artisti provenienti da ogni dove rimangano abbagliati dalla bellezza di questi splendidi luoghi e spesso sono proprio benefattori stranieri che finanziano opere pubbliche per il rilancio del turismo campano. Il treno è da sempre simbolo del progresso e in questo caso rappresenta la metafora perfetta per esprimere la nuova direzione verso la quale la città si sta avviando con la costanza e la fermezza di proseguire questo viaggio sfrecciando sui binari del futuro. 80 Una città proiettata verso il futuro Federica Palumbo Andy Warhol a Napoli, dal 18 aprile al 20 luglio, con centottanta opere che raccontano il rapporto tra l’incontrastato re della pop art e la città incontrastatamente ritenuta regina di pizza, camorra e immondizia. O forse no? Il vero e proprio boom di affluenza alla mostra, organizzata dall’associazione Spirale di idee e curata da Achille Bonito Oliva, noto critico d’arte, accademico e curatore italiano, sembra dirci qualcosa di diverso. Nei primi quattro giorni di apertura, si sono registrati ben 14.000 visitatori, accorsi in massa per poter ammirare la mostra “Andy Warhol “Vetrine”. “Il titolo della mostra - spiega Achille Bonito Oliva - nasce dall’esposizione al pianterreno di Palazzo Roccella di un nutrito gruppo di opere su carta tratto dalla serie Golden Shoes, realizzata da Warhol all’inizio della sua carriera nella Grande Mela quando, a metà degli anni 50, lavorava come grafico pubblicitario e vetrinista per i negozi di Madison Avenue”. Un successo senza precedenti e, senza dubbio, un segnale di ripresa, per una città in forte crisi e per il Palazzo delle Arti, che sul finire del 2011 era prossimo alla chiusura. La mostra, aperta tutti i giorni, escluso il martedì, dalle 9, 30 alle 19, 30 e la domenica dalle 9, 30 alle 14, 30, ospita ben 180 opere provenienti da musei, fondazioni e collezioni private, per fare spazio alle quali è stata necessaria un’ampia organizzazione delle attività del PAN. Grande forza e coraggio devono essere riconosciuti quindi a chi ha lavorato per portare questa mostra al Palazzo delle Arti, sapendo reagire ad un grave momento di crisi. 81 La mostra racconta il rapporto che l’artista istaurò con la città di Napoli, sin dalla sua prima visita del 1967. Wharol ritornò più volte nella città partenopea, dove strinse legami d’amicizia con importanti figure, quali il gallerista Lucio Amelio e Mario Franco. Anche grazie a tali amicizie Andy Warhol ottenne numerose commissioni di ritratti (esposti nella mostra) da parte di residenti della città. Proprio su commissione di Lucio Amelio, infatti, Warhol realizzò l’headline work “Fate presto”, reinterpretazione della prima pagina de “Il Mattino” pubblicato il 26 novembre 1980 (tre giorni dopo il terremoto in Irpinia). Con l’articolo si chiedeva un intervento tempestivo a soccorso delle vittime del sisma, evento che colpì particolarmente l’artista. Ancora una volta Warhol si ispira ai paesaggi di Napoli per la realizzazione della serie di lavori “Vesuvius”, nella quale il vulcano viene riproposto con colori accesi, diversi e contrastanti. L’artista infatti affermò: «Per me l’eruzione è un’immagine sconvolgente, un avvenimento straordinario ed anche un grande pezzo di scultura[… ]Il Vesuvio per me è molto più grande di un mito: è una cosa terribilmente reale». Tale rapporto tra l’artista e la città potrebbe sembrare apparentemente una forzatura, visto il contrasto tra il carattere prorompentemente contemporaneo dello stile di Warhol e il fatto che Napoli, tradizionalmente, è considerata come (e, perché negarlo, è a tutti gli effetti) una città antica, ricca di storia, ma allo stesso tempo chiusa nel suo mondo, dove in diversi casi la tradizione non è unicamente elemento di ricchezza, ma è legata ad una cattiva giustificazione di quella che si rivela essere nient’altro che arretratezza e chiusura. Spesso emerge la concezione di una città-isola, con un’identità tanto forte da configurarsi nell’immaginario collettivo come un mondo a sé stante. Una città da dove, spesso, chi è proiettato verso il futuro, potendo, fugge. Il successo della mostra sembra, però, lasciare intravedere uno spiraglio di ripresa: una tale partecipazione è sicuramente indice di una società interessata, pronta ad aprire gli occhi verso nuovi oriz82 zonti, a guardarsi attorno. Emerge quindi un rinnovato interesse per la cultura, fattore chiave nello sviluppo delle singole personalità e, attraverso queste, della società. I paesi più sviluppati hanno compreso tale legame tra formazione, sviluppo personale e evoluzione sociale, andando, pertanto, a incentivare e promuovere l’interesse per la cultura. Alcuni dei più importanti musei al mondo prevedono infatti ingressi gratuiti in alcuni giorni fissi, come il Louvre nella terza domenica del mese o per alcune fasce d’età (in molti paesi europei i minorenni non pagano il biglietto e i giovani fino a 24 anni hanno diritto a uno sconto). Senza arrivare a citare il caso limite di Londra, in cui per gran parte dei musei l’ingresso è gratuito per tutti i turisti. Le capitali di alcuni fra i paesi più avanzati al mondo sembrano aver compreso che una città proiettata verso il futuro, per raggiungere il traguardo ha bisogno di tutti. Anche Napoli si è dimostrata all’altezza rendendo possibile, grazie a un importante sponsor, l’ingresso gratuito durante i primi tre giorni della mostra. Tale successo lascia quindi ben sperare in un futuro migliore, possibile e non lontano anche grazie all’arte. Possiamo credere e sperare come afferma Achille Bonito Oliva: “La speranza è che la città capisca che la cultura può sviluppare reazioni a catena incontenibili e costruttive. Baudelaire diceva che la bellezza è speranza di felicità. E oggi anche a Napoli la speranza è quello che può bucare la bolla della finanza e può sviluppare un movimento sociale collettivo”. 83 Il futuro di Napoli ricomincia dalla solidarietà Edoardo Rocco Lo scorso 8 aprile si è celebrata la Giornata internazionale dedicata al popolo Rom, la più numerosa minoranza in Europa, circa 11 milioni di persone, l’unica etnia a non avere uno Stato di appartenenza. Alla vigilia di questa importante Giornata, la Comunità di Sant’Egidio ha organizzato un incontro a Napoli, nella chiesa di San Pietro Martire, per far conoscere i risultati della loro attività e le “buone notizie”, frutto dell’esperienza e dell’amicizia con i rom presenti in Italia. Napoli è stata scelta, hanno spiegato gli operatori di Sant’Egidio, perché è la seconda città in Italia per presenza di rom, circa 4.500 tra città e hinterland. Ma anche perché, rispetto alle problematiche dell’integrazione, racchiude in sé le contraddizioni di un percorso complesso e ancora tutto in salita: città accogliente da un lato, città intollerante dall’altro. A Napoli permane un forte pregiudizio nei confronti dei rom, hanno denunciato gli operatori di Sant’Egidio, richiamando nei loro interventi episodi di cronaca, anche recenti, che si sono verificati in città. L’ultimo è del 12 marzo scorso. Nella notte, nel quartiere di Poggioreale, una quarantina di persone ha assalito con urla, insulti e sassi i rom residenti nel campo di via del Riposo. Un vero e proprio raid, scaturito dall’accusa di una ragazza di 16 anni che, poco prima, aveva raccontato ai suoi genitori di essere stata molestata da due nomadi, mentre rientrava a casa. L’intervento della polizia ha evitato il peggio. La ragazza è poi stata visitata in ospedale e i medici l’hanno trovata in un forte stato d’ansia, ma dal controllo specialistico non sono emersi segni di violenza. Insieme all’episodio del campo di via del Riposo, è stato ricordato anche quello che ha avuto per protagonista Angelica, una altra giovane rom di 15 anni. La sua storia ha inizio il 14 maggio del 2008, quando i rom del campo di via Argine, quartiere Ponticelli, sono costretti ad abbandonare i loro precari insediamenti. La miccia 85 che fa esplodere la protesta popolare è una notizia di tre giorni prima: il tentato rapimento di una neonata del quartiere ad opera di una ragazza rom. Angelica Varga, in Italia da poco tempo, si dichiara innocente, ma viene condannata dal giudice perché di “etnia rom, dunque incline a compiere delitti analoghi”. Angelica è stata 3 anni in carcere a Nisida e un anno in una comunità di accoglienza nel Vesuviano. Scontata la pena, è tornata libera e ha scelto di abbandonare Napoli e l’Italia. Perché qui l’integrazione è lontana e il pregiudizio ancora dominante, ha detto ai suoi avvocati, quelli che con coraggio l’hanno assistita nella sua lunga odissea. La strategia europea per le etnie rom parla di lotta alle discriminazioni, a partire dall’ inclusione sociale. Ma come si fa a realizzare l’inclusione sociale, sostengono gli operatori della Comunità di Sant’Egidio, quando la maggior parte dei rom, decine e decine di famiglie con bambini piccoli e anziani, vengono lasciati vivere in catapecchie maleodoranti, circondate da cumuli di spazzatura, senza acqua per lavarsi. A Napoli, negli ultimi anni, alcuni campi sono stati sgomberati per essere sottoposti ad urgenti bonifiche. Ma le bonifiche non sono mai state fatte e i rom sono rimasti senza neanche più un ghetto nel quale stare. Chi ha provato ad andarsene ha incontrato le più intolleranti resistenze da parte delle comunità limitrofe e così la maggior parte di loro ha trovato sistemazione sotto i ponti di autostrade o nei parcheggi di grossi centri commerciali, dove sono sorte altre baraccopoli spontanee. Oggi a Napoli e nel suo hinterland, dei 4.500 rom presenti, solo 1.000 vivono in campi autorizzati, gli altri 3.500 occupano ancora insediamenti spontanei, privi di luce, gas e fogne. Il lavoro di chi quotidianamente si impegna per l’integrazione dei rom è come una corsa ad ostacoli che sembra non finire mai. Ma le buone notizie e “alcuni piccoli miracoli” presentati dagli operatori della Comunità di Sant’Egidio dimostrano che la battaglia contro discriminazioni e umiliazioni può essere vinta e che Napoli può diventare nel futuro una città molto accogliente. A partire da quello che tanti volontari stanno già facendo, soprattutto per l’istruzione e la salute dei piccoli rom. 86 Il Programma “Diritto alla scuola, diritto al futuro” è stato avviato dalla Comunità di Sant’Egidio nell’anno scolastico 2008/2009 e ha l’obiettivo di favorire la frequenza scolastica regolare degli alunni rom, prevenendo il coinvolgimento dei bambini in attività di accattonaggio e educando alla convivenza tra diversi. Perché i rom sono un popolo giovane, più di un terzo è in età scolare, e l’integrazione deve passare necessariamente per la scuola. Il Programma è una sorta di contratto sottoscritto dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla famiglia rom e prevede l’erogazione di una borsa di studio mensile all’alunno rom meritevole. In cambio la famiglia deve conseguire alcuni obblighi, tra cui quello di non far superare al bambino tre assenze mensili non giustificate e di impiegare il contributo economico ricevuto nelle spese riguardanti l’alunno (materiale scolastico, libri, gite d’istruzione, etc.). Grazie all’attività instancabile degli operatori di Sant’Egidio e al coinvolgimento delle famiglie dei piccoli rom, Napoli si è classificata prima in Italia nella lotta all’evasione scolastica dei rom. Più di 100 famiglie rom hanno accettato di firmare un contratto che vincola il bambino a non assentarsi dai banchi di scuola più di 3 volte al mese. In cambio dell’impegno, la famiglia riceve dai 50 ai 100 euro al mese come borsa di studio, finanziata da banche e da singoli benefattori. I risultati del progetto sono davvero incoraggianti: oggi a Napoli 125 ragazzi rom frequentano regolarmente la scuola, e tra questi almeno il 60 per cento ha ottenuto una media di voti tra il 7 e 1’8. Negli interventi dei volontari di Sant’Egidio si è parlato anche dell’impegno della Comunità per la salute dei rom, con particolare riferimento proprio all’esperienza di Napoli dove dal 2008 esiste un ambulatorio medico gratuito, ospitato oggi nella parrocchia dell’Immacolata Concezione a Cupa Carbone, vicino all’aeroporto di Capodichino. Qui, grazie alle prestazioni gratuite di medici volontari, si effettuano circa 100 visite al mese e i bambini di etnia rom vengono regolarmente avviati al ciclo vaccinale. Molti di loro, passano poi dall’ambulatorio ai banchi di scuola. Un lavoro di rete che premia l’impegno di operatori e volontari. 87 Nell’ambulatorio di Cupa Carbone i medici effettuano anche visite specialistiche rivolte agli adulti rom. In una prima fase di accoglienza, hanno spiegato i sanitari presenti all’incontro, vengono date informazioni e raccolte eventuali richieste specifiche. Per ogni paziente viene poi compilata una scheda in cui si annota diagnosi e farmaci per la terapia che viene garantita gratuitamente grazie al Banco Farmaceutico. Nei casi di emergenza, vengono accompagnati al Pronto Soccorso degli ospedali. Il mese scorso ha preso avvio anche un Progetto per la prevenzione e la cura dentistica realizzato in collaborazione con un gruppo di Igienisti dentali di Napoli. Il Progetto è rivolto in particolare ai bambini rom e ne sono già stati coinvolti 30, dai 5 ai 10 anni. Un altro progetto in corso riguarda la prevenzione e la cura delle malattie infettive ed è realizzato in collaborazione con i distretti sanitari della Asl Napoli 1. Nel corso dell’incontro, gli operatori di Sant’Egidio hanno parlato anche del diritto allo sport dei bambini rom che frequentano il progetto “Sport senza frontiere”, un modo per utilizzare lo sport come strumento di inclusione, prevenzione e benessere psico-fisico. Le “piccole buone notizie” raccontate a Napoli dagli operatori della Comunità di Sant’Egidio rappresentano l’altra faccia di Napoli, quella fatta di esperienze concrete di integrazione che tutti possono prendere da esempio e in cui tutti possono impegnarsi per una Napoli del futuro accogliente e realmente solidale. L`integrazione è l`unica strada per evitare fenomeni di intolleranza nei popoli europei e di illegalità nei popoli rom. E, come hanno sottolineato gli operatori di Sant’Egidio, la prima integrazione deve partire proprio dai banchi di scuola, perché più di un terzo di questa minoranza è in età scolare. Ma per poter lavorare alla scolarizzazione dei bimbi rom, chiedono quelli che si impegnano ogni giorno a fianco del popolo rom, è fondamentale evitare lo spostamento dei campi da un posto all’altro della città, perché questo significa solo spostare il problema e, soprattutto, creare traumi nei piccoli. 88 L’incontro organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, alla vigilia della Giornata internazionale dedicata al popolo Rom, si chiude con un messaggio di speranza per una crescita dell’Europa intelligente, sostenibile e inclusiva e un obiettivo da raggiungere attraverso azioni concrete: niente più baracche, ma rom integrati nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle case. In città accoglienti dove la solidarietà e il rispetto degli altri diventano pratiche di vita quotidiana. 89 GIORNALISMO Menzioni Speciali Pietro Cappabianca VE Sbordone - "Dalla cultura scaturisce il futuro" Fabio Crimaldi IE Sannazaro - "Chi lo avrebbe detto?" Davide De Capola II F Umberto - "Tecnologia al servizio dell'eccellenza" Davide Limatola II B Vittorio Emanuele "Futuro in Campania: tra i rifiuti la voglia di rinascere” Federica Lupi VA Genovesi - "(Ri)scoprire Napoli” Laura Pezzella IH Vittorini - "Napoli, la tomba perfetta" Giulia Sodano VD Vico - "Napoli, dalle macerie al futuro" 90 FOTOGRAFIA GIURIA Fabio Donato, Luciano Ferrara, Sergio Riccio 91 FOTOGRAFIA Primo classificato Gianmarco Capezzuto Liceo Scientifico Tito Lucrezio Caro - Classe I D Uno squarcio di vita partenopea fotografato da un occhio divertito che sottolinea le contraddizioni della città ma ne sottolinea la determinazione ad andare avanti. Secondo classificato Enrica Greco Liceo artistico Suor Orsola Benincasa - Classe IV Un’immagine costruita sapientemente con un esplicito intento metaforico connotato da ironia e pensosità. Terzo classificato Emanuela Falcone Liceo artistico Suor Orsola Benincasa - Classe IV Davanti alle macerie di Città della Scienza che tagliano l’orizzonte con una linea netta i corpi seminudi di un gruppo di ragazzini pronti a tuffarsi in mare: l’immagine è un inno alla vita che prende la sua rivincita su chi semina distruzione. 92 Gianmarco Capezzuto - Il futuro non è scritto 93 Enrica Greco - La prima pietra 94 Emanuela Falcone - Oltre le macerie 95 FOTOGRAFIA Menzioni Speciali Nunzia Ambrosio IV Liceco Artistico Suor Orsola Benincasa "Suoni e silenzi in uno scatto" Lucia Avella IIIJ ISIS Casanova - "Linea di terra" Giulia Baldascino IF liceo classico Vittorio Emanuele "Suoni e silenzi in uno scatto" Emanuela Fidanza IV Liceo artistico Suor Orsola Benincasa Giorgia Landieri IIIJ Isis Casanova - "Amore di periferia" Chiara Maffei IV G. Sannazaro "Il nostro viaggio verso la luce: la luce è il nostro futuro" Francesca Magnacca IV M Vittorini - "Dalla terra dei fuochi... Alla terra dei sogni" 96
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