Personaggi - Mondadori Education

PERSONAGGI
Un personaggio esiste solo nei termini decisi dallo scrittore: il suo destino è quello di
rimanere intrappolato nella dimensione della pagina, entro i confini della narrazione. Egli ha,
probabilmente, un'esistenza autonoma, ma essa rimane un mistero, nascosta tra le righe delle
storie non scritte (o non ancora).
Nella vita reale, infatti, esistono persone, ma non personaggi: il concetto di personaggio è
una categoria esclusivamente letteraria. Quello che uno scrittore decide di riportare sulla pagina
in merito alla biografia, al carattere, al modo di muoversi di un essere umano – o, nel caso di Böll,
di una tazza – è una scelta artistica.
I vari scrittori presentano i loro personaggi (principali o secondari) con tecniche diverse
tra loro: cosa sappiamo di loro? Da quale punto di vista? “La Chola, la Ela e la Cufina”, descritte
da uno sguardo adulto, ci farebbero la stessa impressione? Cosa pensa di Oscar il suo vicino di
casa? E qual è la storia della zia di Candida V.?
Jane Austen, Jack & Alice (AUSTEN 2012, pp. 38-39).
Ora può essere opportuno ritornare all'Eroe di questo Romanzo, il fratello di Alice, di cui credo di
non aver avuto praticamente mai occasione di parlare; il che può essere in parte dovuto alla sua
sfortunata propensione per l'Alcool, la quale lo privò in modo così completo dell'uso di quelle
facoltà di cui la Natura l'aveva dotato, che non faceva mai alcunché degno di essere riportato. La
sua Morte avvenne poco tempo dopo la partenza di Lucy e fu la conseguenza naturale di questa
pratica perniciosa. Con il suo decesso la sorella divenne la sola erede di una grandissima fortuna
che, dandole nuove Speranze di rendersi accettabile quale moglie di Charles Adams, non potevano
mancare di essere molto piacevoli per lei – e visto che l'effetto era Gioioso, la Causa non poteva
essere troppo lamentata.
Honoré de Balzac, Secondo studio di donna (BALZAC 1944, p. 103).
In quel momento era deplorevolmente smagrita; aveva le gote coperte di polvere come un frutto
esposto alle intemperie della strada. Vestita a malapena di cenci, stanca per le marce, i capelli in
disordine e appiccicati assieme sotto un mezzo berretto di marmotta, vi era tuttavia in lei qualcosa
della donna; i suoi movimenti erano belli, la bocca rosea, ma sciupata, i denti bianchi, le linee del
viso e del petto, attrattive che la miseria e il freddo e l'incuria non avevano ancora intieramente
guastate, parlavano ancora di amore a chi potesse pensare a una donna. Rosina d'altronde era di
natura fragile in apparenza, ma nervosa e piena di forza.
Samuel Beckett, Ding-dong (BECKETT 1972, pp. 41-42).
Il suo modo di parlare era quello di una donna del popolo, ma di una gentildonna del popolo. La sua
gonna aveva fatto il suo tempo, ma riusciva tuttavia ad essere rispettabile. Egli notò con sofferenza
che essa ostentava intorno al collo l'insidioso pellicciotto finto così diffuso nei bassifondi un po'
pretenziosi. L'unico elemento deplorabile del suo abbigliamento, come Belacqua osservò nel suo
esame frettoloso, erano le calzature – le crudeli scarpe dritte fuori misura della suffragetta o
dell'assistente sociale. Ma lui non dubitò per un attimo che gliele avessero regalate, o che le avesse
prese al banco dei pegni per un nonnulla. Era di altezza superiore alla media e ben piantata. Poteva
aver passato la mezz'età. Ma il suo viso, ah il suo viso, era ciò a cui Belacqua preferirebbe riferirsi
come alla sua figura, era così pieno di luce. Lo sollevò su di lui, e non per errore. Traboccante di
luce e sereno, serenissimo, non recava alcuna traccia di sofferenza, e per questo fatto soltanto
poteva dirsi un viso da notare. Tuttavia, come certi volti tormentati che lui aveva visto, come il
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volto della National Gallery di Merrion Square del Maestro degli Occhi Stanchi, esso pareva esser
venuto da molto lontano e sottendere un angolo di afflizione infinitamente stretto, così come gli
occhi mettono a fuoco una stella. I lineamenti erano inespressivi, soltanto luminosi, impassibili e
sicuri, pietrificati in radiosità, o qualcos'altro che procurava questo effetto, poiché il lettore è
pregato di prender nota che questo essere zuccheroso appartiene a Belacqua. Un gesto espressivo,
disse lui, un'alterazione o un corrugamento avrebbe soltanto avuto l'effetto di un faro oscurato. Le
implicazioni di questa immagine trionfante, il giusto e l'ingiusto, ecc., è meglio tralasciarle.
Heinrich Böll, Il destino di una tazza senza manico (BÖLL 1964, p. 21).
Nessuno, là dentro, sa naturalmente che io sono nata esattamente venticinque anni fa sotto un albero
di Natale e che venticinque anni sono un'età incredibilmente avanzata per una semplice tazza da
caffè: le creature della nostra razza che senza essere usate sonnecchiano nelle cristalliere, vivono
molto più a lungo di noi, semplici tazze.
Jorge Luis Borges, La forma della spada (BORGES 1995, p. 109).
Una sera che non dimenticherò, giunse tra di noi un affiliato di Munster: un certo John Vincent
Moon.
Aveva appena vent'anni. Era magro e molle a un tempo; dava la spiacevole impressione d'essere
invertebrato. Aveva scorso con fervore e con vanità quasi tutte le pagine di non so quale manuale
comunista; il materialismo dialettico gli serviva per tagliar corto a qualsiasi discussione. Le ragioni
che può avere un uomo per abominarne un altro, o per amarlo, sono infinite: Moon riduceva la
storia universale a un sordido conflitto economico. Affermava che la rivoluzione è destinata a
trionfare. Gli dissi che a un gentleman non possono interessare che le cause perdute...
Anton P. Čechov, Anima cara (ČECHOV 2007, p. 933).
Olen'ka ascoltava Kukin in silenzio, tutta seria, e accadeva che le spuntassero negli occhi le lacrime.
Alla fin fine le disgrazie di Kukin la commossero ed ella prese ad amarlo. Egli era piccolo di
statura, scarno, con una faccia gialla, i capelli tirati sulle tempie, parlava con un'esile vocetta da
tenore e, quando parlava, storceva la bocca, e sul viso aveva sempre dipinta la disperazione; ma
tuttavia aveva suscitato in lei un vero, profondo sentimento. Ella amava di continuo qualcuno e di
ciò non poteva far a meno. Prima aveva amato il suo babbo, che ora se ne stava, malato, in poltrona,
in una camera buia, e respirava affannosamente; aveva amato sua zia, che talora, una volta ogni due
anni, arrivava da Brjànsk; e ancora prima, quando studiava nel ginnasio inferiore, aveva amato il
suo insegnante di lingua francese. Era una signorina quieta, bonaria, compassionevole, con uno
sguardo mite e dolce, molto sana, Nel guardare le sue guance pienotte e rosee, il suo morbido collo
bianco con un neo scuro, il buon sorriso ingenuo che aveva sul volto, quando ascoltava qualcosa di
gradito, gli uomini pensavano: “Sì, non c'è male...” e sorridevano anch'essi, e le signore in visita
non si potevan trattenere dal prenderla a un tratto per la mano nel mezzo della conversazione,
dicendole in un moto di piacere:
«Anima cara!»
Fausta Cialente, Le statue (CIALENTE 1976, pp. 164-165).
Egli era un fanciullo silenzioso e timido. Quando i compagni si riunivano intorno al suo letto o,
avvenimento ancora più straordinario, gli succedeva di poterli ricevere sul terrazzino, si sentiva
dolorosamente estraneo, non perché non li conoscesse e non fosse abituato ai loro giochi o discorsi.
Egli aveva un'intuizione febbrile di come, sano, sarebbe entrato con un balzo nella loro esistenza,
avrebbe imparato in un attimo un gergo che la lunga solitudine faceva cadere in disuso, e i loro
segreti, menzogne, irrisioni, sotterfugi; le funzioni di un bambino «sano» gli sembravano, oltre che
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piacevoli, facilissime.
Julio Cortázar, I veleni (CORTÁZAR 2003, pp. 17-18).
Dall'altro lato del giardino stavano già affacciandosi le Negri, che erano impossibili e per questo
non ci frequentavamo. Le chiamavano la Chola, la Ela e la Cufina, poverine. Erano buone ma tanto
stupide, e non si poteva giocare con loro. Alla nonna facevano pena, però la mamma non le invitava
mai a casa perché scoppiavano litigi con mia sorella e con me. Tutte e tre volevano fare il
capobanda ma non sapevano né il gioco del mondo né le biglie né guardie e ladri né liberi tutti, e
l'unica cosa che sapevano fare era ridere come delle sceme e parlare di tante cose che non so a chi
potessero interessare. Il padre era consigliere comunale e avevano le Orpington fulve. Noi
allevavamo le Rhode Island che dànno più uova.
Antonio Debenedetti, Il coccorito ruffiano (DEBENEDETTI 1972, pp. 87-88).
Sovente Oscar provava un tormentoso bisogno di abbracciare qualcuno o qualcosa, allora
esasperato raccoglieva le ginocchia contro il petto e le stringeva con tutta la forza delle sue braccia
scarne e coperte da una sottile peluria. Invariabilmente, in certe ore del giorno, i muscoli della
spalla e dell'avambraccio destro gli si contraevano dolorosamente. Intanto i piedi surriscaldati gli
fumavano nel feltro delle pantofole servizievoli e di buon uso come due antiche vaporiere sfiancate.
Lungo le gambe gli montava un formicolio, un pizzicore che raggiungeva le sudate regioni
inguinali. Non sopportava più il contatto con la lana. Maglie e altri intimi indumenti gli
procuravano un insoffribile fastidio, come se fosse tribolato da nugoli di mosche cavalline o di
minuscole formiche rossobrune. Per di più sortiva da quei panni, aderentissimi alla sua pelle, un
odore vagante simile a quello che insapora le palestre dei ginnasiali. Per soffrir meno, Oscar aveva
imparato a camminare con la nuca rigida, la schiena curva e le gambe dure come scope dentro il
solletico dei calzoni.
Alfred Döblin, La ballerina e il corpo (DÖBLIN 2004, pp. 43-44).
A diciott'anni aveva un figuretta leggera come seta, neri occhi smisurati. Il viso lungo dai tratti
decisi, quasi come quello di un ragazzo. La voce chiara, priva di qualsiasi seduzione e musicalità,
concitata; un'andatura rapida, impaziente. Era scostante, osservava con sguardo lucido le sue
colleghe prive di talento, annoiata dai loro lamenti.
A diciannove anni fu colpita da un mal pallido che conferì al suo volto un candore misterioso in
contrasto con la crocchia dei capelli neroazzurri. Le sue membra si appesantirono, ma continuò a
danzare. Se era sola, pestava il piede per terra, minacciava il proprio corpo, gli si accaniva contro. A
nessuno parlava della sua debolezza. Digrignava i denti per quella cosa stupida, infantile, che solo
da poco aveva imparato a sottomettere.
Nikolaj Gogol', Il calesse (GOGOL' 1957, pp. 762-763).
Fra i proprietari, la persona più di riguardo era Pifagòr Pifagòrovič Čertokùckij, un nobile della più
alta aristocrazia del distretto di B., il quale faceva più baccano degli altri alle elezioni, ed era giunto
su una carrozza elegantissima. Aveva prestato servizio, tempo addietro, in un reggimento di
cavalleria, ed era stato uno degli ufficiali più brillanti e più in vista; per lo meno lo si era veduto a
moltissimi balli e convegni, dovunque il suo reggimento avesse stanza; del resto, su questo punto, si
possono interpellare le ragazze di Tambòv e Sibìrsk... È probabile che egli avrebbe fatto risuonare
anche altri governatori di una gloria per lui lusinghiera se non fosse stato costretto a congedarsi in
seguito a una di quelle tali circostanze che son dette solitamente «accidenti sgradevoli»: sia che
avesse dato uno schiaffo a qualcuno d'età un po' troppo avanzata, che lo schiaffo se lo fosse preso –
non ricordo bene il dettaglio – fatto è che venne invitato a dar le dimissioni. Del resto egli non perse
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affatto il suo tono per questo: portava un frac dalla vita rialzata, a mo' delle uniformi, gli speroni
alle scarpe e, sotto il naso, i baffetti – perché altrimenti si sarebbe potuto pensare che egli avesse
prestato servizio nella infanteria, la quale egli, a volte, chiamava per disprezzo infanterume, e a
volte infantazione. Egli era sempre presente a tutte le fiere molto frequentate, dove i precordi della
Russia, fatti di mammucce, figlietti, figlioline, e pingui possidenti, si riversano per darsi buon
tempo, giungendo su calessini, biroccini, bagheri, e certe carrozze che nessuno mai vide neanche in
sogno. Fiutava, lontano le mille miglia, ogni luogo, dove poteva essere accampato un reggimento di
cavalleria, e vi accorreva immancabilmente per incontrarsi coi giovani ufficiali; saltava giù, con
grazia, alla loro presenza, dal calesse, e in quattro e quattr'otto aveva già fatto amicizia.
Hermann Hesse, Ricordo di Mwamba (HESSE 1997, p. 38).
Davanti a noi, seduto su un barile, c'era Mwamba, il negro che proveniva “dall'interno”, il cui
compito a bordo era quello di farci divertire nelle ore di noia raccontandoci delle storie e facendo
scherzi un po' insolenti nel suo buffo inglese da negro infarcito di errori grotteschi fatti apposta.
Stava seduto e fumava sigari, si cullava andando a tempo con il rollio della nave, roteava gli occhi e
dispensava storie con avarizia, a piccole porzioni. Per ogni storia riceveva un sigaro, ed era perlopiù
ben pagato dato che molte delle sue storie non valevano nulla, e che in altre circostanze nessuno
sarebbe stato a sentirle.
Francesco Jovine, Uno che si salva (JOVINE 1960, p. 392).
Nel primo pomeriggio aveva chiacchierato a lungo con la signora De Donato. Costei parlava una
lingua mista dei vernacolo e di italiano libresco, pretenziosa e imprecisa. Aveva tenuto a far sapere
che lei era una donna istruita perché era stata in collegio a Roma per cinque anni, e che solo un
grande amore per un giovane delle sue parti l'aveva costretta a stare venti anni in un paesello di
Abruzzo. Lei era una donna di carattere; benché fornita di «dote e di doti», aveva detto calcando le
parole, si era ostinata a fare un matrimonio di amore. Ma poi, morto il marito, con quattro figli, che
fare in un villaggio di montagna? Farli marcire o «schiudere loro la strada dell'avvenire»? Aveva
preferito schiudere la strada dell'avvenire, aveva venduto le sue terre e la casa di provincia e ne
aveva comprata una in città.
Franz Kafka, Undici figli (KAFKA 1970, p. 255).
Il terzo figlio è bello anche lui, ma non di quella bellezza che mi piace. È la bellezza del cantante:
bocca sinuosa; occhi sognanti; una testa che, per spiccar bene, ha bisogno di un drappeggio dietro di
sé; petto che si gonfia esageratamente; mani che facilmente si levano in alto e troppo facilmente
ricadono in basso; gambe che si muovono con ricercatezza, perché non sanno portare. Inoltre il tono
della sua voce non è pieno: per un momento inganna; fa tender l'orecchio all'intenditore; ma subito
dopo si spegne.
Arturo Loria, Gli evasi (LORIA 1961, pp. 14-15).
Zambrino era un famoso eroe dell'evasione. Nella testa piccola, sotto la fronte prominente si
maturavano i piani che il coraggio e la pazienza appresa con gli anni attuavano in modo miracoloso.
Per lui l'evadere non nasceva dall'amore naturale alla libertà, ma da un bisogno acre di sfidare e
sorprendere la vigilanza di chi voleva tenerlo prigioniero. Quando, ripreso per la terza volta, gli
erano stati offerti grandi privilegi rispetto agli altri forzati per diventarne un guardiano, aveva
rifiutato quasi volessero togliergli il solo gusto che gli era rimasto in vita.
Elsa Morante, Un uomo senza carattere (MORANTE 1994, pp. 125-126).
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Quell'anno però fece la sua comparsa Candida V., ospite di una sua zia vecchia e zitella. Anche la
signorina, del resto, era poco meno di una vecchia zitella, avendo da qualche anno oltrepassata la
trentina. Ella asseriva di avere ventisei anni, ed era ancora abbastanza fresca; piccola e grassa,
camminava sulle gambe corte ancheggiando con sussiego. Aveva una grande chioma nera, faccia
tonda con occhi lucenti, ciglia lunghe, denti bianchi e minuti. La storia di questa signorina è presto
detta.
Alice Munro, Cara amica di gioventù (MUNRO 1998, pp. 14-15).
Flora ed Ellie erano due donne alte, con occhi e capelli scuri, spalle strette e gambe lunghe. Ellie era
un rottame, naturalmente, ma Flora aveva ancora uno splendido portamento, eretto e aggraziato.
Poteva sembrare una regina, diceva mia madre – anche mentre andava in città su quel carro che
avevano. Per andare in chiesa usavano un calesse o una slitta, ma quando andavano in città
dovevano spesso trasportare sacchi di lana – tenevano qualche pecora – o di prodotti agricoli da
vendere, e portare a casa le provviste che compravano. Non facevano spesso quel viaggio di pochi
chilometri. Robert sedeva davanti e guidava il cavallo – Flora era perfettamente in grado di guidare
un cavallo, ma doveva essere sempre l'uomo a farlo. Flora stava in piedi alle sue spalle, reggendosi
ai sacchi. Faceva sempre il viaggio di andata e ritorno in piedi, mantenendosi in equilibrio senza
difficoltà, il cappello nero in testa. Quasi ridicola, ma non del tutto. Sembrava la regina degli
zingari, pensava mia madre, con quei capelli neri e la pelle sempre un po' abbronzata,
imperturbabile nella sua flessuosità e spavalderia. Naturalmente le mancavano gli orecchini d'oro e
gli abiti dai colori vivaci. Mia madre le invidiava il fisico snello e gli zigomi alti.
Alice Munro, Il sasso nel pascolo (MUNRO 2008b, pp. 32-33).
Inutile, non sono mai riuscita a distinguerle. Si assomigliavano troppo. Dovevano esserci tra i
dodici e i quindici anni tra la prima e l'ultima, ma a me sembrava che fossero tutte sulla cinquantina,
più vecchie dei miei genitori, ma non proprio vecchie. Erano tutte scarne e di ossatura minuta e un
tempo potevano essere state abbastanza alte, ma ormai fatiche e postura dimessa le avevano
ingobbite. Certe tenevano i capelli corti, con un taglio semplice, da bambina; altre invece avevano
le trecce puntate in cima alla testa. Nessuna di loro era ancora del tutto bruna, e nessuna già tutta
grigia. Avevano facce pallide, sopracciglia irte e folte, occhi accesi e infossati, chi grigio-azzurri,
chi grigio-verdi, chi grigi. Assomigliavano parecchio a mio padre, che non stava curvo però, e i cui
lineamenti si erano aperti in modo diverso, facendo di lui un bell'uomo.
Assomigliavano parecchio a me. Allora non lo sapevo, né avrei voluto saperlo. Ma se dovessi
smettere di curarmi i capelli, di truccarmi e di depilarmi le sopracciglia, se mi mettessi un informe
vestito a fiori e sopra un grembiule e andassi in giro a testa bassa e braccia conserte? Beh, allora sì.
Perciò, quando mia madre e le sue cugine mi esaminavano, voltandomi verso la luce e chiedendosi:
«È una Chaddeley, o no? Tu che ne dici?», era la faccia dei Fleming che avevano davanti agli occhi,
e a dire il vero anche una faccia più bella della loro. (Non che avessero pretesa di essere carine; a
loro bastava portare il marchio dei Chaddeley).
Robert Musil, La portoghese (MUSIL 1960, p. 47).
Sua moglie, quando non leggeva in quei suoi libri illustrati, prendeva il vecchio servitore che
governava il castello e con lui vagabondava per i boschi. Il bosco si schiude ma la sua anima si
nasconde; ella si apriva la strada frammezzo agli alberi, s'arrampicava su per le pietraie, vedeva
animali e piste, ma nulla riportava a casa se non quei piccoli spaventi, difficoltà sormontate e
curiosità soddisfatte, che perdevano ogni interesse appena portati fuori dalla foresta, e quella verde
immagine che lei già conosceva dai racconti prima di venire a vivere nel paese; un mondo che, se
non si riusciva a penetrarvi, tornava a chiudersi dietro le spalle.
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Aldo Palazzeschi, Re pomodoro (PALAZZESCHI 1957, pp. 399-400).
In un veste di broccato rosa e bianco a incrostazioni d'argento, la donna era distesa morbidamente
sopra un lit de repos. Le braccia nude e fino alla metà dei seni il petto. Sorridente e soddisfatta
guardava l'uomo. Or si aggiustava addosso un fiore un pizzo od un gioiello, ora cacciava dalla
gonna immensa il piedino calzato di rosso, mostrando la caviglia per controllare la perfezione della
propria bellezza in ogni punto. Sorrideva vieppiù all'uomo rimasto fermo e ad occhi spalancati, non
riuscendo a distrarli dalla figura della donna che per guardarsi intorno timido e sospettoso: i mobili
imponenti della camera, le figure nei quadri e negli arazzi, i tappeti morbidi e il letto che pareva il
trono di tutte le morbidezze sotto l'alcova. E non appena poté riscuotersi da tanto stupore, battendo
e ribattendo il ciglio prese a guardarsi addosso. I piedi nudi e polverosi, le braccia, il petto villoso...
e poi guardava lei... e più ella sorrideva con disinvoltura e con grande allegria del suo smarrimento,
sempre lisciandosi qualcosa con somma voluttà o sopra o sotto. Non soltanto non la vedeva come
cosa che gli appartenesse, ma bensì come non fosse stata una cosa viva e vera di questo mondo, ma
arcisicuro di vedere in sogno.
Luigi Pirandello, Mondo di carta (PIRANDELLO 1952, p. 159).
Fin da quando aveva imparato a compitare, era stato preso da quella manía furiosa. Affidato da anni
e anni alle cure di una vecchia domestica che lo amava come un figliuolo, avrebbe potuto campare
sul suo più che discretamente, se per l'acquisto dei tanti e tanti libri che gl'ingombravano in gran
disordine la casa, non si fosse perfino indebitato. Non potendo più comprarne di nuovi, s'era dato
già due volte a rileggersi i vecchi, a rimasticarseli a uno a uno tutti quanti dalla prima all'ultima
pagina. E come quegli animali che per difesa naturale prendono colore e qualità dai luoghi, dalle
piante in cui vivono, così poco a poco era diventato quasi di carta: nella faccia, nelle mani, nel
colore della barba e dei capelli. Discesa a grado a grado tutta la scala della miopía, ormai da alcuni
anni pareva che i libri se li mangiasse davvero, anche materialmente, tanto se li accostava alla faccia
per leggerli.
J.D. Salinger, Per Esmé: con amore e squallore (SALINGER 2009, p. 110).
Il bambino, che doveva avere cinque anni, non era ancora pronto. Si liberò, divincolandosi, dal suo
giubbotto; poi, con l'espressione di marmorea impassibilità propria dei rompiscatole nati, si diede
metodicamente a infastidire la governante spingendo in avanti e poi di nuovo indietro la sua sedia,
molte volte di seguito e sempre guardandola fisso. La governante, tenendo la voce bassa, gli ordinò
due o tre volte di mettersi a sedere e, in altre parole, di piantarla di far lo scemo, ma solo quando sua
sorella gli parlò si decise ad applicare il fondo della schiena al fondo della sedia. Subito dopo prese
il suo tovagliolo e se lo mise sulla testa. Sua sorella lo tolse, lo aprì e glielo piegò in grembo.
Ardengo Soffici, Satana in treno (SOFFICI 1958, p. 20).
Io che ero seduto di faccia potei osservarlo anche meglio degli altri, e il suo aspetto, non so perché,
mi colpì subito molto gradevolmente. Era pallido, alto e snello; la sua faccia pensosa,
completamente rasa, avrebbe potuto esprimere una grande bontà se due occhi verdastri non vi
avessero portato come un lampo di cattiveria che veniva rinforzato da un ghigno sarcastico, il quale
guizzava quasi costantemente fra le linee sinuose dei labbri. Aveva i capelli di un nero perfetto, ma
– quantunque la sua età non potesse superare di molto i trent'anni – la loro rarità in cima al cranio
faceva indovinare a prima vista in lui uno di quei vecchi precoci che hanno brucato troppo in furia
l'albero della vita e per i quali non resta ormai che il piacere amaro di ruminare i ricordi del passato.
Era vestito con molta cura di nero e portava intorno al collo una cravatta di seta verde.
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Italo Svevo, Argo e il suo padrone (SVEVO 2004, pp. 96-97).
Argo non era un personaggio molto importante neppure fra' cani. I cacciatori dicevano che non
fosse di razza molto pure perché il suo corpo era un po' troppo lungo. Tutti riconoscevano la
bellezza del suo occhio vivo (anche quello troppo grande per un cane da caccia) del suo muso dal
disegno preciso e della sua ampia cervice. A caccia era impulsivo; qualche giorno era aggressivo
come quegli ubbriachi che aggrediscono perché portati dal loro peso. Le bastonature giovavano
qualche volta ma più sovente aumentavano la sua bestialità e allora pareva un toro in una bottega di
porcellane. Forse per questo suo carattere alleviò un po' il dolore della mia sconsolata solitudine.
Balordo e invadente, quando non mi faceva arrabbiare, mi faceva ridere.
Federigo Tozzi, Il temporale (TOZZI 1963, pp. 476-477).
Antonio era un timido, e non aveva mai sentito niente per nessuna donna. Da studente ne aveva
fatte di tutti i colori, ma così era sempre più sicuro di non innamorarsi sul serio. Una donna onesta,
per lui, era così differente a quelle che aveva avvicinato, che gli pareva di essere ancora vergine.
Egli studiava meglio gli ammalati che le ammalate; per visitare una donna cercava di far più presto
che fosse possibile, disattento, sempre con l'idea di poterne fare a meno. Non conosceva affatto
come vivevano le sorelle, quantunque fossero sempre con lui. Inoltre, egli amava sinceramente suo
fratello; con un attaccamento così profondo che, quando erano lontani, gli confidava sempre tutto;
scrivendo per lui perfino una specie di diario; con l'illusione, molte volte, di esprimere più i
sentimenti del fratello che i propri. Come, dunque, s'era innamorato della cognata?
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