Marco Cerruti, Il piacer di pensare. Solitudini, rare amicizie

MARCO CERRUTI, Il piacer di pensare. Solitudini, rare amicizie, corrispondenze intorno al 1800,
Mucchi, Modena 2000.
Marco Cerruti, Professore di Letteratura italiana nell’Università di Torino, è stato un insigne studioso della
dinamica storica, altamente inquieta e tormentata, della civiltà culturale del Settecento e dei primi decenni
dell’Ottocento. Egli ha focalizzato principalmente la sua attenzione sull’emergere della nuova ‘sensibilità’
nel secolo dei Lumi e sul significativo passaggio d’epoca rappresentato dai cruciali eventi dell’89: è il caso
di ricordare, oltre al presente lavoro, notevoli volumi quali Le rose di Aglaia. Classicismo e dinamica storica
tra Settecento e Ottocento (Edizioni dell’Orso 2010), I cani di villa. Percorsi dei Lumi e anti-illuministi tra
Settecento e Novecento (Edizioni scientifiche italiane 2003), Le buie tracce (Centro Studi Piemontesi 1988).
La sua produzione, che assume carattere di forte rilevanza nell’ambito degli studi sette-ottocenteschi,
annovera una fondamentale monografia su Ugo Foscolo, più volte riedita (Introduzione a Foscolo, Laterza
1990), e diversi studi su Vittorio Alfieri. Il suo campo di interesse si estende anche ad aspetti teorici e
significative figure intellettuali del primo Novecento: si pensi, in particolare, al volume La furia del mare.
Ultime pagine su Michelstaedter e altre varie sul Novecento (Edizioni dell’Orso 2012). Ha diretto
«Crocevia» e ha collaborato a diversi periodici, fra i quali, da ultimo, «Italies/Littérature civilisation société»
e «Zibaldone. Zeitschrift für italienische Kultur der Gegenwart».
Articolato in cinque sezioni, il testo del Cerruti raccoglie una serie di studi, affini per ambito tematico e
prospettive di ricerca, volti a una analisi rigorosa e ravvicinata delle modificazioni della sensibilità
individuale – una vera e propria ‘metamorfosi’ dell’io – in quella fase di sconvolgenti trasformazioni, che fu
il tardo Settecento e l’inizio del nuovo secolo.
Il saggio introduttivo, Fra il male di vivere e i suoi rimedi, epicentro problematico dell’intero volume, mette
a tema la questione fondamentale dell’età dei Lumi, e cioè la capacità o meno della ragione illuministica di
rispondere in termini affermativi alle attese di ‘felicità’ pubblica e privata ardentemente prospettata,
teorizzata e a volte deversata nei vari testi e discorsi dell’epoca.
Gli intellettuali italiani della seconda metà del Settecento, in un clima di fideistico trasporto per la capacità
trasformativa delle riforme, elaborano proposte migliorative per la vita presente e per il futuro degli uomini.
È possibile così individuare testi emblematici, i cui stessi titoli rivelano l’intenzione programmatica dei
rispettivi autori: Pietro Verri, intellettuale di punta di questa tendenza, scrive nel 1781 un Discorso sulla
felicità (accompagnato, nella trattazione del tema eudemonistico, dai sodali del «Caffè», primo fra tutti il
Beccaria); il cremonese Isidoro Bianchi pubblica nel ’75 le Meditazioni su alcuni punti di felicità pubblica e
privata, e una menzione a parte merita il trattato Della pubblica felicità oggetto de’ buoni prìncipi (1749) di
Ludovico Antonio Muratori, illustre antesignano in questo genere di componimenti.
Comunque, alla resa dei fatti, una fitta mappa di sbarramenti sembra frapporsi fra l’uomo e l’utopica idée du
bonheur. E questo per diversi ordini di motivazioni. La storia, ad esempio, si rivela inesorabilmente scenario
di atrocità e iniziative certo non ispirate alla nozione di raison: pensiamo alla Guerra dei Sette anni, oggetto
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di intensa riflessione da parte di Muratori, Parini, Pietro Verri, lo stesso Goldoni, e all’evento rivoluzionario
dell’89, che ebbe un impatto devastante sul ceto dei colti. Ma anche la natura, a volte felicitante e amicale
nei confronti dell’uomo, mostra spesso il suo volto deterrente, con esiti di inarrestabile distruttività: il
terremoto di Lisbona e quello delle Calabrie colpirono l’immaginario di massa di quei tempi e produssero un
senso diffuso di instabilità e malessere collettivo.
Si fa strada e si consolida, dunque, nei medesimi anni, un discorso sull’infelicità dell’esistenza umana,
alternativo all’ottimismo del secolo, e il testo dello pseudo-Crudeli, l’Arte di piacere alle donne e alle
amabili compagnie (1762), ne è una prova evidente: lo stesso titolo, volutamente ingannevole, cela il tema di
fondo, le male de vivre, che induce a un vertiginoso appagamento dei propri sensi, confinario col sentimento
dell’estinzione e della morte.
Gli intellettuali di fine secolo, di fronte allo scenario sconvolgente della storia contemporanea, sperimentano
una condizione di malessere che «non sa nominarsi» e talvolta si definisce come «malinconia», variamente
diversato quale tenue «leucocolia» nelle Poesie campestri di Ippolito Pindemonte, o grave fantasia di morte
nei sonetti e nella biografia dell’Alfieri. Al soggetto che ha smarrito se stesso non resta che preservare la
propria identità, la propria possibilità ‘esistentiva’ nello spazio della solitudine, fonte di piaceri fisici e
morali: il «piacer di pensare» è la felice metafora, esperita dal Pindemonte, che riunisce in uno il momento
della riflessione, il tema della rimembranza, l’utopia del wishful thinking e l’esercizio dell’immaginazione.
Il tema della quête de soi in solitudine costituisce l’oggetto d’analisi del secondo saggio, in cui l’autore
indaga sul carattere utopico della felicità collettiva – realizzata cioè in un pieno impegno nelle istituzioni – e
sulla scelta obbligata del ‘ritiro’, come unica via di uscita e argine di protezione contro la convulsività del
mondo esterno. Ippolito Pindemonte e Francesco Cassoli sono esempi emblematici di tale scelta di
appartatezza e guardano alla literata solitudo e al locus amoenus come simboli di un rinnovato stile di
pensiero. Nella prospettiva di un recupero dell’io, si attua un riuso dei grandi dell’antichità, Orazio, in primo
luogo, e poi Seneca ed Epitteto, Petrarca, senza trascurare un cultore della solitudine appartenente alla
contemporaneità, quale il Rousseau delle Rêveries du promeneur solitaire (1782). I solitari che liberamente
abbandonano la città in favore della calma della campagna preservano se stessi dal dissipamento e godono
piuttosto di passioni prive di oggetto, piaceri della solitudine che non escludono una elitaria felicità.
Il tema del viaggio e le sensazioni suscitate dalla realtà della natura, in particolare dal paesaggio montano,
sono oggetto prioritario di indagine nel saggio Configurazioni settecentesche della montagna, da Haller al
Solitario delle Alpi. Qui l’autore svolge interessanti e tutte condivisibili osservazioni sulla letteratura
odeporica del secolo XVIII. Il poemetto Die Alpen (1729) di Haller si impone in quanto celebrazione
dell’Helvetia felix, spazio ancora incorrotto e libero, metaforicamente preservato dalla barriera delle Alpi,
unico esempio di libertà nel panorama europeo, ormai funestato dalla presenza della tirannide. Molteplici ed
espliciti sono i riferimenti alla grandiosità e magnificenza del paesaggio montano negli scritti di Aurelio
De’Giorgi Bertola e ancor di più in quelli di Ippolito Pindemonte, il quale descrive l’estasi e la commozione
dell’individuo di fronte alla visione imponente del Monte Bianco. Suggestioni ossianiche sono inoltre
riscontrabili nella poesia di Ambrogio Viale, che scelse lo pseudonimo di “Solitario delle Alpi” ed elesse il
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paesaggio montano a metaforico rifugio rispetto al corrotto scenario urbano: anche in questo caso, l’incontro
con la natura restituisce identità e dignità di pensiero all’individuo.
Nella quarta sezione del testo, il Cerruti considera L’epistola pindemontiana “A Scipione Maffei” come un
esempio elettivo del disagio conoscitivo e morale dell’intellettuale di fine secolo di fronte al poco
rassicurante assetto dell’ordine civile e politico dopo gli eccessi rivoluzionari. In tale ottica, felice può
dunque definirsi Scipione Maffei, che non ha sperimentato tale umiliante e destabilizzante condizione.
L’illustre veronese assurge anche, agli occhi del più giovane Pindemonte, a modello di virtù, esemplare per
gli «studi del vero», destinati a sopravvivere nella memoria oltre la tragedia del presente.
Le relazioni epistolari tra intellettuali vengono analizzate nel saggio conclusivo, La corrispondenza di
Saverio Bettinelli con Ignazio De Giovanni. Qui Cerruti prende in considerazione gli ultimi anni della vita di
De Giovanni, dedicati al ritiro e alla pratica dei carteggi con nobili intellettuali subalpini, quali Saverio
Bettinelli, l’abate Caluso, Galeani Napione, Carlo Vidua. Oggetto delle lettere sono riflessioni sulla
letteratura, meditazioni di carattere personale, né mancano gli scambi di idee su libri, anche “proibiti”; ad
emergere chiaramente è l’inquietudine degli scriventi per una realtà deterrente e in vorticosa trasformazione
quale quella rivoluzionaria. I carteggi si confermano testimonianza privilegiata per la comprensione e
l’interpretazione dell’atteggiamento pratico e cognitivo di tanti intellettuali italiani, i quali fecero rifluire
nelle missive osservazioni di carattere politico e letterario insieme ad un’inedita attenzione allo spazio
interiore fino al disvelamento del proprio “in sé”.
Si è dunque tentato di fornire una sintesi dei motivi e delle idee-guida che caratterizzano questo impegnativo
lavoro del Cerruti: è chiaro che il volume si inscrive nell’ampia messe di studi sul tema dell’io inteso come
soggetto «impegnato nella ricerca di una consistenza personale» e volto alla difesa della propria interiorità a
fronte dei meccanismi disgregativi del sociale.
Modelli di riferimento, in tale orizzonte di ricerca, rimangono i fondamentali contributi di Marcel Raymond
(Jean Jacques Rousseau. La quête de soi et la rêverie, 1962) e Stephen Bygrave (Coleridge and the Self:
Romantic Egotism, 1982); ma va anche citato il volume a più voci del 1986 che si intitola Narcissism and the
text: studies in literature and the psychology of self.
Ovviamente, la solitudine si profila come condizione privilegiata per porre in essere la quête de soi, la
salvaguardia del proprio ‘intimo’ contegno cognitivo e ideativo. Del resto, nella tradizione occidentale, il
pensare in solitudine è sempre stato segno distintivo dell’uomo saggio e incorrotto, che prevede una presenza
virtuosa nel sociale, ma al contempo sa difendersi dai pericoli dell’alterità: celebre l’esortazione,
inequivocabilmente stoica, di Lucio Anneo Seneca: «fuge multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum»
(Lettere a Lucilio, X, I).
Una richiesta di appartatezza e una indicazione di sobrietà mentale e comportamentale, quest’ultima, che
dovette esercitare un grande potere di attrattività sul ceto dei colti, coinvolto, a partire dagli anni Ottanta del
Settecento, in quello che oggi viene definito «tournant des Lumières».
Nel periodo pre e post rivoluzionario, durante la fase del ‘triennio patriottico’ e infine nel tempo della
‘normalizzazione’ napoleonica, lo slancio entusiasta in favore del bonheur social trova una progressiva
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sconferma: il soggetto esperisce l’estraneazione, nei termini di una solitudine o volontariamente cercata (A.
Verri, Cassoli, Pindemonte, Bertola) o subita (è il caso di intellettuali generalmente più giovani, che
sperimentano a posteriori gli effetti della rivoluzione, quali Foscolo e Fantoni). Da un’iniziale e fattivo
coinvolgimento nel pubblico, si passa alla concentrazione sul proprio «in sé», nello spazio rassicurante e
protettivo del ‘privato’, in cui l’io si restituisce alla propria consistenza originaria.
Date queste premesse, bisogna rilevare che un critico come Walter Binni interpretò tale refoulement
esistenziale come ‘sintomo’ illuminante della particolare ‘sensibilità’ dell’epoca.
Merito del Cerruti è quello di essersi addentrato più analiticamente in esperienze di vita e di cultura del
periodo preso in esame, per meglio visualizzarne la coerenza e la specificità: di aver gettato dunque un fascio
di luce nuova sulla ‘rivoluzione psicologica’ che ha luogo sul finire del Settecento. Il soggetto, prima in
sintonia con l’orizzonte della ragione, entra in crisi; è la propria dimensione interiore, e non più l’ottica della
generalità, a costituire il punto di vista da cui guardare il mondo: una metamorfosi di grande rilevanza, se si
tiene conto che mette capo a una scissione fra io e realtà sociale e apre la via a una sperimentazione
strettamente privata del concetto illuministico di felicità.
Picone Alessandra
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