RASSEGNA STAMPA lunedì 1 dicembre 2014 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Redattore Sociale del 01/12/14 Servizio civile, Arci: promessa non mantenuta La presidente Chiavacci commenta la bocciatura dell' "emendamento Patriarca" e valuta gli effetti del ridimensionamento degli investimenti: nel 2015 salteranno 1.800 posti e nel 2016 se ne potranno finanziare meno di 9 mila ROMA - "Altro che servizio civile universale! Un’altra promessa 'non mantenuta': questa volta riguarda i 100 mila giovani che secondo l’annuncio del presidente del consiglio avrebbero potuto accedere, grazie alla magnanimità delle risorse stanziate, al servizio civile nazionale". Lo sottolinea Francesca Chiavacci, presidente nazionale Arci. "Ieri pomeriggio l’annuncio è stato clamorosamente smentito dai fatti. Il governo ha infatti bocciato l’emendamento che attribuiva 200 milioni al servizio civile, anziché i 65 stanziati. Si tratta della cifra più bassa destinata al Scn dal 2001. Lo sbandierato investimento politico ed economico per la reale diffusione di questo importante strumento di impegno sociale e civile viene rinviato a data da destinarsi. Nessuna svolta dunque, al contrario ulteriori restrizioni per l’economia sociale". Secondo Arci "l’effetto di così magri finanziamenti sarà immediato: nel 2015 salteranno 1.800 posti nella programmazione degli avvii in Italia, che quindi non saranno più 24.500, e nel 2016 si potranno finanziare meno di 9 mila posti, chiudendo anche questa porta in faccia ai giovani, già colpiti da una disoccupazione ormai attestata sopra il 43%". "Continuando su questa strada - prosegue Chiavacci - il servizio civile nazionale è un’esperienza destinata ad esaurirsi. Nemmeno al governo Berlusconi era riuscita un’impresa del genere, per quanto ci avesse provato. Ora non resta che augurarsi che nel passaggio al Senato l’emendamento venga ripresentato e accolto. Ma forse aspettarsi coerenza e un sussulto di coscienza civile su queste tematiche da questo governo è davvero una ingenuità. Eppure ci ostiniamo a pensare che per far ripartire un paese sia indispensabile sostenere le buone pratiche". Da Extra Magazine del 30/11/14 O partigiano Oggi - domenica 30 novembre 2014 - in tante piazze d'Italia, l'ANPI terrà la sua Giornata Nazionale del tesseramento. Sarà un'occasione per incontrare le cittadine e i cittadini, riflettere con loro sul difficile momento che sta attraversando il nostro Paese, per parlare di neofascismo e di antifascismo, di lavoro come fondamento della Repubblica, di rinnovamento della politica, di democrazia. In più, particolare attenzione verrà posta alle Riforme Costituzionali e soprattutto a quella del Senato, già approvata in prima lettura in una versione che non potrebbe essere più inadeguata, anche rispetto alle linee portanti della Costituzione, nonché alla Legge elettorale, anch'essa già approvata dalla Camera in un testo contrario alle indicazioni della Corte Costituzionale e non corrispondenti alle attese e ai diritti dei cittadini. Su questi temi e, più in generale, sul tema della democrazia, l'ANPI intende illuminare il Paese e far sentire con forza la sua voce. Numerosi artisti, intellettuali e associazioni hanno aderito all’Anpi tra cui: la Presidente Nazionale dell’ARCI, Francesca Chiavacci; il Segretario Generale CGIL, Susanna Camusso; l’accademica e 2 giornalista, Nadia Urbinati; la cantante Giorgia e tanti altri. Il Comitato ANPI di Martina Franca sarà presente in Piazza Roma dalle ore 10:00 con un punto informativo per confrontarsi con i cittadini e promuovere l’attività associativa. http://www.extramagazine.eu/it/blog/7-eventi/3888-martina-francao-partigiano.html Da Huffington Post del 01/12/14 Giulio Marcon Deputato indipendente di Sel. Fondatore campagna Sbilanciamoci Servizio civile, Renzi prende in giro l'Italia "Renzi prende in giro l'Italia", così ha titolato la Consulta nazionale degli enti di servizio civile (di cui fanno parte la Caritas, l'Arci, le Ispettorie salesiane, l'Avis, le Acli e altri) un comunicato stampa, alla notizia che la legge di stabilità riduce a 65 milioni lo stanziamento per il servizio civile. Mai un finanziamento così basso. Persino il governo Letta aveva fatto meglio, stanziando 105 milioni di euro. Questo significa che decine di migliaia di ragazze e ragazzi non potranno svolgere nel 2015 un servizio civile utile alla comunità e che realizza attività con anziani, disabili, bambini. Renzi prende in giro l'Italia perché da una parte propone il "servizio civile universale" e dall'altra riduce gli stanziamenti per il servizio civile attualmente esistente. A parole vuole fare un servizio civile per tutti; nei fatti consente il servizio civile solo a pochi. Sel ha presentato durante la discussione della legge di stabilità un emendamento (mia prima firma) per aumentare il finanziamento del servizio civile di 60 milioni, ma il governo si è opposto e il Pd ha votato contro l'aumento previsto dall'emendamento. Particolarmente sconcertante è stato l'atteggiamento del Pd, che ha proposto un emendamento (a nome di alcuni deputati) per portare a 200 milioni i fondi per il servizio civile. In Commissione bilancio l'emendamento (del Pd) ha avuto i voti favorevoli di Sel e Movimento 5 stelle, ma -saputo che il governo non avrebbe dato il via libera - i voti contrari del Pd. Ma poi lo stesso Pd ha presentato due giorni dopo un ordine del giorno (cioè poco più che un invito) che chiede al governo di ripensarci e di aumentare i fondi. Una presa in giro, anche questa. Il servizio civile avrebbe invece bisogno di serietà e di scelte concrete, non di annunci e di promesse. E di risorse. In ballo non è solo l'impegno di pace di migliaia di ragazzi e di ragazze, ma di tanti servizi utili alla comunità che -senza l'apporto del servizio civileverrebbero meno. E questo il paese non può permetterselo. http://www.huffingtonpost.it/giulio-marcon/servizio-civile-renzi-prende-giroitalia_b_6246396.html?utm_hp_ref=italy del 29/11/14, pag. 15 CasaPound ferma i bimbi rom a scuola Roma, cinquecento manifestanti dell’estrema destra con striscioni e fumogeni lungo la via che collega il campo alle classi La denuncia: “Hanno impedito agli alunni di arrivare tra i banchi”. La replica: accuse gratuite. Il Campidoglio: gesto meschino MAURO FAVALE 3 ROMA . Lo schema è collaudato: la “voce” di un’aggressione più o meno verificata che si diffonde in un quartiere con tutti i problemi della periferia, un gruppo di stranieri (di solito nomadi, romeni o richiedenti asilo) indicato come responsabile della violenza, l’estrema destra e Casa-Pound (con o senza il leghista Mario Borghezio) che manifestano contro «il degrado delle nostre città». Accade a Roma, a scadenze regolari, da almeno due mesi. Dopo Corcolle, Tor Sapienza e Infernetto, ora tocca a Torrevecchia, periferia nord ovest della capitale poco lontano da Monte Mario, dove ieri una manifestazione del Blocco studentesco, “braccio” di CasaPound nelle scuole, ha di fatto impedito che 90 ragazzini e ragazzine del vicino campo nomadi di via Cesare Lombroso potessero andare chi alle materne, chi alle elementari e chi alle medie. Un episodio denunciato da due cooperative, Arci Solidarietà e Eureka, che lavorano con i 200 abitanti di un insediamento che esiste in quella zona da oltre trent’anni. I giovani di CasaPound reggono uno striscione con su scritto «No alle violenze dei rom. Alcuni italiani non si arrendono», lo slogan delle manifestazioni dei Forconi di un anno fa. Sono circa 500, accendono qualche fumogeno, sventolano i tricolori, scandiscono cori contro i nomadi. La situazione diventa tesa, arrivano la municipale e le forze dell’ordine, i 90 ragazzi, accompagnati dai genitori, decidono di restare nel campo e rinunciare a un giorno di scuola. Replica il Blocco studentesco: «Non è stato impedito a nessuno di uscire dal campo nomadi. La ricostruzione fornita è del tutto priva di fondamento. La manifestazione si è svolta davanti agli istituti, non davanti al campo rom che sfortunatamente, per miope scelta non nostra né degli studenti, dista qualche centinaio di metri». E anche la questura, in serata, spiega che «il sit-in non ha creato pericolo o intralcio al traffico né tantomeno ha impedito agli studenti di accedere all’interno delle aule, né risulta che sia stato impedito il passaggio di alcuni bambini rom che stavano andando a scuola». «Ma con 500 persone lì fuori, i genitori dei bambini non si sono sentiti sicuri di uscire. Erano intimiditi», ribattono dall’Arci Solidarietà. «E ora sono sotto shock», aggiungono i dirigenti scolastici. Anche perché, da qualche giorno, in quella zona la convivenza si è fatta più complicata, dopo la denuncia di un vero e proprio assalto all’istituto, con sassi e bottiglie, da parte di un gruppo di nomadi contro gli studenti di tre scuole. Lo ricorda anche CasaPound, scesa in piazza ieri proprio dopo la presunta aggressione. «Presunta» perché già due giorni fa l’episodio è stato smentito con nettezza sia dal Municipio sia dai dirigenti scolastici che hanno stigmatizzato «questo clima di allarme intorno alla scuola». In realtà, nel quartiere si racconta di una bravata di due sedicenni abitanti del campo che sarebbero entrati nel cortile della scuola a bordo di un motorino creando un po’ di scompiglio e sarebbero poi stati allontanati. Un episodio a cui si aggiungono le denunce dei residenti contro «i roghi tossici» all’interno del villaggio dove verrebbero bruciati rifiuti di vario tipo. L’episodio di ieri, però, si mette in scia alle proteste delle periferie romane ed evidenzia il nuovo protagonismo di CasaPound nella capitale. Numerose le prese di posizione dal mondo politico e istituzionale contro la manifestazione del movimento di estrema destra. Per il Campidoglio intervengono il vicesindaco Luigi Nieri e l’assessore alla Scuola Alessandra Cattoi: parlano di «un gesto meschino, un atto di razzismo che va contro ogni principio democratico». La comunità di Sant’Egidio, poi, sollecita maggiora attenzione: «Occorre vigilare ed impedire che un clima di violenza e sopraffazione calpesti il primo luogo di crescita e libertà per i nostri ragazzi, il primo loro diritto, quello allo studio». 4 Del 29/11/2014, pag. 5 L’Arci: «Casapound ha impedito ai bimbi rom di entrare a scuola» Roma. Interrogazione ad Alfano: «Fermare i razzisti» Sarà raccontata dai media mainstream come l’ennesimo atto di intolleranza delle periferie romane, ma questa volta, se ce n’era bisogno, la verità è sotto gli occhi di tutti. «Un gruppo di “manifestanti” di Cas<CW-11>a Pound ha bloccato l’uscita del Villaggio Attrezzato di Via Cesare Lombroso, nel Municipio XIV, mentre i bambini e i ragazzi del campo si apprestavano ad andare a scuola. Lo stesso è avvenuto di fronte ad alcuni plessi scolastici della zona, in cui i minori rom sono iscritti»: la denuncia viene dall’Arci e dalla Cooperativa Eureka I che lavora nel campo rom nella periferia nord ovest della Capitale con progetti di scolarizzazione dei bambini. La reazione del Campidoglio è immediata e dura: «Un gesto vergognoso e grave – lo definisce il vicesindaco Luigi Nieri – che respingiamo con forza. Un atto di razzismo che va contro ogni principio democratico e che vuole impedire ogni percorso di integrazione e accoglienza». E un’interrogazione al ministro Alfano è stata presentata dalla capogruppo Pd della commissione Cultura della Camera, Maria Coscia, con la richiesta di «fare luce su quanto accaduto» e di «prendere misure urgenti per fare in modo che non si ripetano più gesti di inaudita violenza e in chiara violazione della Carta Costituzionale» e dei «diritti inalienabili» dell’infanzia e dell’adolescenza. </CW>Con i tipici striscioni che abbiamo visto in queste ultime settimane nelle borgate romane in rivolta e nella “marcia delle periferie” del 15 novembre scorso, i militanti di Casa Pound e Blocco studentesco hanno deciso, insieme ad alcuni studenti degli istituti Tacito e Domizia Lucilla, di spaventare gli abitanti del campo di Via Lombroso prendendo a pretesto «le provocazioni di alcuni esponenti di etnia rom, che nei giorni scorsi avevano lanciato dei sassi all’indirizzo di alcuni studenti italiani che frequentano gli istituti del quartiere». «È una situazione invivibile, per questo abbiamo voluto dimostrare che ci sono ragazzi italiani che non sono disposti a subire in silenzio questo tipo di prepotenze», riconosce lo stesso Fabio Di Martino, responsabile nazionale del Blocco Studentesco, che smentisce però la ricostruzione degli eventi. «La manifestazione si è svolta davanti all’istituto — afferma Di Martino — Non abbiamo bloccato l’uscita del campo né tanto meno messo a repentaglio la sicurezza di chicchessia». Eppure anche sul caso delle presunte sassaiole da parte dei giovani rom contro i vicini istituti scolastici c’è qualcosa che non torna. Se n’è occupato il presidente del XIV municipio, Valerio Barletta, dopo la ricostruzione degli eventi fornita dal Messaggero: «Ho scritto personalmente al Dott. Musti, dirigente del commissariato di Primavalle, al Capitano Acquotti, comandante della compagnia Trionfale dei Carabinieri e al Dott. Bertola, comandante della polizia locale per sapere se erano state presentate a loro denunce ovvero se a loro risultavano fatti, seppure non denunciati, ma riconducibili a quelli riportati dal quotidiano — ricostruisce Barletta – Posso dichiarare adesso con certezza che nessuno dei fatti pubblicati è mai stato denunciato nei scorsi giorni e nelle scorse settimane. Tengo a precisare la stessa presa di distanza da parte delle Dirigenti delle due scuole coinvolte su una notizia costruita, spaventate oggi perché negli anni avevano riscontrato miglioramenti nel processo di integrazione dei bambini rom». «Le due Dirigenti — conclude Barletta – mi hanno chiesto di aiutarle a far sì che non accada mai più che dei ragazzi, ex alunni o provenienti da altri quartieri limitrofi, neghino il diritto ad altri ragazzi di entrare a scuola e seguire le lezioni». 5 Del 29/11//2014, pag. 21 CasaPound blocca la strada e i rom non vanno in classe Arci, Pd e Comune di Roma: atto grave. La replica: l’accusa è falsa ROMA «Vogliamo farci sentire», «Basta con le violenze dei rom. I ragazzi italiani non si arrendono». Ieri mattina verso le otto, nel quartiere romano di Torrevecchia, circa cinquecento militanti delle organizzazioni di destra CasaPound e Blocco studentesco si sono riuniti vicino al campo rom di via Cesare Lombroso (200 persone in tutto), bloccando l’unica strada di accesso all’area e impedendo, di fatto, ai bambini di andare a scuola. «Non si sono mossi dai container, erano terrorizzati — spiega Carla Bartolucci, responsabile della cooperativa sociale Eureka I che, assieme all’Arci Solidarietà, opera nel campo —. Sono anni che lavoriamo sulla scolarizzazione e da qualche tempo i bambini vanno a scuola a piedi o accompagnati dai genitori. Episodi come questi certo non aiutano l’integrazione». E sulle periferie romane, dopo qualche giorno di tregua, torna l’incubo del razzismo e dell’intolleranza. «Un gesto di inaudita violenza e di violazione della Carta costituzionale» lo ha definito il capogruppo del Pd in commissione Cultura alla Camera Maria Coscia durante un’interrogazione parlamentare al ministro dell’Interno Alfano mentre per il Campidoglio si tratta di «un fatto grave e vergognoso» che però in serata il movimento di estrema destra ha smentito giudicando la ricostruzione «un’accusa falsa e gratuita». «È comunque inconcepibile — ha replicato Fabio Di Martino, di Blocco studentesco — che le scuole romane sono fatiscenti e il sindaco Marino e le istituzioni finanzino i campi rom o i centri d’accoglienza». Per il presidente della Comunità di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo, Roma deve impegnarsi «in una riflessione più profonda sulla convivenza perché bisogna lavorare insieme per creare reti di dialogo e solidarietà che sconfiggano un clima di paura e spaesamento, aiutino ad abbassare i toni e a costruire, insieme, una città più aperta e sicura per tutti». Secondo una prima ricostruzione, gli esponenti di destra avrebbero bloccato l’ingresso di alcuni istituti della zona dove sono iscritti i bambini nomadi, ma la questura di Roma, che ha identificato molti dei partecipanti alla manifestazione, non autorizzata, avrebbe smentito. Nei giorni scorsi alcuni esponenti dell’estrema destra avevano denunciato il «lancio di pietre da parte di alcuni nomadi contro gli studenti di due istituti della zona, il Cartesio e il Domizia Lucilla, che sorgono nei pressi di un campo». Ieri quindi «il presidio di protesta per rispondere con forza alle provocazioni di alcuni esponenti di etnia rom». Violenze che non sono mai state denunciate alle forze dell’ordine, smentite dal municipio e dalle dirigenti scolastiche dei due istituti. Gli stessi operatori sociali che lavorano nel campo hanno però denunciato il progressivo degrado della struttura di via Lombroso. «Da qualche anno molti stranieri e non solo rom vivono per strada lì fuori — aggiunge Carla Bartolucci — i container sono distrutti, la sporcizia è ovunque e gli operatori del Comune non vengono a pulire. Questo campo è piccolo, si potrebbe tentare la sperimentazione di un nuovo modo di favorire l’integrazione. Bisognerebbe mettersi intorno a un tavolo, questo episodio genera solo paura». Flavia Fiorentino 6 Del 29/11/2014, pag. 11 TRAPPOLA NERA PER I BIMBI ROM A ROMA LA MANIFESTAZIONE DI BLOCCO STUDENTESCO HA IMPEDITO AI FIGLI DEI NOMADI DI ANDARE A SCUOLA Di Valeria Pacelli Le madri con i loro figli ieri hanno avuto paura a uscire dal campo rom. Davanti ai loro occhi c’era un cordone di 400 persone con fumogeni che urlavano zingari, siete sporchi”. Una donna racconta la giornata di ieri a Torrevecchia, zona a nord di Roma dove si è tenuta una manifestazione di Blocco Studentesco, costola del movimento di estrema destra Casa- Pound, che ha sbarrato – secondo la denuncia delle associazioni –l’uscita dei rom per andare a scuola. Così da una parte c’era - no i nomadi che da trent’anni occupano il campo, dall’altra 500 ragazzi di Blocco Studentesco. Nel mezzo c’era la rabbia, sia delle famiglie rom, sia degli studenti con i loro fumogeni e i loro striscioni con scritto: “Stop alle violenze dei rom, alcuni italiani non si arrendono”. IL SIT IN si è tenuto davanti agli istituti Tacito e Domizia Lucilla, il primo è un liceo classico, il secondo un istituto alberghiero che ospita solo due studenti rom, due ragazze di 16 e 17 anni. Entrambe le scuole si trovano in via Cesare Lombroso, proprio accanto al campo nomadi, che si sono visti assediare dai giornalisti dopo che qualche giorno fa alcuni giornali locali hanno raccontato le storie di violenza fatte dai rom ai danni di chi frequentava l’istituto. E Blocco Studentesco ieri era lì per manifestare proprio contro questa situazione. Secondo la denuncia dell’associazione Arci Solidarietà e della cooperativa Eureka, i manifestanti avrebbero impedito ai rom di uscire dal campo per andare a scuola. Versione confermata anche da Humila Halilovic che da qualche tempo, per l’at - tenzione mediatica, si è fatta portavoce del campo rom. “C’era una folla di persone all’entrata del campo –racconta Humila raggiunta dal Fatto –Sa - ranno stati in 400. Non sapevamo quello che volevamo ma le madri erano spaventate. Ci minacciavano”. Qualcuno con le auto è riuscito ad uscire. “Sono passati dalla strada laterale - continua la donna – ma solo perchè c’erano polizia e vigili che li proteggevano. Tante altre madri non hanno avuto il coraggio di superare la folla”. Blocco Studentesco smentisce di aver impedito l’uscita dei nomadi dal campo: “È una ricostruzione priva di fondamento – dice Fabio Di Martino, coordinatore di Blocco Studentesco – La manifestazione si è svolta davanti agli istituti, non davanti al campo rom che sfortunatamente, per miope scelta non nostra né degli studenti, dista qualche centinaio di metri”. “Con questa manifestazione spontanea e pacifica - continua Di Martino – abbiamo voluto esprimere la nostra solidarietà agli studenti che sono stati bersaglio di lanci di sassi, bottiglie e anche di offese e stiamo preparando una manifestazione più grande per venerdì prossimo”. L’episodio a cui si riferisce il portavoce di Blocco Studentesco e che ha scatenato questa reazione è quello riportato alcuni giorni fa dai giornali locali. Un dirigente scolastico aveva raccontato di alcuni ragazzi provenienti dal campo rom che avevano fatto irruzione nella scuola, a bordo di un motorino rubato. Quando i bidelli se ne sono accorti, i due giovani sarebbero scappati scavalcando il cancello. A questo episodio sono stati aggiunti altri dettagli, come le dichiarazioni di alcuni studenti che raccontavano di sassi e bottiglie lanciate contro di loro dal campo accanto alla scuola. Dopo due giorni dalla pubblicazione di queste storie però sono arrivate le smentite da parte di alcune istituzioni, come Valerio Barletta, Presidente del XIV Municipio che anche ieri ha ribadito: “Posso dichiarare adesso con certezza che nessuno dei fatti pubblicati è mai stato denunciato nei scorsi giorni e nelle scorse settimane. I dirigenti delle 7 due scuole coinvolte su una notizia costruita ora sono spaventate”. STESSA VERSIONE fornita dall’Assessore alle Politiche sociali Barbara Funari e dall’As - sessore alla Scuola Daniela Scocciolini dello stesso municipio che nei giorni scorsi hanno dichiarato che “Entrambe le Dirigenti hanno stigmatizzato questo clima strumentale e di allarme intorno alla scuola affermando che la situazione non desta preoccupazione”. Insomma non ci sarebbe alcun clima di violenza. Sul caso del ragazzo rom entrato nell’istitu - to alberghiero, la cooperativa Eureka dà una versione diversa, spiegando che si tratta di un giovane che, accompagnato dal fratello, era andato a scuola a chiedere di essere riammesso. I bidelli a quel punto, poiché non era iscritto, lo avrebbero mandato via. Lui irato, avrebbe scavalcato il cancello, lasciando così il motorino all’interno. Versioni diverse, con un unico risultato: altro odio. Come se non bastasse quello che aveva già sconvolto un’altra zona di Roma, Tor Sapienza Del 29/11/2014, pag. 17 Casa Pound blocca i bimbi rom Impedito il loro ingresso a scuola I manifestanti smentiscono. Interrogazione del Pd ad Alfano Flavia Amabile Le periferie di Roma sono ogni giorno di più una polveriera su cui è molto facile accendere un fuoco. Ieri nella parte nord della capitale circa 500 esponenti di Casa Pound e del Blocco Studentesco hanno impedito ad alcuni bambini rom il regolare ingresso a scuola. A denunciare l’accaduto sono state le associazioni Eureka ed Arci Solidarietà mentre i movimenti di estrema destra smentiscono tutto e la vicenda è diventata un caso politico con un’interrogazione da parte della deputata del Pd Maria Coscia al ministro dell’Interno Angelino Alfano per evitare che episodi del genere, violenti e incostituzionali, si ripetano. «Stop alle violenze dei rom, alcuni italiani non si arrendono», era scritto sullo striscione usato dagli oltre 500 esponenti del Blocco Studentesco e alcuni studenti degli istituti Tacito e Domizia Lucilla durante una manifestazione in via Cesare Lombroso, vicino ad un campo nomadi. Ma la manifestazione è presto diventata anche altro, secondo il racconto delle associazioni. «Hanno impedito a tutte le persone nel campo di uscire creando anche una situazione di panico e paura - sostiene la cooperativa Eureka - Si tratta di un campo dove vivono circa duecento persone e che esiste da oltre trent’anni con cui siamo al lavoro con diversi progetti di inclusione. Con il gesto di queste persone è stato impedito a circa 90 bambini di scuole elementari e medie di andare a scuola. Si tratta di un fatto di una gravità inaudita». Blocco Studentesco conferma il picchetto per manifestare contro i rom del campo. In una nota spiega che la manifestazione è stata organizzata «per rispondere con forza alle provocazioni di alcuni esponenti di etnia rom, che nei giorni scorsi avevano lanciato dei sassi all’indirizzo di alcuni studenti italiani che frequentano gli istituti del quartiere». Come aggiunge il responsabile nazionale del Blocco, Fabio Di Marino: «È una situazione invivibile, per questo oggi abbiamo voluto dimostrare che ci sono ragazzi italiani che non sono disposti a subire in silenzio questo tipo di prepotenze». Il movimento, però, nega di aver impedito «a qualcuno di uscire dal campo nomadi di via Cesare Lombroso. La ricostruzione fornita dalla cooperativa Eureka è del tutto priva di fondamento», avverte Fabio Di Martino. «La manifestazione - spiega - si è svolta davanti agli istituti, non davanti al campo rom che sfortunatamente, per miope scelta non nostra né degli studenti, dista qualche centinaio di metri». 8 Il Campidoglio ha condannato il gesto, e anche altri settori della destra romana hanno preso le distanze. «Si tratta di una violazione grave di un diritto sancito dalla Costituzione che, come tale, va rispettato e garantito. Ma anche di un gesto vile nei confronti di minori fragili», afferma l’assessore alla Scuola, Alessandra Cattoi. «Un atto di razzismo che va contro ogni principio democratico», è la condanna del vicesindaco Luigi Nieri. «La scuola rappresenta non solo un luogo di studio ma un ambito di crescita culturale e umana per tutti gli studenti», ha ricordato Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio. E, quindi, «occorre vigilare ed impedire che un clima di sopraffazione calpesti il primo luogo di crescita e libertà per i nostri ragazzi». del 29/11/14, pag. 17 Roma, sit in di Casapound dopo gli assalti rom a scuola ROMA Ancora insofferenza nella periferia romana. Dopo i lanci di bottiglie e pietre agli studenti, in duecento ieri mattina hanno manifestato contro gli assalti rom alle scuole di Torrevecchia. Quello che avrebbe dovuto essere solo un sit-in di Blocco Studentesco, il movimento giovanile dell'organizzazione di estrema destra Casapound, si è trasformato in una protesta a cui hanno aderito circa duecento alunni delle scuole che hanno sede accanto al campo nomadi di via Lombroso, gli alberghieri Domizia Lucilia e Luxemburg e il classico Tacito. Le associazioni Eureka e Arci Solidarietà hanno denunciato che alcuni manifestanti avrebbero impedito a 90 bambini rom di andare a scuola. Dal XIV Municipio però spiegano che sono stati i vigili urbani ad impedire ai piccoli alunni di uscire dal campo, data la tensione che si era creata fuori dalla scuola. Intanto i rappresentanti d'istituto prendono le distanze da Casapound. «I ragazzi in piazza non avevano colori politici», spiega il rappresentante del Domizia Lucilia, Daniele Di Domenicantonio, 18 anni. «È stata una manifestazione pacifica, per parlare dei problemi che viviamo». Un episodio giudicato dal Campidoglio «gravissimo». Nei giorni scorsi alcuni professori avevano denunciato il «lancio di pietre da parte di alcuni nomadi contro gli studenti». Ieri, l'azione in risposta «a quelle violenze». «I militanti hanno bloccato l'uscita del campo ai bimbi dicono le associazioni - e bloccato l'ingresso ad alcuni istituti ». Ma dalla Questura ribattono: «II sit-in non ha creato pericolo né tantomeno ha impedito agli studenti di accedere all'interno delle aule. Non risulta che sia stato impedito il passaggio di alcuni bambini rom che stavano andando a scuola». Il Pd col deputato Maria Coscia ha presentato sull'accaduto un'interrogazione al ministro Angelino Alfano sollecitando «misure urgenti». del 29/11/14 pag. 49 (Roma) Dopo gli assalti rom arriva Casapound di Lorenzo De Cicco e Elena Panarella Ancora intolleranza nella periferia romana. Dopo i lanci di bottiglie e pietre agli studenti, in duecento ieri mattina hanno manifestato contro gli assalti rom alle scuole di Torrevecchia. 9 Quello che avrebbe dovuto essere solo un sit-in di Blocco Studentesco, il movimento giovanile dell'organizzazione di estrema destra Casapound, si è trasformato in una protesta a cui hanno aderito circa duecento alunni delle tre scuole che hanno sede accanto al campo nomadi di via Lombroso, gli alberghieri Domizia Lucilla e Luxemburg e il classico Tacito. Le associazioni Eureka e Arci Solidarietà hanno denunciato che alcuni manifestanti avrebbero impedito a 90 bambini rom di andare a scuola. Dal XIV Municipio però spiegano che sono stati i vigili urbani ad impedire ai piccoli alunni di uscire dal campo, data la tensione che si era creata fuori dalla scuola. Intanto i rappresentanti d'istituto prendono le distanze da Casapound. «I ragazzi in piazza non avevano colori politici», spiega il rappresentante del Domizia Lucilla, Daniele Di Domenicantonio, 18 anni. «È stata una manifestazione pacifica, senza simboli, per parlare dei problemi che viviamo noi che queste scuole le frequentiamo tutti i giorni». Un episodio giudicato dal Campidoglio «gravissimo» ma che, in serata, il movimento ha smentito «un'accusa gratuita». Nei giorni scorsi alcuni professori avevano denunciato il «lancio di pietre da parte di alcuni nomadi contro gli studenti degli istituti scolastici della zona». Ieri, l'azione in risposta «a quelle violenze». CANCELLI BLOCCATI «I militanti hanno bloccato l'uscita del campo mentre bimbi e ragazzi si apprestavano ad andare a scuola - dicono gli operatori delle due associazioni - e successivamente hanno bloccato l'ingresso ad alcuni istituti della zona in cui sono iscritti i bambini nomadi». Ma dalla Questura ribattono: «Il sit-in non ha creato pericolo o intralcio al traffico cittadino né tantomeno ha impedito agli studenti di accedere all'interno delle aule. Anche le attività all'interno del campo nomadi sono proseguite regolarmente e non risulta che sia stato impedito il passaggio di alcuni bambini rom che stavano andando a scuola». La polemica si accende. L'assessore alla scuola, Alessandra Cattoi giudica il gesto «meschino, una violazione grave di un diritto sancito dalla Costituzione che, come tale, va rispettato e garantito, un gesto vile nei confronti di minori fragili che dovrebbero essere protetti». Le dirigenti scolastiche dei due istituti hanno incontrato il presidente del municipio, Valerio Barletta. «Mi hanno chiesto di aiutarle a far sì che non accada mai più spiega il minisindaco - che dei ragazzi neghino ad altri ragazzi il diritto di entrare a scuola e seguire le lezioni». Il Pd col deputato Maria Coscia ha presentato sull'accaduto un'interrogazione al ministro Angelino Alfano sollecitando «misure urgenti per fare in modo che non si ripetano più gesti in chiara violazione della Carta Costituzionale». Quello che si teme ora è un effetto Tor Sapienza, ovvero una nuova rivolta anti immigrati e nomadi come successo nel quartiere alla periferia sud di Roma con l'assalto ad un centro rifugiati. Un effetto che potrebbe essere favorito anche da chi soffia sul fuoco della paura e del pregiudizio. Da TgCom del 28/11/14 Roma, protesta di Casapound contro i rom Arci: "Bimbi bloccati fuori da alcune scuole" Ma la questura smentisce: "Nessuno ha impedito agli studenti di entrare" 21:25 - Alcuni gruppi di militanti di Casapound e del Blocco Studentesco hanno protestato contro i rom davanti ad alcune scuole della periferia nord di Roma. Secondo quando denunciato dai gruppi Arci Solidarietà e cooperativa Eureka, i manifestanti avrebbero impedito a bambini e ragazzi rom l'accesso a scuola. Ricostruzione smentita però dalla 10 questura di Roma: "Non risulta che sia stato impedito il passaggio di alcuni bambini rom che stavano andando a scuola". "Ci troviamo di fronte ad un episodio di estrema gravità - scrivono le associazioni -. E' evidente che il clima da caccia alle streghe che si respira in città, non possa più essere sopportato". Secondo la loro ricostruzione, i militanti di estrema destra avrebbero bloccato l'uscita del campo di via Cesare Lombroso, nel XIV Municipio, mentre bimbi e ragazzi si apprestavano ad andare a scuola. Stessa scena anche davanti ad alcuni istituti della stessa zona in cui sono iscritti i rom. La questura: "Nessuno ha bloccato a ragazzi" - "Il sit-in - ha fatto sapere la questura di Roma in serata - non ha creato pericolo o intralcio al traffico cittadino né tantomeno ha impedito agli studenti di accedere all'interno delle aule. Anche le attività all'interno del campo nomadi sono proseguite regolarmente e non risulta che sia stato impedito il passaggio di alcuni bambini rom che stavano andando a scuola". http://www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/lazio/roma-protesta-di-casapound-contro-i-romarci-bimbi-bloccati-fuori-da-alcune-scuole-_2081934201402a.shtml Da Dire del 28/11/14 Roma. Arci: "Casapound blocca l'accesso a scuola dei bimbi rom" di Ugo Cataluddi ROMA - “Questa mattina, un gruppo di manifestanti di Casapound ha bloccato l’uscita del villaggio attrezzato di via Cesare Lombroso, nel Municipio XIV, mentre i bambini e i ragazzi del campo si apprestavano ad andare a scuola. Lo stesso è avvenuto di fronte ad alcuni plessi scolastici della zona, in cui i minori rom sono iscritti”. A denunciarlo sono l’Arci Solidarietà onlus e la cooperativa sociale Eureka, le due associazioni coinvolte nella vita del campo di via Cesare Lombroso. A distanza di due giorni dalla notizia - rivelatasi poi creata ad arte, secondo quanto sostengono le associazioni - dei raid compiuti da alcuni rom negli istituti scolastici della zona, sarebbe arrivata anche una sorta di 'rappresaglia' da gruppi di estrema destra. "Stiamo parlando di un campo abitato da 200 persone- ha aggiunto Valerio Tursi, presidente dell'Arci Solidarietà in un Municipio composto da più o meno 200mila abitantinon credo che sia un territorio che versa in una particolare emergenza. Senza contare che stiamo parlando di bambini che frequentano le elementari e le medie, tutti di un'età che non supera i 13 anni. Quello che è successo è vergognoso, perchè si è tentato di negare un diritto fondamentale e inalienabile, come il diritto ad andare a scuola". Questa sarebbe stata la dinamica dei fatti: i militanti di Casa Pound, avrebbero bloccato sia l'uscita dal campo di operatori e bambini, sia l'ingresso nelle scuole, dove sarebbero stati srotolati striscioni con la scritta 'Stop alle violenze dei rom, alcuni italiani non si arrendono'. Indignazione anche dal gruppo Pd in Campidoglio, che in una nota ha condannato il gesto come "vergognoso e inaccettabile, se non anche meschino e vile. I fatti denunciati da Arci Solidarietà e dalla cooperativa Eureka sono gravi e colpiscono in maniera violenta un'infanzia già per molti versi complessa. Il diritto allo studio è un diritto riconosciuto dalla nostra Costituzione e dai trattati internazionali a tutela dell'infanzia e dell'adolescenza. E la violenza di questa mattina non solo dimostra l'inadeguatezza di gruppi che pensano di fare politica, ma è anche e soprattutto la violazione grave di un diritto. Chi usa violenza e impedisce l'esercizio di un diritto non fa politica. Fa altro. Si faccia chiarezza e si isolino quegli estremismi che danno di Roma un'immagine razzista e xenofoba". 11 L'indignazione infine, non avrebbe colpito solo il mondo dell'associazionismo e di una parte della politica capitolina. Anche i docenti degli istituti si sarebbero mobilitati per chiedere alle istituzioni "una condanna per quanto accaduto" essendo i bambini rom "alunni modello, per i quali non deve esser negato il diritto allo studio". http://www.dire.it/home/9389-roma-arci-casapound-blocca-bimbi-roma-scuola.dire Da RaiNews 24 del 28/11/14 La denuncia delle associazioni Roma, CasaPound impedisce accesso a scuola a bambini di etnia rom Manifestazione in Via Lombroso, il Blocco Studentesco: "Abbiamo risposto al lancio dei sassi contro alcuni studenti italiani". Le associazioni: "Un clima da caccia alle streghe". Arriva la condanna del Campidoglio: "Un gesto vile, violazione di un diritto costituzionale" Militanti di CasaPound e del Blocco Studentesco hanno impedito a bambini e ragazzi di etnia rom l'accesso in diverse scuole nella zona nord di Roma. "Un gruppo di manifestanti di CasaPound ha bloccato l'uscita del Villaggio Attrezzato di Via Cesare Lombroso, nel Municipio XIV, mentre i bambini e i ragazzi del campo si apprestavano ad andare a scuola" la denuncia di Arci Solidarietà e della cooperativa Eureka. Stessa scena, ricostruiscono, anche davanti ad alcuni istituti della stessa zona in cui sono iscritti ragazzi di etnia rom. "Stop alle violenze dei rom, alcuni italiani non si arrendono", uno degli striscioni esposti dai manifestanti. "Ci troviamo di fronte ad un episodio di estrema gravità", il commento delle associazioni. "È ormai evidente che il clima da 'caccia alle streghe' che si respira nella nostra città, alimentato da cattiva informazione e sfruttato da uno squallido opportunismo politico, non possa più essere sopportato". Il Blocco Studentesco: "Risposta al lancio di pietre" A confermare l'episodio il Blocco Studentesco che ha parlato di oltre 500 studenti degli istituti Tacito e Domizia Lucilla che hanno manifestato questa mattina in via Cesare Lombroso a Roma nei pressi del campo nomadi, "per rispondere con forza alle provocazioni di alcuni esponenti di etnia rom, che nei giorni scorsi avevano lanciato dei sassi all'indirizzo di alcuni studenti italiani che frequentano gli istituti del quartiere". Poi la precisazione: "Stamattina non è stato impedito a nessuno di uscire dal campo nomadi di via Cesare Lombroso. La manifestazione è avvenuta di fronte agli istituti". La condanna del Campidoglio Dal Campiodglio arriva una dura condanna. "Si tratta di una violazione grave di un diritto sancito dalla Costituzione che, come tale, va rispettato e garantito. Ma anche di un gesto vile nei confronti di minori fragili che dovrebbero essere protetti e tutelati e non trattati con violenza e aggressività" dice Alessandra Cattoi, assessore alla Scuola, Infanzia, Giovani e Pari Opportunità di Roma Capitale. "Condanno fermamente il gesto meschino di uno sparuto gruppo riconducibile all'estrema destra che questa mattina ha impedito ai bambine e alle bambine del campo rom di via Cesare Lombroso e ai loro operatori di andare a scuola". E aggiunge "Il lavoro quotidiano sul territorio di molte associazioni per la scolarizzazione dei rom e per l'inclusione scolastica non può essere messo a repentaglio da chi mette in atto comportamenti di matrice razzista e xenofoba. Roma non tollera episodi di tale gravità" - See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Roma-CasaPound-impedisceaccesso-a-scuola-a-ragazzi-di-etnia-rom-48eaa927-9d51-42c0-9386262808e57e6a.html#sthash.9zBzR2Dm.dpuf 12 Da Avvenire.it del 28/11/14 Roma, corteo per negare la scuola ai rom "Bloccato" l'ingresso dei bambini rom in diverse scuole nella zona nord di Roma. L'iniziativa di CasaPound e Blocco Studentesco è stata denunciata dalle onlus Arci Solidarietà ed Eureka, che rivelano: "Oggi, di buona mattina, un gruppo di "manifestanti" di CasaPound ha bloccato l'uscita del Villaggio Attrezzato di Via Cesare Lombroso, nel Municipio XIV, mentre i bambini e i ragazzi del campo si apprestavano ad andare a scuola. Lo stesso è avvenuto di fronte ad alcuni plessi scolastici della zona, in cui i minori rom sono iscritti. Ci troviamo di fronte ad un episodio di estrema gravità, prima di tutto perchè si è tentato di negare un diritto fondamentale e, speravamo, inalienabile, come il diritto ad andare a scuola. Inoltre questa "azione dimostrativa" ha colpito in prima persona dei bambini, fatto inaccettabile e intrinsecamente violento, che non trova giustificazioni". Uno degli striscioni esposti esibiva la frase "Stop alle violenze dei rom, alcuni italiani non si arrendono". Oltre 500 studenti degli istituti Tacito e Domizia Lucilla, conferma lo stesso Blocco Studentesco, hanno manifestato questa mattina in via Cesare Lombroso a Roma nei pressi del campo nomadi, "per rispondere con forza alle provocazioni di alcuni esponenti di etnia rom, che nei giorni scorsi avevano lanciato dei sassi all'indirizzo di alcuni studenti italiani che frequentano gli istituti del quartiere". Dal Comune di Roma arriva una netta condanna all'azione fatta da studenti e CasaPound. "E' un gesto vergognoso e grave che respingiamo con forza. Un atto di razzismo che va contro ogni principio democratico e che vuole impedire ogni percorso di integrazione e accoglienza" dichiara Luigi Nieri, vice Sindaco di Roma Capitale. "Qualcuno - prosegue sta cercando di alimentare tensioni e paure nella nostra città, e non solo, con l'obiettivo di strumentalizzare la sofferenza e il disagio causati da una crisi durissima. Lo fa con gesti inqualificabili come questo o diffondendo, ad arte, notizie false e destabilizzanti. Sono sicuro che gran parte dei romani è dalla parte di chi vuole costruire una città migliore per tutti, una città della legalità e dell'accoglienza, e non di chi mette a ferro e fuoco la città o alimenta paure magari con l'obiettivo di raccogliere qualche consenso in più". Valerio Barletta, presidente del Municipio Roma XIV aggiunge di ritenere del tutto infondate le notizie diffuse dai manifestanti e pubblicate nei giorni scorsi pubblicate dal quotidiano Il Messaggero circa presunte aggressioni e lanci di pietra da parte dei ragazzi Rom del campo di Via Lombroso ai danni degli studenti dei vicini Istituti superiori. Il dirigente dell'istituto e le forze dell'ordine non hanno confermato questi episodi, nessuno dei fatti pubblicati è mai stato denunciato. "Dobbiamo respingere questa spirale di odio e xenofobia- dice Barletta - che io stesso sento forte nella nostra Città, con le armi che da sempre le sconfiggono: lo studio, la serenità e la capacità di vedere l’altro non come qualcosa che ci spaventa ma come qualcosa che ci può far crescere”. 13 Da Adn Kronos del 01/12/14 Polemiche su sit-in Casapound a Roma, la questura: "Non ha impedito l'ingresso dei rom a scuola" E' polemica sul sit-in di protesta organizzato questa mattina a Roma dal Blocco studentesco dopo la denuncia di Arci Solidarietà onlus e della cooperativa Eureka, secondo i quali i manifestanti di Casa Pound avrebbero impedito di uscire a tutte le persone del campo di via Cesare Lombroso, compresi i bambini che dovevano recarsi a scuola. In una nota la questura di Roma precisa che "il sit in non ha creato pericolo o intralcio al traffico cittadino né tantomeno ha impedito agli studenti di accedere all'interno delle aule. Anche le attività all'interno del campo nomadi sono proseguite regolarmente e non risulta che sia stato impedito il passaggio di alcuni bambini rom che stavano andando a scuola". Circa 200 studenti, fanno sapere da San Vitale, si sono radunati in un sit in spontaneo, non preavvisato, a poche centinaia di metri dal campo nomadi di via Cesare Lombroso. "La manifestazione di protesta, orientata contro le presunte aggressioni e violenze da parte dei nomadi ai danni delle scuole e degli studenti, svoltasi anche con gli interventi oratori di personaggi esterni agli istituti, riconducibili comunque al Blocco studentesco è terminata intorno alle ore 9, dopo l'accensione di alcuni fumogeni e lo srotolamento di diverse bandiere con il tricolore", spiega la questura di Roma. Sono in corso accertamenti da parte degli agenti della Polizia per identificare le persone che hanno aderito all'iniziativa. Fabio Di Martino, responsabile nazionale del Blocco Studentesco, assicura: "Non è stato impedito a nessuno di uscire dal campo nomadi di via Cesare Lombroso. La ricostruzione fornita dalla cooperativa Eureka di quanto accaduto alla manifestazione del Blocco Studentesco davanti agli istituti Tacito e Domizia Lucilla, a Roma, è del tutto priva di fondamento'', sottolinea. http://www.adnkronos.com/fatti/cronaca/2014/11/28/polemiche-sit-casapound-romaquestura-non-impedito-ingresso-dei-rom-scuola_ifcOEcOWnFFm8momnDAHeK.html Da Huffington Post del 28/11/14 Roma, Casapound impedisce l'ingresso dei bimbi rom a scuola. Blocco studentesco contro "le violenze dei nomadi" "Bloccato" l'ingresso dei bambini rom in diverse scuole nella zona nord di Roma. L'iniziativa di CasaPound e Blocco Studentesco è stata denunciata dalle onlus Arci Solidarietà ed Eureka, che rivelano: "Oggi, di buona mattina, un gruppo di "manifestanti" di CasaPound ha bloccato l'uscita del villaggio attrezzato di Via Cesare Lombroso, nel Municipio XIV, mentre i bambini e i ragazzi del campo si apprestavano ad andare a scuola. Lo stesso è avvenuto di fronte ad alcuni plessi scolastici della zona, in cui i minori rom sono iscritti". Uno degli striscioni esposti dal Blocco Studentesco esibiva la frase "Stop alle violenze dei rom, alcuni italiani non si arrendono". Oltre 500 studenti degli istituti Tacito e Domizia Lucilla, conferma l'associazione di studenti di estrema destra, hanno manifestato venerdì 14 mattina in via Cesare Lombroso a Roma nei pressi del campo nomadi, "per rispondere con forza alle provocazioni di alcuni esponenti di etnia rom, che nei giorni scorsi avevano lanciato dei sassi all'indirizzo di alcuni studenti italiani che frequentano gli istituti del quartiere". La notizia del presunto agguato dei rom agli studenti, apparsa sulla stampa romana, era stato però immediatamente smentita dai dirigenti scolastici. http://www.huffingtonpost.it/2014/11/28/casapound-bimbi-rom-_n_6237176.html Da Redattore Sociale del 28/11/14 Arci: a Roma Casapound blocca l'accesso scuola ai bimbi rom Una nota dell'associazione: "Questa mattina, un gruppo di manifestanti di Casapound ha bloccato l'uscita del villaggio attrezzato di via Cesare Lombroso, nel Municipio XIV, mentre i bambini e i ragazzi del campo si apprestavano ad andare a scuola" Roma - "Questa mattina, un gruppo di manifestanti di Casapound ha bloccato l'uscita del villaggio attrezzato di via Cesare Lombroso, nel Municipio XIV, mentre i bambini e i ragazzi del campo si apprestavano ad andare a scuola. Lo stesso e' avvenuto di fronte ad alcuni plessi scolastici della zona, in cui i minori rom sono iscritti". A denunciarlo sono l'Arci Solidarieta' onlus e la cooperativa sociale Eureka, le due associazioni coinvolte nella vita del campo di via Cesare Lombroso. A distanza di due giorni dalla notizia - rivelatasi poi creata ad arte, secondo quanto sostengono le associazioni - dei raid compiuti da alcuni rom negli istituti scolastici della zona, sarebbe arrivata anche una sorta di 'rappresaglia' da gruppi di estrema destra. "Stiamo parlando di un campo abitato da 200 persone- ha aggiunto Valerio Tursi, presidente dell'Arci Solidarieta' in un Municipio composto da piu' o meno 200mila abitantinon credo che sia un territorio che versa in una particolare emergenza. Senza contare che stiamo parlando di bambini che frequentano le elementari e le medie, tutti di un'eta' che non supera i 13 anni. Quello che e' successo e' vergognoso, perche' si e' tentato di negare un diritto fondamentale e inalienabile, come il diritto ad andare a scuola". Questa sarebbe stata la dinamica dei fatti: i militanti di Casa Pound, avrebbero bloccato sia l'uscita dal campo di operatori e bambini, sia l'ingresso nelle scuole, dove sarebbero stati srotolati striscioni con la scritta 'Stop alle violenze dei rom, alcuni italiani non si arrendono'. Indignazione anche dal gruppo Pd in Campidoglio, che in una nota ha condannato il gesto come "vergognoso e inaccettabile, se non anche meschino e vile. I fatti denunciati da Arci Solidarieta' e dalla cooperativa Eureka sono gravi e colpiscono in maniera violenta un'infanzia gia' per molti versi complessa. Il diritto allo studio e' un diritto riconosciuto dalla nostra Costituzione e dai trattati internazionali a tutela dell'infanzia e dell'adolescenza. E la violenza di questa mattina non solo dimostra l'inadeguatezza di gruppi che pensano di fare politica, ma e' anche e soprattutto la violazione grave di un diritto. Chi usa violenza e impedisce l'esercizio di un diritto non fa politica. Fa altro. Si faccia chiarezza e si isolino quegli estremismi che danno di Roma un'immagine razzista e xenofoba". L'indignazione infine, non avrebbe colpito solo il mondo dell'associazionismo e di una parte della politica capitolina. Anche i docenti degli istituti si sarebbero mobilitati per chiedere alle istituzioni "una condanna per quanto accaduto" essendo i bambini rom "alunni modello, per i quali non deve esser negato il diritto allo studio". 15 Altri link sulla denuncia di Arci Solidarietà per l’iniziativa di Casapound - http://www.blitzquotidiano.it/cronaca-italia/torrevecchia-roma-rom-fuori-da-scuolablitz-casapound-e-blocco-studentesco-2035918/ - http://montemario.romatoday.it/torrevecchia/rom-violenti-a-torrevecchia-barlettanotizia-costruita-nessuno-soffi-sul-fuoco-della-paura.html - http://www.affaritaliani.it/roma/siete-rom-a-scuola-voi-non-entrate-i-check-point-dicasapound-a-roma-28112014.html - http://roma.fanpage.it/casa-pound-ha-impedito-ai-bambini-rom-di-recarsi-a-scuolala-denuncia-delle-associazioni/ - http://www.giornalettismo.com/archives/1677597/casa-pound-impedito-bambinirom-andare-scuola-stefano-smentisce/ - http://www.iltempo.it/roma-capitale/cronaca/2014/11/29/rom-ostaggi-di-casapoundsmascherato-il-bluff-di-sel-1.1351189 - http://www.lettera43.it/cronaca/roma-militandi-di-casapound-impediscono-ai-bimbirom-l-accesso-a-scuola_43675149415.htm - http://www.quotidiano.net/roma-casapound-rom-1.442744 - http://www.direttanews.it/2014/11/28/torrevecchia-estrema-destra-impediscebambini-rom-di-andare-scuola/ - http://affaritaliani.tribunapoliticaweb.it/lavoro-previdenzasociale/2014/11/29/7528_casapound-blocca-lingresso-scuola-dei-bimbi-nomadi/ Da Repubblica.it del 30/11/14 (Milano) Milano, solo un concerto al chiuso: diventa un flop il raduno dei gruppi nazirock In 250 provenienti da diversi Paesi europei si sono riuniti in un capannone industriale in periferia. Presidio Anpi alla Loggia dei mercanti per protestare: "Una risposta pacifica a questa nuova provocazione" di MATTEO PUCCIARELLI Alla fine, pure stavolta, ce l’hanno fatta. Il concerto europeo del rock neonazista Hammerfest c’è stato, anche se rispetto ad un anno e mezzo fa invece di 600 persone ne sono arrivate 'solo' 250. L’unica buona notizia è che ce n’erano di più alla manifestazione antifascista organizzata nel pomeriggio dall’Anpi alla Loggia dei Mercanti, per celebrare la Milano medaglia d’oro della Resistenza. Il luogo del raduno nero, tenuto nascosto fino all’ultimo, è stato lo stesso del giugno 2013: un capannone a Rogoredo, in via Vincenzo Toffetti. Un luogo privato — identico escamotage giuridico della volta scorsa — e che «non richiedeva, come stabilito dalla Corte costituzionale, alcun tipo di preavviso o autorizzazione da parte dell’autorità provinciale di pubblica sicurezza», rispose l’allora viceministro dell’Interno Filippo Bubbico ad una interrogazione parlamentare. Il dato più politico e che va al di là dei cavilli è che la levata di scudi del sindaco Giuliano Pisapia, del Consiglio comunale, di Anpi e Cgil, e in più la diffida del questore Luigi Savina, non sono bastati. 16 È bastata invece la garanzia dei promotori di svolgere la manifestazione senza ostentare simboli o vessilli riconducibili a organizzazioni inneggianti al razzismo, l’antisemitismo o l’ideologia del disciolto partito fascista. Impresa ardua per l’Hammerskin Nation, che ha sponsorizzato l’evento, un’organizzazione composta da «un gruppo di uomini e donne senza leader — così si definiscono — che ha adottato il modo di vita skinhead ispirato al potere della razza bianca». Già il nome dei gruppi in sé era tutto un programma: i 'Gesta Bellica', i 'Motosega', gli ex 'Soluzione Finale', con nel repertorio canzoni dedicate alle Waffen-SS e al 'Capitano', cioè il comandante delle SS Erich Priebke e via discorrendo. Sin dalle quattro del pomeriggio sul lungo vialone della periferia sud, nebbia e panorama da dismissione industriale, le teste rasate hanno cominciato ad arrivare alla spicciolata. Su internet era stata fatta circolare la voce che il primo appuntamento fosse alle 14 a Carugate, nel parcheggio di un centro commerciale sulla tangenziale Est, ma era una falsa pista. Lì non si è presentato nessuno. Mentre l’ingresso del capannone di Rogoredo era presidiato da quattro uomini in pettorina rossa e simbolo legato alla galassia neofascista sul petto. Altre due sentinelle a distanza di un centinaio di metri, una alla destra e una alla sinistra, controllavano che non si avvicinassero presenze 'sospette'. Stesso lavoro alla rotatoria di via Sulmona, ma da parte di un paio di volanti della Polizia. In quelle stesse ore, come detto, a due passi dal Duomo c’era la mobilitazione promossa da Anpi e Libertà e Giustizia. Non a caso in un luogo simbolo della Resistenza milanese. All’incontro avevano aderito i sindacati, tutti i partiti del centrosinistra e numerose associazioni, dall’Arci alle Acli, da Libera alla Comunità ebraica di Milano. «Una ferma, unitaria e pacifica risposta — ha detto il presidente provinciale dell’associazione partigiani, Roberto Cenati — a questa ennesima provocazione neofascista e per riaffermare il carattere antifascista della nostra Carta Costituzionale». http://milano.repubblica.it/cronaca/2014/11/30/news/milano_solo_un_concerto_al_chiuso_ diventa_un_flop_il_raduno_dei_gruppi_nazirock-101741715/ Milano, il presidio dell'Anpi contro il raduno dei nazirock Si è svolto alla Loggia dei Mercanti a Milano il presidio dell'Anpi contro l'Hammerfest, il raduno-concerto di gruppi di estrema destra nella periferia sud della città. Per l'Anpi, si tratta di un "raduno neonazista che, per i suoi contenuti antisemiti e razzisti, si pone in aperto contrasto con i principi della Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza, con le leggi Scelba e Mancino e costituisce una inaccettabile offesa a Milano Città Medaglia d'Oro della Resistenza". In contemporanea con la giornata nazionale del tesseramento, l'Anpi milanese ha quindi voluto dare "una ferma, unitaria e pacifica risposta a questa ennesima provocazione neofascista e per riaffermare il carattere antifascista della nostra Costituzione". Al presidio promosso anche da Libertà e Giustizia, hanno aderito i sindacati, tutti i partiti del centrosinistra e numerose associazioni, dall'Arci alle Acli, da Libera alla Comunità ebraica di Milano http://milano.repubblica.it/cronaca/2014/11/30/foto/milano_il_presidio_dell_anpi_contro_il_ raduno_dei_nazirock-101741927/#1 Da il SecoloXIX.it del 30/11/14 Genova, anche per i Subsonica la #mafianonepadrona Beatrice D'Oria Genova - Anche il gruppo torinese dei Subsonica, ieri sera in concerto al 105 Stadium della Fiumara per la tappa genovese del loro “In una foresta Tour”, ha voluto aderire alla 17 campagna "Sapori di Giustizia" lanciata in settimana dalle realtà associative di via della Maddalena: nella data dedicata al ricordo di don Andrea Gallo , «l'angelo con il sigaro», Samuel, Boosta, Ninja, Vicio e Max si sono fatti immortalare nel backstage prima dell'esibizione con il cartello "Mafia non è folklore", partecipando all'iniziativa di lotta alle mafie promossa da Arci Genova, San Benedetto al Porto, associazione Belleville e presidio Libera Francesca Morvillo, insieme con Ama - abitanti della Maddalena e con il Civ di quartiere. «Ci sembrava un'ottima iniziativa, volta a fare conoscere le insidie della mafia anche al Nord, che va combattuta con una questione culturale - ha detto Max Casacci, leader dei Subsonica, al Secolo XIX - È semplicemente simbolico che un artista si faccia testimonial, che ci "metta la faccia", insomma». La data di Genova, hanno spiegato i componenti del gruppo, è stata fortemente sentita: «Per via delle prove non abbiamo avuto modo di vedere come la città si sta rialzando, ma ne siamo convinti - ha detto ancora Capacci - perché sappiamo che Genova e i genovesi hanno un'energia profonda, che percepiamo sempre durante le nostre date qui e ancor più stavolta». http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2014/11/30/ARC22JjCgenova_mafianonepadrona_subsonica.shtml Da Tiscali news del 30/11/14 Tassa sul patrimonio, reddito minimo, stop alle spese militari: ecco la “controFinanziaria” di Giovanni Maria Bellu Una tassa patrimoniale con aliquote progressive, la riduzione a 100mila euro della franchigia sulla tassa di successione, la riduzione di un punto dei primi due scaglioni delle aliquote Irpef e la creazione di un sesto scaglione (con aliquota del 50 per cento) sopra i centomila euro. E poi una tassa aggiuntiva sui capitali già scudati, la revoca dei condono ai concessionari di videogiochi, il rafforzamento della tassa sulle transazioni finanziarie. E ancora: la cancellazione degli stanziamenti per le scuole private, la riduzione drastica delle spese militari, la chiusura dei Cie dei Cara e la rinunzia al programma di acquisto degli F 35. Parrebbe il programma di un governo rivoluzionario. E' invece la “contro-Finanziaria” elaborata da “Sbilanciamoci!”, la campagna avviata fin dal 1999 da 46 associazioni della società civile “a favore di un’economia di giustizia e di un nuovo modello di sviluppo fondato sui diritti, l’ambiente, la pace”. Fanno tra gli altri parte di “Sbilanciamoci!” l'Arci, la Caritas, Emergency, Legambiente, Mani Tese, la Rete degli Studenti, la Uisp. Un insieme variegato di associazioni laiche e cattoliche che – attraverso la “Contro-finanziaria” - vuole dimostrare, conti alla mano, che un diverso modello di sviluppo economico è possibile. Disinteressandosi volutamente della praticabilità politica delle proposte nel presente. In tutto le proposte sono 84, distribuite in 7 grandi aree tematiche: Fisco e Finanza, Lavoro e Reddito, Cultura e Conoscenza, Ambiente e sviluppo sostenibile, Welfare e diritti, Cooperazione pace e disarmo, Altraeconomia. Nel loro insieme delinano una controFinanziaria da 27 miliardi di euro, a saldo zero. La risposta del mondo del sociale alla legge di stabilità 2015 che, sottolinea “Sbilanciamoci!” “finge di fare l'interesse di tutti, ma si inchina agli interessi di banche e imprese e non affronta i buchi neri del declino del nostro paese: l’economia in declino, un’occupazione in calo e sempre più precaria, un 18 sistema di istruzione e di ricerca pubblico indebolito dai progressivi tagli, un disagio sociale crescente che consegna alla povertà assoluta sei milioni di persone, politiche sociali fragili e sempre più delegate alla famiglia, un patrimonio naturale e culturale in abbandono”. L'austerità voluta dall'Europa, sostiene ”Sbilanciamoci!” è “il problema e non la soluzione”. Si tratta di invertire radicalmente la rotta intervendo sulle entrate (con una “equa riforma fiscale” e tagli alla “spesa pubblica tossica”) e indirizzando le uscite alla creazione di posti di lavoro attraverso un piano per il benessere sociale (assunzioni, per esempio, di figure stabili per contrastare l'abbandono scolastico e per la tutela del patrimonio culturale). Tutto questo nel quadro di una “buona spesa pubblica” con investimenti nell'edilizia popolare, nella tutela dei beni comuni, nel recupero delle aree dismesse o abbandonate dai privati. Tra le proposte più “rivoluzionarie”, a parte l'introduzione della patrimoniale, c'è quella del reddito minimo garantito. “Con 4 miliardi – sostiene “Sbilanciamoci!” - sarebbe possibile garantire 500 euro al mese individuali a circa 764 mila persone che si trovano in condizioni di povertà assoluta, ovvero con una capacità di spesa mensile inferiore a un paniere di beni di “sussistenza” e che sono in cerca di occupazione”. Già, ma è una proposta realistica, tecnicamente attuabile? “Sbilanciamoci!” non nasconde la difficoltà. Per introdurre il reddito minimo garantito sarebbero necessari “la rivisitazione dell’intero sistema delle politiche del lavoro, sociali e fiscali e un investimento ingente, improbabile nell’attuale contesto economico e politico”. Tuttavia almeno una sperimentazione è “fondamentale”. A maggior ragione se si considera che in Europa, a non aver ancora avviato interventi di questo tipo, sono rimaste solo Italia e Grecia. Mentre crescerebbero gli investimenti per la scuola (un piano ventennale per l'edilizia scolastica con un miliardo di spesa fin dal 2015) e per la cultura, se la contro-Finanziaria di “Sbilanciamoci” diventasse legge, si risparmierebbe un miliardo e mezzo attraverso la riduzione degi stanziamenti per le Grandi infrastrutture strategiche dannose per l’ambiente e un altro miliardo riordinando (con l'ausilio di una Commissione parlamentare di inchiesta) gli sprechi e gli abusi delle strutture sanitarie private. Il bonus bebè (che costa 202 milioni) sarebbe abolito per ridurre le rette degli asili pubblici. Mannaia sulle spese militari. La contro-finanziaria prevede di recuperare: 400 milioni portando, entro il 2016, il livello degli effettivi delle Forze armate a 150mila unità; 440 milioni eliminando l’ausiliaria per una fascia di ufficiali superiori; 2,2 miliardi azzerando la parte di fondi iscritti al bilancio per sostenere le industrie a produzione militare in specifici programmi d’armamento. Un altro miliardo 310 milioni arriverebbe dalla rinuncia al programma di acquisto degli F-35, della seconda serie di sommergibili U-212 e dal “ritiro da tutte le missioni a chiara valenza aggressiva”. http://notizie.tiscali.it/articoli/cronaca/14/11/28/stop-spese-militari.html 19 INTERESSE ASSOCIAZIONE Da Corriere sociale del 30/11/2014 Le contraddizioni del Governo sul servizio civile La riduzione di 40 milioni al fondo nazionale del servizio civile per il 2015 rispetto ai 105 stanziati per il 2014 apre due questioni su cui la Cnesc vuole contribuire a fare chiarezza. La prima questione, quella politicamente più evidente, è la contraddizione con l’avvio del percorso per il passaggio dal Servizio Civile Nazionale al Servizio Civile Universale, previsto dal disegno di legge delega del Governo in discussione alla Commissione Affari Sociali della Camera (AC 2617). Come incamminarci per un’esperienza rivolta a 100 mila persone riducendo del 37% i fondi nel 2015 rispetto a quelli del 2014? Ci sono positivi segni di mobilitazione parlamentare alla Camera perché il Governo al Senato cambi atteggiamento. Sia l’ordine del giorno di importanti donne parlamentari del Pd che la lettera appello di parlamentari che sta circolando in queste ore dimostrano la volontà di realizzare il Servizio Civile Universale e come Cnesc esprimiamo la nostra gratitudine a queste iniziative. Ma il Governo cosa farà, dopo aver ribadito che non stanzia un euro in più sul fondo del Servizio Civile Nazionale? Non siamo per niente ottimisti e per questo amplieremo la nostra pressione. La seconda questione riguarda l’impatto di uno stanziamento di 65 milioni sull’attuale Servizio Civile Nazionale. Qui serve ricordare che il bando per 1304 posti uscito il 15 ottobre scorso è finanziato con risorse regionali del 2013, che il bando Scn Garanzia Giovani si fonda su risorse europee straordinarie e che per arrivare a programmare circa 24.500 avvii nel 2015 il Dipartimento Scn ha raschiato il barile delle risorse statali del 2013, 2014 e 2015, quando erano previsti 75 milioni. Da qui la nostra previsione di un taglio di circa 1.800 posti e quindi poco più di 22.500 avvii. Ma il vero disastro si prepara per il 2016. Con tutte le risorse 2015 impegnate e solo 65 milioni disponibili nel 2016 saranno possibili circa 9 mila avvii. Ecco perché, probabilmente senza consapevolezza politica, ma stanziare 65 milioni anno per il periodo 2015-2017 vuol dire “chiudere” anche il Servizio Civile Nazionale. La Cnesc ha preso sul serio il Governo quando ha lanciato la proposta del Scu, anche sfidando la diffidenza e l’ironia di cui siamo stati oggetto. Adesso ci rifiutiamo di pensare che il Governo Renzi, che il primo luglio al Parlamento Europeo ha detto che senza il servizio civile europeo non c’è Unione europea, che a fine ottobre a Milano ha promosso una conferenza europea, cambi idea e dica ai giovani italiani, al Terzo settore, agli enti locali che aveva scherzato o che non aveva fatto bene i conti. * Licio Palazzini Presidente Cnesc (Conferenza nazionale enti servizio civile) http://sociale.corriere.it/le-contraddizioni-del-governo-sul-servizio-civile/ del 01/12/14, pag. 1/21 Cooperazione non solo con il Sud del mondo 20 La crisi riporta verso l’Italia progetti e risorse delle Ong La crisi spinge le organizzazioni per la cooperazione internazionale a incrementare i progetti dedicati alle emergenze sociali e umanitarie in Italia. Il fenomeno, che trova riscontri nei bilanci di tutte le principali Ong, da Emergency all’Unicef, da Save the Children ad Action Aid, si spiega con il duplice effetto della maggiore povertà, da un lato, e della riduzione della sfera di intervento pubblico, dall’altro. Così, pur senza tradire la propria vocazione ad aiutare i Paesi del Sud del mondo, gli enti per la cooperazione internazionale stanno incrementando la quota di risorse da destinare a iniziative mirate nel nostro Paese. Ritorno in Italia, alle emergenze umanitarie e sociali nazionali. Il 2014 potrebbe essere l?anno che consolida la tendenza per chi tradizionalmente opera nella cooperazione internazionale a concentrare risorse in progetti locali. Non è solo la crisi economica che incide sull?aumento della povertà, anche in nuove forme, e riduce le risorse pubbliche per bisogni socio-sanitari ampliando lo spazio di welfare coperto dal Terzo settore. Ci sono anche le crisi non direttamente collegate alla situazione economica generale. Come le emergenze umanitarie legate ai flussi migratori, le catastrofi imprevedibili come i terremoti e situazioni di conflitto - Siria, Nordafrica e Medio Oriente - che per alcune organizzazioni hanno significato l?abbandono di Paesi divenuti eccessivamente pericolosi. Tutti questi fattori potrebbero spiegare perché molte associazioni, tradizionalmente impegnate nel Sud nel mondo, negli ultimi anni abbiano progressivamente aumentato il loro intervento in Italia. Ma forse c?è anche il fatto che i donatori italiani sembrano preferire chi opera in un contesto locale, più vicino alla realtà di tutti i giorni. Se si prende come riferimento l?ultimo elenco disponibile del 5 per mille per importi distribuiti alle Onlus (relativo al 2012) emerge che delle prime venti associazioni solo cinque si dedicano alla cooperazione internazionale: Emergency, Medici senza frontiere, Unicef, Save the children e Action Aid. Tutte le altre nascono e operano in Italia. Se si allarga lo scenario alle prime 50, il numero di chi sostiene progetti nei Paesi più poveri è comunque limitato a dodici. Eppure il primo posto dell?elenco delle Onlus 2012 lo occupano proprio due Ong: Emergency e Medici senza frontiere. In ogni caso tutti gli enti che operavano esclusivamente nei Paesi poveri negli ultimi anni e con una progressiva crescita hanno dedicato risorse all?Italia. Non solo Emergency, che è un?organizzazione italiana, ma anche quelle che sono internazionali per nascita e per vocazione. Anche quelle realtà che sono parte di network mondiali hanno rivolto la propria attenzione all?Italia. Il bilancio 2013 di Emergency si apre proprio con l?affermazione che nel corso dell?anno è «proseguito e si è ampliato l?intervento umanitario in Italia» e la spesa per progetti nel nostro Paese è quasi raddoppiata, arrivando a 1,9 milioni di euro rispetto al milione del 2012. Unicef ha dedicato 1,8 milioni di euro a progetti di promozione dei diritti dell?infanzia in Italia, sempre nel 2013, mentre Save the Children impiega in Italia il 16% dei fondi di missione (era il 12% nel 2012) e Action Aid raddoppia i fondi impiegati (in Italia e in Europa), passando dai 2,6 milioni del 2012 ai 5,1 del 2013, mentre l?impegno di Medici senza frontiere nel nostro Paese ha un?incidenza minore sul totale degli impieghi - anche se in crescita - perché l?associazione trasferisce i fondi di missione alle sezioni operative internazionali, che li spendono per i progetti sul campo. Al di là degli elenchi ufficiali la tendenza è confermata anche da un?analisi allargata alle altre Ong. Da un lato, l?aumento di situazioni di emergenza, la necessità di saper 21 affrontare problemi in parte nuovi - le migrazioni, l?aumento della povertà, la mediazione e l?integrazione culturale e religiosa - chiama in causa chi ha già dimostrato di saper dare una risposta efficace. Dall?altro, la capacità di intervenire con successo a livello nazionale può dare un contributo anche in termini di raccolta fondi. Il disagio e il bisogno sono infatti più vicini. Una vicinanza che può essere l?occasione per creare un legame più solido e stabile, magari collegato a risultati visibili, con i donatori. Antonella Tagliabue del 01/12/14, pag. 21 Terzo settore. Scadenza 10 dicembre Fondi volontariato: dote da 2 milioni È fissato alle 13 del 10 dicembre il termine entro il quale le associazioni possono presentare i progetti per ottenere i finanziamenti dal Fondo per il volontariato, istituito dalla legge 266/91. I fondi ammontano a 2 milioni e saranno assegnati secondo i criteri fissati dalle Linee di indirizzo che il ministero del Lavoro ha pubblicato nel proprio sito (www.lavoro.gov.it). Ciascun progetto non deve superare il costo complessivo di 30mila euro, il 90% del quale sarà a carico del ministero, mentre il resto farà capo all’organizzazione, che può coprirla anche attraverso la valorizzazione dell’attività dei volontari: poiché questa attività può essere definita di volontariato solo se è personale, spontanea, gratuita e finalizzata unicamente alla solidarietà, secondo le linee guida essa non costituisce un costo e si può fare «una stima figurativa del corrispondente costo reale, che può essere soggetta solo ed esclusivamente a valorizzazione». Ciò rende le condizioni di accesso molto favorevoli alle associazioni, anche medio-piccole. Tutte comunque, nel nome della trasparenza, devono indicare da dove provengono i fondi che destinano al progetto per coprire la propria quota parte. Per accedere al finanziamento è necessario che l’organizzazione sia iscritta ai Registri regionali e che esista da almeno due anni. Le linee guida indicano anche un elenco, assai lungo, di obiettivi all’interno di sette ambiti di intervento prioritari: cittadinanza attiva, pari opportunità, accoglienza e reinserimento sociale di soggetti svantaggiati, esclusione sociale, legalità e corresponsabilità, sostegno a distanza e volontariato d’impresa. Ai progetti si chiede di adottare metodologie sperimentali, «finalizzate alla messa a punto di modelli di intervento idonei a essere trasferiti in altri contesti territoriali». Se saranno realizzati in rete, con altri soggetti non profit o con istituzioni, otterranno punti in più nella graduatoria. I progetti possono essere presentati solo online, attraverso l’apposita piattaforma (www. direttiva266.it) realizzata dal Coordinamento dei Centri di servizio per il volontariato, che offrono consulenze gratuite agli enti. 22 ESTERI del 01/12/14, pag. 16 Volantini dell’Is “Donne di Gaza mettete il velo” GAZA L’organizzazione del cosiddetto Stato islamico (Is) “sbarca” a Gaza, e diffonde dei volantini con l’invito alle donne palestinesi di adottare il velo integrale. Segue il monito di una punizione a chi contravverrà alla regola. Quale sarebbe la punizione, non è specificato. I fogli stampati con il simbolo dell’Is sono stati trovati in un campus universitario. Altri messaggi dello stesso tenore sono comparsi su Facebook. Il governo locale retto da Hamas si è affrettato a smentire l’autenticità degli avvertimenti, mentre i servizi di sicurezza affermano che non v’è alcuna presenza dell’Is a Gaza. Tuttavia, in febbraio aveva fatto scalpore il video di un presunto gruppo di jihadisti salafiti affluito nella Striscia per giurare alleanza all’organizzazione terroristica di al-Baghdadi. Il portavoce di Hamas aveva escluso che il video fosse stato realizzato a Gaza. L’unica certezza è che in maggio un palestinese di 21 anni del campo profughi di Jabaliya è morto in Siria mentre combatteva nelle file dell’Is. Wadih Nafedh era fuggito dalla Striscia, ricercato dai servizi di Hamas per avere lanciato dei razzi contro Israele. Del 01/12/2014, pag. 12 Sharia e decapitazioni: nella città fantasma del Califfato di Libia A Derna il primo avamposto dell’Isis nel Mediterraneo BEIDA (Libia) Quando le bandiere nere del puro Islam arrivarono a Derna, le due bulgare dell’ospedale al Harish provarono a sventolare la loro bandiera bianca. «Siamo solo infermiere…», andarono a presentarsi ai nuovi padroni. Un capoccia le convocò nella hall del Pearl Hotel, diventato il quartier generale di Ansar al Sharia: voi bulgari siete cristiani? Silenzio. Avete deciso di rimanere qui? Silenzio. Volete la nostra protezione? «Sì». Va bene: 50 euro al mese, un quinto del vostro stipendio, e nessuno vi toccherà… Per un paio d’anni, le due infermiere hanno pagato e si sono sentite tranquille. Curavano i neonati, mai il naso fuori. In fondo erano a Derna dall’epoca di Gheddafi, che le considerava tutte untrici d’Aids, erano scampate a tre anni di guerra civile: magari ce l’avrebbero fatta anche stavolta... Le cose sono cambiate pochi giorni fa, quando Derna ha ripreso l’antico nome ed è diventata il Califfato libico di Barqa. Dall’Iraq è comparso un iracheno di Mosul, l’uomo dell’Isis. Che nessuno sa come si chiami ma chiunque, avendoli visti insieme in tv, riconosce come l’inviato del neocaliffo Al Baghdadi. «Siete delle infedeli e pagare non basta — è stato il nuovo editto —. Chi rimane qui, da oggi si deve convertire». I racconti di Derna, o di Barqa, somigliano alle leggende nere del peggiore Jihadistan. «L’ospedale funziona solo per le emergenze, quasi tutti i medici sono scappati — racconta M. H., che ha mandato la famiglia a Beida —. Le scuole sono svuotate da giugno, donne e bambini se ne sono andati. La centrale elettrica macinava 100 megawatt: ora non supera i 23 venti». Anche le banche non vanno più: l’ultima ha chiuso due settimane fa perché sono spariti quattro milioni di dinari, due milioni d’euro, e si sospetta un impiegato infedele tanto alla ditta quanto all’Islam. A Tobruk, a Cirene, in ostelli e case sfitte s’incontrano migliaia in fuga dallo spavento senza fine di Bengasi, dove si combatte furiosi, e dalla fine spaventosa di Derna, questa Mosul libica d’ottantamila abitanti che milleduecento jihadisti maliani, tunisini, yemeniti hanno preso senza sparare un colpo. Derna era la città dei poeti, dei mercanti, dei ministri del re. Religiosa, tanto che Gheddafi la evitava, ma insieme colta e raffinata. Oggi è il primo Califfato che i tagliateste siano riusciti a proclamare nel Mediterraneo. Non in Siria o in Iraq, ma davanti all’Italia: se ci sarà mai una marcia sulla Roma vaticana, come proclamano, è da qui che partirà. I racconti della paura si raccolgono alla cafeteria Thuraya, fra macchine di bulli che sgommano e miliziani del generale Haftar di rientro dal fronte. C’erano otto suore italiane, a Derna, riparate a Bengasi credendo di stare più al sicuro. C’era una bella chiesa nella medina e ai tempi di Gheddafi faceva da centro culturale: s’è piazzato l’iracheno coi suoi vice, un saudita e un egiziano, più sua eccellenza Mohammed Abdullah Abi al Baraa Al Azdi che comanda il nuovo Consiglio consultivo della gioventù islamica e infligge la più estrema delle sharie. Novanta frustate a chi si droga, piccolo sconto di pena a chi beve, un centro di disintossicazione gestito a catene e ceffoni. Ai primi di novembre, la decapitazione di tre giovani che postavano su Facebook notizie sgradite e d’un soldato di Haftar catturato («questo generale musulmano che ci combatte è peggio di Obama!...», urla un predicatore di Radio Barqa). Dal nuovo califfato libico è scappato un ragazzo che dieci anni fa sparava sugli americani in Iraq: «A Derna comandano dei pazzi — dice ora nella sua nuova vita tripolina da tecnico informatico e pentito — non accettano altra visione che la loro. Chi non è con l’Isis, è un infedele». Se c’è una scritta sulla piazza centrale, «no ad Al Qaeda», è perché i qaedisti passano per moderati un po’ rimbambiti. Non piacciono neanche quelli di Ansar al Sharia: nel 2012 uccisero l’ambasciatore americano a Bengasi, ma sono considerati dei mollaccioni. Il tecnico veneziano Gianluca Salviato, per otto mesi ostaggio a Derna, ha raccontato che lo sorvegliavano ceceni e tunisini, gli facevano vedere i video della guerra in Siria, gli promettevano un’Italia islamizzata… Il venerdì sera, i jihadisti convocano la gente in piazza a festeggiare il Califfato. «Distribuiscono volantini, suonano inni sacri, regalano dolci e giocattoli ai ragazzini, gli unici che accorrano», spiega M. H. La polizia islamica circola coi Land Cruiser bianchi e neri per controllare abbigliamenti e atteggiamenti: «Alle facoltà di legge e di belle arti hanno tirato su un muro per dividere studenti e studentesse». Il generale Haftar ha sigillato la città, giurano che non esce nessuno, ma non è vero: M. H. passa ogni settimana per stradine secondarie, «non è difficile». Ogni tanto spuntano check-point volanti sulla strada da Beida, qualcuno viene sequestrato: moglie e bambini d’un deputato di Tobruk, fatta l’inversione a U, sono stati inseguiti per venti chilometri. «Sono pochi +fanno già un gran casino», ci dice il generale Abdel Razah Nouradin, capo di stato maggiore dell’esercito libico: «Per ora hanno solo qualche rpg del tempo di Gheddafi. Ma bisogna intervenire e spazzarli via, prima che ne arrivino altri». C’è una sparatoria, il giorno che ce ne andiamo da Beida. Arriva un’ambulanza, trasporta un ferito eccellente. Si chiama Sufian Bin Qumu. Stava in Afghanistan, poi a Guantanamo. Ha lasciato Al Qaeda per l’Isis. Il Dipartimento Usa l’ha messo nella lista dei terroristi globali più ricercati. Viveva a Derna, ma nessuno lo sapeva. 24 Del 01/12/2014, pag. 12 Per l’Eliseo Marine diventa istituzionale Le Pen confermata leader all’unanimità: “Hollande finito, nel 2017 andrò la ballottaggio contro Sarkozy” La giornata di Marine Le Pen è iniziata con una notte brava. Dopo la cena di gala di sabato, via alle danze sfrenate con due dei suoi alleati europei, uno padano e l’altro austriaco, Matteo Salvini e Heinz-Christian Strache, tutti insieme appassionatamente in pista, felici e cantanti. In effetti, ieri non era tanto attesa la scontata rielezione di madame alla presidenza del Front national, quanto il discorso che l’avrebbe accompagnata. Sul primo punto, Marine ha ottenuto dei risultati che potrebbe legittimamente invidiargli il suo grande amico e generoso finanziatore Vladimir: su 22.329 votanti (per posta), 22.312 voti per lei. I restanti 17 sono nulli: era l’unica candidata. L’arringa, invece, è stata un po’ fiacca, senza grandi invettive né grandi slogan. Però, visto che la signora, quanto a invettive, normalmente non è mai a corto di munizioni, è chiaro che si è trattato della scelta di un’orazione «ideologica» e programmatica, già quasi governativa. Del resto, i tremila del palazzo dei Congressi di Lione, se anche sono rimasti delusi, non l’hanno certo dimostrato. A favor di telecamere hanno sventolato tricolori, urlato cori, scandito «On-est-chez-nous!» («Siamo a casa nostra!», e ogni riferimento agli immigrati è puramente voluto) e infine intonato la Marsigliese liberatoria come da collaudato copione del Front. E lei? Premesso che «non voglio una Francia divisa fra chi sale sul treno e chi lo guarda passare», quindi è il Fn il vero partito «dei piccoli», Le Pen ha annunciato che «senza dubbio» sarà al ballottaggio delle Presidenziali, nel ‘17. Ed è chiaro, da come l’ha martellato pur citandolo il meno possibile, che si aspetta di trovarci Sarkozy (Hollande ormai non è preso sul serio nemmeno dagli avversari...). Ma il messaggio è che destra e sinistra per lei pari sono. «Tutto, avete sbagliato tutto, signori Hollande e Sarkozy!». Di più: è «una truffa» la stessa divisione destra-sinistra. Il vero scontro è fra chi si oppone alla mondializzazione e chi cerca di imporla alla Francia per farle dimenticare Storia, Patria e Famiglia (Dio no, perché anzi Marine fa la paladina della laicità repubblicana in contrapposizione alle derive intolleranti e «comunitarie» dell’immigrazione musulmana). L’elenco dei nemici è di conseguenza lunghissimo: l’Europa di Bruxelles prima di tutto, poi il multiculturalismo, la globalizzazione, la finanza in generale e le banche in particolare, i tecnocrati, la signora Merkel e il suo emissario Juncker. Molti nemici molto onore, avrebbero detto i precedenti alleati italiani di madame. Di certo, finora, sono molti voti. Del 01/12/2014, pag. 12 Via croci celtiche e Giovanna d’Arco Il nuovo Front si mette la cravatta La mascotte è un rassicurante orsetto: “Sappiamo governare” Alberto Mattioli Manca Giovanna d’Arco. Sparita dai gadget, ignorata sui poster, mai citata nei discorsi. E dire che il Front National la venerava: ogni Primo maggio i big del partito contro festeggiano deponendo una corona di fiori davanti alla sua statua parigina. Marine Le Pen 25 le si era sempre ispirata: entrambe donne, bionde, guerriere e incaricate da Dio di salvare la Francia, una dagli inglesi, l’altra da tutta l’Europa. I simboli, si sa, sono politica. La loro assenza, ancora di più. Questo congresso del Fn, chiuso ieri da madame Le Pen, segna il passaggio da un partito solo di lotta a un partito forse di governo. «Per la prima volta, è concreta l’ipotesi di arrivare al potere», dice Steeve Briois, il segretario generale. E la presidentessa Marine proclama dalla tribuna: «Non c’è alcun dubbio per nessuno che sarò al secondo turno delle Presidenziali del 2017». Il Fn non diventa più moderato nella sostanza, perché basterebbe mettere in atto appena metà di quel che propone per sfasciare non solo la Francia, ma anche l’Europa. Ma nella forma, sì. È entrato nel gioco, governa qualche città, è sdoganato dai media, non è più impresentabile, si è «dédiabolisé», de-diabolizzato. Il diavolo veste in giacca e cravatta. E adesso fa politica, passa dalla protesta alla proposta. Infatti non è stata carbonizzata un’altra volta solo la povera Pulzella. Nei banchetti (pochi) non c’è più traccia della destra più tosta. In libreria tutto tace sull’Action française, su Vichy, sulla guerra d’Algeria. Non pervenuti nemmeno i lefevriani, cioè l’ultima espressione di una tradizione di destra cattolica e reazionaria che in Francia è antica e culturalmente «nobile». Il gadget più smerciato, bottiglie di Beaujolais nouveau a parte, è l’orsetto con maglietta del Fn, dieci euro spesi male (è orripilante, e non per ragioni ideologiche). Un orsetto nella tana del lupo nero: decisamente, non è più lo stesso Front. Tanto che si parla perfino di cambiargli nome, però dopo molte riflessioni Le Pen ha deciso che se ne discuterà, forse, l’anno prossimo. Sono cambiati anche i militanti. Certo, si incontrano ancora i frontisti della Francia profonda, «paysans» con i baffoni da Astérix in arrivo dalle campagne, indignatissimi per l’abolizione del servizio militare o della pena di morte. Ma sono sparite le teste rasate in bomber nero e croce celtica. E nel mostruoso Centro dei congressi di Lione si aggirano soprattutto molti ragazzi incravattati, magari con buoni studi alle spalle. Florian Philippot, vicepresidente «incaricato della strategia e della comunicazione», cioè l’uomo più importante del partito dopo la donna che lo incarna, è un «énarque», insomma è uscito dalla mitica Ena, la superscuola della classe dirigente francese che, di destra o di sinistra, finora aveva sempre considerato quelli del Front degli alieni. Ha fatto scalpore che, gollista da sempre, Philippot sia andato a portare una corona di fiori sulla tomba del Général. I superstiti dell’Oas e i nostalgici dell’Algeria francese (per esempio, Jean-Marie Le Pen) si sono indignati. Tutti gli altri hanno trovato il gesto non solo giusto, ma naturale. Un opuscoletto distribuito alla stampa vanta le «promesse mantenute» degli amministratori locali frontisti (perfido il sottotitolo: «Quello che i media non vi diranno»). Il messaggio è chiaro: siamo capaci anche di amministrare, non solo di sbraitare contro chi l’ha fatto finora. Briois è il simbolo di questa nouvelle vague pragmatico-amministrativa. Sette mesi fa, è stato eletto al primo turno sindaco di Hénin-Beaumont, cittadina nel profondo Nord devastato e deindustrializzato. «Ma il modello è Béziers», dice. È la città del profondo Sud, non meno malmessa, dove il Front non ha presentato il suo candidato ma ha fatto vincere Robert Ménard, giornalista ex di sinistra e fondatore di un’associazione politicamente correttissima come Reporters sans frontières. Spiega Briois: «Dobbiamo allargare il partito, aprirci agli esterni, “rassembler”, unire». La strategia è chiara. I quarantenni con buoni titoli di studio e cravatte tremende che discutono nei corridoi non potrebbero essere più d’accordo. 26 Del 01/12/2014, pag. 13 Così i tabloid inglesi inchiodano Cameron “Stop agli immigrati” I giornali lo martellano sul mancato giro di vite “Non si trova un inglese che sappia fare i sandwich?” Vittorio Sabadin È impressionante il numero di articoli che i giornali inglesi stanno dedicando ai danni che l’arrivo incontrollato di polacchi, romeni, lituani e bulgari starebbe arrecando alla Gran Bretagna. «È come se - ha detto il ministro ombra laburista Pat McFadden - si considerasse l’immigrazione una malattia, invece che un’occasione della quale discutere». E sembra davvero così: nel Paese europeo finora più aperto e ospitale si respira un’aria diversa, carica di veleni e sempre più difficile da respirare per chi arriva al controllo passaporti di Gatwick o di Heathrow. La campagna è alimentata dal «Daily Mail», un giornale da due milioni di copie che mescola politica, cronaca, sesso e celebrità in un cocktail irresistibile. Ma per gli stranieri non c’è scampo. Ieri se la prendeva con i sussidi che il governo versa ai figli rimasti in patria degli immigrati senza lavoro: 89 sterline (circa 100 euro) a testa. Una cartina geografica spiegava come questo beneficio vada a 22.093 bambini polacchi, mentre il governo di Varsavia versa ai minori indigenti solo l’equivalente di 14,7 sterline. Lo stesso accade in Romania, Bulgaria, Cecoslovacchia. In questo modo, ricorda il «Daily Mail» le assurde regole dell’Unione Europea e la generosità britannica consentono a 24 mila famiglie e a 38.500 bambini stranieri di ricevere aiuti per 30 milioni di sterline l’anno, pagati dai contribuenti. Bisogna rendere il Regno Unito meno attrattivo per gli immigrati, conclude il giornale: libera migrazione è venire qui per lavorare, non per ottenere benefici. Nelle ultime settimane, i quotidiani non hanno mai smesso di infierire. Si è così saputo che le coppie polacche si riproducono molto di più a Londra che in patria: il tasso di natalità è di due terzi superiore. Si spendono poi 20 milioni l’anno per pagare interpreti che aiutino a compilare le richieste di sussidio degli immigrati: non potrebbero imparare l’inglese invece di usare i soldi dei cittadini? Un’azienda che produce sandwich è stata costretta a cercare manodopera in Lituania perché non trovava inglesi. «Non c’è più un britannico che sappia fare un sandwich?» si è domandato con sdegno in prima pagina il «Mail on Sunday». Lo University College di Londra ricorda che in 10 anni gli immigrati hanno portato vantaggi all’economia per 20 miliardi di sterline, ma non serve a nulla. Sempre sul «Daily Mail», Stephen Glover, uno dei commentatori più letti, puntualizza che di questi 20 miliardi la maggior parte viene da immigrati qualificati francesi, spagnoli e italiani e solo 5 da romeni, polacchi e lituani. E poi, aggiunge Glover, di questi esperti non dobbiamo fidarci: «Nel 2004, quando entrarono nella Ue altri 8 Paesi dell’Est, ci avevano detto che avremmo avuto fra 5.000 e 13.000 nuovi immigrati all’anno. In realtà sono più di 200 mila». A Londra, i giornali popolari hanno lo stesso istinto dei politici: seguono la pista del consenso. Più si sostiene la tesi che la crisi, la criminalità e il disagio sociale sono colpa degli stranieri e più si ottiene approvazione. I politici raccolgono più voti, i giornali vendono più copie. E più si insiste e più se ne parla, più la paura e il risentimento dei cittadini crescono. Il circolo vizioso che paralizza sul tema dell’immigrazione la Gran Bretagna si spezzerà solo il 5 maggio, giorno delle elezioni generali, quando Cameron saprà se ha conservato il posto o se lo deve cedere al leader antieuropeista dell’Ukip Nigel Farage. 27 Ma non c’è pace neppure per il premier. Il suo discorso di qualche giorno fa, nel quale annunciava l’annullamento dei sussidi immediati agli stranieri e il rimpatrio di chi non trova un lavoro, è stato salutato come una prova di autonomia dalla Ue da tutti i giornali europei, ma non da quelli inglesi. Il «Telegraph», un altro giornale conservatore, ha scoperto che il testo è stato emendato nelle parti che annunciavano un tetto all’immigrazione, proprio su pressioni della Merkel alle quali Cameron si è piegato. Sarà dura per lui. Come ha detto il leader laburista Ed Miliband, «nessun cittadino crede alle nuove promesse di un primo ministro, se non ha mantenuto quelle vecchie». del 01/12/14, pag. 30 La disoccupazione sale la crisi dell’eurozona minaccia l’export e la popolazione invecchia. A Stoccolma come in Danimarca e Finlandia, suona l’allarme: il welfare scricchiola e con lui il mito del grande Nord Addio al modello svedese DAL NOSTRO INVIATO ANDREA TARQUINI STOCCOLMA GENTILE e infaticabile, Carl Smitterberg è un quarantenne poliglotta e sportivo, elegante casual, giacca blu di buon taglio e camicia button down: sembra un giovane manager di un’industria d’eccellenza, o di una banca scandinava approdata a Canary Wharf a Londra. Invece no, percorre veloce la città tutto il giorno in Tunnelbana, lo splendido, profondissimo métro-rifugio antiatomico, per occuparsi degli anziani e dei disabili ai quali porta a casa gli allarmi da polso collegati alla centrale di soccorso. «Abbiamo molti fondi, ma oltre 110mila dei 900 mila abitanti di Stoccolma sono over 65, trend in aumento», spiega. Li Jansson, brava e giovane esperta dell’istituto Almega, è in prima linea per l’integrazione dei migranti, «dobbiamo far di più per loro o i populisti cresceranno», mi dice. Kristina Persson, nel nuovo governo di sinistra, è la ministro del Futuro e riprogetta il sistemapaese, non ha dubbi: «Il modello nordico deve cambiare per restare sostenibile, organizzarsi meglio, creare, produrre, integrare di più e dare più lavoro, altrimenti i populisti diverranno una sfida davvero pericolosa». Tempo di riflessioni quiete-amare, a Stoccolma sorridente e gentile, affollata per lo shopping, profumata di candele e ghirlande dell’Avvento, accesa da decorazioni, mercatini di Natale, abeti addobbati: persino il Kungliga Slotten, il Palazzo reale dove presto regnerà l’amata Viktoria, è illuminato a festa. «Il Nord è ancora il paradiso del mondo», dice lo scrittore critico danese Jussi AdlerOlsen, «ma sta cambiando, diventa meno solidale e meno liberal, e noi intellettuali cominciamo a temere di svegliarci un giorno e non trovarlo più, scoprirci all’improvviso in un paradiso perduto, troppo tardi per un attimo». Andiamo cauti con gli allarmi: non basta ancora qualche sommossa etnica nelle vecchie metropoli industriali del Sud, né il volo degli Sveriges Demokraterna, i nuovi populisti antieuropei di Jimmy Akesson, a far cadere il grande Nord nell’abisso della Francia tra declino industriale e Front National primo partito, o nelle nostre rabbie urbane tra razzismo e povertà giovanile dilagante. Qui nella Svezia potenza- leader regionale, in Finlandia, Danimarca i valori costitutivi dei leader-mito di ieri, da Olof Palme a Urho Kekkonen, vivono ancora, li tocchi con mano. L’export industriale e high-tech d’eccellenza vola, produce la metà del Pil. Le start-up crescono come funghi, anche per i fondi governativi alla musica giovanile. Idee-chiave del mondo come Skype o Spotify sono nate qui. 28 Corruzione e furbetti sono così rari che persino il controllo biglietti sulla Tunnelbana o sul treno da 210 orari che dal lontanissimo Arlanda, aeroporto migliore di Monaco o Zurigo, ti porta in centro in venti minuti, sono eccezione. E anche le più povere ragazze- madri fuggite dalla Siria o dalla Somalia sentono che il welfare non le lascia sole. «Ma guai a cullarsi sugli allori, la disoccupazione all’8 per cento è già troppo alta. Dobbiamo sbrigarci a ripensare il modello nordico, renderlo sostenibile: più organizzazione e meno burocrazia, più produttività e più integrazione, e più attenzione alle nuove disuguaglianze», confessa la ministro Persson nel suo studio a palazzo Rosenbad, il neoclassico edificio governativo che solo l’acqua del golfo e un ponte separano dalla Corte. «Il mondo corre, non ci aspetta, la mia generazione di baby-boomers invecchia, presto diverremo un costo ». E non è finita: «Siamo in pochi, ci servono più migranti anche per produrre e per finanziare il welfare». Per fortuna, dice reduce da un colloquio con l’ad di Volvo, tra le parti sociali resta viva la concertazione, cuore del “nordic model”. «Insieme ai valori di uguaglianza, priorità al prossimo, fiducia nelle istituzioni ». Può non bastare: «Il domani dell’eurozona cui vendiamo il 70 per cento dell’export appare cupo, molto dipende dalla Germania, certo oggi da noi nessun sì all’entrata nell’euro raccoglierebbe la maggioranza». E appena a Est, jet Gripen e navi invisibili cacciano di continuo bombardieri e U-Boot spia di Putin, ecco l’altro incubo: neutralità in forse. Problemi simili in Finlandia, dice il governatore della Suomen Pankki, Erkki Liikanen, amico critico di Mario Draghi, dal suo studio dove i trittici di Akseli Gallen- Kallela, il pittore nazionale, ritraggono la leggiadra Aino e gli altri eroi del Kalevala. «In certe aree noi nordici andiamo benissimo, in altre siamo sotto sfida: da noi la base industriale si è fatta più piccola, col calo mondiale dell’industria elettronica e del consumo di carta. E calano le nascite, la gente dovrebbe lavorare di più, accettare riforme delle pensioni. Se la crescita rallenta e la popolazione invecchia, finanziare un ampio welfare non è più come in passato. La questione chiave è qual è la parte essenziale del welfare». Il consenso bipartisan, dice Liikanen, è non rinnegare valori costitutivi: eguaglianza, apertura al mondo, integrazione. E sistemi scolastici decisi a dare chances a tutti. Ma ogni riforma fa male, ammonisce citando Machiavelli: «Chi ha paura di perdere griderà forte, chi pensa di poter vincere starà zitto, è la sfida permanente dei politici, anche qui a Nord». L’eguaglianza paga, rende competitivi, rammenta l’attiva premier laburista danese Helle Thorning-Schmidt. «Belle parole non bastano contro i populisti », replica Li Jansson. «L’ex premier Reinfeldt prima privatizzò i servizi sociali, un disastro, poi chiese agli elettori di “aprire i cuori” ai migranti, ma senza spiegare come. In provincia è diverso da Stoccolma, la concorrenza per lavoro e servizi crea tensioni, e dalla Siria ci arrivano medici e ingegneri di prim’ordine che non sappiamo integrare», spiega. Ogni strategia appare rischiosa: «Il nuovo governo di sinistra aumenta le tasse, le imprese sono in allarme per il mercato del lavoro». Dati freddi, ma feriscono l’anima. «Negli anni Settanta commettemmo l’errore di pensare che era meglio statalizzare tutto», nota il politologo e giornalista investigativo Henrik Berggren, «oggi l’errore contrario. Non ricordiamo che nel 1989 crollò un sistema dove lo Stato aveva divorato l’economia di mercato, oggi rischiamo un processo opposto». L’addio al Grande Nord solidale, ecco l’incubo di intellettuali, politici e gente comune, qui a Stoccolma, Helsinki, Copenaghen accese dal prossimo Natale. «Eravamo da decenni società impregnate di valori costitutivi socialdemocratici, senza che nessuno dovesse dichiararsi socialdemocratico », nota triste Jussi Adler Olsen. «Eravamo la terra della tolleranza e del pensiero solidale: prima il prossimo di te stesso. Poi miti e valori comuni sono stati aggrediti alla radice. Crescono nuove generazioni più egoiste, prima che al prossimo pensano al portafoglio, non riusciamo a tramandare i valori. Speriamo nella nuova Svezia di sinistra, viviamo ancora in un paradiso, ma che possiamo perdere », 29 confessa. Sommesse e civili, ecco le paure nell’animo collettivo del Grande Nord, finora dal cuore solidale caldo anche nel gelo. Le cogli con le sfide populiste, con il terrore di un crack dell’eurozona, e col rombo dei Gripen che decollando su allarme a ogni Tupolev atomico avvistato rompono il silenzio della notte. 30 INTERNI Del 01/12/2014, pag. 3 Fiducia in calo per il premier, sale Salvini Per la prima volta convince meno di metà degli elettori, persi cinque punti in un mese Nuovo balzo del leghista: piace a un italiano su tre. Grillo (17%) ora è ultimo, dopo Vendola Il risultato elettorale di domenica scorsa sembra aver impresso un’accelerazione alle tendenze in atto riguardanti il gradimento dei leader, con particolare riferimento a Renzi, Salvini e Grillo. Il premier arretra di 5 punti rispetto ad ottobre, passando dal 54% al 49% e, sebbene prevalgano sia pure di poco i giudizi positivi, è la prima volta che Renzi scende al di sotto della fatidica soglia del 50%. Al secondo posto si conferma Salvini che aumenta il proprio consenso di 5 punti (da 28% a 33%) riducendo in misura significativa la distanza da Renzi: a fine ottobre era di 26 punti mentre oggi è di 16. Al terzo posto si colloca Giorgia Meloni, gradita dal 28% degli italiani, seguita da Berlusconi (25%) e Alfano (22%). Chiudono la graduatoria Vendola, apprezzato dal 18% degli italiani (in aumento di 3 punti), e Grillo con il 17% di consenso (in calo di 2 punti). La flessione di Renzi, non dissimile da quella di tutti i premier italiani ed europei dopo sei mesi dall’insediamento del governo, presenta alcune specificità. Renzi ha alimentato nei cittadini aspettative estremamente elevate, tutte all’insegna del cambiamento, un cambiamento profondo e soprattutto rapido. Alcuni provvedimenti sono andati a segno, altri faticano a vedere la luce. Ma le partite aperte sono ancora molte, a partire dalla legge elettorale, e sullo sfondo la situazione economica continua a permanere negativa. Il presidente del Consiglio perde consenso soprattutto presso i segmenti sociali più toccati dalle difficoltà economiche (piccoli imprenditori, artigiani, commercianti e disoccupati) e in parte anche tra gli elettori del Pd (come conseguenza del Jobs act) mentre si consolida il gradimento tra le persone meno giovani e i pensionati. Ma la vera sfida, come sempre, è rappresentata dal ceto medio che in questa fase, dopo aver ridotto le spese, modificato gli stili di consumo e fatto importanti sacrifici, si è adattato alla crisi, ha ridotto le proprie aspettative e si accontenta della condizione attuale che si è assestata mentre, al contrario, è convinto che il Paese sia in declino e paventa un ulteriore peggioramento della situazione. È questo il punto più critico: il futuro dell’Italia, come dimostra l’andamento dell’indice di fiducia Istat che dal giugno scorso è in forte calo (dopo un semestre di crescita), ma diminuisce solo nella componente riguardante il clima economico del Paese, non quello personale che rimane pressoché stabile. Il malumore viene intercettato soprattutto da Salvini che si rafforza e risulta complementare rispetto a Renzi, aumentando il consenso proprio tra i segmenti che sono più delusi dal premier (lavoratori autonomi e disoccupati), tra i pensionati e ceti più popolari, mentre fatica ad accreditarsi tra quelli più istruiti e nella classe dirigente, a differenza di quanto avvenne con l’altro leader che più di altri è stato capace di raccogliere lo scontento e rappresentare efficacemente il dissenso: Grillo. Quest’ultimo appare in difficoltà, sia per la competizione di Salvini sul terreno della protesta sia a seguito delle dinamiche interne al movimento che in questa settimana hanno portato all’espulsione di altri due esponenti. E il tema della democrazia interna al M5S risulta un vero e proprio tallone d’Achille per il movimento. Quanto agli altri leader considerati, Meloni ha alcuni tratti in comune con Salvini: viene apprezzata dai lavoratori autonomi e dai pensionati (molto meno dai disoccupati) ma si distingue dal segretario della Lega per un maggiore 31 sostegno tra le donne. Berlusconi, nonostante il deludente risultato alle Regionali, mantiene il proprio livello di consenso personale, a conferma del forte rapporto che lo lega allo «zoccolo duro» del suo elettorato. Alfano si conferma sugli stessi livelli del mese scorso sia pure con qualche cambiamento all’interno dell’elettorato: infatti perde consenso tra gli elettori del Pd e aumenta il sostegno tra quelli di Forza Italia. Infine Vendola. Pur essendo stato meno presente sui media nelle ultime settimane, beneficia del calo di consenso di Renzi e di Grillo nell’elettorato che si colloca più a sinistra. In sintesi possiamo dire che Renzi sta affrontando un passaggio delicato: le critiche su provvedimenti di largo impatto da un lato e le difficoltà dell’economia dall’altro stanno erodendo la sua popolarità, ma si tratta di un’erosione che può rientrare. Se chiuderà da vincente i due percorsi principali (Jobs act e legge elettorale), se come sembra la legge di Stabilità supererà la «tagliola» europea e, soprattutto, se si avvereranno le previsioni di Confindustria, dopo tanto tempo diventata ottimista, e l’economia segnerà una sia pur piccola ripresa fin dall’inizio del 2015, il ciclo negativo del premier potrebbe cambiare di segno. del 01/12/14, pag. 10 Scontro tra Renzi e Berlusconi “Silvio non dà più le carte sì alle riforme con i grillini” La replica: “Siamo in campagna elettorale. Parlamento illegittimo” Il premier al Pd: fuori c’è Salvini-Le Pen, non un’altra sinistra ROMA . Il Patto del Nazareno sembra lontano. Tra Renzi e Berlusconi è scontro su tutto. Il premier avverte l’ex Cavaliere che non è più lui a dare le carte. «Berlusconi è una persona che sta al tavolo, ma non dà le carte. Io faccio di tutto perché finisca la guerra civile in Italia, voglio che Berlusconi stia al tavolo ma ho idee diverse», dice. E Renzi apre ai 5Stelle: «Se sono disponibili a scrivere insieme le regole, tutta la vita... «. Al centro della partita politica ci sono la corsa al Quirinale e le riforme istituzionali. Per il premier non c’è dubbio alcuno che si debbano fare prima le riforme, certamente entro gennaio e non sarà l’elezione del capo dello Stato a bloccarle. Ma Silvio Berlusconi non ci sta, convinto com’è che le elezioni saranno in primavera: «Siamo in campagna elettorale perché non sappiamo se andiamo a elezioni a marzo, in primavera, con il Consultellum o dopo con l’Italicum». Proprio per questo Forza Italia si vuole preparare a conquistare i voti dei moderati e rilancia l’abbattimento delle tasse, «visto che non possiamo fare una rivoluzione armata». Il leader forzista vorrebbe mettere subito bocca nella scelta del successore di Napolitano e denuncia la «a-democrazia» che non permetterebbe a questo Parlamento di votare nuovo presidente della Repubblica e riforme, perché ci sarebbero «148 deputati dichiarati incostituzionali» in quanto eletti con il premio di maggioranza criticato dalla Consulta. Ma Renzi ripete che non ci sarà nessun cambiamento nella tabella di marcia: «La riforma elettorale passerà in commissione e prima di Natale andrà in aula ma non ce la faremo da approvarla», spiega in tv a “In mezz’ora”. Quindi una frecciata ai dissidenti del Pd: «Una parte della sinistra preferisce fare le pulci al governo. Non si rende conto che l’alternativa non è un’altra sinistra, bensì una destra che ha un nome e cognome, la destra di Le Pen in Francia», e di Salvini in Italia, la destra della rabbia. Grillo ha cavalcato questa rabbia come ora la cavalca Salvini. «Non temo Salvini come non temevo Grillo», afferma. E sui sondaggi che lo vedono in calo: «È naturale, quando provi a cambiare il calo di consenso ci sta». 32 ( g. c.) del 01/12/14, pag. 10 Ma l’ex Cavaliere scommette: l’addio di Napolitano frenerà l’Italicum GOFFREDO DE MARCHIS ROMA . Adesso anche il gruppo del Senato di Forza Italia, che aveva tenuto in piedi il patto del Nazareno al momento del voto sulla riforma costituzionale, ha recepito il messaggio di Berlusconi: l’Italicum deve rallentare perché prima ci vuole un accordo sul presidente della Repubblica. Non è in programma l’ostruzionismo o qualche palese manovra dilatoria. «Basta il calendario», dice sornione il capogruppo di Fi Paolo Romani. La melina, la serie di passaggi che fa perdere tempo nel calcio, è nei fatti secondo Romani. Che ha studiato bene le prossime settimane e le tappe della legge elettorale, ancora ferma in commissione. Ad aiutare Berlusconi nella strategia che dovrebbe garantirgli un capo dello Stato non sgradito, l’impegno a evitare le elezioni in primavera e solo dopo a varare la riforma del sistema di voto, c’è persino il tradizionale concerto di Natale a Palazzo Madama. «Per organizzarlo l’aula deve chiudere almeno due giorni», ricorda Romani. E’ dunque una guerra di nervi quella tra Berlusconi e Renzi, per la prima volta dal 18 gennaio, giorno della sigla sull’intesa istituzionale, impegnati in uno scontro. L’impressione è che il leader di Forza Italia abbia davvero dalla sua parte il calendario. «Mi sembra che Napolitano abbia tolto tutti dall’imbarazzo — spiega l’ex Cavaliere a chi lo ha sentito ieri da Arcore —. Dopo l’incontro con Renzi ha addirittura accelerato sulla sua uscita. C’era il problema se doveva venire prima la legge elettorale o le sue dimissioni. Direi che ha deciso così: non fatevi illusioni, me ne vado prima io». Il 20 gennaio, secondo le indiscrezioni, è il giorno in cui potrebbero riunirsi in seduta comune le Camere per iniziare le votazioni del successore. «Non c’è neanche bisogno di fare ostruzionismo», prevede allora Romani. Al momento il testo dell’Italicum modificato ancora non è pronto. Non c’è nemmeno la calendarizzazione in aula e il 19 dicembre, dicono a Palazzo Madama, il Senato chiuderà per le ferie natalizie. E’ un venerdì. «Giocoforza verrà prima il capo dello Stato », insiste il capogruppo di Fi. Che non esclude l’approvazione in commissione dell’Italicum modificato, ma poi i lavori dell’aula non cominceranno prima del 7 gennaio, ovvero 13 giorni prima dell’ora X. A Palazzo Chigi sono consapevoli delle difficoltà sui tempi, il calendario lo leggono anche lì. Anna Finocchiaro, presidente della commissione Affari costituzionali, ha messo in guardia sia Matteo Renzi sia Maria Elena Boschi. Ma il premier non rinuncia a provare una corsa contro il tempo. L’obiettivo è non solo approvare il testo in commissione ma riuscire anche a incardinarlo per l’aula alla ripresa dei lavori a gennaio. Si può fare anche nell’ultima mezz’ora utile di di- cembre, con l’ultima conferenza dei capigruppo del 2014. A quel punto ci sarebbero 10 giorni per arrivare al traguardo prima della chiamata dei grandi elettori. «Tecnicamente è difficile, ma Forza Italia fa un po’ di confusione sulle date. Le possibilità ci sono», dice Renzi ai suoi collaboratori. Evitare l’ingorgo è la sua principale preoccupazione come dimostrano le parole dell’intervista a Repubblica . Si può certamente fare un accordo complessivo con Berlusconi includendo il nuovo inquilino del Colle, ma la partita va giocata sul filo. Non è permesso lasciar credere al leader di Arcore 33 che è lui a dare le carte, bisogna avere un piano B complessivo guardando ai movimenti tellurici dei 5stelle e alla compattezza del Pd che da solo, dalla quarta votazione in poi potrà contare su 440 voti, a 60 di distanza dal quorum necessario per eleggere il capo dello Stato. In questo senso anche la “campagna acquisti” dentro Sel (con dieci deputati di Gennaro Migliore passati al Pd) e dentro Scelta civica ha un peso. La mossa decisiva tocca a Palazzo Chigi, ma sul calendario rischia di avere ragione Berlusconi. Del 01/12/2014, pag. 7 Il diktat Berlusconi “Voglio tornare in Parlamento” Le condizioni del leader di Forza Italia per il Colle In cambio è disposto a votare qualunque candidato Ugo Magri Qualunque nome di futuro presidente della Repubblica a Berlusconi può star bene, purché sia disposto a restituirgli la piena agibilità politica. Non un normale provvedimento di grazia: per quello ormai è tardi, il 15 febbraio l’ex Cavaliere avrà finito di scontare la pena. L’esito positivo dei servizi sociali avrà come effetto di cancellare tutte le pene accessorie. Tutte tranne una: il divieto di ricandidarsi in Parlamento. Ecco, l’uomo vorrebbe che il prossimo Capo dello Stato prendesse a cuore la sua vicenda e comunicasse all’Italia: «Berlusconi è innocente, anzi è un martire dell’ingiustizia». Dopodiché escogitasse qualche forma di clemenza «atipica» e «ad personam» per consentirgli di ritornare in pista. Attenzione: non è un semplice desiderio. Si tratta di una richiesta molto precisa rivolta a Renzi, quale «dominus» delle prossime elezioni presidenziali. Berlusconi si attende che il premier concordi la scelta, e questa cada su una personalità disposta a rimetterlo in condizione, come dice lui privatamente, «di partecipare al girone di ritorno». Cioè di tentare una disperata rivincita quando si tornerà alle urne. Se Matteo farà orecchie da mercante, verrà meno un pilastro su cui si regge il famoso patto del Nazareno. Questo è stato detto ad Arcore durante il weekend, e con le persone amiche Berlusconi è stato di una chiarezza assoluta. Che Renzi possa assecondare Silvio al punto di scegliergli un candidato su misura, sembra quasi impossibile. Anzi, senza il «quasi». E d’altra parte, perfino se il futuro Presidente volesse prestarsi , non si capisce come potrebbe. La questione era stata approfondita un anno fa, dopo la condanna Mediaset. Letta zio e Quagliariello avevano cercato una faticosissima mediazione con il Colle, nella speranza di evitare la crisi del governo Letta (nipote). Salvo prendere atto che per la giurisprudenza costituzionale il potere di grazia non può estendersi fino al punto di creare un’eccezione alla legge Severino sull’incandidabilità dei condannati. Perfino l’avvocato Ghedini, che al suo cliente vuole bene, gli ha consigliato di non battere quella strada, poiché l’art.174 del codice penale sarebbe di ostacolo invalicabile. Eppure Berlusconi persiste. Anzi, con il passare dei giorni, la sua insofferenza ingigantisce vieppiù. Gli sembra incredibile che Renzi non voglia spendersi a trovare per lui una via d’uscita, al limite cambiando la legge anticorruzione. Di qui i segnali lanciati all’indirizzo di Palazzo Chigi: prima si sceglie il Capo dello Stato e solo dopo, come contraccambio, Forza Italia darà una mano sulle riforme. Ieri Toti, il consigliere politico, dalla Latella è stato chiaro: «Forza Italia ha sempre rispettato i patti, Renzi no». Viene dunque da chiedersi se davvero nella prossima corsa per il Quirinale si frantumerà il patto tra i due. 34 Al momento l’aria è un po’ quella. Qualcuno del giro stretto sostiene che Berlusconi veda Renzi in calo di consensi, e non giudichi più interessante dargli un sostegno «gratis». O ci sta, oppure addio. Da alcuni giorni il tono della sua opposizione si è improvvisamente corroborato. Tanto che il senatore Minzolini, periscopio del sommergibile Fitto, pregusta già la fine del Nazareno e di Renzi, lanciando su twitter l’hashtag #èinunmarediguai. Brunetta, che ha molte letture alle spalle, cita invece una parola d’ordine delle rivolte bracciantili nella bassa padovana e rodigina alla fine dell’Ottocento: «La bòje», pronostica il capogruppo azzurro, «ormai bolle». Il riscatto berlusconiano è questione di mesi... Del 01/12/2014, pag. 9 L’allarme delle Province “Tagliati i fondi, a rischio i centri per l’impiego” Via libera della Camera alla legge di stabilità Roberto Giovannini Niente più posto di lavoro garantito, ha detto il governo; ma i lavoratori licenziati, era la promessa, potranno contare come avviene in Germania su una rete di servizi per l’impiego in grado di aiutarli a trovare un’altra opportunità di lavoro. C’è il grande rischio però - lo denunciano le Province in un documento - che i tagli ai finanziamenti per le Province vanifichino quasi del tutto l’operazione. Costringendole a chiudere i Centri per l’impiego sin da gennaio. Già sappiamo che i servizi per l’impiego del nostro Paese - oltre ad essere molto poco efficienti, con le dovute eccezioni - sono tra i meno finanziati d’Europa. Nel 2013 in Germania si sono spesi in media 1.700 euro per ogni disoccupato: 8 miliardi per servizi pubblici organizzati da una Agenzia nazionale con 80mila dipendenti. Poco meno spende la Francia. In Italia sono a disposizione soltanto 450 milioni, ovvero 80 euro per ogni disoccupato. Sono le Province, in base alle riforme legislative e costituzionali, a gestire organizzativamente gli uffici su delega delle Regioni. Su questa base non certo esaltante arriva la nuova mazzata della legge di stabilità, che ieri è stata licenziata formalmente dalla Camera. Anche se poi il taglio agli stanziamenti alle Province, inizialmente previsto a un miliardo di euro, è stato un po’ alleggerito, si annunciano tempi grami per questi enti. Che nonostante la riforma Delrio, che le ha «sterilizzate», continuano a esercitare per legge una serie di compiti «obbligatori». Ma con sempre meno risorse. Uno di questi è il funzionamento dei centri per l’impiego, che secondo previsioni attendibili potrebbero entrare in crisi sin da gennaio, con difficoltà per il finanziamento del personale e degli uffici. Ovvero proprio dall’avvio della riforma contenuta nel «Jobs Act», che sulla carta dovrebbe prevedere un deciso rafforzamento di questi servizi a favore dei disoccupati e di chi perde il lavoro. «Le Province lanciano l’allarme perché la riforma Delrio non ha confermato le loro competenze. E con il taglio delle risorse il rischio del default in alcune Province, se si vogliono continuare ad erogare i servizi, è reale», spiega Romano Benini, ascoltato consulente per le istituzioni e le imprese sui temi del lavoro e della formazione. E c’è un altro punto interrogativo su cui sarebbe il caso di fare chiarezza: il «Jobs Act» prevede la nascita di una Agenzia nazionale. Ma non è ancora chiaro se si tratta di una nuova e rifondata Italia Lavoro, oppure se ne faranno parte anche i centri per l’impiego. Che normalmente, nelle esperienze degli altri paesi europei, sono gli organismi che prendono in carico i disoccupati e li avviano a politiche attive di formazione e reimpiego. 35 Poca chiarezza sulle risorse, sul personale, e sull’organizzazione. Se le Province non ce la facessero, si potrebbe certo assegnare i Centri e il personale alle Regioni. Con il rischio però di far nascere Agenzie Regionali che mal si concilierebbero con quella Nazionale. E come conclude Benini, «lo scambio tra tutele che spariscono e nuovi servizi ha senso se poi i servizi ci sono davvero». del 01/12/14, pag. 15 Il Pd evita un nuovo flop ai gazebo Scelti i candidati del centrosinistra per le prossime regionali in Veneto e Puglia DOMENICO CASTELLANETA VINCONO Michele Emiliano e Alessandra Moretti: saranno l’ex sindaco di Bari e l’europarlamentare Pd a guidare il centrosinistra alle elezioni regionali in Puglia e Veneto nella prossima primavera. E lo fanno spinti dalle elezioni primarie di ieri che allontano il fantasma dell’Emilia e portano alle urne oltre centomila persone in Puglia e 40mila nel Veneto. Nella regione di Nichi Vendola seggi chiusi alle 22, più di centomila votanti contro i 190mila del 2010 quando il leader di Sel sconfisse per la seconda volta Francesco Boccia. A un terzo di schede scrutinate Emiliano (che sfiderà il candidato del centrodestra non ancora individuato) era al 67 per cento delle preferenze superando il senatore Dario Stefàno (Sel) con il 22,5 e un altro democrat, Guglielmo Minervini con il 10,5. «E adesso lavoriamo tutti insieme», ha dichiarato Emiliano che riesce così ad allontanare lo spettro del flop dopo che alla vigilia Nichi Vendola aveva prima minacciato il ritiro dalle primarie, poi convinto dal sindaco di Bari, il renziano Antonio Decaro. Sarà invece Alessandra Moretti, eurodeputata del Pd, a cercare di disarcionare il centrodestra che da vent’anni guida la Regione Veneto prima con Giancarlo Galan, poi dal 2010 con il leghista Luca Zaia. La Moretti ha vinto con oltre il 67 per cento dei voti la sfida. Lei, che era andata a Strasburgo forte di 230mila voti di preferenza, nella sfida a tre di ieri ha battuto la compagna di partito Simonetta Rubinato, che ha preso il 28,53% e il consigliere regionale dell'Idv, Antonio Pipitone, con il 4,36%. Negli oltre 600 seggi (chiusi alle 20) hanno votato 40mila persone (anche se erano state stampate circa 70mila schede). «E’ la certezza del merito: il Veneto merita questa vittoria. A vincere non sono io, ma tutti noi veneti», ha dichiarato la Moretti. E adesso la aspetta la sfida con Luca Zaia. del 01/12/14, pag. 1/29 La grande fuga dalle Regioni ILVO DIAMANTI IL VINCITORE delle elezioni regionali in Calabria e in Emilia-Romagna è il non voto. Così hanno sostenuto molti osservatori e attori politici. In realtà, chi non vota non vince mai. In modo più o meno consapevole e volontario, sostiene e legittima le scelte di chi vota. Sicuramente, però, l’astensione è un segnale di distacco. Un indice di disagio della democrazia rappresentativa. Ma occorre interpretarlo correttamente. 36 L’ASTENSIONE alle elezioni regionali è sempre stata più elevata che alle politiche. Anche se mai come questa volta. Soprattutto in Emilia-Romagna, dove storicamente si vota per “appartenenza” politica e sociale. Se molti elettori hanno scelto di non votare, però, è perché non ne hanno sentito la necessità. Non dico il dovere, che ormai è categoria che non si addice al voto. Chi non ha votato (quasi due elettori su tre) l’ha fatto per diverse ragioni. Indifferenza, disinteresse, rifiuto. Molto meno, a mio avviso, contro il PdR. Il Partito di Renzi. D’altra parte, anche alle Europee gli elettori del Pd hanno votato per Renzi “nonostante tutto”. In questo caso, alle Regionali, cioè, la posta in palio era diversa. Il governo della Regione — “rossa” per definizione. Dell’Emilia-Romagna. E se molti, troppi, non hanno votato è, anzitutto e soprattutto, per sfiducia, disincanto, verso la classe politica e dirigente non “nazionale”, ma “regionale”. Verso gli uomini di governo e di partito che, in Emilia-Romgna, coincidono largamente. Perché sono passati i tempi del “buon governo locale”. La Ditta, ormai, non garantisce più formazione e selezione della classe dirigente, come una volta. Anche perché non è più quella di prima. Il Partito, come organizzazione radicata nella società e nel territorio, non c’è più. Si è centralizzato, burocratizzato, personalizzato. Mediatizzato. Non solo il Pd post-comunista, ovviamente. È il percorso seguito da “tutti” i partiti. Ma il Pd post-comunista, nelle regioni rosse, ne ha sofferto di più. Perché coincideva, largamente, con la società. Insieme alla rete di associazioni e di istituzioni locali, che lo affiancavano, garantiva il sistema di servizi e di relazioni che accompagnavano la vita quotidiana della gente. Costituiva la tela sociale del territorio. Oggi quel mondo non c’è più. Da tempo. Ma, in aggiunta, non c’è più neppure la classe dirigente che garantiva il funzionamento della società locale. O meglio, non ha la stessa qualità e “popolarità”. E, soprattutto, si è deteriorato il rapporto dei cittadini con il governo del territorio. Per primo, verso la Regione. Ciò non riguarda, specificamente, le “Regioni rosse” (anche se il cambiamento, in rapporto con il passato, appare più acuto). Ma le Regioni in quanto tali. La fiducia nei loro confronti, in pochi anni, è collassata, più che declinata. Nel 2000 era espressa dal 44% dei cittadini, nel 2008 dal 39%, nel 2014 dal 28% (dati di sondaggi Demos). Questo rapido cambiamento di umore ha più di qualche ragione, più di qualche fondamento. Basti rammentare che, dal 2000, in quasi metà delle Regioni hanno avuto luogo elezioni anticipate. Solo negli ultimi due anni: sette. Oltre a Emilia-Romagna e Calabria, anche Piemonte, Lombardia, Lazio, Molise e Basilicata. Segno e conseguenza degli episodi di corruzione, abuso, irregolarità, inefficienza che hanno interessato le Regioni, in Italia. In particolare, dopo l’avvio dell’elezione diretta dei governatori, nel 2000, e dopo l’approvazione del titolo V, sul Federalismo, nel 2001, che hanno aumentato risorse e poteri delle Regioni. Per restare agli ultimi mesi, è sufficiente rammentare gli scandali che hanno investito il Veneto e la Lombardia, per le vicende del Mose e dell’Expo. Ma, soprattutto, sono molti, troppi i casi di sperpero e di uso improprio — e indecoroso — dei soldi pubblici — dei cittadini — da parte degli amministratori regionali. A fini personali. Difficile non provare indignazione e disgusto. Difficile tornare a votare — come nulla fosse — per un’istituzione rappresentativa che non si ritiene più rappresentativa. Se non degli interessi personali dei (pochi) eletti. Così, al distacco nei confronti dei partiti e dello Stato, del Parlamento e dei leader politici, si è sommata, in misura crescente, la sfiducia nei confronti della Regione. Che è perfino più lontana e indefinita, agli occhi dei cittadini. E per questo più inaccettabile. L’indifferenza si è cumulata all’indignazione. E, alla fine, solo un terzo degli elettori, in Emilia-Romagna, si è mostrato disponibile a spendere il tempo necessario a recarsi alle urne. A votare. 37 Difficile, per questo, non pensare alla crisi, se non alla fine, delle attese riposte nel progetto federalista. L’illusione federalista, potremmo dire. Che ha mobilitato molte energie, molte iniziative, molti soggetti, molte persone. D’altronde, negli anni Novanta, due “partigiani” del federalismo, come Giorgio Lago e Francesco Jori, notavano, con un po’ d’ironia, che l’Italia era divenuta «il Paese con il più alto tasso di federalisti per km quadrato». Io stesso, d’altronde, ci ho creduto. Convinto che il trasferimento di poteri e di competenze dal centro alla periferia, dallo Stato alle Regioni, avrebbe allargato e qualificato la nostra democrazia. Così non è avvenuto. Le Regioni — o, almeno, “queste” Regioni — hanno moltiplicato i centralismi. Non hanno ridotto il peso dello Stato. L’hanno accentuato ulteriormente. Riproducendone i vizi e le inefficienze. Così, oggi, diventa difficile discutere dell’astensione alle elezioni regionali senza ricondurla alla sua origine istituzionale e territoriale: la Regione. D’altronde, il governatore della Campania, Caldoro, ha proposto di sostituirle con macroaree. E perfino la Lega di Salvini, dopo trent’anni di identità nordista, sta diventando “Ligue National”. E, per questo, ha sfondato oltre il Po. La buona partecipazione, ieri, alle primarie del centrosinistra, in Puglia (ma non si può dire lo stesso per il Veneto), non basta a fugare l’idea — inquietante — che, in Italia, sia finita un’epoca della politica e delle istituzioni. Fondata sulla “centralità della periferia” e del Territorio. E ciò proietta un’ombra, che disorienta. Perché, di fronte alla “fine del territorio”, fonte di rappresentanza e riferimento dell’identità: com’è possibile non sentirsi s-paesati? del 01/12/14, pag. 13 Caos M5S, espulsioni senza assemblea I grillini apprendono dalla Boldrini che Pinna e Artini sono già nel Misto e scoppia la protesta contro il capogruppo Fico chiude a Renzi sulle riforme: “Vuole sembrare dialogante, ma poi sull’Italicum va avanti come un treno” ANNALISA CUZZOCREA ROMA . «Renzi va in tv, va a dire cose che non sono, mica quelle che sono». Roberto Fico - uno degli eletti del nuovo direttorio a 5 Stelle - non crede all’apertura fatta dal premier a In mezz’ora. Non crede che il Pd voglia davvero collaborare con il Movimento sulle riforme. «All’apparenza deve sembrare dialogante, dirci che siamo “bravini” - spiega il presidente della Vigilanza Rai in un corridoio della Camera - dà i voti come se fosse un professore della politica. Poi però la legge elettorale arriverà come un treno e verrà approvata. La verità è che Berlusconi si trova meglio con Renzi che con Fitto». È convinto del bluff, Fico. Se così non fosse, però, per il Movimento non dovranno più esistere tavoli in streaming: «Secondo me il luogo deputato a parlare di tutte le leggi è il Parlamento, sono le commissioni. Gli incontri fuori dall’arco costituzionale non ci devono interessare». Dell’invito di Renzi, del resto, ieri non si è praticamente accorto nessun 5 stelle in Parlamento. Troppo scioccati da quanto accaduto alla fine della seduta - in un’insolita domenica lavorativa a Montecitorio - quando la presidente Laura Boldrini prende la parola e annuncia: «Massimo Artini e Paola Pinna cessano di far parte del gruppo parlamentare del Movimento 5 Stelle alla Camera e passano al gruppo misto ». I grillini, in aula, si guardano come se avessero visto un fantasma. Non bisognava ratificare 38 in assemblea? Il capogruppo non avrebbe dovuto comunicare la sua decisione a loro, prima che alla Boldrini? Com’è possibile che il presidente Alessio Villarosa non ne sapesse nulla? Riunione urgente, si vola in sala Tatarella, e si litiga. Ancora. Qualcuno chiede ad Andrea Cecconi - che il giorno prima aveva detto a Repubblica che la sua decisione non sarebbe arrivata certo nel week end - «chi ti ha detto di farlo? Come puoi scavalcare Villarosa? È un atto gravissimo, dovresti dimetterti da parlamentare». Lui si prende tutta la responsabilità, non ammette di aver ricevuto pressioni. Interviene il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, che spiega: «Se il gruppo avesse votato contro la decisione del blog, Beppe - ipoteticamente - avrebbe potuto togliere l’uso del simbolo a tutti noi». «Avvertirci almeno, dirlo a tutti, non agire in modo mafioso», è la protesta dei dissidenti. Che il direttorio è lì per placare: sempre Fico fa un intervento di conciliazione, invita a restare concentrati sul progetto, sul sogno dei 5 stelle, senza perdersi in beghe senza senso. È in nome di questo, che nella riunione congiunta di mercoledì è probabile non ci sia nessuna nuova espulsione. Cecconi ha contato le richieste: non ce ne sono abbastanza per nessuno dei 20 finiti nel mirino, la procedura non si aprirà. Un dietrofront improvviso, il primo tentativo dei 5 eletti dal blog di conquistarsi la fiducia del gruppo parlamentare. «Non è questo il punto - quasi urla uscendo una dissidente - perché ora con il precedente di Paola e Massimo l’assemblea non conta nulla. Beppe può cacciarci quando vuole». Per questo, nessuno sa cosa succederà. Se davvero la frattura - diventata così profonda - potrà essere sanata. Se qualcuno deciderà di uscire comunque. La lista nera è ancora sul tavolo di Casaleggio, i sedici che hanno osato chiedere: «Chi è lo staff?» rifiutandosi di rendicontare sul sito apposito non possono certo sentirsi al sicuro. In tutto questo, si apre la partita del Quirinale: «Faremo le quirinarie, avremo i nostri nomi racconta uno dei deputati più in linea con i vertici ma se dovesse arrivare una candidatura che consideriamo super partes, una personalità di garanzia, potremmo votarla. Lo faremmo decidere alla Rete, com’è successo per la Consulta. Dovrà essere il presidente migliore, però, non il meno peggio». 39 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 01/12/14, pag. 22 “Bologna peggio di Reggio Calabria” Ecco la mappa del rischio-banlieue Conflitti sociali, studio della Fondazione Moressa Emergenza anche a Milano, Genova e Roma VLADIMIRO POLCHI ROMA . Bologna è più pericolosa di Reggio Calabria. Milano di Napoli. La mappa del rischio banlieue disegna un’Italia sottosopra, con le città del Nord più “calde” di quelle del Sud. A classificare i comuni italiani sull’orlo del conflitto sociale è la fondazione Leone Moressa, che incrocia tre fattori di rischio: la marginalità socio-economica degli stranieri (concentrazione in periferia, disoccupazione, diseguaglianze di reddito), i livelli di criminalità e la spesa pubblica per l’integrazione. Il risultato? Bologna è il comune più a rischio. Forte la differenza di reddito tra italiani e stranieri (oltre 11mila euro nel 2013). Abbastanza alti il tasso di delittuosità (66 arrestati ogni mille immigrati residenti) e la percentuale di detenuti stranieri sul totale (51,5%). In netto calo, invece, la spesa pubblica per l’immigrazione. Al secondo posto Milano, città con la più alta presenza straniera (17,4%) e concentrazione di immigrati in periferia (il 95% vive qui). Anche il tasso di detenuti stranieri è molto alto (61,3%). Pur avendo una spesa per l’immigrazione di 13,5 milioni, il grande bacino di utenti determina un spesa pro-capite tra le più basse (82 euro). Ma il valore che pesa di più è la differenza di reddito tra italiani e stranieri (11.300 euro). La terza città a rischio è Genova. Anche qui il differenziale di reddito è molto alto (10mila euro). Forte pure il tasso di delittuosità (ogni mille immigrati, ne vengono arrestati 102) e il livello di detenuti stranieri (54,1%). A incidere è soprattutto la spesa per immigrato: con 46 euro rappresenta il valore nazionale più basso. A chiudere la classifica delle quattro città più a rischio è Roma, sia per le alte diseguaglianze di reddito, che per i reati degli stranieri. Tre città presentano un livello di rischio vicino tra loro: Venezia, Torino, Firenze. In questi capoluoghi le differenze di reddito non sono molto alte. A Torino, in particolare, è forte la concentrazione degli immigrati in periferia (93,9%), ma bassa la percentuale di detenuti stranieri (41%). Venezia è la città con il più basso tasso di delittuosità degli immigrati (53 ogni mille residenti). Firenze è quella con la più bassa concentrazione in periferia (76,1%). Le tre città meno a rischio sono al Sud, caratterizzate anche da una bassa incidenza di stranieri sulla popolazione residente. A Reggio Calabria è alta la spesa per l’integrazione sul totale della spesa per assistenza sociale (il 9,9%). Napoli ha una bassissima percentuale di detenuti stranieri (9%). Infine Bari, pur avendo un alto tasso di delittuosità (140 per mille), presenta la più alta spesa procapite per l’immigrazione (521 euro). In conclusione, secondo i ricercatori della Moressa, «laddove si riscontra una forte concentrazione in periferia, forti differenze di reddito rispetto agli italiani, alti tassi di disoccupazione, alti tassi di criminalità e scarsi investimenti pubblici a favore dell’integrazione, si crea inevitabilmente terreno fertile per situazioni di disagio e conflitto». 40 SOCIETA’ Da il Messaggero del 01/12/14, pag. 15 Aids, in Italia undici infettati al giorno: il pericolo non è passato di Carla Massi ROMA Centoquarantamila persone sieropositive, quattromila nuove infezioni ogni anno, undici al giorno. Tre dati “raccontano” l'infezione da Hiv in Italia. Oggi che è la Giornata mondiale contro l'Aids. Numeri alti. Troppo alti, dicono gli epidemiologi, per un paese Ue. Tanto che l'Italia, con mille morti all'anno, è al primo posto, nell'Europa occidentale, per numero di persone che si sono infettate. I FARMACI E il futuro prossimo venturo non annuncia notizie più confortanti. Perché non si fanno campagne di informazione tra i giovani, accusano le associazioni di volontari come la Lila e gli infettivologi. Perché la possibilità di cronicizzare la malattia, quindi di conviverci con il sostegno dei farmaci, ha fatto ormai credere che l'infezione non è più rischiosa come qualche anno fa. E, invece, non è vero. Convivere con la malattia non significa cancellare la malattia né, tantomeno, limitare il contagio. Un esempio è Roma: il trend delle infezioni da Hiv è in crescita, negli ultimi 4 anni è salito +120%. Si è passati dai 503 del 2010, come fa sapere il Centro di solidarietà di Don Mario Picchi, agli oltre 1106 nel 2014. LA PREVENZIONE «Per fronteggiare questa malattia - spiega Roberto Mineo, presidente del Ceis di don Picchi - non basta più il sostegno del mondo medico ma occorre un impegno diretto per informare. Negli ultimi anni è stata ridotta la politica della prevenzione che ha portato ad innalzarsi il numero dei rapporti promiscui e non protetti». Rapporti che riguardano, ormai, eterosessuali ed omosessuali più o meno nello stesso modo. Da noi l'80% delle nuove diagnosi è dovuto a trasmissione sessuale. «Più che parlare di categorie a rischio - a parlare è Andrea Antinori infettivologo all'ospedale Spallanzani di Roma - è bene che chiunque sia sessualmente attivo sia responsabile, soprattutto chi ha comportamenti improntati alla non protezione». Chi rischia di più sono i ragazzi fin o a 19 anni. Come conferma una ricerca di Skuola.net. Dicono di sapere tutto, assicurano di essere molto preparati in materia ma nel momento in cui vengono fatte domande più precise sulla trasmissione del virus e sulle abitudini da tenere per proteggersi le risposte rivelano un'ignoranza preoccupante. Uno su sei ammette di avere rapporti senza precauzioni e uno su quattro è certo che si tratti di un'infezione guaribile. « Tendenzialmente sono i giovani con meno di trenta anni ad avere le conoscenze meno accurate - commenta Alessandra Cerioli, presidente della Lega per la lotta all'Aids - e una visione delle conseguenze dell'Hiv ancora più negativa di quello che è in realtà». Una realtà fatta da 95mila persone seguite dal servizio pubblico. Delle quali, 60mila in terapia con antiretrovirali (una spesa che oscilla dai 7mila ai 12mila euro a persona ogni anno). I PAESI DELL'EST In tutto il mondo quasi 13 milioni di persone sono in cura, ma solo un terzo dei 35milioni di malati che ne avrebbero bisogno. Mei paesi a medio e basso reddito è particolarmente grave la situazione dei bambini, di cui solo il 25% riceve la terapia. A preoccupare sono soprattutto i paesi dell'Est, con la Russia in testa, dove i casi sono in forte aumento. Circa l'80% rispetto al 2004. Nel paese ci sono numeri paragonabili al Sud Africa. 41 Una previsione dell'Oms: il 2030 potrebbe essere l'anno delle “infezioni zero”. L'anno, cioè, in cui finirà l'epidemia. Del 01/12/2014, pag. 1-28 Le inaspettate schiavitù digitali di Edoardo Segantini Tecnologie: l’Italia è al 36° posto nella classifica mondiale. C’è divario tra aree urbane e campagne e fra giovani «schiavi» di smartphone e quelli che integrano vecchi e nuovi media. Tra le forme di ineguaglianza sociale c’è anche quella tecnologica. La prima e più nota forma di digital divide è quella geografica: la distanza, cioè, che separa i Paesi che hanno accesso a Internet veloce da quelli che non l’hanno. Secondo l’ultimo Ict Development Index, che classifica i Paesi in base alla dotazione e alla competenza digitale, l’Italia si piazza solo al trentaseiesimo posto, dietro a Paesi come Emirati Arabi, Qatar e Barbados. La Danimarca supera la Corea del Sud come Paese più connesso del mondo. Una lettura attenta dei dati mostra però che, in realtà, il digital divide ha molte facce. Una è la dicotomia classica Paesi ricchi-Paesi poveri. Certo, Internet cresce ormai rapidamente in tutto il mondo, con 3 miliardi di persone online . Nel 2013 la diffusione del web è aumentata dell’8,7% anche nei Paesi in via di sviluppo, in cui vive il 90% delle persone prive di accesso alla Rete. Tuttavia le differenze Nord-Sud restano profonde. Grandi sono poi le disparità tra i Paesi più avanzati (ad esempio tra Scandinavia e Italia) ma anche all’interno dei singoli Paesi: un esempio clamoroso di digital divide è il fossato che separa le zone urbane e metropolitane dalle aree montane e rurali degli Stati Uniti. Tanto profondo da alimentare il già diffuso disincanto degli elettori verso l’amministrazione Obama. Ma non meno drammatiche sono le distanze culturali nel «mondo avanzato». Questo secondo digital divide è particolarmente accentuato in Italia, dove molto poco, finora, è stato fatto per contrastare il fenomeno. Sul quale pesa di certo l’inadeguatezza dell’attrezzatura tecnologica ma che, a sua volta, genera un’insufficiente domanda di nuovi servizi digitali. Scarsa, ad esempio, è la pressione esercitata dall’opinione pubblica sullo Stato per ottenere buone forme di egovernment , cioè di burocrazia digitale chiara e comprensibile. Una parte dei cittadini preferisce la coda allo sportello all’impaccio davanti al computer. Da un lato c’è il divario generazionale tra i nativi digitali e le persone più anziane. L’«alfabetizzazione tecnologica», tante volte invocata, non è mai stata neppure tentata in modo serio e su vasta scala. Il servizio pubblico radiotelevisivo, cui forse sarebbe spettato il compito di realizzare un’iniziativa del calibro di «Non è mai troppo tardi», aggiornata all’era digitale, non ha dedicato al tema un impegno adeguato. Nei Paesi scandinavi, al contrario, la semplificazione amministrativa è passata attraverso un’educazione all’ egovernment che ha coinvolto simmetricamente gli impiegati pubblici e gli utenti. C’è infine, più nascosto ma non meno cruciale, un terzo tipo di digital divide , ed è quello nel mondo giovanile. In questa parte della società esistono le distanze forse più grandi e, in prospettiva, più importanti. Una delle rappresentazioni più in voga è quella dei ragazzi «tutti uguali», intontiti, curvi sullo smartphone , presi a scambiarsi informazioni irrilevanti sui social network . Peccato sia anche una delle più rozze e false. Anche il mondo giovanile si sta, al contrario, polarizzando: da una parte ci sono, effettivamente, i giovani «schiavi» delle tecnologie della comunicazione, quelli che se ne fanno dominare, poco abili a gestire il proprio tempo, privi di «disciplina mediatica». Dall’altra però emerge un tipo di giovani che della tecnologia fa un uso attento e maturo, integra vecchi e nuovi media, ama la lettura, usa i mezzi a disposizione per un progetto di 42 crescita. Il loro profilo, c’è da scommettere, coincide con quello dei giovani che trovano lavoro, in Italia o all’estero, oppure riescono a crearlo. Forse non sono la maggioranza ma l’esperienza quotidiana ci insegna che non sono pochi. Un buon progetto culturale (e occupazionale) per l’Italia non può prescindere, in partenza, da una comprensione e da una valorizzazione del ruolo di questi giovani attrezzati: senza dimenticare i loro coetanei meno bravi. 43 BENI COMUNI/AMBIENTE del 01/12/14, pag. 7 Taranto spera ma la fabbrica inquina ancora L’annunciato intervento statale rassicura gli operai anche se la relazione dei custodi giudiziari è durissima GIULIANO FOSCHINI DAL NOSTRO INVIATO TARANTO . Il ritorno del «posto fisso», per dirla con uno dei ragazzi del tubificio. Ma anche la paura che si freni sull’ambientalizzazione, «perché lo Stato diventerà controllore e controllato». È frastornata Taranto il giorno dopo l’annuncio improvviso di Matteo Renzi di una nuova nazionalizzazione dell’Ilva. Da un lato c’è il senso di «sicurezza » che dà l’intervento dello stato per uno dei ragazzi come Cataldo, appunto, che quando «l’Ilva era pubblica io nemmeno quasi ero nato. Sono entrato in fabbrica con i Riva — racconta — e mi trovo ora ogni mese a sperare che lo stipendio arrivi». Non è un modo di dire. Da quasi due anni — da quando cioè il Governo dopo le inchieste della Procura ha nominato un commissario, prima Bondi e poi Gnudi, mettendo da parte la gestione dei Riva — la situazione finanziaria è fortemente in crisi. Al momento Ilva perde una cifra che va dai 30 ai 60 milioni al mese. Nel giro di tre anni, e cioè da prima a dopo l’inchiesta, si è passati da un utile di 88 milioni a un rosso di un miliardo. Proprio per questa situazione, ogni mese, Gnudi è costretto a fare i conti con la cassa. Se a dicembre verranno pagate tredicesime e stipendi è solo grazie alle banche che nei giorni scorsi hanno annunciato lo sblocco della seconda tranche del prestito ponte. Ma non passeranno un buon Natale le imprese dell’indotto che da qualche mese hanno di nuovo visto bloccati i pagamenti. «Davanti a una situazione del genere non può che farci piacere — dice Donato Stefanelli della Fiom — che il governo abbia cambiato idea decidendo di intervenire. Certo ora è da capire in che cosa si sostanzierà l’intervento pubblico ma il cambio di impostazione è fondamentale ». Una linea questa però che non piace affatto agli ambientalisti tarantini che vedono nella nazionalizzazione una mancanza di garanzie. «Lo Stato diventerebbe controllore e controllato » dicono da Peacelink. «E andremo incontro — dice Alessandro Marescotti, leader del movimento ambientalista — a una sicura sanzione dell’Unione europea che già è intervenuta sul caso Taranto segnalando l’aiuto di Stato». A preoccupare è poi la situazione delle emissioni. I custodi nominati dal gip Patrizia Todisco (l’Ilva, o per lo meno gran parte di essa, è ancora sotto sequestro ma con facoltà d’uso dopo un decreto del governo) hanno sostenuto che l’attività inquinante della fabbrica non si è affatto fermata. Sulla base di una serie di blitz effettuati con i Carabinieri del Noe segnalavano anomalie nel funzionamento di alcune aree e i ritardi di alcuni degli interventi più importanti per contenere le emissioni, primo tra tutti la copertura dei parchi minerali che ancora deve essere autorizzata. Non solo: per terminare i progetti di ambientalizzazione previsti dall’Aia, l’Autorizzazione di impatto ambientale, servono non meno di un miliardo e mezzo. Il commissario Gnudi pensava di poter utilizzare il miliardo e duecento milioni sequestrati ai Riva per motivi fiscali che il tribunale di Milano gli aveva messo a disposizione. Al di là del ricorso in Cassazione presentato dai Riva, esiste un problema di disponibilità: i soldi sono per lo più incagliati in trust esteri e difficilmente, temono gli investigatori, potranno essere riportati in Italia. 44 del 01/12/14, pag. 25 La rivolta delle donne. Da tre giorni si sono auto-seppellite e rivendicano il lavoro Una sola riemerge per allattare il figlio neonato “Siamo dure, resisteremo, stavolta non vogliamo solo promesse” La resistenza dolce delle Marie del Sulcis “Così occupiamo la nostra miniera” DAL NOSTRO INVIATO MARIA NOVELLA DE LUCA IGLESIAS . Si sono date un nome di battaglia uguale per tutte, “Maria”. Si presentano con il volto coperto e l’elmetto in testa, come fossero guerrigliere senza armi, e da tre giorni vivono barricate nel ventre scuro di una delle più antiche miniere di zinco della Sardegna, alle porte di Iglesias. Nel cuore del disastro post-industriale di quest’area un tempo produttiva, quarantamila disoccupati e cinquemila cassintegrati su centoventimila abitanti. «Ecco, entrate, state attenti, in miniera ci vuole cautela». Sedute su blocchi di polistirolo dentro la “Galleria Villamarina” di Monteponi, infinito cunicolo costruito a metà dell’Ottocento dove il vero nemico è l’umidità che s’infiltra nelle ossa, le “Marie del Sulcis” dicono che da qui sotto loro non usciranno. Né oggi, né domani, né chissà. «Da sei mesi siamo senza stipendio, le nostre famiglie sono alla fame, abbiamo mariti disoccupati e in mobilità, resteremo in miniera fino a che non avremo certezze sui nostri posti di lavoro». Sono in trentasette, hanno dai ventotto ai sessant’anni, tutte dipendenti dell’”Igea”, il grande consorzio di bonifica delle aree minerarie finanziato e voluto dalla Regione Sardegna. Società in liquidazione che avrebbe dovuto salvare, riqualificare e rilanciare queste straordinarie aree di archeologia industriale, e invece oggi rischia di fermarsi per sempre, travolta da debiti, spese opache e cattiva gestione. Assiepate dietro il grande portone di ferro della “Galleria Villamarina”, le “auto-carcerate” salutano attraverso la grata figli, mariti, padri e madri. Mani che si stringono, baci, lacrime. Ma anche vita quotidiana: «Fai i compiti», «Ubbidisci a papà». Passano pasti caldi e vassoi di dolci, una giovane mamma esce per allattare il figlio di otto mesi e rientra, a pochi metri dalle sbarre il vescovo di Iglesias, monsignor Zedda, celebra all’aperto la messa della domenica, il coro canta l’Ave Maria, da dietro il passamontagna le occupanti della miniera leggono il libro di Isaia. Dentro si sta sedute a cerchio, vicine, così il freddo sembra meno pungente. Un po’ più in là dove la Galleria si allarga c’è il “dormitorio”, coperte, sacchi a pelo, teli per fare da barriera all’umidità che gocciola dappertutto. «Ci siamo chiamate “Maria” per un fatto simbolico, perché qui stiamo occupando abusivamente e potremmo essere identificate e denunciate. Anche se — scherza Ornella, che invece dà il suo nome — tutti sanno chi siamo, visto che indossiamo caschi e giubbotti dell’Igea, ossia il nostro datore di lavoro». «Noi siamo forti, siamo dure, possiamo resistere a lungo, quello che ci tratteneva dal seppellirci qua sotto era il pensiero della famiglia. Ma di fronte al baratro, di fronte alle prese in giro dell’azienda e della Regione, abbiamo deciso di agire. Magari anche per sfatare il pregiudizio che le donne dentro le miniere portano sfortuna ». 45 C’è angoscia, ansia, fatica. Il Sulcis è oggi la regione più povera della Sardegna, alla disoccupazione si somma il disastro ambientale dei residui minerari e degli scarti dell’ormai ex polo industriale di Portovesme. Le polveri micidiali dei famosi fanghi rossi. «Attenta, c’è un topo dietro di te». Lo scherzo riesce subito e in quattro saltano su come molle dalla panca improvvisata, suscitando risate collettive. Ilaria: «Ogni tanto cerchiamo di scherzare, ci facciamo coraggio, qui dentro ormai c’è una situazione particolare, discutiamo, votiamo, poi cambiamo idea, rivotiamo... Poi la sera però giochiamo a carte, ci confidiamo, alcune di noi sono nonne, altre da poco madri, è la vita, ma oggi tirare avanti è durissimo». Si chiama complicità. Tra le donne nasce anche nelle situazioni più estreme. Elena: «Noi siamo il welfare italiano, per anni abbiamo supplito alle carenze dello Stato, adesso veniamo anche private della sopravvivenza. Per questo vorrei che una delle ministre che tanto parlano di maternità e famiglia, la Madia per esempio, che ha appena avuto un figlio, o la Guidi, venissero qui, scendessero in miniera per vedere cos’è la vita vera ». Arriva un altro vassoio di dolci. «Aiuto, basta, guardi che solidarietà, qui finisce che ingrassiamo, questi sono i nostri amaretti, sono speciali...». Domani, martedì, i sindacati incontreranno a Cagliari l’assessore regionale al Lavoro. Ma le “Marie” non si fidano. «Questa volta non può finire come sempre, ci danno un’elemosina, uno o due stipendi, e poi non succede più nulla, anzi continuano a smantellare posti di lavoro. Noi vogliamo certezze. Diteci voi come si fa a vivere, se in una famiglia non c’è più nemmeno uno stipendio. Fa freddo, piove, è umido, ci sono i topi, ma noi restiamo qui. La miniera la conosciamo, non ci fa paura, le donne ci sono sempre state, facevano le cernitrici, un compito durissimo, dovevano dividere e lavare le pietre, nell’acqua gelida, a mani nude... Questo per dire che sappiamo resistere. Il lavoro è tutto». Del 01/12/2014, pag. 13 Tanti misteri intorno all’affare del millennio Di Alessio Nannini Immaginate di trovare all’improvviso, davanti alle vostre case, dei pozzi di trivellazione e operai intenti a realizzare dei lavori di carotaggio dove poche ore prima c’era appena un semplice appezzamento adibito a coltivazione. Il tutto senza avviso alcuno, senza richiesta, senza soprattutto autorizzazione da parte delle autorità competenti. Come sarebbe possibile, chiederete voi. Ecco, tutto questo è avvenuto tre settimane fa nei terreni subito fuori dell’aeroporto di Fiumicino, nella parte nord verso Maccarese e per giunta nella Riserva naturale del Litorale Romano. Ed è soltanto l’ultimo dei “misteri” che circondano un progetto imponente, tra i più grandi mai realizzati in Italia, e che pertanto può muovere tanto, tantissimo denaro. Stiamo parlando del raddoppio dell’aeroporto Leonardo da Vinci e di un totale stimato in circa 20 miliardi di euro: quasi quattro volte i costi del famigerato Ponte di Messina. Facciamo però un passo indietro di qualche anno per capire cosa sta accadendo alle porte della Capitale. SIAMO NEL 2009, mese di ottobre. Aeroporti di Roma presenta a governo ed Enac un piano di sviluppo ambizioso che prevede l'ampliamento del traffico aereo a Fiumicino. Obiettivo: 55 milioni di passeggeri nel 2020 e 100 nel 2040, da ottenersi, spiega Fabrizio Palenzona, presidente di AdR, in virtù di “un grande patto tra investitori e istituzioni”. Tradotto: vuol dire un aiuto dello Stato ai privati, che passerà attraverso un allargamento 46 della struttura e una revisione verso l’alto delle tariffe aeroportuali. Da “passerà” a Passera Corrado: è lui che nell’ultimo giorno del Governo Monti, come ministro dello Sviluppo economico e Infrastrutture, fa arrivare nelle tasche di chi gestisce il Leonardo da Vinci un aumento delle tasse da 16 euro a passeggero a 26,50 e dà l’avallo per il raddoppio dello scalo romano, più infrastrutture esterne quali autostrade, ferrovie, parcheggi. I cittadini delle aree interessate, cioè Fiumicino e Maccarese, insorgono, il Comitato Fuoripista continua una battaglia nata ai primi segnali dell’opera. Questo perché l’ampliamento non sembra innanzitutto necessario, dicono dati alla mano, avendo già l’aeroporto la grandezza del londinese Heathrow. Per incrementare il traffico basterebbe ottimizzare le operazioni in entrata e in uscita, e non creare nuove piste, le quali andrebbero a ledere le attività economiche locali e il patrimonio ambientale e archeologico. A maggior ragione, non convincono il giro di interessi e i nomi non proprio casuali che si muovono nella faccenda. Mille dei 1.300 ettari interessati sono di proprietà dei Benetton, che li gestiscono attraverso l’azienda agricola Maccarese Spa. I quali Benetton sono sia in Gemina, che possiede il 95 per cento di AdR, sia in Cai come quarti azionisti, cioè Alitalia. Nell’acquistare quelle terra nel 1998 (per 93 miliardi di lire) si erano impegnati in accordo a mantenerne la destinazione agricola, a meno di un esproprio, che è ciò che potrebbe accadere. Riassumendo, i Benetton andrebbero a rivendere allo Stato con notevole vantaggio (si parla di 200 milioni di euro) un terreno preso dall'Iri, società statale, per avere finanziamenti per qualcosa amministrato anche da loro. Praticamente, la famiglia famosa nel mondo per il suo abbigliamento fa pagare Pantalone. TORNIAMO PERÒ al fatto di cronaca: com’è stato possibile che di queste trivellazioni nessuno abbia saputo nulla se non a cose fatte? L’autorizzazione per queste operazioni è necessaria in base alla legge costitutiva della Riserva, e in particolare agli articoli 7 e 8, che vietano lavori di questo tipo se non previo permesso, e questo non è stato concesso né dalla commissione della Riserva né dal Comune di riferimento, Fiumicino. Il sindaco Esterino Montino, che si professa contrario al raddoppio dello scalo, nel consiglio comunale straordinario ha riferito di avere parlato con Lorenzo Lo Presti, amministratore delegato di AdR, chiedendo se le operazioni fossero illecite. Che è come domandare all’acquafrescaio se l’acqua è fresca. Ed ecco qua: “Da AdR ci hanno assicurato che i lavori non erano per la quarta pista, ed erano finalizzati solo alla verifica della sismicità del territorio”, spiega Montino. E l’autorizzazione? “Ci hanno detto che per queste indagini non servirebbe, anche perché non c’è stata modificazione del territorio. Si sarebbe trattato di un foro di una decina di centimetri”. Morale: nella riserva di Fiumicino si può comunque costruire un pozzo e trivellare, ma per tirare su un pollaio bisogna attendere anni e mille timbri. I cittadini del Comitato Fuoripista, primi a intervenire sul posto e a denunciare l’episodio, non credono che si sia trattato di analisi sulla sismicità e dicono di avere prove fotografiche della quantità e della profondità delle trivellazioni, materiale che sarà allegato all’esposto alla Procura della Repubblica. I carotaggi, affermano, servono per fare analisi geognostiche e verificare l’altezza della falda, la costituzione del terreno, la quantità d’ac qua presente. Ossia rilievi funzionali a un progetto miliardario e fondamentali, perché lì al Leonardo da Vinci, durante l’inaugurazione per le Olimpiadi di Roma del 1960, la pista principale era sprofondata a causa del terreno inadatto. Che fosse tale, e che la costruzione sopra un’area paludosa bonificata sia stata una forzatura, lo sancì la commissione parlamentare d’inchiesta nel 1963. Ora sulla stessa si vuole raddoppiare l’aeroporto, dove non distante è già fallito il progetto di interporto per, indovinate un po’, un terreno argilloso che ha mandato giù i capannoni di cemento. Ma è noto, la storia si ripete e la seconda volta come farsa. 47 INFORMAZIONE del 01/12/14, pag. 14 NUOVA OFFERTA PER “L’UNITÀ” Il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi (foto sopra) ha annunciato che la Fondazione Eyu e la Veneziani Quotidiani srl hanno presentato una nuova offerta per rilevare la testata de l’Unità. Si tratta di “una proposta migliorativa rispetto alla precedente”, com’era stato richiesto dai liquidatori. Bonifazi sottolinea che l’operazione è garantita da una importante banca e che c’è l’impegno a “valorizzare prioritariamente i dipendenti che già c’erano”. Per il cdr del quotidiano fondato da Gramsci è una svolta positiva: “Siamo soddisfatti della nuova offerta” Da Repubblica – Affari e Finanza del 01/12/14, pag. 1/8 Tv locali, l’ultimo far west troppe antenne e frequenze mentre spot e share crollano NON SI SA NEMMENO QUANTE SIANO ESATTAMENTE, GLI ELENCHI DI MINISTERO E AGCOM NON COLLIMANO. PER DUE VOLTE LO STATO HA DATO LORO CONCESSIONI PER RECUPERARLE SUBITO DOPO CON INDENNIZZI. E DEVONO LASCIARE ALTRO SPAZIO ALLA TELEFONIA MOBILE Le tv locali sono lo specchio di un certo modo di governare l’Italia. Sono un caos, un ginepraio inestricabile in cui non c’è alcuna certezza. Quante sono? Forse 480. O almeno questo è l’ultimo numero noto nel 2012. In calo dalle quasi 600 del 2005, ma attenzione ai numeri: nel 2012 si era quasi al termine della transizione al digitale, che moltiplicando i canali per ogni frequenza, ha fatto portato il numero dei canali locali sopra la bella cifra di 3 mila. Troppi canali e troppe frequenze occupate. Tanto più che per fine anno le locali della fascia adriatica dovranno spegnere le frequenze che disturbano quelle di Croazia e Albania. Una decina di tv pugliesi sono a rischio (ma lo Sblocca Italia propone ora una proroga fino ad aprile). Entro i prossimi due-tre anni, poi, lo stesso avverrà sul Tirreno per le interferenze con la Corsica e poi in Sicilia dove molte delle 130 emittenti locali trasmettono abusivamente su frequenze assegnate ai paesi della sponda sud del Mediterraneo. E poi entro il 2022 si dovranno liberare altre frequenze per assegnarle alla telefonia mobile. Meno spazio nell’etere ma anche nel mercato: i ricavi pubblicitari sono in calo, lo share pure, i finanziamenti pubblici anche: dagli 85 milioni del 2012 si è passati ai 60 dell’anno scorso e ai 55 di quest’anno. Ripartiti poi in modo confuso e inefficace, con ampi margini per contestazioni, continui ricorsi ai Tar e anche qualche truffa, tanto i controlli sono minimi. Ce n’è abbastanza perché si cominci a cercare di fare ordine. It Media Consulting ha appena presentato uno studio dedicato alla situazione nel Lazio ma che ha ripreso e rielaborato dati nazionali. Già, rielaborato: perché il caos nasce a livello centrale. Non esiste un elenco delle tv locali ma bisogna dedurli dal Roc, il Registro degli Operatori della Comunicazione, tenuto dal ministero dello Sviluppo, e da quelli dell’AgCom che sono il catasto delle frequenze, l’elenco per l’Lcn (la graduatoria per 48 l’assegnazione delle posizioni sui telecomandi, peraltro paralizzata da tre anni), la graduatoria derivante dalle singole graduatorie regionali per l’assegnazione dei contributi pubblici all’editoria (graduatoria assegnata ai Corecom, i Comitati regionali per le comunicazioni) e altri elenchi ancora, specifici per l’assegnazione di altri fondi. Il fatto che molte società siano piccolissime, spesso imprese familiari con meno di dieci dipendenti, fa il resto. A volte uno stesso editore ha “gemmato” più srl ognuna delle quali è una singola emittente tv. E la legge non aiuta. «Nell’ultimo bando del Mise per l’assegnazione dei fondi pubblici non si chiarisce tra impresa e emittente – spiega Michele Petrucci, presidente del Corecom Lazio e vicepresidente del Coordinamento di tutti i Corecom – Per cui noi, dovendo stilare la graduatoria in base alla quale il ministero assegna i fondi, non sappiamo se certi requisiti, i dipendenti, il numero di giornalisti, i requisiti di fatturato, vadano ascritti all’emittente o all’editore. Nel primo caso un editore può ricevere tanti contributi quante sono le sue emittenti. Serve chiarezza e soprattutto servono criteri di assegnazione più selettivi, a vantaggio della qualità e delle società che investono di più sui contenuti». E’ per questo che il Corecom Lazio ha commissionato a It Media uno studio per scattare una fotografia più netta del settore a partire dalla quale iniziare a pensare una risistemazione. Perché oggi il rischio è che in questo caos a chiudere siano le tv maggiori, quelle più strutturate, che producono più contenuti locali veri e si salvino invece le micro tv a gestione familiare. Perché pur nel caos il settore ha espresso realtà e marchi ormai consolidati. Sono nomi come Telelombardia, Antenna 3 o Telenova a Milano e regione, Canale Italia di Lucio Garbo in Veneto, ma con forte presenza in altre regioni, così come il consorzio 7Gold che fa capo a Giorgio Tacchino. In Puglia c’è Telenorba dei Montrone, in Sicilia le emittenti che fanno capo a Mario Ciancio. Nel Lazio due emittenti, T9 e Tr56 sono del gruppo Caltagirone. Sono però tutte in crisi, tutte hanno in atto cassa integrazione e mobilità. Qualcuno, come la storica tv romana SuperTre della famiglia Rebecchini ha già spento le antenne. «Tutte assieme hanno gli stessi dipendenti di Mediaset, fanno un decimo del suo fatturato e un centesimo dei suoi ascolti», è l’azzeccata sintesi che gira. «I ricavi sono il fattore critico – spiega Augusto Preta, direttore di It Media – La pubblicità che a livello nazionale tra il 2008 e il 2012 è scesa dll’11,7% nelle locali è crollata del 37,5%, e nel Lazio ancora peggio, quasi il 50%. Nello stesso tempo i costi sono saliti del 13% a livello nazionale e del 75% nel Lazio, dove ci sono 49 editori, e ben 164 canali. Gli ascolti, sui canali rilevati dall’Auditel, scendono: sono passati, sul totale nazionale, dallo 0,16% del 2007 allo 0,03% del 2012. A livello locale e soprattutto sulle news, finora il vero punto di forza di queste tv, si sente fortissima la concorrenza di Internet. Ma da parte degli editori non abbiamo registrato strategie importanti per sviluppare la loro presenza sul Web». Eppure ci sono marchi forti. I tg di emittenti locali come Telenorba in Puglia o Rttr o Tca in Trentino fanno manbassa di ascolti sui rispettivi share regionali. Ma la gran massa fatica. Si ipotizza che ci siano emittenti che fanno fino al 90% dei loro ricavi con il contributo pubblico. Che non è proprio distribuito a pioggia ma quasi: l’80% va al primo 37% delle emittenti regionali in base alla graduatoria, il 20% a tutti. Poiché i primi requisiti sono i fatturati e il numero di dipendenti, operazioni giuridicamente lecite ma opache nella sostanza sono molte: dai fatturati gonfiati tra emittenti dello stesso editore che si comprano e vendono contenuti tra di loro, a una pletora di dipendenti amministrativi rispetto ai tecnici e ai giornalisti. Quando non invece, come vogliono le leggende di settore, dipendenti assunti dalle emittenti ma che svolgono i loro compiti per le altre attività del piccolo editore locale. In questo caso sarebbe una vera e propria truffa, ma con i controlli fatti solo sulla carta è quasi impossibile da scoprire. Come è impossibile scoprire chi occupa davvero uno spezzone locale di frequenza. Le locali dovrebbero avere un terzo del totale delle frequenze italiane. E poiché ci sono 25 frequenze nazionali, quelle locali dovrebbero essere non più di 13. Ma l’occupazione delle frequenze assegnate ad altri 49 Stati ha fatto sì, per esempio, che nel Lazio le tv locali, come rileva ItMedia, utilizzino una ventina di frequenze. La storia del caos seguito alla digitalizzazione è più recente del vecchio Far West tv italiano, ma ha lo stesso dna. Nasce infatti nel 2010, quando il governo Berlusconi e il suo ministro delle Comunicazioni, Paolo Romani, permette alle tv locali di occupare le frequenze degli Stati esteri. Bisognava arrivare in fretta per dare certezze al mercato degli spot sulle tv nazionali che temeva una lunga transizione e le incertezze sui valori degli ascolti tra le regioni digitalizzate e quelle ancora no. E per tagliare corto sulle proteste delle locali che minacciavano blocchi e ricorsi, si scelse l’occupazione abusiva. Salvo poi “espropriarle” quando si trattò di liberare spettro per l’asta della telefonia mobile per l’Lte pagando però 174 milioni di indennizzi. E lo stesso sta di nuovo accadendo. L’anno scorso sono state infatti riconfermate concessioni ventennali agli attuali titolari di frequenze locali. E ora si dovrà pagare per riaverle. Il governo aveva messo nello Sblocca Italia 20 milioni, che, per le proteste delle associazioni, in testa la Aeranti-Corallo, che rappresenta 330 emittenti, sono già quasi certamente saliti a 50. Infine un altro nodo mai affrontato. Le tv hanno messo le frequenze a patrimonio: sfilargliele costringerebbe la maggior parte di loro a portare i libri in tribunale. E per di più il contributo statale è legato alla frequenza e non alla attività editoriale. Ragion per cui nessuno le molla. E questa è anche una barriera formidabile all’ingresso di nuovi editori. Ora la pasticciata nuova norma di AgCom che sposta di canoni di concessione per le tv sugli operatori di rete potrebbe essere un incentivo per gli editori a separarsene, anche se per le locali la norma ha creato lo stesso sconquasso denunciato a livello nazionale: lo sconto concesso a Mediaset e Rai ha decuplicato il prelievo sugli altri operatori di rete. «Vedo una sola via d’uscita – spiega Antonio Sassano, docente di Ingegneria a Roma ma soprattutto uno dei nostri massimi esperti in tema di frequenze – Non solo assegnare alle locali le frequenze non attribuite nella recente gara dell’ex beauty contest, come già pensa il governo, ma andare oltre e assegnarle a gara ad operatori di rete regionali per ospitare fornitori di contenuti locali da selezionare anche in questo caso, con una gara di evidenza pubblica. L’unico modo per valorizzare l’informazione locale di qualità e spingere gli editori a produrre programmi in grado di conquistare pubblico e non solo di occupare spazio». E chiunque abbia fatto zapping sul telecomando oltre i primi 60 canali sa di cosa parla. Sopra, uno studio tv. Oggi i fondi pubblici sono distribuiti secondo criteri poco efficaci e non aiutano il settore a selezionare gli operatori che investono di più nella produzione di contenuti locali di qualità e questo impedisce anche l’ingresso di nuovi operatori. di Stefano Carli 50 ECONOMIA E LAVORO del 01/12/14, pag. 29 QUEL FILM SUL LAVORO E LA DIGNITÀ DA RITROVARE STEFANO RODOTÀ SI SCRIVE e si parla molto della dignità, ma questa parola scompare immediatamente proprio quando i fatti quotidiani imporrebbero di tener conto del principio che essa evoca. Troppi politici si rifugiano in un realismo ipocrita per sostenere che si tratta di un principio che impone oneri troppo gravosi; i giuristi scoprono che siamo di fronte ad un riferimento troppo generico perché si possa invocarlo come base di interventi concreti. E allora serve un altro occhio, capace di guardare a fondo nella società e nelle sue dinamiche, per mostrarci quanto possano essere grandi i guasti prodotti dall’abbandono di quel principio fondativo di libertà e diritti. Lo hanno fatto Jean-Pierre e Luc Dardenne con un film — Due giorni, una notte — sulla condizione umana nel tempo del lavoro difficile o negato. La storia è nota, ci racconta della perdita e della riconquista della dignità ed appartiene alle “scelte tragiche” di cui ha parlato un giurista come Guido Calabresi e che si stanno moltiplicando nella vita d’ogni giorno. Un’operaia viene chiusa in un meccanismo infernale. I lavoratori della sua fabbrica vengono messi di fronte ad un dilemma: riceveranno un premio di mille euro solo se voteranno a favore del suo licenziamento. Per guadagnare i voti necessari a salvare il posto di lavoro, la protagonista comincia una laica via crucis, le cui stazioni sono le case dei compagni di lavoro. Lì, nella durezza e meschinità di esistenze insidiate dalla povertà, incontra rifiuti imbarazzati o violenti e consensi faticosi e generosi. È un calvario, al quale cerca di sottrarsi dicendo di non voler comportarsi come una “mendicante”. Cogliamo qui la perdita della dignità, l’obbligo di comportarsi perdendo il rispetto di se stessi. Tutto è ridotto al calcolo economico, al non potersi permettere la perdita di mille euro o, all’opposto, alla consapevolezza del sacrificio fatto col proprio voto favorevole all’operaia. Solo una volta, nelle parole del più debole tra gli interlocutori, un operaio con contratto a tempo determinato che sa di rischiare il licenziamento, compare una consapevolezza diversa. Quel giovane nero dice di sapere che Dio gli chiede di guardare all’altro e ai suoi bisogni. Un principio, e non una convenienza, ispirano la sua scelta. Il voto finale sarà negativo, ma il dirigente della fabbrica convoca l’operaia e le dice che potrà tornare a lavorare, quando vi sarà il posto lasciato libero da una persona alla quale non sarà rinnovato il contratto. La protagonista capisce e rifiuta. Esce dalla fabbrica, telefona al marito dicendo «ci siamo battuti bene, adesso ricomincio» e, dopo due giorni di disperazione, sul suo volto torna il sorriso — il segno della ritrovata dignità. È una storia semplice, che descrive un mondo nel quale la retribuzione non risponde più alla garanzia di una “esistenza libera e dignitosa”, secondo le belle parole dell’articolo 36 della nostra Costituzione, nelle quali si coglie l’eco della “vita degna dell’uomo” di cui parlava la Costituzione di Weimar e l’anticipazione del riferimento all’esistenza dignitosa che ritroviamo nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Il nesso tra retribuzione, libertà e dignità è spezzato, la garanzia offerta dal lavoro declina verso il grado zero dell’esistenza. E questa deriva travolge un altro principio — quello di solidarietà. Passo dopo passo, infatti, il film dei Dardenne descrive la distruzione dei legami sociali, l’impossibile produzione di solidarietà. Praticare la solidarietà diventa un lusso che non tutti possono permettersi. E questa vicenda non può essere descritta come “guerra tra 51 poveri”, perché vi è molto di più: la fine della coesione sociale, di una condizione essenziale perché la contrapposizione molecolare tra le persone non divenga l’unica via praticabile, con effetti che mettono a rischio la stessa democrazia. Non è proprio questo il rischio che stiamo correndo? Ma la coesione sociale non è un prodotto spontaneo, esige la costruzione di un ambiente propizio da parte delle istituzioni. E questa deve muovere da quello che Lorenza Carlassare ha chiamato “il valore dignitario del lavoro”. Ma questo valore appare ignorato quando, per esempio, si attribuisce al datore di lavoro il potere di controllare l’apparato tecnologico a disposizione del dipendente, cancellando le garanzie per i controlli a distanza previste dallo Statuto dei lavoratori. Il lavoratore diviene così disponibile per il datore del lavoro, perché è segno di inadeguatezza culturale l’ignorare che la tecnologia trasforma le modalità stesse in cui si stabiliscono i rapporti tra persona e “macchina”, tanto che la Corte costituzionale tedesca ha riconosciuto un “diritto fondamentale alla riservatezza e alla integrità dei sistemi informativi tecnologici”. Siamo di fronte ad una indebita espansione del potere imprenditoriale che confligge con il riconoscimento della libertà e dignità d’ogni persona. Siamo di fronte a mutamenti strutturali, che vanno nella direzione opposta al riconoscimento della dignità che l’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue definisce “inviolabile”, aggiungendo che va “rispettata e tutelata”. Non si può invocare un’Europa rinnovata rifiutando solo le politiche di austerità, se poi si trascura la dimensione dei principi e dei diritti che costituisce lo strumento più forte per determinare un mutamento di passo e un recupero della legittimazione dell’Unione che può venire solo dal riconoscimento dei suoi cittadini. La protagonista del film dei Dardenne vive in Belgio, ma Bruxelles, capitale dell’Unione, incarna oggi un’assenza che sta distruggendo i fondamenti stessi della cultura di un’Europa che ha bisogno di tornare ad essere terra di diritti, luogo di dignità e di legami solidali. 52
© Copyright 2024 ExpyDoc