13. Verità negata

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Verità negata
«Il nostro è un Paese senza memoria e senza verità;
per questo io cerco di non dimenticare»
(Leonardo Sciascia, scrittore)
«Eppure, ora con Freda mi piacerebbe parlare. L’ultima volta
che ci vedemmo, quando ormai la Cassazione aveva deciso di
togliere il processo a Milano, mi salutò dicendo: “Quando questa storia sarà finita le racconterò come sono andate le cose...”.
Sì, ora che nei tribunali la storia è finita, sarei davvero curioso di
sapere se Freda mantiene una promessa». Gerardo D’Ambrosio
è un magistrato ormai in pensione, ma resta un cittadino curioso.
Sono passati più di trent’anni da quando era un giovane giudice
istruttore e il neonazista Freda uno dei “suoi” imputati. Da allora ha istruito centinaia di processi, ha coordinato il pool di Mani
pulite all’epoca di Tangentopoli, ha affiancato Francesco Saverio
Borrelli al vertice della più celebre procura d’Italia e da lui ha
raccolto il testimone alla guida dell’ufficio. È stato in magistratura per una vita, ma resterà soprattutto il giudice istruttore del
processo per la strage di piazza Fontana.
«Quel venerdì pomeriggio in cui scoppiò la bomba ero in
ufficio come sempre e stavo lavorando, quando sentii il botto
così vicino. Ricordo che pochi minuti dopo entrò nella stanza
Antonio Amati, il mio capo: “Pare che sia scoppiata una caldaia,
ci sono morti e feriti...”. Ma poco dopo tornò: “È stata una
bomba”, disse, “è meglio che nessuno se ne vada, l’inchiesta
potrebbe essere subito formalizzata, potrebbe esserci bisogno di
noi”». D’Ambrosio non si mosse, ma in poche ore l’istruttoria
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appena avviata venne di fatto trasferita a Roma, dove altre tre
bombe lasciate in punti strategici della città esplosero, ma fortunatamente senza provocare morti. «Alla luce del codice non
aveva alcun senso quella decisione, ma immagino che i politici
pensassero di poter trovare a Roma dei magistrati più malleabili...».
Sono passati quasi quarant’anni da allora, ma l’ex numero
uno della procura non riesce ancora a nascondere la rabbia civile, l’amarezza anche professionale per il modo in cui, in seguito,
la Cassazione gli sottrasse l’inchiesta sulla bomba (tornata a
Milano) proprio quando, con il rientro in Italia dopo una lunga
latitanza dell’agente del Sid Guido Giannettini (e la sua manifesta intenzione di collaborare con la giustizia) si sarebbe potuto
squarciare il velo sui mandanti dell’operazione terroristica che
aveva insanguinato il Paese.
«Ricordo come fosse oggi che l’avvocato di Giannettini
venne a trovarmi in ufficio, un certo giorno, per dirmi che il suo
assistito aveva deciso di parlare con noi. Era un giovedì, risposi:
“Va bene, andiamo subito”. Ma il legale non poteva: “No, domani ho un impegno, poi c’è sabato... Facciamo lunedì mattina,
d’accordo?”. “D’accordo”. Ma poi, l’avvocato entrò in sala
stampa e comunicò la notizia ai giornalisti. E così, guarda caso,
proprio la domenica mattina, fatto del tutto straordinario, la
Cassazione mi notificò, addirittura a casa, la decisione con cui
risolveva il conflitto di competenza (sollevato mesi prima) tra
Milano e Roma a favore della capitale. Era un provvedimento
mai visto», ricorda D’Ambrosio, «lo impugnai sostenendo che
era abnorme, non poteva esserci connessione tra un’istruttoria e
un processo già in corso. Alla fine la Suprema Corte mi dette
ragione, ma intanto era passato del tempo, a quel punto la riunione era divenuta possibile, tutto finì a Catanzaro». E Giannettini
pagò dazio solo in primo grado, incassando l’ergastolo dalla
Corte d’assise ma venendo poi prosciolto definitivamente.
«Un’altra cosa che fa impressione furono i ripetuti interventi, sempre della Cassazione, per bloccare il processo Valpreda
che sarebbe potuto iniziare fin dal ’72 e che invece si avviò solo
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cinque anni dopo, quando fu possibile riunirlo a quello contro
Freda, Ventura e Giannettini. È evidente che c’era il timore che
tenendo separata la posizione dell’anarchico, la prima istruttoria
sarebbe stata demolita. Poi ci fu anche l’errore del pubblico
ministero di Catanzaro, che concluse per la colpevolezza di
Valpreda e Merlino, provocando così una debolezza complessiva dell’impianto accusatorio. Ma è chiaro che il timore dei politici era che l’innocenza piena di Valpreda venisse accertata…
D’altra parte aveva ragione Emilio Alessandrini, quando un giorno mi lamentai con lui perché ci avevano sottratto l’inchiesta.
“Solo in Italia poteva finire così”, dissi. E lui: “Gerardo, ma in
quale altro Paese ci saremmo potuti spingere così avanti con
l’istruttoria restando vivi?”
In effetti era così. L’anno prima, quando avevamo capito che
con il segreto di Stato su Giannettini stavano cercando di fermarci,
accelerammo le indagini in modo perfino temerario. Avevamo scoperto che l’ex ministro della Difesa, Zagari, non ne sapeva niente della nostra richiesta al Sid su Giannettini: “Secondo voi chi
mi vuole fregare?” ci chiese. Poi venimmo a sapere che Rumor
ci aveva mandato a quel paese… Così decidemmo di giocare
d’anticipo e andare dall’ammiraglio Henke, l’ex capo del Sid.
Avevamo già interrogato il generale Aloja, ricostruendo la vicenda del libro che aveva commissionato a Rauti e Giannettini contro il suo rivale generale De Lorenzo. Henke mentì negando di
conoscere Giannettini, quando proprio lui, invece, l’aveva
assunto al Sid dopo avergli chiesto di bloccare la distribuzione di
quel libello che avrebbe danneggiato l’immagine delle forze
armate... Insomma, tutto lo stato maggiore della Difesa si era
allarmato, e bisogna tenere conto che se Maletti e Labruna avevano fatto scappare all’estero l’agente Zeta, non potevano certo
averlo fatto senza garanzie politiche. Nessun militare prende
un’iniziativa del genere senza copertura. Del resto Andreotti ha
sempre coperto il Sid, e non si deve tralasciare il fatto che
Giannettini e Rauti erano stati tra i partecipanti al famoso congresso del ’65 organizzato dai militari al Parco dei principi, a
Roma, quando ci spiegarono che la terza guerra mondiale, quel149
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la contro il comunismo, era già scoppiata e bisognava agire.
Freda e Ventura erano, in fondo, una semplice rotella di questo
ingranaggio: potevano anche non sapere esattamente di quale
copertura politica avrebbero goduto. Ma certo se Giannettini
diceva loro di stare tranquilli, loro gli credevano...».
Erano momenti particolari, quelli. «In quel ’69 i cosiddetti
benpensanti ebbero diversi motivi di preoccupazione», ricorda
D’Ambrosio. «C’era la protesta degli operai, che non solo lottavano per migliorare il loro salario, ma rivendicavano anche il
diritto alla casa. Poi stava nascendo l’inedita alleanza tra lavoratori delle fabbriche e Movimento studentesco, c’erano continui
scontri tra destra e sinistra, e se la voglia di menar le mani era
soprattutto dei giovani, ad altri livelli c’era invece preoccupazione diffusa per l’eventualità di possibili accordi politici con il Pci.
Anche da buona parte della Dc e della cosiddetta “maggioranza
silenziosa”, insomma, c’era uno sguardo particolare verso l’Msi
di Almirante e i militari. E non è che i militari fossero completamente insensibili a una situazione di questo genere, tanto che in
quegli anni ci fu il tentativo di golpe Borghese, ci fu il progetto
di governo forte di Edgardo Sogno, gli stessi partigiani “bianchi”
sembravano doversi mobilitare, c’era il Movimento armato rivoluzionario di Carlo Fumagalli, il Mar. Insomma, era un contesto
abbastanza movimentato: da una parte c’era gente che auspicava
una svolta autoritaria, possibilmente militare; dall’altra chi invece cominciava ad aver paura di un colpo di Stato, e a dicembre,
dopo Piazza Fontana, molti dirigenti del Pci ebbero davvero questo timore.
E in questo contesto si inserisce quel certo gruppo di Ordine
nuovo “governato” dal Sid attraverso Giannettini, che voleva
esasperare ancora di più le tensioni, con una serie di attentati realizzati per far ricadere la responsabilità sulla sinistra e cercando
al tempo stesso di infiltrarsi nei gruppi estremistici per farli scendere in piazza. Tutto per alzare il livello di guardia e far credere
che la sinistra fosse molto più pericolosa di quanto si potesse pensare. Una situazione che, naturalmente, secondo loro si sarebbe
potuta affrontare solo con la nascita di un governo forte. E dobbia150
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mo ricordare invece che nel ’68 si erano succeduti deboli governi di centro, era stata abbandonata la formula del centro-sinistra
risultata perdente per la Dc sul piano elettorale, ma il Psi si era
spaccato, poi riunito e poi di nuovo spaccato. Insomma, c’era
una situazione che si prestava alla richiesta di una guida forte, di
misure di emergenza…».
Nonostante i morti del 12 dicembre – o forse proprio per
quelli – il piano fallì. «Quando anche oggi si ripete che le mobilitazioni popolari non servono, spesso si sbaglia: allora non si
andò oltre perché la reazione della gente ci fu. In un primo
momento prevalse lo choc per tutto quel sangue, quelle vittime
innocenti. Ma poi la mobilitazione, l’indignazione ci furono. E
chi si mobilita fa paura, piazza Duomo la mattina dei funerali era
strapiena di gente, nessuno l’aveva chiamata tutta quella gente,
eppure gli operai, gli impiegati, le persone normali, tutta Milano
insomma era in piazza Duomo. E certi politici hanno le antenne
sensibili, quel giorno capirono che non ci sarebbe stato spazio
per le “folli avventure”, come le chiamò Rumor, anche se per
caso qualcuno ne avesse avuta l’intenzione».
Ora che tutto è finito almeno nei tribunali, anche se per la giustizia italiana colpevoli ufficialmente non ce ne sono, per
D’Ambrosio il quadro delle responsabilità per Piazza Fontana è
ormai sufficientemente chiaro. «Tanto più dopo le parole del senatore Taviani, è evidente che la questione riguarda il Sid.
L’avvocato Fusco che deve partire per Milano con il contrordine,
il tenente colonnello Del Gaudio che arriva due giorni dopo per
depistare le indagini… Insomma, è possibile che sapessero che
quello era il giorno designato, che stesse per accadere qualcosa
di grosso, del resto c’entravano fino in fondo. Comunque la strategia era unica: far ricadere la responsabilità delle bombe sulla
sinistra. Il programma degli attentati era stato deciso nella riunione di Padova con Freda, Ventura e altri di Ordine nuovo la
sera del 18 aprile del ’69, anche se non sapremo mai chi era il
personaggio che vi partecipò arrivando da Roma. Forse era davvero Rauti (anche se i suoi colleghi del Tempo giurarono che era
rimasto in redazione) forse era Giannettini, non so. Certamente
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non era Delle Chiaie, come invece Ventura cercò di farci credere solo per poter allontanare i sospetti dal Sid. Del resto, dopo gli
attentati sui treni i servizi segreti rischiarono moltissimo, perché
alcune bombe non esplosero anche se, guarda caso, una era stata
fatta brillare in fretta e furia due giorni dopo dalla procura di
Vicenza. Solo poi capimmo il perché: il procuratore capo era il
padre di uno dei nostri imputati!
Comunque non bisogna anche dimenticare che in quel
momento, siamo nel ’72, tutta la vicenda di Valpreda-circolo
anarchico 22 Marzo stava ormai perdendo credibilità. Quando le
carte tornarono a Milano e le presi in mano io, me ne resi immediatamente conto. Il fatto che Roma avesse trovato il colpevole
nel giro di tre giorni appariva davvero strano. E perché era stata
fatta scoppiare la bomba che non era esplosa alla Banca
Commerciale di Milano? Una decisione che davvero non aveva
senso ai fini investigativi. Ci sarebbero stati mille modi per rendere quell’ordigno inoffensivo senza distruggerlo: potevano
immergerlo nell’acqua e lasciarlo lì dodici ore, potevano tenerlo
sotto terra in sicurezza… Se l’avessero aperto avrebbero risolto
il caso in cinque giorni, com’è successo due anni fa a Madrid
dopo gli attentati sui treni. In quella bomba c’era praticamente la
firma: la borsa, la cassetta metallica, il timer… Farla brillare fu
solo una leggerezza, un caso? Ma poi scoprimmo che avevano
tenuto nascosto anche l’indizio fondamentale delle quattro borse
in similpelle acquistate a Padova il 10 dicembre da una stessa
persona: anche quella una leggerezza? La cassiera del negozio
disse di aver riconosciuto dalle foto sui giornali proprio Freda,
anche se dal vivo poi non lo riconobbe, ma del resto Freda era
molto cambiato stando in prigione. Poi l’appunto del Sid steso
quattro giorni dopo la strage e che arriva a me solo tre anni dopo,
dove c’erano i nomi di Delle Chiaie e Merlino, l’Aginter Press e
Guerin-Serac, troppe cose. È evidente che qualcuno l’aveva sviluppato per depistare. Insomma, tutte coincidenze? No, non ci
credo proprio, non poteva essere. L’intenzione era chiara: buttarsi sugli anarchici. C’era la convinzione precisa che tutti gli attentati, compresi quelli della primavera precedente a Milano e del152
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l’estate sui treni, fossero stati commessi dagli anarchici. Del
resto era scritto esplicitamente, anche nelle lettere indirizzate
all’epoca dalla nostra polizia alle polizie straniere, che l’unica
pista investigativa era quella.
E a dire il vero, non credo neanche tanto alla diabolica macchinazione per incastrare proprio Valpreda. È che lui venne fermato dalla procura di Roma perché Merlino lo aveva accusato di
avere un deposito di esplosivi e poi ci si buttarono sopra tutti, era
proprio la persona giusta…». D’Ambrosio contesta la validità
del riconoscimento da parte del tassista Rolandi. «Chi era salito
su quel taxi non c’entrava per niente con la bomba. Ma come si
fa a pensare di farsi portare davanti alla banca con il taxi e dire:
mi aspetta? Rolandi non poteva vedere dallo specchietto dove
fosse andato il cliente, il riconoscimento venne fortemente inquinato dal fatto che prima gli mostrarono una fotografia di
Valpreda, non dimentichiamo il clima… E poi era stata promessa anche una ricompensa a chi avesse contribuito alle indagini,
era tutto falsato insomma. Quello che mi stupisce è che ancora
oggi, dopo tanti anni, Andreotti, quando ho detto ai giornali che
lui è tra quelli che sanno la verità su Piazza Fontana, sostenga
ancora la tesi degli anarchici colpevoli. Evidentemente è proprio
vero che deve saperne molto di più, altrimenti non avrebbe mai
ritirato fuori la storia del cappotto di Valpreda…».
Come il senatore a vita Taviani, anche D’Ambrosio è convinto che chi ha progettato di mettere le bombe il 12 dicembre a
Milano e Roma, non avesse pianificato una strage. «Lo scrissi
nella mia sentenza di allora, penso che anche alla Banca
Nazionale dell’Agricoltura, come alla Commerciale, dove la
borsa con l’esplosivo venne lasciata vicino ad un ascensore che
portava ai piani dove lavoravano i dirigenti e non nel salone,
l’intenzione fosse quella di colpire l’istituto di credito ma non i
clienti. Probabilmente l’attentato era stato studiato per un giorno
diverso da quello in cui poi fu realizzato, o forse qualcuno degli
esecutori andò oltre…».
Non dovevano essere pochissimi, quel pomeriggio di dicembre, i terroristi veneti in trasferta a Milano. «E poi dovevano
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esserci i basisti milanesi, perché c’era l’esigenza di innescare gli
ordigni in un luogo sicuro che non poteva essere distante rispetto alle due banche. Essendo il timer da sessanta minuti, avevano
a disposizione al massimo tre quarti d’ora per depositare le
borse. Ricordo che feci fare un’indagine ai vigili urbani su tutte
le multe elevate quel giorno in città alle auto in sosta vietata e
una verifica in tutti i garage, cercando vetture con la targa veneta. Se avevano dei basisti, però, al limite potrebbero essere arrivati a Milano addirittura in treno…».
Oltre ai camerati di Padova, c’erano quasi certamente quelli
di Ordine nuovo di Mestre e Venezia. «È molto probabile, anche
se gli ultimi processi sono finiti con le assoluzioni degli imputati. Ma certo restano provati i rapporti che Freda aveva con
Maggi, uno che teneva i contatti con tutti quelli di Ordine nuovo.
E che Zorzi fosse uno che poteva mettere le bombe, lo scoprimmo noi per primi, quando un loro camerata di Trieste, Gabriele
Forziati, che aveva denunciato Freda per tentata estorsione, ci
disse che gli ordigni inesplosi a Gorizia e Trieste, due mesi prima
di Piazza Fontana, li avevano portati Siciliano e Zorzi. A pensarci adesso, dico che avremmo dovuto approfondire quella vicenda, invece passammo il fascicolo a un collega di Trieste che
venne tutto contento a prendersi le carte. Ma a Trieste, evidentemente, il processo deve essere finito nel nulla. C’è anche da dire,
però, che in quel momento noi eravamo più impegnati nel tentativo di risalire in alto nella scala delle responsabilità, che non a
guardare verso il basso».
Da questo punto di vista, è credibile il generale Maletti quando sostiene che il Sid era in pratica eterodiretto dai servizi segreti americani? «Maletti gioca sul sicuro. È impossibile pensare
che il nostro Sid non fosse più che in collegamento con la Cia,
che del resto aveva elaborato un piano di azione anticomunista
da applicare su larga scala. Basti pensare al colpo di Stato in
Grecia di due anni prima…».
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