RASSEGNA STAMPA

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lunedì 1 dicembre 2014
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Da Redattore Sociale del 01/12/14
Servizio civile, Arci: promessa non mantenuta
La presidente Chiavacci commenta la bocciatura dell' "emendamento
Patriarca" e valuta gli effetti del ridimensionamento degli investimenti:
nel 2015 salteranno 1.800 posti e nel 2016 se ne potranno finanziare
meno di 9 mila
ROMA - "Altro che servizio civile universale! Un’altra promessa 'non mantenuta': questa
volta riguarda i 100 mila giovani che secondo l’annuncio del presidente del consiglio
avrebbero potuto accedere, grazie alla magnanimità delle risorse stanziate, al servizio
civile nazionale". Lo sottolinea Francesca Chiavacci, presidente nazionale Arci. "Ieri
pomeriggio l’annuncio è stato clamorosamente smentito dai fatti. Il governo ha infatti
bocciato l’emendamento che attribuiva 200 milioni al servizio civile, anziché i 65 stanziati.
Si tratta della cifra più bassa destinata al Scn dal 2001. Lo sbandierato investimento
politico ed economico per la reale diffusione di questo importante strumento di impegno
sociale e civile viene rinviato a data da destinarsi. Nessuna svolta dunque, al contrario
ulteriori restrizioni per l’economia sociale".
Secondo Arci "l’effetto di così magri finanziamenti sarà immediato: nel 2015 salteranno
1.800 posti nella programmazione degli avvii in Italia, che quindi non saranno più 24.500,
e nel 2016 si potranno finanziare meno di 9 mila posti, chiudendo anche questa porta in
faccia ai giovani, già colpiti da una disoccupazione ormai attestata sopra il 43%".
"Continuando su questa strada - prosegue Chiavacci - il servizio civile nazionale è
un’esperienza destinata ad esaurirsi. Nemmeno al governo Berlusconi era riuscita
un’impresa del genere, per quanto ci avesse provato. Ora non resta che augurarsi che nel
passaggio al Senato l’emendamento venga ripresentato e accolto. Ma forse aspettarsi
coerenza e un sussulto di coscienza civile su queste tematiche da questo governo è
davvero una ingenuità. Eppure ci ostiniamo a pensare che per far ripartire un paese sia
indispensabile sostenere le buone pratiche".
Da Extra Magazine del 30/11/14
O partigiano
Oggi - domenica 30 novembre 2014 - in tante piazze d'Italia, l'ANPI terrà la sua Giornata
Nazionale del tesseramento. Sarà un'occasione per incontrare le cittadine e i cittadini,
riflettere con loro sul difficile momento che sta attraversando il nostro Paese, per parlare di
neofascismo e di antifascismo, di lavoro come fondamento della Repubblica, di
rinnovamento della politica, di democrazia. In più, particolare attenzione verrà posta alle
Riforme Costituzionali e soprattutto a quella del Senato, già approvata in prima lettura in
una versione che non potrebbe essere più inadeguata, anche rispetto alle linee portanti
della Costituzione, nonché alla Legge elettorale, anch'essa già approvata dalla Camera in
un testo contrario alle indicazioni della Corte Costituzionale e non corrispondenti alle
attese e ai diritti dei cittadini. Su questi temi e, più in generale, sul tema della democrazia,
l'ANPI intende illuminare il Paese e far sentire con forza la sua voce. Numerosi artisti,
intellettuali e associazioni hanno aderito all’Anpi tra cui: la Presidente Nazionale dell’ARCI,
Francesca Chiavacci; il Segretario Generale CGIL, Susanna Camusso; l’accademica e
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giornalista, Nadia Urbinati; la cantante Giorgia e tanti altri. Il Comitato ANPI di Martina
Franca sarà presente in Piazza Roma dalle ore 10:00 con un punto informativo per
confrontarsi con i cittadini e promuovere l’attività associativa.
http://www.extramagazine.eu/it/blog/7-eventi/3888-martina-francao-partigiano.html
Da Huffington Post del 01/12/14
Giulio Marcon
Deputato indipendente di Sel. Fondatore campagna Sbilanciamoci
Servizio civile, Renzi prende in giro l'Italia
"Renzi prende in giro l'Italia", così ha titolato la Consulta nazionale degli enti di servizio
civile (di cui fanno parte la Caritas, l'Arci, le Ispettorie salesiane, l'Avis, le Acli e altri) un
comunicato stampa, alla notizia che la legge di stabilità riduce a 65 milioni lo stanziamento
per il servizio civile.
Mai un finanziamento così basso. Persino il governo Letta aveva fatto meglio, stanziando
105 milioni di euro. Questo significa che decine di migliaia di ragazze e ragazzi non
potranno svolgere nel 2015 un servizio civile utile alla comunità e che realizza attività con
anziani, disabili, bambini. Renzi prende in giro l'Italia perché da una parte propone il
"servizio civile universale" e dall'altra riduce gli stanziamenti per il servizio civile
attualmente esistente. A parole vuole fare un servizio civile per tutti; nei fatti consente il
servizio civile solo a pochi.
Sel ha presentato durante la discussione della legge di stabilità un emendamento (mia
prima firma) per aumentare il finanziamento del servizio civile di 60 milioni, ma il governo
si è opposto e il Pd ha votato contro l'aumento previsto dall'emendamento.
Particolarmente sconcertante è stato l'atteggiamento del Pd, che ha proposto un
emendamento (a nome di alcuni deputati) per portare a 200 milioni i fondi per il servizio
civile. In Commissione bilancio l'emendamento (del Pd) ha avuto i voti favorevoli di Sel e
Movimento 5 stelle, ma -saputo che il governo non avrebbe dato il via libera - i voti contrari
del Pd. Ma poi lo stesso Pd ha presentato due giorni dopo un ordine del giorno (cioè poco
più che un invito) che chiede al governo di ripensarci e di aumentare i fondi.
Una presa in giro, anche questa.
Il servizio civile avrebbe invece bisogno di serietà e di scelte concrete, non di annunci e di
promesse. E di risorse. In ballo non è solo l'impegno di pace di migliaia di ragazzi e di
ragazze, ma di tanti servizi utili alla comunità che -senza l'apporto del servizio civileverrebbero meno. E questo il paese non può permetterselo.
http://www.huffingtonpost.it/giulio-marcon/servizio-civile-renzi-prende-giroitalia_b_6246396.html?utm_hp_ref=italy
del 29/11/14, pag. 15
CasaPound ferma i bimbi rom a scuola
Roma, cinquecento manifestanti dell’estrema destra con striscioni e
fumogeni lungo la via che collega il campo alle classi La denuncia:
“Hanno impedito agli alunni di arrivare tra i banchi”. La replica: accuse
gratuite. Il Campidoglio: gesto meschino
MAURO FAVALE
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ROMA .
Lo schema è collaudato: la “voce” di un’aggressione più o meno verificata che si diffonde
in un quartiere con tutti i problemi della periferia, un gruppo di stranieri (di solito nomadi,
romeni o richiedenti asilo) indicato come responsabile della violenza, l’estrema destra e
Casa-Pound (con o senza il leghista Mario Borghezio) che manifestano contro «il degrado
delle nostre città». Accade a Roma, a scadenze regolari, da almeno due mesi.
Dopo Corcolle, Tor Sapienza e Infernetto, ora tocca a Torrevecchia, periferia nord ovest
della capitale poco lontano da Monte Mario, dove ieri una manifestazione del Blocco
studentesco, “braccio” di CasaPound nelle scuole, ha di fatto impedito che 90 ragazzini e
ragazzine del vicino campo nomadi di via Cesare Lombroso potessero andare chi alle
materne, chi alle elementari e chi alle medie. Un episodio denunciato da due cooperative,
Arci Solidarietà e Eureka, che lavorano con i 200 abitanti di un insediamento che esiste in
quella zona da oltre trent’anni. I giovani di CasaPound reggono uno striscione con su
scritto «No alle violenze dei rom. Alcuni italiani non si arrendono», lo slogan delle
manifestazioni dei Forconi di un anno fa. Sono circa 500, accendono qualche fumogeno,
sventolano i tricolori, scandiscono cori contro i nomadi.
La situazione diventa tesa, arrivano la municipale e le forze dell’ordine, i 90 ragazzi,
accompagnati dai genitori, decidono di restare nel campo e rinunciare a un giorno di
scuola. Replica il Blocco studentesco: «Non è stato impedito a nessuno di uscire dal
campo nomadi. La ricostruzione fornita è del tutto priva di fondamento. La manifestazione
si è svolta davanti agli istituti, non davanti al campo rom che sfortunatamente, per miope
scelta non nostra né degli studenti, dista qualche centinaio di metri». E anche la questura,
in serata, spiega che «il sit-in non ha creato pericolo o intralcio al traffico né tantomeno ha
impedito agli studenti di accedere all’interno delle aule, né risulta che sia stato impedito il
passaggio di alcuni bambini rom che stavano andando a scuola». «Ma con 500 persone lì
fuori, i genitori dei bambini non si sono sentiti sicuri di uscire. Erano intimiditi», ribattono
dall’Arci Solidarietà. «E ora sono sotto shock», aggiungono i dirigenti scolastici.
Anche perché, da qualche giorno, in quella zona la convivenza si è fatta più complicata,
dopo la denuncia di un vero e proprio assalto all’istituto, con sassi e bottiglie, da parte di
un gruppo di nomadi contro gli studenti di tre scuole. Lo ricorda anche CasaPound, scesa
in piazza ieri proprio dopo la presunta aggressione. «Presunta» perché già due giorni fa
l’episodio è stato smentito con nettezza sia dal Municipio sia dai dirigenti scolastici che
hanno stigmatizzato «questo clima di allarme intorno alla scuola». In realtà, nel quartiere si
racconta di una bravata di due sedicenni abitanti del campo che sarebbero entrati nel
cortile della scuola a bordo di un motorino creando un po’ di scompiglio e sarebbero poi
stati allontanati. Un episodio a cui si aggiungono le denunce dei residenti contro «i roghi
tossici» all’interno del villaggio dove verrebbero bruciati rifiuti di vario tipo. L’episodio di
ieri, però, si mette in scia alle proteste delle periferie romane ed evidenzia il nuovo
protagonismo di CasaPound nella capitale. Numerose le prese di posizione dal mondo
politico e istituzionale contro la manifestazione del movimento di estrema destra. Per il
Campidoglio intervengono il vicesindaco Luigi Nieri e l’assessore alla Scuola Alessandra
Cattoi: parlano di «un gesto meschino, un atto di razzismo che va contro ogni principio
democratico». La comunità di Sant’Egidio, poi, sollecita maggiora attenzione: «Occorre
vigilare ed impedire che un clima di violenza e sopraffazione calpesti il primo luogo di
crescita e libertà per i nostri ragazzi, il primo loro diritto, quello allo studio».
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Del 29/11/2014, pag. 5
L’Arci: «Casapound ha impedito ai bimbi rom
di entrare a scuola»
Roma. Interrogazione ad Alfano: «Fermare i razzisti»
Sarà raccontata dai media mainstream come l’ennesimo atto di intolleranza delle periferie
romane, ma questa volta, se ce n’era bisogno, la verità è sotto gli occhi di tutti. «Un
gruppo di “manifestanti” di Cas<CW-11>a Pound ha bloccato l’uscita del Villaggio Attrezzato di Via Cesare Lombroso, nel Municipio XIV, mentre i bambini e i ragazzi del campo si
apprestavano ad andare a scuola. Lo stesso è avvenuto di fronte ad alcuni plessi scolastici della zona, in cui i minori rom sono iscritti»: la denuncia viene dall’Arci e dalla Cooperativa Eureka I che lavora nel campo rom nella periferia nord ovest della Capitale con progetti di scolarizzazione dei bambini. La reazione del Campidoglio è immediata e dura: «Un
gesto vergognoso e grave – lo definisce il vicesindaco Luigi Nieri – che respingiamo con
forza. Un atto di razzismo che va contro ogni principio democratico e che vuole impedire
ogni percorso di integrazione e accoglienza». E un’interrogazione al ministro Alfano
è stata presentata dalla capogruppo Pd della commissione Cultura della Camera, Maria
Coscia, con la richiesta di «fare luce su quanto accaduto» e di «prendere misure urgenti
per fare in modo che non si ripetano più gesti di inaudita violenza e in chiara violazione
della Carta Costituzionale» e dei «diritti inalienabili» dell’infanzia e dell’adolescenza.
</CW>Con i tipici striscioni che abbiamo visto in queste ultime settimane nelle borgate
romane in rivolta e nella “marcia delle periferie” del 15 novembre scorso, i militanti di Casa
Pound e Blocco studentesco hanno deciso, insieme ad alcuni studenti degli istituti Tacito
e Domizia Lucilla, di spaventare gli abitanti del campo di Via Lombroso prendendo a pretesto «le provocazioni di alcuni esponenti di etnia rom, che nei giorni scorsi avevano lanciato
dei sassi all’indirizzo di alcuni studenti italiani che frequentano gli istituti del quartiere». «È
una situazione invivibile, per questo abbiamo voluto dimostrare che ci sono ragazzi italiani
che non sono disposti a subire in silenzio questo tipo di prepotenze», riconosce lo stesso
Fabio Di Martino, responsabile nazionale del Blocco Studentesco, che smentisce però la
ricostruzione degli eventi. «La manifestazione si è svolta davanti all’istituto — afferma Di
Martino — Non abbiamo bloccato l’uscita del campo né tanto meno messo a repentaglio la
sicurezza di chicchessia».
Eppure anche sul caso delle presunte sassaiole da parte dei giovani rom contro i vicini istituti scolastici c’è qualcosa che non torna. Se n’è occupato il presidente del XIV municipio,
Valerio Barletta, dopo la ricostruzione degli eventi fornita dal Messaggero: «Ho scritto personalmente al Dott. Musti, dirigente del commissariato di Primavalle, al Capitano Acquotti,
comandante della compagnia Trionfale dei Carabinieri e al Dott. Bertola, comandante della
polizia locale per sapere se erano state presentate a loro denunce ovvero se a loro risultavano fatti, seppure non denunciati, ma riconducibili a quelli riportati dal quotidiano — ricostruisce Barletta – Posso dichiarare adesso con certezza che nessuno dei fatti pubblicati
è mai stato denunciato nei scorsi giorni e nelle scorse settimane. Tengo a precisare la
stessa presa di distanza da parte delle Dirigenti delle due scuole coinvolte su una notizia
costruita, spaventate oggi perché negli anni avevano riscontrato miglioramenti nel processo di integrazione dei bambini rom». «Le due Dirigenti — conclude Barletta – mi hanno
chiesto di aiutarle a far sì che non accada mai più che dei ragazzi, ex alunni o provenienti
da altri quartieri limitrofi, neghino il diritto ad altri ragazzi di entrare a scuola e seguire le
lezioni».
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Del 29/11//2014, pag. 21
CasaPound blocca la strada e i rom non
vanno in classe
Arci, Pd e Comune di Roma: atto grave. La replica: l’accusa è falsa
ROMA «Vogliamo farci sentire», «Basta con le violenze dei rom. I ragazzi italiani non si
arrendono». Ieri mattina verso le otto, nel quartiere romano di Torrevecchia, circa
cinquecento militanti delle organizzazioni di destra CasaPound e Blocco studentesco si
sono riuniti vicino al campo rom di via Cesare Lombroso (200 persone in tutto), bloccando
l’unica strada di accesso all’area e impedendo, di fatto, ai bambini di andare a scuola.
«Non si sono mossi dai container, erano terrorizzati — spiega Carla Bartolucci,
responsabile della cooperativa sociale Eureka I che, assieme all’Arci Solidarietà, opera nel
campo —. Sono anni che lavoriamo sulla scolarizzazione e da qualche tempo i bambini
vanno a scuola a piedi o accompagnati dai genitori. Episodi come questi certo non aiutano
l’integrazione». E sulle periferie romane, dopo qualche giorno di tregua, torna l’incubo del
razzismo e dell’intolleranza. «Un gesto di inaudita violenza e di violazione della Carta
costituzionale» lo ha definito il capogruppo del Pd in commissione Cultura alla Camera
Maria Coscia durante un’interrogazione parlamentare al ministro dell’Interno Alfano mentre
per il Campidoglio si tratta di «un fatto grave e vergognoso» che però in serata il
movimento di estrema destra ha smentito giudicando la ricostruzione «un’accusa falsa e
gratuita». «È comunque inconcepibile — ha replicato Fabio Di Martino, di Blocco
studentesco — che le scuole romane sono fatiscenti e il sindaco Marino e le istituzioni
finanzino i campi rom o i centri d’accoglienza». Per il presidente della Comunità di
Sant’Egidio, Marco Impagliazzo, Roma deve impegnarsi «in una riflessione più profonda
sulla convivenza perché bisogna lavorare insieme per creare reti di dialogo e solidarietà
che sconfiggano un clima di paura e spaesamento, aiutino ad abbassare i toni e a
costruire, insieme, una città più aperta e sicura per tutti».
Secondo una prima ricostruzione, gli esponenti di destra avrebbero bloccato l’ingresso di
alcuni istituti della zona dove sono iscritti i bambini nomadi, ma la questura di Roma, che
ha identificato molti dei partecipanti alla manifestazione, non autorizzata, avrebbe
smentito. Nei giorni scorsi alcuni esponenti dell’estrema destra avevano denunciato il
«lancio di pietre da parte di alcuni nomadi contro gli studenti di due istituti della zona, il
Cartesio e il Domizia Lucilla, che sorgono nei pressi di un campo». Ieri quindi «il presidio
di protesta per rispondere con forza alle provocazioni di alcuni esponenti di etnia rom».
Violenze che non sono mai state denunciate alle forze dell’ordine, smentite dal municipio e
dalle dirigenti scolastiche dei due istituti. Gli stessi operatori sociali che lavorano nel
campo hanno però denunciato il progressivo degrado della struttura di via Lombroso. «Da
qualche anno molti stranieri e non solo rom vivono per strada lì fuori — aggiunge Carla
Bartolucci — i container sono distrutti, la sporcizia è ovunque e gli operatori del Comune
non vengono a pulire. Questo campo è piccolo, si potrebbe tentare la sperimentazione di
un nuovo modo di favorire l’integrazione. Bisognerebbe mettersi intorno a un tavolo,
questo episodio genera solo paura».
Flavia Fiorentino
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Del 29/11/2014, pag. 11
TRAPPOLA NERA PER I BIMBI ROM
A ROMA LA MANIFESTAZIONE DI BLOCCO STUDENTESCO HA IMPEDITO AI FIGLI
DEI NOMADI DI ANDARE A SCUOLA
Di Valeria Pacelli
Le madri con i loro figli ieri hanno avuto paura a uscire dal campo rom. Davanti ai loro
occhi c’era un cordone di 400 persone con fumogeni che urlavano zingari, siete sporchi”.
Una donna racconta la giornata di ieri a Torrevecchia, zona a nord di Roma dove si è
tenuta una manifestazione di Blocco Studentesco, costola del movimento di estrema
destra Casa- Pound, che ha sbarrato – secondo la denuncia delle associazioni –l’uscita
dei rom per andare a scuola. Così da una parte c’era - no i nomadi che da trent’anni
occupano il campo, dall’altra 500 ragazzi di Blocco Studentesco. Nel mezzo c’era la
rabbia, sia delle famiglie rom, sia degli studenti con i loro fumogeni e i loro striscioni con
scritto: “Stop alle violenze dei rom, alcuni italiani non si arrendono”. IL SIT IN si è tenuto
davanti agli istituti Tacito e Domizia Lucilla, il primo è un liceo classico, il secondo un
istituto alberghiero che ospita solo due studenti rom, due ragazze di 16 e 17 anni.
Entrambe le scuole si trovano in via Cesare Lombroso, proprio accanto al campo nomadi,
che si sono visti assediare dai giornalisti dopo che qualche giorno fa alcuni giornali locali
hanno raccontato le storie di violenza fatte dai rom ai danni di chi frequentava l’istituto. E
Blocco Studentesco ieri era lì per manifestare proprio contro questa situazione. Secondo
la denuncia dell’associazione Arci Solidarietà e della cooperativa Eureka, i manifestanti
avrebbero impedito ai rom di uscire dal campo per andare a scuola. Versione confermata
anche da Humila Halilovic che da qualche tempo, per l’at - tenzione mediatica, si è fatta
portavoce del campo rom. “C’era una folla di persone all’entrata del campo –racconta
Humila raggiunta dal Fatto –Sa - ranno stati in 400. Non sapevamo quello che volevamo
ma le madri erano spaventate. Ci minacciavano”. Qualcuno con le auto è riuscito ad
uscire. “Sono passati dalla strada laterale - continua la donna – ma solo perchè c’erano
polizia e vigili che li proteggevano. Tante altre madri non hanno avuto il coraggio di
superare la folla”. Blocco Studentesco smentisce di aver impedito l’uscita dei nomadi dal
campo: “È una ricostruzione priva di fondamento – dice Fabio Di Martino, coordinatore di
Blocco Studentesco – La manifestazione si è svolta davanti agli istituti, non davanti al
campo rom che sfortunatamente, per miope scelta non nostra né degli studenti, dista
qualche centinaio di metri”. “Con questa manifestazione spontanea e pacifica - continua Di
Martino – abbiamo voluto esprimere la nostra solidarietà agli studenti che sono stati
bersaglio di lanci di sassi, bottiglie e anche di offese e stiamo preparando una
manifestazione più grande per venerdì prossimo”. L’episodio a cui si riferisce il portavoce
di Blocco Studentesco e che ha scatenato questa reazione è quello riportato alcuni giorni
fa dai giornali locali. Un dirigente scolastico aveva raccontato di alcuni ragazzi provenienti
dal campo rom che avevano fatto irruzione nella scuola, a bordo di un motorino rubato.
Quando i bidelli se ne sono accorti, i due giovani sarebbero scappati scavalcando il
cancello. A questo episodio sono stati aggiunti altri dettagli, come le dichiarazioni di alcuni
studenti che raccontavano di sassi e bottiglie lanciate contro di loro dal campo accanto alla
scuola. Dopo due giorni dalla pubblicazione di queste storie però sono arrivate le smentite
da parte di alcune istituzioni, come Valerio Barletta, Presidente del XIV Municipio che
anche ieri ha ribadito: “Posso dichiarare adesso con certezza che nessuno dei fatti
pubblicati è mai stato denunciato nei scorsi giorni e nelle scorse settimane. I dirigenti delle
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due scuole coinvolte su una notizia costruita ora sono spaventate”. STESSA VERSIONE
fornita dall’Assessore alle Politiche sociali Barbara Funari e dall’As - sessore alla Scuola
Daniela Scocciolini dello stesso municipio che nei giorni scorsi hanno dichiarato che
“Entrambe le Dirigenti hanno stigmatizzato questo clima strumentale e di allarme intorno
alla scuola affermando che la situazione non desta preoccupazione”. Insomma non ci
sarebbe alcun clima di violenza. Sul caso del ragazzo rom entrato nell’istitu - to
alberghiero, la cooperativa Eureka dà una versione diversa, spiegando che si tratta di un
giovane che, accompagnato dal fratello, era andato a scuola a chiedere di essere
riammesso. I bidelli a quel punto, poiché non era iscritto, lo avrebbero mandato via. Lui
irato, avrebbe scavalcato il cancello, lasciando così il motorino all’interno. Versioni diverse,
con un unico risultato: altro odio. Come se non bastasse quello che aveva già sconvolto
un’altra zona di Roma, Tor Sapienza
Del 29/11/2014, pag. 17
Casa Pound blocca i bimbi rom
Impedito il loro ingresso a scuola
I manifestanti smentiscono. Interrogazione del Pd ad Alfano
Flavia Amabile
Le periferie di Roma sono ogni giorno di più una polveriera su cui è molto facile accendere
un fuoco. Ieri nella parte nord della capitale circa 500 esponenti di Casa Pound e del
Blocco Studentesco hanno impedito ad alcuni bambini rom il regolare ingresso a scuola.
A denunciare l’accaduto sono state le associazioni Eureka ed Arci Solidarietà mentre i
movimenti di estrema destra smentiscono tutto e la vicenda è diventata un caso politico
con un’interrogazione da parte della deputata del Pd Maria Coscia al ministro dell’Interno
Angelino Alfano per evitare che episodi del genere, violenti e incostituzionali, si ripetano.
«Stop alle violenze dei rom, alcuni italiani non si arrendono», era scritto sullo striscione
usato dagli oltre 500 esponenti del Blocco Studentesco e alcuni studenti degli istituti Tacito
e Domizia Lucilla durante una manifestazione in via Cesare Lombroso, vicino ad un
campo nomadi. Ma la manifestazione è presto diventata anche altro, secondo il racconto
delle associazioni. «Hanno impedito a tutte le persone nel campo di uscire creando anche
una situazione di panico e paura - sostiene la cooperativa Eureka - Si tratta di un campo
dove vivono circa duecento persone e che esiste da oltre trent’anni con cui siamo al lavoro
con diversi progetti di inclusione. Con il gesto di queste persone è stato impedito a circa
90 bambini di scuole elementari e medie di andare a scuola. Si tratta di un fatto di una
gravità inaudita». Blocco Studentesco conferma il picchetto per manifestare contro i rom
del campo. In una nota spiega che la manifestazione è stata organizzata «per rispondere
con forza alle provocazioni di alcuni esponenti di etnia rom, che nei giorni scorsi avevano
lanciato dei sassi all’indirizzo di alcuni studenti italiani che frequentano gli istituti del
quartiere». Come aggiunge il responsabile nazionale del Blocco, Fabio Di Marino: «È una
situazione invivibile, per questo oggi abbiamo voluto dimostrare che ci sono ragazzi italiani
che non sono disposti a subire in silenzio questo tipo di prepotenze». Il movimento, però,
nega di aver impedito «a qualcuno di uscire dal campo nomadi di via Cesare Lombroso.
La ricostruzione fornita dalla cooperativa Eureka è del tutto priva di fondamento», avverte
Fabio Di Martino. «La manifestazione - spiega - si è svolta davanti agli istituti, non davanti
al campo rom che sfortunatamente, per miope scelta non nostra né degli studenti, dista
qualche centinaio di metri».
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Il Campidoglio ha condannato il gesto, e anche altri settori della destra romana hanno
preso le distanze. «Si tratta di una violazione grave di un diritto sancito dalla Costituzione
che, come tale, va rispettato e garantito. Ma anche di un gesto vile nei confronti di minori
fragili», afferma l’assessore alla Scuola, Alessandra Cattoi. «Un atto di razzismo che va
contro ogni principio democratico», è la condanna del vicesindaco Luigi Nieri.
«La scuola rappresenta non solo un luogo di studio ma un ambito di crescita culturale e
umana per tutti gli studenti», ha ricordato Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di
Sant’Egidio. E, quindi, «occorre vigilare ed impedire che un clima di sopraffazione calpesti
il primo luogo di crescita e libertà per i nostri ragazzi».
del 29/11/14, pag. 17
Roma, sit in di Casapound dopo gli assalti
rom a scuola
ROMA Ancora insofferenza nella periferia romana. Dopo i lanci di bottiglie e pietre agli
studenti, in duecento ieri mattina hanno manifestato contro gli assalti rom alle scuole di
Torrevecchia. Quello che avrebbe dovuto essere solo un sit-in di Blocco Studentesco, il
movimento giovanile dell'organizzazione di estrema destra Casapound, si è trasformato in
una protesta a cui hanno aderito circa duecento alunni delle scuole che hanno sede
accanto al campo nomadi di via Lombroso, gli alberghieri Domizia Lucilia e Luxemburg e il
classico Tacito. Le associazioni Eureka e Arci Solidarietà hanno denunciato che alcuni
manifestanti avrebbero impedito a 90 bambini rom di andare a scuola. Dal XIV Municipio
però spiegano che sono stati i vigili urbani ad impedire ai piccoli alunni di uscire dal
campo, data la tensione che si era creata fuori dalla scuola. Intanto i rappresentanti
d'istituto prendono le distanze da Casapound. «I ragazzi in piazza non avevano colori
politici», spiega il rappresentante del Domizia Lucilia, Daniele Di Domenicantonio, 18 anni.
«È stata una manifestazione pacifica, per parlare dei problemi che viviamo». Un episodio
giudicato dal Campidoglio «gravissimo». Nei giorni scorsi alcuni professori avevano
denunciato il «lancio di pietre da parte di alcuni nomadi contro gli studenti». Ieri, l'azione in
risposta «a quelle violenze». «I militanti hanno bloccato l'uscita del campo ai bimbi dicono le associazioni - e bloccato l'ingresso ad alcuni istituti ». Ma dalla Questura
ribattono: «II sit-in non ha creato pericolo né tantomeno ha impedito agli studenti di
accedere all'interno delle aule. Non risulta che sia stato impedito il passaggio di alcuni
bambini rom che stavano andando a scuola». Il Pd col deputato Maria Coscia ha
presentato sull'accaduto un'interrogazione al ministro Angelino Alfano sollecitando
«misure urgenti».
del 29/11/14 pag. 49 (Roma)
Dopo gli assalti rom arriva Casapound
di Lorenzo De Cicco e Elena Panarella
Ancora intolleranza nella periferia romana. Dopo i lanci di bottiglie e pietre agli studenti, in
duecento ieri mattina hanno manifestato contro gli assalti rom alle scuole di Torrevecchia.
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Quello che avrebbe dovuto essere solo un sit-in di Blocco Studentesco, il movimento
giovanile dell'organizzazione di estrema destra Casapound, si è trasformato in una
protesta a cui hanno aderito circa duecento alunni delle tre scuole che hanno sede
accanto al campo nomadi di via Lombroso, gli alberghieri Domizia Lucilla e Luxemburg e il
classico Tacito. Le associazioni Eureka e Arci Solidarietà hanno denunciato che alcuni
manifestanti avrebbero impedito a 90 bambini rom di andare a scuola. Dal XIV Municipio
però spiegano che sono stati i vigili urbani ad impedire ai piccoli alunni di uscire dal
campo, data la tensione che si era creata fuori dalla scuola. Intanto i rappresentanti
d'istituto prendono le distanze da Casapound.
«I ragazzi in piazza non avevano colori politici», spiega il rappresentante del Domizia
Lucilla, Daniele Di Domenicantonio, 18 anni. «È stata una manifestazione pacifica, senza
simboli, per parlare dei problemi che viviamo noi che queste scuole le frequentiamo tutti i
giorni». Un episodio giudicato dal Campidoglio «gravissimo» ma che, in serata, il
movimento ha smentito «un'accusa gratuita». Nei giorni scorsi alcuni professori avevano
denunciato il «lancio di pietre da parte di alcuni nomadi contro gli studenti degli istituti
scolastici della zona». Ieri, l'azione in risposta «a quelle violenze».
CANCELLI BLOCCATI
«I militanti hanno bloccato l'uscita del campo mentre bimbi e ragazzi si apprestavano ad
andare a scuola - dicono gli operatori delle due associazioni - e successivamente hanno
bloccato l'ingresso ad alcuni istituti della zona in cui sono iscritti i bambini nomadi». Ma
dalla Questura ribattono: «Il sit-in non ha creato pericolo o intralcio al traffico cittadino né
tantomeno ha impedito agli studenti di accedere all'interno delle aule. Anche le attività
all'interno del campo nomadi sono proseguite regolarmente e non risulta che sia stato
impedito il passaggio di alcuni bambini rom che stavano andando a scuola».
La polemica si accende. L'assessore alla scuola, Alessandra Cattoi giudica il gesto
«meschino, una violazione grave di un diritto sancito dalla Costituzione che, come tale, va
rispettato e garantito, un gesto vile nei confronti di minori fragili che dovrebbero essere
protetti». Le dirigenti scolastiche dei due istituti hanno incontrato il presidente del
municipio, Valerio Barletta. «Mi hanno chiesto di aiutarle a far sì che non accada mai più spiega il minisindaco - che dei ragazzi neghino ad altri ragazzi il diritto di entrare a scuola
e seguire le lezioni».
Il Pd col deputato Maria Coscia ha presentato sull'accaduto un'interrogazione al ministro
Angelino Alfano sollecitando «misure urgenti per fare in modo che non si ripetano più gesti
in chiara violazione della Carta Costituzionale». Quello che si teme ora è un effetto Tor
Sapienza, ovvero una nuova rivolta anti immigrati e nomadi come successo nel quartiere
alla periferia sud di Roma con l'assalto ad un centro rifugiati. Un effetto che potrebbe
essere favorito anche da chi soffia sul fuoco della paura e del pregiudizio.
Da TgCom del 28/11/14
Roma, protesta di Casapound contro i rom
Arci: "Bimbi bloccati fuori da alcune scuole"
Ma la questura smentisce: "Nessuno ha impedito agli studenti di
entrare"
21:25 - Alcuni gruppi di militanti di Casapound e del Blocco Studentesco hanno protestato
contro i rom davanti ad alcune scuole della periferia nord di Roma. Secondo quando
denunciato dai gruppi Arci Solidarietà e cooperativa Eureka, i manifestanti avrebbero
impedito a bambini e ragazzi rom l'accesso a scuola. Ricostruzione smentita però dalla
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questura di Roma: "Non risulta che sia stato impedito il passaggio di alcuni bambini rom
che stavano andando a scuola".
"Ci troviamo di fronte ad un episodio di estrema gravità - scrivono le associazioni -. E'
evidente che il clima da caccia alle streghe che si respira in città, non possa più essere
sopportato". Secondo la loro ricostruzione, i militanti di estrema destra avrebbero bloccato
l'uscita del campo di via Cesare Lombroso, nel XIV Municipio, mentre bimbi e ragazzi si
apprestavano ad andare a scuola. Stessa scena anche davanti ad alcuni istituti della
stessa zona in cui sono iscritti i rom.
La questura: "Nessuno ha bloccato a ragazzi" - "Il sit-in - ha fatto sapere la questura di
Roma in serata - non ha creato pericolo o intralcio al traffico cittadino né tantomeno ha
impedito agli studenti di accedere all'interno delle aule. Anche le attività all'interno del
campo nomadi sono proseguite regolarmente e non risulta che sia stato impedito il
passaggio di alcuni bambini rom che stavano andando a scuola".
http://www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/lazio/roma-protesta-di-casapound-contro-i-romarci-bimbi-bloccati-fuori-da-alcune-scuole-_2081934201402a.shtml
Da Dire del 28/11/14
Roma. Arci: "Casapound blocca l'accesso a
scuola dei bimbi rom"
di Ugo Cataluddi
ROMA - “Questa mattina, un gruppo di manifestanti di Casapound ha bloccato l’uscita del
villaggio attrezzato di via Cesare Lombroso, nel Municipio XIV, mentre i bambini e i
ragazzi del campo si apprestavano ad andare a scuola. Lo stesso è avvenuto di fronte ad
alcuni plessi scolastici della zona, in cui i minori rom sono iscritti”. A denunciarlo sono
l’Arci Solidarietà onlus e la cooperativa sociale Eureka, le due associazioni coinvolte nella
vita del campo di via Cesare Lombroso. A distanza di due giorni dalla notizia - rivelatasi
poi creata ad arte, secondo quanto sostengono le associazioni - dei raid compiuti da alcuni
rom negli istituti scolastici della zona, sarebbe arrivata anche una sorta di 'rappresaglia' da
gruppi di estrema destra.
"Stiamo parlando di un campo abitato da 200 persone- ha aggiunto Valerio Tursi,
presidente dell'Arci Solidarietà in un Municipio composto da più o meno 200mila abitantinon credo che sia un territorio che versa in una particolare emergenza. Senza contare che
stiamo parlando di bambini che frequentano le elementari e le medie, tutti di un'età che
non supera i 13 anni. Quello che è successo è vergognoso, perchè si è tentato di negare
un diritto fondamentale e inalienabile, come il diritto ad andare a scuola".
Questa sarebbe stata la dinamica dei fatti: i militanti di Casa Pound, avrebbero bloccato
sia l'uscita dal campo di operatori e bambini, sia l'ingresso nelle scuole, dove sarebbero
stati srotolati striscioni con la scritta 'Stop alle violenze dei rom, alcuni italiani non si
arrendono'.
Indignazione anche dal gruppo Pd in Campidoglio, che in una nota ha condannato il gesto
come "vergognoso e inaccettabile, se non anche meschino e vile. I fatti denunciati da Arci
Solidarietà e dalla cooperativa Eureka sono gravi e colpiscono in maniera violenta
un'infanzia già per molti versi complessa. Il diritto allo studio è un diritto riconosciuto dalla
nostra Costituzione e dai trattati internazionali a tutela dell'infanzia e dell'adolescenza. E la
violenza di questa mattina non solo dimostra l'inadeguatezza di gruppi che pensano di fare
politica, ma è anche e soprattutto la violazione grave di un diritto. Chi usa violenza e
impedisce l'esercizio di un diritto non fa politica. Fa altro. Si faccia chiarezza e si isolino
quegli estremismi che danno di Roma un'immagine razzista e xenofoba".
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L'indignazione infine, non avrebbe colpito solo il mondo dell'associazionismo e di una
parte della politica capitolina. Anche i docenti degli istituti si sarebbero mobilitati per
chiedere alle istituzioni "una condanna per quanto accaduto" essendo i bambini rom
"alunni modello, per i quali non deve esser negato il diritto allo studio".
http://www.dire.it/home/9389-roma-arci-casapound-blocca-bimbi-roma-scuola.dire
Da RaiNews 24 del 28/11/14
La denuncia delle associazioni
Roma, CasaPound impedisce accesso a scuola a bambini di etnia rom
Manifestazione in Via Lombroso, il Blocco Studentesco: "Abbiamo
risposto al lancio dei sassi contro alcuni studenti italiani". Le
associazioni: "Un clima da caccia alle streghe". Arriva la condanna del
Campidoglio: "Un gesto vile, violazione di un diritto costituzionale"
Militanti di CasaPound e del Blocco Studentesco hanno impedito a bambini e ragazzi di
etnia rom l'accesso in diverse scuole nella zona nord di Roma. "Un gruppo di manifestanti
di CasaPound ha bloccato l'uscita del Villaggio Attrezzato di Via Cesare Lombroso, nel
Municipio XIV, mentre i bambini e i ragazzi del campo si apprestavano ad andare a
scuola" la denuncia di Arci Solidarietà e della cooperativa Eureka. Stessa scena,
ricostruiscono, anche davanti ad alcuni istituti della stessa zona in cui sono iscritti ragazzi
di etnia rom. "Stop alle violenze dei rom, alcuni italiani non si arrendono", uno degli
striscioni esposti dai manifestanti.
"Ci troviamo di fronte ad un episodio di estrema gravità", il commento delle associazioni.
"È ormai evidente che il clima da 'caccia alle streghe' che si respira nella nostra città,
alimentato da cattiva informazione e sfruttato da uno squallido opportunismo politico, non
possa più essere sopportato".
Il Blocco Studentesco: "Risposta al lancio di pietre"
A confermare l'episodio il Blocco Studentesco che ha parlato di oltre 500 studenti degli
istituti Tacito e Domizia Lucilla che hanno manifestato questa mattina in via Cesare
Lombroso a Roma nei pressi del campo nomadi, "per rispondere con forza alle
provocazioni di alcuni esponenti di etnia rom, che nei giorni scorsi avevano lanciato dei
sassi all'indirizzo di alcuni studenti italiani che frequentano gli istituti del quartiere". Poi la
precisazione: "Stamattina non è stato impedito a nessuno di uscire dal campo nomadi di
via Cesare Lombroso. La manifestazione è avvenuta di fronte agli istituti".
La condanna del Campidoglio
Dal Campiodglio arriva una dura condanna. "Si tratta di una violazione grave di un diritto
sancito dalla Costituzione che, come tale, va rispettato e garantito. Ma anche di un gesto
vile nei confronti di minori fragili che dovrebbero essere protetti e tutelati e non trattati con
violenza e aggressività" dice Alessandra Cattoi, assessore alla Scuola, Infanzia, Giovani e
Pari Opportunità di Roma Capitale. "Condanno fermamente il gesto meschino di uno
sparuto gruppo riconducibile all'estrema destra che questa mattina ha impedito ai bambine
e alle bambine del campo rom di via Cesare Lombroso e ai loro operatori di andare a
scuola". E aggiunge "Il lavoro quotidiano sul territorio di molte associazioni per la
scolarizzazione dei rom e per l'inclusione scolastica non può essere messo a repentaglio
da chi mette in atto comportamenti di matrice razzista e xenofoba. Roma non tollera
episodi di tale gravità"
- See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Roma-CasaPound-impedisceaccesso-a-scuola-a-ragazzi-di-etnia-rom-48eaa927-9d51-42c0-9386262808e57e6a.html#sthash.9zBzR2Dm.dpuf
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Da Avvenire.it del 28/11/14
Roma, corteo per negare la scuola ai rom
"Bloccato" l'ingresso dei bambini rom in diverse scuole nella zona nord di Roma.
L'iniziativa di CasaPound e Blocco Studentesco è stata denunciata dalle onlus Arci
Solidarietà ed Eureka, che rivelano: "Oggi, di buona mattina, un gruppo di "manifestanti" di
CasaPound ha bloccato l'uscita del Villaggio Attrezzato di Via Cesare Lombroso, nel
Municipio XIV, mentre i bambini e i ragazzi del campo si apprestavano ad andare a
scuola. Lo stesso è avvenuto di fronte ad alcuni plessi scolastici della zona, in cui i minori
rom sono iscritti. Ci troviamo di fronte ad un episodio di estrema gravità, prima di tutto
perchè si è tentato di negare un diritto fondamentale e, speravamo, inalienabile, come il
diritto ad andare a scuola. Inoltre questa "azione dimostrativa" ha colpito in prima persona
dei bambini, fatto inaccettabile e intrinsecamente violento, che non trova giustificazioni".
Uno degli striscioni esposti esibiva la frase "Stop alle violenze dei rom, alcuni italiani non si
arrendono". Oltre 500 studenti degli istituti Tacito e Domizia Lucilla, conferma lo stesso
Blocco Studentesco, hanno manifestato questa mattina in via Cesare Lombroso a Roma
nei pressi del campo nomadi, "per rispondere con forza alle provocazioni di alcuni
esponenti di etnia rom, che nei giorni scorsi avevano lanciato dei sassi all'indirizzo di
alcuni studenti italiani che frequentano gli istituti del quartiere".
Dal Comune di Roma arriva una netta condanna all'azione fatta da studenti e CasaPound.
"E' un gesto vergognoso e grave che respingiamo con forza. Un atto di razzismo che va
contro ogni principio democratico e che vuole impedire ogni percorso di integrazione e
accoglienza" dichiara Luigi Nieri, vice Sindaco di Roma Capitale. "Qualcuno - prosegue sta cercando di alimentare tensioni e paure nella nostra città, e non solo, con l'obiettivo di
strumentalizzare la sofferenza e il disagio causati da una crisi durissima. Lo fa con gesti
inqualificabili come questo o diffondendo, ad arte, notizie false e destabilizzanti. Sono
sicuro che gran parte dei romani è dalla parte di chi vuole costruire una città migliore per
tutti, una città della legalità e dell'accoglienza, e non di chi mette a ferro e fuoco la città o
alimenta paure magari con l'obiettivo di raccogliere qualche consenso in più".
Valerio Barletta, presidente del Municipio Roma XIV aggiunge di ritenere del tutto
infondate le notizie diffuse dai manifestanti e pubblicate nei giorni scorsi pubblicate dal
quotidiano Il Messaggero circa presunte aggressioni e lanci di pietra da parte dei ragazzi
Rom del campo di Via Lombroso ai danni degli studenti dei vicini Istituti superiori. Il
dirigente dell'istituto e le forze dell'ordine non hanno confermato questi episodi, nessuno
dei fatti pubblicati è mai stato denunciato. "Dobbiamo respingere questa spirale di odio e
xenofobia- dice Barletta - che io stesso sento forte nella nostra Città, con le armi che da
sempre le sconfiggono: lo studio, la serenità e la capacità di vedere l’altro non come
qualcosa che ci spaventa ma come qualcosa che ci può far crescere”.
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Da Adn Kronos del 01/12/14
Polemiche su sit-in Casapound a Roma, la
questura: "Non ha impedito l'ingresso dei
rom a scuola"
E' polemica sul sit-in di protesta organizzato questa mattina a Roma dal Blocco
studentesco dopo la denuncia di Arci Solidarietà onlus e della cooperativa Eureka,
secondo i quali i manifestanti di Casa Pound avrebbero impedito di uscire a tutte le
persone del campo di via Cesare Lombroso, compresi i bambini che dovevano recarsi a
scuola.
In una nota la questura di Roma precisa che "il sit in non ha creato pericolo o intralcio al
traffico cittadino né tantomeno ha impedito agli studenti di accedere all'interno delle aule.
Anche le attività all'interno del campo nomadi sono proseguite regolarmente e non risulta
che sia stato impedito il passaggio di alcuni bambini rom che stavano andando a scuola".
Circa 200 studenti, fanno sapere da San Vitale, si sono radunati in un sit in spontaneo,
non preavvisato, a poche centinaia di metri dal campo nomadi di via Cesare Lombroso.
"La manifestazione di protesta, orientata contro le presunte aggressioni e violenze da
parte dei nomadi ai danni delle scuole e degli studenti, svoltasi anche con gli interventi
oratori di personaggi esterni agli istituti, riconducibili comunque al Blocco studentesco è
terminata intorno alle ore 9, dopo l'accensione di alcuni fumogeni e lo srotolamento di
diverse bandiere con il tricolore", spiega la questura di Roma. Sono in corso accertamenti
da parte degli agenti della Polizia per identificare le persone che hanno aderito
all'iniziativa.
Fabio Di Martino, responsabile nazionale del Blocco Studentesco, assicura: "Non è stato
impedito a nessuno di uscire dal campo nomadi di via Cesare Lombroso. La ricostruzione
fornita dalla cooperativa Eureka di quanto accaduto alla manifestazione del Blocco
Studentesco davanti agli istituti Tacito e Domizia Lucilla, a Roma, è del tutto priva di
fondamento'', sottolinea.
http://www.adnkronos.com/fatti/cronaca/2014/11/28/polemiche-sit-casapound-romaquestura-non-impedito-ingresso-dei-rom-scuola_ifcOEcOWnFFm8momnDAHeK.html
Da Huffington Post del 28/11/14
Roma, Casapound impedisce l'ingresso dei
bimbi rom a scuola. Blocco studentesco
contro "le violenze dei nomadi"
"Bloccato" l'ingresso dei bambini rom in diverse scuole nella zona nord di Roma.
L'iniziativa di CasaPound e Blocco Studentesco è stata denunciata dalle onlus Arci
Solidarietà ed Eureka, che rivelano: "Oggi, di buona mattina, un gruppo di "manifestanti" di
CasaPound ha bloccato l'uscita del villaggio attrezzato di Via Cesare Lombroso, nel
Municipio XIV, mentre i bambini e i ragazzi del campo si apprestavano ad andare a
scuola. Lo stesso è avvenuto di fronte ad alcuni plessi scolastici della zona, in cui i minori
rom sono iscritti".
Uno degli striscioni esposti dal Blocco Studentesco esibiva la frase "Stop alle violenze dei
rom, alcuni italiani non si arrendono". Oltre 500 studenti degli istituti Tacito e Domizia
Lucilla, conferma l'associazione di studenti di estrema destra, hanno manifestato venerdì
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mattina in via Cesare Lombroso a Roma nei pressi del campo nomadi, "per rispondere con
forza alle provocazioni di alcuni esponenti di etnia rom, che nei giorni scorsi avevano
lanciato dei sassi all'indirizzo di alcuni studenti italiani che frequentano gli istituti del
quartiere".
La notizia del presunto agguato dei rom agli studenti, apparsa sulla stampa romana, era
stato però immediatamente smentita dai dirigenti scolastici.
http://www.huffingtonpost.it/2014/11/28/casapound-bimbi-rom-_n_6237176.html
Da Redattore Sociale del 28/11/14
Arci: a Roma Casapound blocca l'accesso
scuola ai bimbi rom
Una nota dell'associazione: "Questa mattina, un gruppo di manifestanti
di Casapound ha bloccato l'uscita del villaggio attrezzato di via Cesare
Lombroso, nel Municipio XIV, mentre i bambini e i ragazzi del campo si
apprestavano ad andare a scuola"
Roma - "Questa mattina, un gruppo di manifestanti di Casapound ha bloccato l'uscita del
villaggio attrezzato di via Cesare Lombroso, nel Municipio XIV, mentre i bambini e i
ragazzi del campo si apprestavano ad andare a scuola. Lo stesso e' avvenuto di fronte ad
alcuni plessi scolastici della zona, in cui i minori rom sono iscritti". A denunciarlo sono
l'Arci Solidarieta' onlus e la cooperativa sociale Eureka, le due associazioni coinvolte nella
vita del campo di via Cesare Lombroso. A distanza di due giorni dalla notizia - rivelatasi
poi creata ad arte, secondo quanto sostengono le associazioni - dei raid compiuti da alcuni
rom negli istituti scolastici della zona, sarebbe arrivata anche una sorta di 'rappresaglia' da
gruppi di estrema destra.
"Stiamo parlando di un campo abitato da 200 persone- ha aggiunto Valerio Tursi,
presidente dell'Arci Solidarieta' in un Municipio composto da piu' o meno 200mila abitantinon credo che sia un territorio che versa in una particolare emergenza. Senza contare che
stiamo parlando di bambini che frequentano le elementari e le medie, tutti di un'eta' che
non supera i 13 anni. Quello che e' successo e' vergognoso, perche' si e' tentato di negare
un diritto fondamentale e inalienabile, come il diritto ad andare a scuola".
Questa sarebbe stata la dinamica dei fatti: i militanti di Casa Pound, avrebbero bloccato
sia l'uscita dal campo di operatori e bambini, sia l'ingresso nelle scuole, dove sarebbero
stati srotolati striscioni con la scritta 'Stop alle violenze dei rom, alcuni italiani non si
arrendono'.
Indignazione anche dal gruppo Pd in Campidoglio, che in una nota ha condannato il gesto
come "vergognoso e inaccettabile, se non anche meschino e vile. I fatti denunciati da Arci
Solidarieta' e dalla cooperativa Eureka sono gravi e colpiscono in maniera violenta
un'infanzia gia' per molti versi complessa. Il diritto allo studio e' un diritto riconosciuto dalla
nostra Costituzione e dai trattati internazionali a tutela dell'infanzia e dell'adolescenza. E la
violenza di questa mattina non solo dimostra l'inadeguatezza di gruppi che pensano di fare
politica, ma e' anche e soprattutto la violazione grave di un diritto. Chi usa violenza e
impedisce l'esercizio di un diritto non fa politica. Fa altro. Si faccia chiarezza e si isolino
quegli estremismi che danno di Roma un'immagine razzista e xenofoba".
L'indignazione infine, non avrebbe colpito solo il mondo dell'associazionismo e di una
parte della politica capitolina. Anche i docenti degli istituti si sarebbero mobilitati per
chiedere alle istituzioni "una condanna per quanto accaduto" essendo i bambini rom
"alunni modello, per i quali non deve esser negato il diritto allo studio".
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Altri link sulla denuncia di Arci Solidarietà per l’iniziativa di Casapound
- http://www.blitzquotidiano.it/cronaca-italia/torrevecchia-roma-rom-fuori-da-scuolablitz-casapound-e-blocco-studentesco-2035918/
- http://montemario.romatoday.it/torrevecchia/rom-violenti-a-torrevecchia-barlettanotizia-costruita-nessuno-soffi-sul-fuoco-della-paura.html
- http://www.affaritaliani.it/roma/siete-rom-a-scuola-voi-non-entrate-i-check-point-dicasapound-a-roma-28112014.html
- http://roma.fanpage.it/casa-pound-ha-impedito-ai-bambini-rom-di-recarsi-a-scuolala-denuncia-delle-associazioni/
- http://www.giornalettismo.com/archives/1677597/casa-pound-impedito-bambinirom-andare-scuola-stefano-smentisce/
- http://www.iltempo.it/roma-capitale/cronaca/2014/11/29/rom-ostaggi-di-casapoundsmascherato-il-bluff-di-sel-1.1351189
- http://www.lettera43.it/cronaca/roma-militandi-di-casapound-impediscono-ai-bimbirom-l-accesso-a-scuola_43675149415.htm
- http://www.quotidiano.net/roma-casapound-rom-1.442744
- http://www.direttanews.it/2014/11/28/torrevecchia-estrema-destra-impediscebambini-rom-di-andare-scuola/
- http://affaritaliani.tribunapoliticaweb.it/lavoro-previdenzasociale/2014/11/29/7528_casapound-blocca-lingresso-scuola-dei-bimbi-nomadi/
Da Repubblica.it del 30/11/14 (Milano)
Milano, solo un concerto al chiuso: diventa
un flop il raduno dei gruppi nazirock
In 250 provenienti da diversi Paesi europei si sono riuniti in un
capannone industriale in periferia. Presidio Anpi alla Loggia dei
mercanti per protestare: "Una risposta pacifica a questa nuova
provocazione"
di MATTEO PUCCIARELLI
Alla fine, pure stavolta, ce l’hanno fatta. Il concerto europeo del rock neonazista
Hammerfest c’è stato, anche se rispetto ad un anno e mezzo fa invece di 600 persone ne
sono arrivate 'solo' 250. L’unica buona notizia è che ce n’erano di più alla manifestazione
antifascista organizzata nel pomeriggio dall’Anpi alla Loggia dei Mercanti, per celebrare la
Milano medaglia d’oro della Resistenza.
Il luogo del raduno nero, tenuto nascosto fino all’ultimo, è stato lo stesso del giugno 2013:
un capannone a Rogoredo, in via Vincenzo Toffetti. Un luogo privato — identico
escamotage giuridico della volta scorsa — e che «non richiedeva, come stabilito dalla
Corte costituzionale, alcun tipo di preavviso o autorizzazione da parte dell’autorità
provinciale di pubblica sicurezza», rispose l’allora viceministro dell’Interno Filippo Bubbico
ad una interrogazione parlamentare. Il dato più politico e che va al di là dei cavilli è che la
levata di scudi del sindaco Giuliano Pisapia, del Consiglio comunale, di Anpi e Cgil, e in
più la diffida del questore Luigi Savina, non sono bastati.
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È bastata invece la garanzia dei promotori di svolgere la manifestazione senza ostentare
simboli o vessilli riconducibili a organizzazioni inneggianti al razzismo, l’antisemitismo o
l’ideologia del disciolto partito fascista. Impresa ardua per l’Hammerskin Nation, che ha
sponsorizzato l’evento, un’organizzazione composta da «un gruppo di uomini e donne
senza leader — così si definiscono — che ha adottato il modo di vita skinhead ispirato al
potere della razza bianca». Già il nome dei gruppi in sé era tutto un programma: i 'Gesta
Bellica', i 'Motosega', gli ex 'Soluzione Finale', con nel repertorio canzoni dedicate alle
Waffen-SS e al 'Capitano', cioè il comandante delle SS Erich Priebke e via discorrendo.
Sin dalle quattro del pomeriggio sul lungo vialone della periferia sud, nebbia e panorama
da dismissione industriale, le teste rasate hanno cominciato ad arrivare alla spicciolata. Su
internet era stata fatta circolare la voce che il primo appuntamento fosse alle 14 a
Carugate, nel parcheggio di un centro commerciale sulla tangenziale Est, ma era una falsa
pista. Lì non si è presentato nessuno. Mentre l’ingresso del capannone di Rogoredo era
presidiato da quattro uomini in pettorina rossa e simbolo legato alla galassia neofascista
sul petto. Altre due sentinelle a distanza di un centinaio di metri, una alla destra e una alla
sinistra, controllavano che non si avvicinassero presenze 'sospette'. Stesso lavoro alla
rotatoria di via Sulmona, ma da parte di un paio di volanti della Polizia.
In quelle stesse ore, come detto, a due passi dal Duomo c’era la mobilitazione promossa
da Anpi e Libertà e Giustizia. Non a caso in un luogo
simbolo della Resistenza milanese. All’incontro avevano aderito i sindacati, tutti i partiti del
centrosinistra e numerose associazioni, dall’Arci alle Acli, da Libera alla Comunità ebraica
di Milano. «Una ferma, unitaria e pacifica risposta — ha detto il presidente provinciale
dell’associazione partigiani, Roberto Cenati — a questa ennesima provocazione
neofascista e per riaffermare il carattere antifascista della nostra Carta Costituzionale».
http://milano.repubblica.it/cronaca/2014/11/30/news/milano_solo_un_concerto_al_chiuso_
diventa_un_flop_il_raduno_dei_gruppi_nazirock-101741715/
Milano, il presidio dell'Anpi contro il raduno dei nazirock
Si è svolto alla Loggia dei Mercanti a Milano il presidio dell'Anpi contro l'Hammerfest, il
raduno-concerto di gruppi di estrema destra nella periferia sud della città. Per l'Anpi, si
tratta di un "raduno neonazista che, per i suoi contenuti antisemiti e razzisti, si pone in
aperto contrasto con i principi della Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza, con
le leggi Scelba e Mancino e costituisce una inaccettabile offesa a Milano Città Medaglia
d'Oro della Resistenza". In contemporanea con la giornata nazionale del tesseramento,
l'Anpi milanese ha quindi voluto dare "una ferma, unitaria e pacifica risposta a questa
ennesima provocazione neofascista e per riaffermare il carattere antifascista della nostra
Costituzione". Al presidio promosso anche da Libertà e Giustizia, hanno aderito i sindacati,
tutti i partiti del centrosinistra e numerose associazioni, dall'Arci alle Acli, da Libera alla
Comunità ebraica di Milano
http://milano.repubblica.it/cronaca/2014/11/30/foto/milano_il_presidio_dell_anpi_contro_il_
raduno_dei_nazirock-101741927/#1
Da il SecoloXIX.it del 30/11/14
Genova, anche per i Subsonica la
#mafianonepadrona
Beatrice D'Oria
Genova - Anche il gruppo torinese dei Subsonica, ieri sera in concerto al 105 Stadium
della Fiumara per la tappa genovese del loro “In una foresta Tour”, ha voluto aderire alla
17
campagna "Sapori di Giustizia" lanciata in settimana dalle realtà associative di via della
Maddalena: nella data dedicata al ricordo di don Andrea Gallo , «l'angelo con il sigaro»,
Samuel, Boosta, Ninja, Vicio e Max si sono fatti immortalare nel backstage prima
dell'esibizione con il cartello "Mafia non è folklore", partecipando all'iniziativa di lotta alle
mafie promossa da Arci Genova, San Benedetto al Porto, associazione Belleville e
presidio Libera Francesca Morvillo, insieme con Ama - abitanti della Maddalena e con il
Civ di quartiere.
«Ci sembrava un'ottima iniziativa, volta a fare conoscere le insidie della mafia anche al
Nord, che va combattuta con una questione culturale - ha detto Max Casacci, leader dei
Subsonica, al Secolo XIX - È semplicemente simbolico che un artista si faccia testimonial,
che ci "metta la faccia", insomma».
La data di Genova, hanno spiegato i componenti del gruppo, è stata fortemente sentita:
«Per via delle prove non abbiamo avuto modo di vedere come la città si sta rialzando, ma
ne siamo convinti - ha detto ancora Capacci - perché sappiamo che Genova e i genovesi
hanno un'energia profonda, che percepiamo sempre durante le nostre date qui e ancor più
stavolta».
http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2014/11/30/ARC22JjCgenova_mafianonepadrona_subsonica.shtml
Da Tiscali news del 30/11/14
Tassa sul patrimonio, reddito minimo, stop
alle spese militari: ecco la “controFinanziaria”
di Giovanni Maria Bellu
Una tassa patrimoniale con aliquote progressive, la riduzione a 100mila euro della
franchigia sulla tassa di successione, la riduzione di un punto dei primi due scaglioni delle
aliquote Irpef e la creazione di un sesto scaglione (con aliquota del 50 per cento) sopra i
centomila euro. E poi una tassa aggiuntiva sui capitali già scudati, la revoca dei condono
ai concessionari di videogiochi, il rafforzamento della tassa sulle transazioni finanziarie. E
ancora: la cancellazione degli stanziamenti per le scuole private, la riduzione drastica delle
spese militari, la chiusura dei Cie dei Cara e la rinunzia al programma di acquisto degli F
35.
Parrebbe il programma di un governo rivoluzionario. E' invece la “contro-Finanziaria”
elaborata da “Sbilanciamoci!”, la campagna avviata fin dal 1999 da 46 associazioni della
società civile “a favore di un’economia di giustizia e di un nuovo modello di sviluppo
fondato sui diritti, l’ambiente, la pace”. Fanno tra gli altri parte di “Sbilanciamoci!” l'Arci, la
Caritas, Emergency, Legambiente, Mani Tese, la Rete degli Studenti, la Uisp. Un insieme
variegato di associazioni laiche e cattoliche che – attraverso la “Contro-finanziaria” - vuole
dimostrare, conti alla mano, che un diverso modello di sviluppo economico è possibile.
Disinteressandosi volutamente della praticabilità politica delle proposte nel presente.
In tutto le proposte sono 84, distribuite in 7 grandi aree tematiche: Fisco e Finanza, Lavoro
e Reddito, Cultura e Conoscenza, Ambiente e sviluppo sostenibile, Welfare e diritti,
Cooperazione pace e disarmo, Altraeconomia. Nel loro insieme delinano una controFinanziaria da 27 miliardi di euro, a saldo zero. La risposta del mondo del sociale alla
legge di stabilità 2015 che, sottolinea “Sbilanciamoci!” “finge di fare l'interesse di tutti, ma
si inchina agli interessi di banche e imprese e non affronta i buchi neri del declino del
nostro paese: l’economia in declino, un’occupazione in calo e sempre più precaria, un
18
sistema di istruzione e di ricerca pubblico indebolito dai progressivi tagli, un disagio sociale
crescente che consegna alla povertà assoluta sei milioni di persone, politiche sociali fragili
e sempre più delegate alla famiglia, un patrimonio naturale e culturale in abbandono”.
L'austerità voluta dall'Europa, sostiene ”Sbilanciamoci!” è “il problema e non la soluzione”.
Si tratta di invertire radicalmente la rotta intervendo sulle entrate (con una “equa riforma
fiscale” e tagli alla “spesa pubblica tossica”) e indirizzando le uscite alla creazione di posti
di lavoro attraverso un piano per il benessere sociale (assunzioni, per esempio, di figure
stabili per contrastare l'abbandono scolastico e per la tutela del patrimonio culturale). Tutto
questo nel quadro di una “buona spesa pubblica” con investimenti nell'edilizia popolare,
nella tutela dei beni comuni, nel recupero delle aree dismesse o abbandonate dai privati.
Tra le proposte più “rivoluzionarie”, a parte l'introduzione della patrimoniale, c'è quella del
reddito minimo garantito. “Con 4 miliardi – sostiene “Sbilanciamoci!” - sarebbe possibile
garantire 500 euro al mese individuali a circa 764 mila persone che si trovano in condizioni
di povertà assoluta, ovvero con una capacità di spesa mensile inferiore a un paniere di
beni di “sussistenza” e che sono in cerca di occupazione”.
Già, ma è una proposta realistica, tecnicamente attuabile? “Sbilanciamoci!” non nasconde
la difficoltà. Per introdurre il reddito minimo garantito sarebbero necessari “la rivisitazione
dell’intero sistema delle politiche del lavoro, sociali e fiscali e un investimento ingente,
improbabile nell’attuale contesto economico e politico”. Tuttavia almeno una
sperimentazione è “fondamentale”. A maggior ragione se si considera che in Europa, a
non aver ancora avviato interventi di questo tipo, sono rimaste solo Italia e Grecia.
Mentre crescerebbero gli investimenti per la scuola (un piano ventennale per l'edilizia
scolastica con un miliardo di spesa fin dal 2015) e per la cultura, se la contro-Finanziaria di
“Sbilanciamoci” diventasse legge, si risparmierebbe un miliardo e mezzo attraverso la
riduzione degi stanziamenti per le Grandi infrastrutture strategiche dannose per l’ambiente
e un altro miliardo riordinando (con l'ausilio di una Commissione parlamentare di inchiesta)
gli sprechi e gli abusi delle strutture sanitarie private. Il bonus bebè (che costa 202 milioni)
sarebbe abolito per ridurre le rette degli asili pubblici.
Mannaia sulle spese militari. La contro-finanziaria prevede di recuperare: 400 milioni
portando, entro il 2016, il livello degli effettivi delle Forze armate a 150mila unità; 440
milioni eliminando l’ausiliaria per una fascia di ufficiali superiori; 2,2 miliardi azzerando la
parte di fondi iscritti al bilancio per sostenere le industrie a produzione militare in specifici
programmi d’armamento. Un altro miliardo 310 milioni arriverebbe dalla rinuncia al
programma di acquisto degli F-35, della seconda serie di sommergibili U-212 e dal “ritiro
da tutte le missioni a chiara valenza aggressiva”.
http://notizie.tiscali.it/articoli/cronaca/14/11/28/stop-spese-militari.html
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Da Corriere sociale del 30/11/2014
Le contraddizioni del Governo sul servizio
civile
La riduzione di 40 milioni al fondo nazionale del servizio civile per il 2015 rispetto ai 105
stanziati per il 2014 apre due questioni su cui la Cnesc vuole contribuire a fare chiarezza.
La prima questione, quella politicamente più evidente, è la contraddizione con l’avvio del
percorso per il passaggio dal Servizio Civile Nazionale al Servizio Civile Universale,
previsto dal disegno di legge delega del Governo in discussione alla Commissione Affari
Sociali della Camera (AC 2617). Come incamminarci per un’esperienza rivolta a 100 mila
persone riducendo del 37% i fondi nel 2015 rispetto a quelli del 2014?
Ci sono positivi segni di mobilitazione parlamentare alla Camera perché il Governo al
Senato cambi atteggiamento. Sia l’ordine del giorno di importanti donne parlamentari del
Pd che la lettera appello di parlamentari che sta circolando in queste ore dimostrano la
volontà di realizzare il Servizio Civile Universale e come Cnesc esprimiamo la nostra
gratitudine a queste iniziative. Ma il Governo cosa farà, dopo aver ribadito che non stanzia
un euro in più sul fondo del Servizio Civile Nazionale? Non siamo per niente ottimisti e per
questo amplieremo la nostra pressione.
La seconda questione riguarda l’impatto di uno stanziamento di 65 milioni sull’attuale
Servizio Civile Nazionale. Qui serve ricordare che il bando per 1304 posti uscito il 15
ottobre scorso è finanziato con risorse regionali del 2013, che il bando Scn Garanzia
Giovani si fonda su risorse europee straordinarie e che per arrivare a programmare circa
24.500 avvii nel 2015 il Dipartimento Scn ha raschiato il barile delle risorse statali del
2013, 2014 e 2015, quando erano previsti 75 milioni. Da qui la nostra previsione di un
taglio di circa 1.800 posti e quindi poco più di 22.500 avvii.
Ma il vero disastro si prepara per il 2016. Con tutte le risorse 2015 impegnate e solo 65
milioni disponibili nel 2016 saranno possibili circa 9 mila avvii. Ecco perché,
probabilmente senza consapevolezza politica, ma stanziare 65 milioni anno per il periodo
2015-2017 vuol dire “chiudere” anche il Servizio Civile Nazionale.
La Cnesc ha preso sul serio il Governo quando ha lanciato la proposta del Scu, anche
sfidando la diffidenza e l’ironia di cui siamo stati oggetto. Adesso ci rifiutiamo di pensare
che il Governo Renzi, che il primo luglio al Parlamento Europeo ha detto che senza il
servizio civile europeo non c’è Unione europea, che a fine ottobre a Milano ha promosso
una conferenza europea, cambi idea e dica ai giovani italiani, al Terzo settore, agli enti
locali che aveva scherzato o che non aveva fatto bene i conti.
* Licio Palazzini
Presidente Cnesc (Conferenza nazionale enti servizio civile)
http://sociale.corriere.it/le-contraddizioni-del-governo-sul-servizio-civile/
del 01/12/14, pag. 1/21
Cooperazione non solo con il Sud del mondo
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La crisi riporta verso l’Italia progetti e risorse
delle Ong
La crisi spinge le organizzazioni per la cooperazione internazionale a incrementare i
progetti dedicati alle emergenze sociali e umanitarie in Italia. Il fenomeno, che trova
riscontri nei bilanci di tutte le principali Ong, da Emergency all’Unicef, da Save the
Children ad Action Aid, si spiega con il duplice effetto della maggiore povertà, da un lato, e
della riduzione della sfera di intervento pubblico, dall’altro. Così, pur senza tradire la
propria vocazione ad aiutare i Paesi del Sud del mondo, gli enti per la cooperazione
internazionale stanno incrementando la quota di risorse da destinare a iniziative mirate nel
nostro Paese.
Ritorno in Italia, alle emergenze umanitarie e sociali nazionali. Il 2014 potrebbe essere
l?anno che consolida la tendenza per chi tradizionalmente opera nella cooperazione
internazionale a concentrare risorse in progetti locali. Non è solo la crisi economica che
incide sull?aumento della povertà, anche in nuove forme, e riduce le risorse pubbliche per
bisogni socio-sanitari ampliando lo spazio di welfare coperto dal Terzo settore. Ci sono
anche le crisi non direttamente collegate alla situazione economica generale. Come le
emergenze umanitarie legate ai flussi migratori, le catastrofi imprevedibili come i terremoti
e situazioni di conflitto - Siria, Nordafrica e Medio Oriente - che per alcune organizzazioni
hanno significato l?abbandono di Paesi divenuti eccessivamente pericolosi. Tutti questi
fattori potrebbero spiegare perché molte associazioni, tradizionalmente impegnate nel Sud
nel mondo, negli ultimi anni abbiano progressivamente aumentato il loro intervento in
Italia.
Ma forse c?è anche il fatto che i donatori italiani sembrano preferire chi opera in un
contesto locale, più vicino alla realtà di tutti i giorni.
Se si prende come riferimento l?ultimo elenco disponibile del 5 per mille per importi
distribuiti alle Onlus (relativo al 2012) emerge che delle prime venti associazioni solo
cinque si dedicano alla cooperazione internazionale: Emergency, Medici senza frontiere,
Unicef, Save the children e Action Aid. Tutte le altre nascono e operano in Italia. Se si
allarga lo scenario alle prime 50, il numero di chi sostiene progetti nei Paesi più poveri è
comunque limitato a dodici. Eppure il primo posto dell?elenco delle Onlus 2012 lo
occupano proprio due Ong: Emergency e Medici senza frontiere.
In ogni caso tutti gli enti che operavano esclusivamente nei Paesi poveri negli ultimi anni e
con una progressiva crescita hanno dedicato risorse all?Italia. Non solo Emergency, che è
un?organizzazione italiana, ma anche quelle che sono internazionali per nascita e per
vocazione. Anche quelle realtà che sono parte di network mondiali hanno rivolto la propria
attenzione all?Italia.
Il bilancio 2013 di Emergency si apre proprio con l?affermazione che nel corso dell?anno è
«proseguito e si è ampliato l?intervento umanitario in Italia» e la spesa per progetti nel
nostro Paese è quasi raddoppiata, arrivando a 1,9 milioni di euro rispetto al milione del
2012.
Unicef ha dedicato 1,8 milioni di euro a progetti di promozione dei diritti dell?infanzia in
Italia, sempre nel 2013, mentre Save the Children impiega in Italia il 16% dei fondi di
missione (era il 12% nel 2012) e Action Aid raddoppia i fondi impiegati (in Italia e in
Europa), passando dai 2,6 milioni del 2012 ai 5,1 del 2013, mentre l?impegno di Medici
senza frontiere nel nostro Paese ha un?incidenza minore sul totale degli impieghi - anche
se in crescita - perché l?associazione trasferisce i fondi di missione alle sezioni operative
internazionali, che li spendono per i progetti sul campo.
Al di là degli elenchi ufficiali la tendenza è confermata anche da un?analisi allargata alle
altre Ong. Da un lato, l?aumento di situazioni di emergenza, la necessità di saper
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affrontare problemi in parte nuovi - le migrazioni, l?aumento della povertà, la mediazione e
l?integrazione culturale e religiosa - chiama in causa chi ha già dimostrato di saper dare
una risposta efficace. Dall?altro, la capacità di intervenire con successo a livello nazionale
può dare un contributo anche in termini di raccolta fondi. Il disagio e il bisogno sono infatti
più vicini. Una vicinanza che può essere l?occasione per creare un legame più solido e
stabile, magari collegato a risultati visibili, con i donatori.
Antonella Tagliabue
del 01/12/14, pag. 21
Terzo settore. Scadenza 10 dicembre
Fondi volontariato: dote da 2 milioni
È fissato alle 13 del 10 dicembre il termine entro il quale le associazioni possono
presentare i progetti per ottenere i finanziamenti dal Fondo per il volontariato, istituito dalla
legge 266/91. I fondi ammontano a 2 milioni e saranno assegnati secondo i criteri fissati
dalle Linee di indirizzo che il ministero del Lavoro ha pubblicato nel proprio sito
(www.lavoro.gov.it).
Ciascun progetto non deve superare il costo complessivo di 30mila euro, il 90% del quale
sarà a carico del ministero, mentre il resto farà capo all’organizzazione, che può coprirla
anche attraverso la valorizzazione dell’attività dei volontari: poiché questa attività può
essere definita di volontariato solo se è personale, spontanea, gratuita e finalizzata
unicamente alla solidarietà, secondo le linee guida essa non costituisce un costo e si può
fare «una stima figurativa del corrispondente costo reale, che può essere soggetta solo ed
esclusivamente a valorizzazione». Ciò rende le condizioni di accesso molto favorevoli alle
associazioni, anche medio-piccole. Tutte comunque, nel nome della trasparenza, devono
indicare da dove provengono i fondi che destinano al progetto per coprire la propria quota
parte. Per accedere al finanziamento è necessario che l’organizzazione sia iscritta ai
Registri regionali e che esista da almeno due anni.
Le linee guida indicano anche un elenco, assai lungo, di obiettivi all’interno di sette ambiti
di intervento prioritari: cittadinanza attiva, pari opportunità, accoglienza e reinserimento
sociale di soggetti svantaggiati, esclusione sociale, legalità e corresponsabilità, sostegno a
distanza e volontariato d’impresa. Ai progetti si chiede di adottare metodologie
sperimentali, «finalizzate alla messa a punto di modelli di intervento idonei a essere
trasferiti in altri contesti territoriali». Se saranno realizzati in rete, con altri soggetti non
profit o con istituzioni, otterranno punti in più nella graduatoria.
I progetti possono essere presentati solo online, attraverso l’apposita piattaforma (www.
direttiva266.it) realizzata dal Coordinamento dei Centri di servizio per il volontariato, che
offrono consulenze gratuite agli enti.
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ESTERI
del 01/12/14, pag. 16
Volantini dell’Is “Donne di Gaza mettete
il velo”
GAZA
L’organizzazione del cosiddetto Stato islamico (Is) “sbarca” a Gaza, e diffonde dei volantini
con l’invito alle donne palestinesi di adottare il velo integrale. Segue il monito di una
punizione a chi contravverrà alla regola. Quale sarebbe la punizione, non è specificato.
I fogli stampati con il simbolo dell’Is sono stati trovati in un campus universitario. Altri
messaggi dello stesso tenore sono comparsi su Facebook. Il governo locale retto da
Hamas si è affrettato a smentire l’autenticità degli avvertimenti, mentre i servizi di
sicurezza affermano che non v’è alcuna presenza dell’Is a Gaza. Tuttavia, in febbraio
aveva fatto scalpore il video di un presunto gruppo di jihadisti salafiti affluito nella Striscia
per giurare alleanza all’organizzazione terroristica di al-Baghdadi. Il portavoce di Hamas
aveva escluso che il video fosse stato realizzato a Gaza. L’unica certezza è che in maggio
un palestinese di 21 anni del campo profughi di Jabaliya è morto in Siria mentre
combatteva nelle file dell’Is. Wadih Nafedh era fuggito dalla Striscia, ricercato dai servizi di
Hamas per avere lanciato dei razzi contro Israele.
Del 01/12/2014, pag. 12
Sharia e decapitazioni: nella città fantasma
del Califfato di Libia
A Derna il primo avamposto dell’Isis nel Mediterraneo
BEIDA (Libia) Quando le bandiere nere del puro Islam arrivarono a Derna, le due bulgare
dell’ospedale al Harish provarono a sventolare la loro bandiera bianca. «Siamo solo
infermiere…», andarono a presentarsi ai nuovi padroni. Un capoccia le convocò nella hall
del Pearl Hotel, diventato il quartier generale di Ansar al Sharia: voi bulgari siete cristiani?
Silenzio. Avete deciso di rimanere qui? Silenzio. Volete la nostra protezione? «Sì». Va
bene: 50 euro al mese, un quinto del vostro stipendio, e nessuno vi toccherà… Per un
paio d’anni, le due infermiere hanno pagato e si sono sentite tranquille. Curavano i
neonati, mai il naso fuori. In fondo erano a Derna dall’epoca di Gheddafi, che le
considerava tutte untrici d’Aids, erano scampate a tre anni di guerra civile: magari ce
l’avrebbero fatta anche stavolta...
Le cose sono cambiate pochi giorni fa, quando Derna ha ripreso l’antico nome ed è
diventata il Califfato libico di Barqa. Dall’Iraq è comparso un iracheno di Mosul, l’uomo
dell’Isis. Che nessuno sa come si chiami ma chiunque, avendoli visti insieme in tv,
riconosce come l’inviato del neocaliffo Al Baghdadi. «Siete delle infedeli e pagare non
basta — è stato il nuovo editto —. Chi rimane qui, da oggi si deve convertire».
I racconti di Derna, o di Barqa, somigliano alle leggende nere del peggiore Jihadistan.
«L’ospedale funziona solo per le emergenze, quasi tutti i medici sono scappati — racconta
M. H., che ha mandato la famiglia a Beida —. Le scuole sono svuotate da giugno, donne e
bambini se ne sono andati. La centrale elettrica macinava 100 megawatt: ora non supera i
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venti». Anche le banche non vanno più: l’ultima ha chiuso due settimane fa perché sono
spariti quattro milioni di dinari, due milioni d’euro, e si sospetta un impiegato infedele tanto
alla ditta quanto all’Islam. A Tobruk, a Cirene, in ostelli e case sfitte s’incontrano migliaia in
fuga dallo spavento senza fine di Bengasi, dove si combatte furiosi, e dalla fine
spaventosa di Derna, questa Mosul libica d’ottantamila abitanti che milleduecento jihadisti
maliani, tunisini, yemeniti hanno preso senza sparare un colpo. Derna era la città dei poeti,
dei mercanti, dei ministri del re. Religiosa, tanto che Gheddafi la evitava, ma insieme colta
e raffinata. Oggi è il primo Califfato che i tagliateste siano riusciti a proclamare nel
Mediterraneo. Non in Siria o in Iraq, ma davanti all’Italia: se ci sarà mai una marcia sulla
Roma vaticana, come proclamano, è da qui che partirà.
I racconti della paura si raccolgono alla cafeteria Thuraya, fra macchine di bulli che
sgommano e miliziani del generale Haftar di rientro dal fronte. C’erano otto suore italiane,
a Derna, riparate a Bengasi credendo di stare più al sicuro.
C’era una bella chiesa nella medina e ai tempi di Gheddafi faceva da centro culturale: s’è
piazzato l’iracheno coi suoi vice, un saudita e un egiziano, più sua eccellenza Mohammed
Abdullah Abi al Baraa Al Azdi che comanda il nuovo Consiglio consultivo della gioventù
islamica e infligge la più estrema delle sharie. Novanta frustate a chi si droga, piccolo
sconto di pena a chi beve, un centro di disintossicazione gestito a catene e ceffoni. Ai
primi di novembre, la decapitazione di tre giovani che postavano su Facebook notizie
sgradite e d’un soldato di Haftar catturato («questo generale musulmano che ci combatte
è peggio di Obama!...», urla un predicatore di Radio Barqa).
Dal nuovo califfato libico è scappato un ragazzo che dieci anni fa sparava sugli americani
in Iraq: «A Derna comandano dei pazzi — dice ora nella sua nuova vita tripolina da tecnico
informatico e pentito — non accettano altra visione che la loro. Chi non è con l’Isis, è un
infedele». Se c’è una scritta sulla piazza centrale, «no ad Al Qaeda», è perché i qaedisti
passano per moderati un po’ rimbambiti. Non piacciono neanche quelli di Ansar al Sharia:
nel 2012 uccisero l’ambasciatore americano a Bengasi, ma sono considerati dei
mollaccioni. Il tecnico veneziano Gianluca Salviato, per otto mesi ostaggio a Derna, ha
raccontato che lo sorvegliavano ceceni e tunisini, gli facevano vedere i video della guerra
in Siria, gli promettevano un’Italia islamizzata… Il venerdì sera, i jihadisti convocano la
gente in piazza a festeggiare il Califfato. «Distribuiscono volantini, suonano inni sacri,
regalano dolci e giocattoli ai ragazzini, gli unici che accorrano», spiega M. H. La polizia
islamica circola coi Land Cruiser bianchi e neri per controllare abbigliamenti e
atteggiamenti: «Alle facoltà di legge e di belle arti hanno tirato su un muro per dividere
studenti e studentesse». Il generale Haftar ha sigillato la città, giurano che non esce
nessuno, ma non è vero: M. H. passa ogni settimana per stradine secondarie, «non è
difficile». Ogni tanto spuntano check-point volanti sulla strada da Beida, qualcuno viene
sequestrato: moglie e bambini d’un deputato di Tobruk, fatta l’inversione a U, sono stati
inseguiti per venti chilometri. «Sono pochi +fanno già un gran casino», ci dice il generale
Abdel Razah Nouradin, capo di stato maggiore dell’esercito libico: «Per ora hanno solo
qualche rpg del tempo di Gheddafi. Ma bisogna intervenire e spazzarli via, prima che ne
arrivino altri». C’è una sparatoria, il giorno che ce ne andiamo da Beida. Arriva
un’ambulanza, trasporta un ferito eccellente. Si chiama Sufian Bin Qumu. Stava in
Afghanistan, poi a Guantanamo. Ha lasciato Al Qaeda per l’Isis. Il Dipartimento Usa l’ha
messo nella lista dei terroristi globali più ricercati. Viveva a Derna, ma nessuno lo sapeva.
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Del 01/12/2014, pag. 12
Per l’Eliseo Marine diventa istituzionale
Le Pen confermata leader all’unanimità: “Hollande finito, nel 2017 andrò
la ballottaggio contro Sarkozy”
La giornata di Marine Le Pen è iniziata con una notte brava. Dopo la cena di gala di
sabato, via alle danze sfrenate con due dei suoi alleati europei, uno padano e l’altro
austriaco, Matteo Salvini e Heinz-Christian Strache, tutti insieme appassionatamente in
pista, felici e cantanti. In effetti, ieri non era tanto attesa la scontata rielezione di madame
alla presidenza del Front national, quanto il discorso che l’avrebbe accompagnata. Sul
primo punto, Marine ha ottenuto dei risultati che potrebbe legittimamente invidiargli il suo
grande amico e generoso finanziatore Vladimir: su 22.329 votanti (per posta), 22.312 voti
per lei. I restanti 17 sono nulli: era l’unica candidata.
L’arringa, invece, è stata un po’ fiacca, senza grandi invettive né grandi slogan. Però, visto
che la signora, quanto a invettive, normalmente non è mai a corto di munizioni, è chiaro
che si è trattato della scelta di un’orazione «ideologica» e programmatica, già quasi
governativa. Del resto, i tremila del palazzo dei Congressi di Lione, se anche sono rimasti
delusi, non l’hanno certo dimostrato. A favor di telecamere hanno sventolato tricolori,
urlato cori, scandito «On-est-chez-nous!» («Siamo a casa nostra!», e ogni riferimento agli
immigrati è puramente voluto) e infine intonato la Marsigliese liberatoria come da
collaudato copione del Front. E lei? Premesso che «non voglio una Francia divisa fra chi
sale sul treno e chi lo guarda passare», quindi è il Fn il vero partito «dei piccoli», Le Pen
ha annunciato che «senza dubbio» sarà al ballottaggio delle Presidenziali, nel ‘17. Ed è
chiaro, da come l’ha martellato pur citandolo il meno possibile, che si aspetta di trovarci
Sarkozy (Hollande ormai non è preso sul serio nemmeno dagli avversari...). Ma il
messaggio è che destra e sinistra per lei pari sono. «Tutto, avete sbagliato tutto, signori
Hollande e Sarkozy!». Di più: è «una truffa» la stessa divisione destra-sinistra. Il vero
scontro è fra chi si oppone alla mondializzazione e chi cerca di imporla alla Francia per
farle dimenticare Storia, Patria e Famiglia (Dio no, perché anzi Marine fa la paladina della
laicità repubblicana in contrapposizione alle derive intolleranti e «comunitarie»
dell’immigrazione musulmana). L’elenco dei nemici è di conseguenza lunghissimo:
l’Europa di Bruxelles prima di tutto, poi il multiculturalismo, la globalizzazione, la finanza in
generale e le banche in particolare, i tecnocrati, la signora Merkel e il suo emissario
Juncker. Molti nemici molto onore, avrebbero detto i precedenti alleati italiani di madame.
Di certo, finora, sono molti voti.
Del 01/12/2014, pag. 12
Via croci celtiche e Giovanna d’Arco
Il nuovo Front si mette la cravatta
La mascotte è un rassicurante orsetto: “Sappiamo governare”
Alberto Mattioli
Manca Giovanna d’Arco. Sparita dai gadget, ignorata sui poster, mai citata nei discorsi. E
dire che il Front National la venerava: ogni Primo maggio i big del partito contro
festeggiano deponendo una corona di fiori davanti alla sua statua parigina. Marine Le Pen
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le si era sempre ispirata: entrambe donne, bionde, guerriere e incaricate da Dio di salvare
la Francia, una dagli inglesi, l’altra da tutta l’Europa.
I simboli, si sa, sono politica. La loro assenza, ancora di più. Questo congresso del Fn,
chiuso ieri da madame Le Pen, segna il passaggio da un partito solo di lotta a un partito
forse di governo. «Per la prima volta, è concreta l’ipotesi di arrivare al potere», dice Steeve
Briois, il segretario generale. E la presidentessa Marine proclama dalla tribuna: «Non c’è
alcun dubbio per nessuno che sarò al secondo turno delle Presidenziali del 2017».
Il Fn non diventa più moderato nella sostanza, perché basterebbe mettere in atto appena
metà di quel che propone per sfasciare non solo la Francia, ma anche l’Europa. Ma nella
forma, sì. È entrato nel gioco, governa qualche città, è sdoganato dai media, non è più
impresentabile, si è «dédiabolisé», de-diabolizzato. Il diavolo veste in giacca e cravatta. E
adesso fa politica, passa dalla protesta alla proposta.
Infatti non è stata carbonizzata un’altra volta solo la povera Pulzella. Nei banchetti (pochi)
non c’è più traccia della destra più tosta. In libreria tutto tace sull’Action française, su
Vichy, sulla guerra d’Algeria. Non pervenuti nemmeno i lefevriani, cioè l’ultima espressione
di una tradizione di destra cattolica e reazionaria che in Francia è antica e culturalmente
«nobile». Il gadget più smerciato, bottiglie di Beaujolais nouveau a parte, è l’orsetto con
maglietta del Fn, dieci euro spesi male (è orripilante, e non per ragioni ideologiche). Un
orsetto nella tana del lupo nero: decisamente, non è più lo stesso Front. Tanto che si parla
perfino di cambiargli nome, però dopo molte riflessioni Le Pen ha deciso che se ne
discuterà, forse, l’anno prossimo.
Sono cambiati anche i militanti. Certo, si incontrano ancora i frontisti della Francia
profonda, «paysans» con i baffoni da Astérix in arrivo dalle campagne, indignatissimi per
l’abolizione del servizio militare o della pena di morte. Ma sono sparite le teste rasate in
bomber nero e croce celtica. E nel mostruoso Centro dei congressi di Lione si aggirano
soprattutto molti ragazzi incravattati, magari con buoni studi alle spalle. Florian Philippot,
vicepresidente «incaricato della strategia e della comunicazione», cioè l’uomo più
importante del partito dopo la donna che lo incarna, è un «énarque», insomma è uscito
dalla mitica Ena, la superscuola della classe dirigente francese che, di destra o di sinistra,
finora aveva sempre considerato quelli del Front degli alieni. Ha fatto scalpore che, gollista
da sempre, Philippot sia andato a portare una corona di fiori sulla tomba del Général. I
superstiti dell’Oas e i nostalgici dell’Algeria francese (per esempio, Jean-Marie Le Pen) si
sono indignati. Tutti gli altri hanno trovato il gesto non solo giusto, ma naturale.
Un opuscoletto distribuito alla stampa vanta le «promesse mantenute» degli amministratori
locali frontisti (perfido il sottotitolo: «Quello che i media non vi diranno»). Il messaggio è
chiaro: siamo capaci anche di amministrare, non solo di sbraitare contro chi l’ha fatto
finora. Briois è il simbolo di questa nouvelle vague pragmatico-amministrativa. Sette mesi
fa, è stato eletto al primo turno sindaco di Hénin-Beaumont, cittadina nel profondo Nord
devastato e deindustrializzato. «Ma il modello è Béziers», dice. È la città del profondo Sud,
non meno malmessa, dove il Front non ha presentato il suo candidato ma ha fatto vincere
Robert Ménard, giornalista ex di sinistra e fondatore di un’associazione politicamente
correttissima come Reporters sans frontières. Spiega Briois: «Dobbiamo allargare il
partito, aprirci agli esterni, “rassembler”, unire». La strategia è chiara. I quarantenni con
buoni titoli di studio e cravatte tremende che discutono nei corridoi non potrebbero essere
più d’accordo.
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Del 01/12/2014, pag. 13
Così i tabloid inglesi inchiodano Cameron
“Stop agli immigrati”
I giornali lo martellano sul mancato giro di vite “Non si trova un inglese
che sappia fare i sandwich?”
Vittorio Sabadin
È impressionante il numero di articoli che i giornali inglesi stanno dedicando ai danni che
l’arrivo incontrollato di polacchi, romeni, lituani e bulgari starebbe arrecando alla Gran
Bretagna. «È come se - ha detto il ministro ombra laburista Pat McFadden - si
considerasse l’immigrazione una malattia, invece che un’occasione della quale discutere».
E sembra davvero così: nel Paese europeo finora più aperto e ospitale si respira un’aria
diversa, carica di veleni e sempre più difficile da respirare per chi arriva al controllo
passaporti di Gatwick o di Heathrow.
La campagna è alimentata dal «Daily Mail», un giornale da due milioni di copie che
mescola politica, cronaca, sesso e celebrità in un cocktail irresistibile. Ma per gli stranieri
non c’è scampo. Ieri se la prendeva con i sussidi che il governo versa ai figli rimasti in
patria degli immigrati senza lavoro: 89 sterline (circa 100 euro) a testa. Una cartina
geografica spiegava come questo beneficio vada a 22.093 bambini polacchi, mentre il
governo di Varsavia versa ai minori indigenti solo l’equivalente di 14,7 sterline. Lo stesso
accade in Romania, Bulgaria, Cecoslovacchia.
In questo modo, ricorda il «Daily Mail» le assurde regole dell’Unione Europea e la
generosità britannica consentono a 24 mila famiglie e a 38.500 bambini stranieri di
ricevere aiuti per 30 milioni di sterline l’anno, pagati dai contribuenti. Bisogna rendere il
Regno Unito meno attrattivo per gli immigrati, conclude il giornale: libera migrazione è
venire qui per lavorare, non per ottenere benefici.
Nelle ultime settimane, i quotidiani non hanno mai smesso di infierire. Si è così saputo che
le coppie polacche si riproducono molto di più a Londra che in patria: il tasso di natalità è
di due terzi superiore. Si spendono poi 20 milioni l’anno per pagare interpreti che aiutino a
compilare le richieste di sussidio degli immigrati: non potrebbero imparare l’inglese invece
di usare i soldi dei cittadini? Un’azienda che produce sandwich è stata costretta a cercare
manodopera in Lituania perché non trovava inglesi. «Non c’è più un britannico che sappia
fare un sandwich?» si è domandato con sdegno in prima pagina il «Mail on Sunday».
Lo University College di Londra ricorda che in 10 anni gli immigrati hanno portato vantaggi
all’economia per 20 miliardi di sterline, ma non serve a nulla. Sempre sul «Daily Mail»,
Stephen Glover, uno dei commentatori più letti, puntualizza che di questi 20 miliardi la
maggior parte viene da immigrati qualificati francesi, spagnoli e italiani e solo 5 da romeni,
polacchi e lituani. E poi, aggiunge Glover, di questi esperti non dobbiamo fidarci: «Nel
2004, quando entrarono nella Ue altri 8 Paesi dell’Est, ci avevano detto che avremmo
avuto fra 5.000 e 13.000 nuovi immigrati all’anno. In realtà sono più di 200 mila».
A Londra, i giornali popolari hanno lo stesso istinto dei politici: seguono la pista del
consenso. Più si sostiene la tesi che la crisi, la criminalità e il disagio sociale sono colpa
degli stranieri e più si ottiene approvazione. I politici raccolgono più voti, i giornali vendono
più copie. E più si insiste e più se ne parla, più la paura e il risentimento dei cittadini
crescono. Il circolo vizioso che paralizza sul tema dell’immigrazione la Gran Bretagna si
spezzerà solo il 5 maggio, giorno delle elezioni generali, quando Cameron saprà se ha
conservato il posto o se lo deve cedere al leader antieuropeista dell’Ukip Nigel Farage.
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Ma non c’è pace neppure per il premier. Il suo discorso di qualche giorno fa, nel quale
annunciava l’annullamento dei sussidi immediati agli stranieri e il rimpatrio di chi non trova
un lavoro, è stato salutato come una prova di autonomia dalla Ue da tutti i giornali europei,
ma non da quelli inglesi. Il «Telegraph», un altro giornale conservatore, ha scoperto che il
testo è stato emendato nelle parti che annunciavano un tetto all’immigrazione, proprio su
pressioni della Merkel alle quali Cameron si è piegato. Sarà dura per lui. Come ha detto il
leader laburista Ed Miliband, «nessun cittadino crede alle nuove promesse di un primo
ministro, se non ha mantenuto quelle vecchie».
del 01/12/14, pag. 30
La disoccupazione sale la crisi dell’eurozona minaccia l’export e la
popolazione invecchia. A Stoccolma come in Danimarca e Finlandia,
suona l’allarme: il welfare scricchiola e con lui il mito del grande Nord
Addio al modello svedese
DAL NOSTRO INVIATO
ANDREA TARQUINI
STOCCOLMA
GENTILE e infaticabile, Carl Smitterberg è un quarantenne poliglotta e sportivo, elegante
casual, giacca blu di buon taglio e camicia button down: sembra un giovane manager di
un’industria d’eccellenza, o di una banca scandinava approdata a Canary Wharf a Londra.
Invece no, percorre veloce la città tutto il giorno in Tunnelbana, lo splendido,
profondissimo métro-rifugio antiatomico, per occuparsi degli anziani e dei disabili ai quali
porta a casa gli allarmi da polso collegati alla centrale di soccorso. «Abbiamo molti fondi,
ma oltre 110mila dei 900 mila abitanti di Stoccolma sono over 65, trend in aumento»,
spiega. Li Jansson, brava e giovane esperta dell’istituto Almega, è in prima linea per
l’integrazione dei migranti, «dobbiamo far di più per loro o i populisti cresceranno», mi
dice. Kristina Persson, nel nuovo governo di sinistra, è la ministro del Futuro e riprogetta il
sistemapaese, non ha dubbi: «Il modello nordico deve cambiare per restare sostenibile,
organizzarsi meglio, creare, produrre, integrare di più e dare più lavoro, altrimenti i
populisti diverranno una sfida davvero pericolosa». Tempo di riflessioni quiete-amare, a
Stoccolma sorridente e gentile, affollata per lo shopping, profumata di candele e ghirlande
dell’Avvento, accesa da decorazioni, mercatini di Natale, abeti addobbati: persino il
Kungliga Slotten, il Palazzo reale dove presto regnerà l’amata Viktoria, è illuminato a festa.
«Il Nord è ancora il paradiso del mondo», dice lo scrittore critico danese Jussi AdlerOlsen, «ma sta cambiando, diventa meno solidale e meno liberal, e noi intellettuali
cominciamo a temere di svegliarci un giorno e non trovarlo più, scoprirci all’improvviso in
un paradiso perduto, troppo tardi per un attimo».
Andiamo cauti con gli allarmi: non basta ancora qualche sommossa etnica nelle vecchie
metropoli industriali del Sud, né il volo degli Sveriges Demokraterna, i nuovi populisti
antieuropei di Jimmy Akesson, a far cadere il grande Nord nell’abisso della Francia tra
declino industriale e Front National primo partito, o nelle nostre rabbie urbane tra razzismo
e povertà giovanile dilagante. Qui nella Svezia potenza- leader regionale, in Finlandia,
Danimarca i valori costitutivi dei leader-mito di ieri, da Olof Palme a Urho Kekkonen,
vivono ancora, li tocchi con mano. L’export industriale e high-tech d’eccellenza vola,
produce la metà del Pil. Le start-up crescono come funghi, anche per i fondi governativi
alla musica giovanile. Idee-chiave del mondo come Skype o Spotify sono nate qui.
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Corruzione e furbetti sono così rari che persino il controllo biglietti sulla Tunnelbana o sul
treno da 210 orari che dal lontanissimo Arlanda, aeroporto migliore di Monaco o Zurigo, ti
porta in centro in venti minuti, sono eccezione. E anche le più povere ragazze- madri
fuggite dalla Siria o dalla Somalia sentono che il welfare non le lascia sole.
«Ma guai a cullarsi sugli allori, la disoccupazione all’8 per cento è già troppo alta.
Dobbiamo sbrigarci a ripensare il modello nordico, renderlo sostenibile: più organizzazione
e meno burocrazia, più produttività e più integrazione, e più attenzione alle nuove
disuguaglianze», confessa la ministro Persson nel suo studio a palazzo Rosenbad, il
neoclassico edificio governativo che solo l’acqua del golfo e un ponte separano dalla
Corte. «Il mondo corre, non ci aspetta, la mia generazione di baby-boomers invecchia,
presto diverremo un costo ». E non è finita: «Siamo in pochi, ci servono più migranti anche
per produrre e per finanziare il welfare». Per fortuna, dice reduce da un colloquio con l’ad
di Volvo, tra le parti sociali resta viva la concertazione, cuore del “nordic model”. «Insieme
ai valori di uguaglianza, priorità al prossimo, fiducia nelle istituzioni ». Può non bastare: «Il
domani dell’eurozona cui vendiamo il 70 per cento dell’export appare cupo, molto dipende
dalla Germania, certo oggi da noi nessun sì all’entrata nell’euro raccoglierebbe la
maggioranza». E appena a Est, jet Gripen e navi invisibili cacciano di continuo
bombardieri e U-Boot spia di Putin, ecco l’altro incubo: neutralità in forse.
Problemi simili in Finlandia, dice il governatore della Suomen Pankki, Erkki Liikanen,
amico critico di Mario Draghi, dal suo studio dove i trittici di Akseli Gallen- Kallela, il pittore
nazionale, ritraggono la leggiadra Aino e gli altri eroi del Kalevala. «In certe aree noi
nordici andiamo benissimo, in altre siamo sotto sfida: da noi la base industriale si è fatta
più piccola, col calo mondiale dell’industria elettronica e del consumo di carta. E calano le
nascite, la gente dovrebbe lavorare di più, accettare riforme delle pensioni. Se la crescita
rallenta e la popolazione invecchia, finanziare un ampio welfare non è più come in
passato. La questione chiave è qual è la parte essenziale del welfare». Il consenso
bipartisan, dice Liikanen, è non rinnegare valori costitutivi: eguaglianza, apertura al
mondo, integrazione. E sistemi scolastici decisi a dare chances a tutti. Ma ogni riforma fa
male, ammonisce citando Machiavelli: «Chi ha paura di perdere griderà forte, chi pensa di
poter vincere starà zitto, è la sfida permanente dei politici, anche qui a Nord».
L’eguaglianza paga, rende competitivi, rammenta l’attiva premier laburista danese Helle
Thorning-Schmidt. «Belle parole non bastano contro i populisti », replica Li Jansson. «L’ex
premier Reinfeldt prima privatizzò i servizi sociali, un disastro, poi chiese agli elettori di
“aprire i cuori” ai migranti, ma senza spiegare come. In provincia è diverso da Stoccolma,
la concorrenza per lavoro e servizi crea tensioni, e dalla Siria ci arrivano medici e
ingegneri di prim’ordine che non sappiamo integrare», spiega. Ogni strategia appare
rischiosa: «Il nuovo governo di sinistra aumenta le tasse, le imprese sono in allarme per il
mercato del lavoro». Dati freddi, ma feriscono l’anima. «Negli anni Settanta commettemmo
l’errore di pensare che era meglio statalizzare tutto», nota il politologo e giornalista
investigativo Henrik Berggren, «oggi l’errore contrario. Non ricordiamo che nel 1989 crollò
un sistema dove lo Stato aveva divorato l’economia di mercato, oggi rischiamo un
processo opposto».
L’addio al Grande Nord solidale, ecco l’incubo di intellettuali, politici e gente comune, qui a
Stoccolma, Helsinki, Copenaghen accese dal prossimo Natale. «Eravamo da decenni
società impregnate di valori costitutivi socialdemocratici, senza che nessuno dovesse
dichiararsi socialdemocratico », nota triste Jussi Adler Olsen. «Eravamo la terra della
tolleranza e del pensiero solidale: prima il prossimo di te stesso. Poi miti e valori comuni
sono stati aggrediti alla radice. Crescono nuove generazioni più egoiste, prima che al
prossimo pensano al portafoglio, non riusciamo a tramandare i valori. Speriamo nella
nuova Svezia di sinistra, viviamo ancora in un paradiso, ma che possiamo perdere »,
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confessa. Sommesse e civili, ecco le paure nell’animo collettivo del Grande Nord, finora
dal cuore solidale caldo anche nel gelo. Le cogli con le sfide populiste, con il terrore di un
crack dell’eurozona, e col rombo dei Gripen che decollando su allarme a ogni Tupolev
atomico avvistato rompono il silenzio della notte.
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INTERNI
Del 01/12/2014, pag. 3
Fiducia in calo per il premier, sale Salvini
Per la prima volta convince meno di metà degli elettori, persi cinque
punti in un mese Nuovo balzo del leghista: piace a un italiano su tre.
Grillo (17%) ora è ultimo, dopo Vendola
Il risultato elettorale di domenica scorsa sembra aver impresso un’accelerazione alle
tendenze in atto riguardanti il gradimento dei leader, con particolare riferimento a Renzi,
Salvini e Grillo. Il premier arretra di 5 punti rispetto ad ottobre, passando dal 54% al 49%
e, sebbene prevalgano sia pure di poco i giudizi positivi, è la prima volta che Renzi scende
al di sotto della fatidica soglia del 50%. Al secondo posto si conferma Salvini che aumenta
il proprio consenso di 5 punti (da 28% a 33%) riducendo in misura significativa la distanza
da Renzi: a fine ottobre era di 26 punti mentre oggi è di 16. Al terzo posto si colloca
Giorgia Meloni, gradita dal 28% degli italiani, seguita da Berlusconi (25%) e Alfano (22%).
Chiudono la graduatoria Vendola, apprezzato dal 18% degli italiani (in aumento di 3 punti),
e Grillo con il 17% di consenso (in calo di 2 punti). La flessione di Renzi, non dissimile da
quella di tutti i premier italiani ed europei dopo sei mesi dall’insediamento del governo,
presenta alcune specificità. Renzi ha alimentato nei cittadini aspettative estremamente
elevate, tutte all’insegna del cambiamento, un cambiamento profondo e soprattutto rapido.
Alcuni provvedimenti sono andati a segno, altri faticano a vedere la luce. Ma le partite
aperte sono ancora molte, a partire dalla legge elettorale, e sullo sfondo la situazione
economica continua a permanere negativa.
Il presidente del Consiglio perde consenso soprattutto presso i segmenti sociali più toccati
dalle difficoltà economiche (piccoli imprenditori, artigiani, commercianti e disoccupati) e in
parte anche tra gli elettori del Pd (come conseguenza del Jobs act) mentre si consolida il
gradimento tra le persone meno giovani e i pensionati. Ma la vera sfida, come sempre, è
rappresentata dal ceto medio che in questa fase, dopo aver ridotto le spese, modificato gli
stili di consumo e fatto importanti sacrifici, si è adattato alla crisi, ha ridotto le proprie
aspettative e si accontenta della condizione attuale che si è assestata mentre, al contrario,
è convinto che il Paese sia in declino e paventa un ulteriore peggioramento della
situazione. È questo il punto più critico: il futuro dell’Italia, come dimostra l’andamento
dell’indice di fiducia Istat che dal giugno scorso è in forte calo (dopo un semestre di
crescita), ma diminuisce solo nella componente riguardante il clima economico del Paese,
non quello personale che rimane pressoché stabile.
Il malumore viene intercettato soprattutto da Salvini che si rafforza e risulta
complementare rispetto a Renzi, aumentando il consenso proprio tra i segmenti che sono
più delusi dal premier (lavoratori autonomi e disoccupati), tra i pensionati e ceti più
popolari, mentre fatica ad accreditarsi tra quelli più istruiti e nella classe dirigente, a
differenza di quanto avvenne con l’altro leader che più di altri è stato capace di raccogliere
lo scontento e rappresentare efficacemente il dissenso: Grillo. Quest’ultimo appare in
difficoltà, sia per la competizione di Salvini sul terreno della protesta sia a seguito delle
dinamiche interne al movimento che in questa settimana hanno portato all’espulsione di
altri due esponenti. E il tema della democrazia interna al M5S risulta un vero e proprio
tallone d’Achille per il movimento. Quanto agli altri leader considerati, Meloni ha alcuni
tratti in comune con Salvini: viene apprezzata dai lavoratori autonomi e dai pensionati
(molto meno dai disoccupati) ma si distingue dal segretario della Lega per un maggiore
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sostegno tra le donne. Berlusconi, nonostante il deludente risultato alle Regionali,
mantiene il proprio livello di consenso personale, a conferma del forte rapporto che lo lega
allo «zoccolo duro» del suo elettorato. Alfano si conferma sugli stessi livelli del mese
scorso sia pure con qualche cambiamento all’interno dell’elettorato: infatti perde consenso
tra gli elettori del Pd e aumenta il sostegno tra quelli di Forza Italia. Infine Vendola. Pur
essendo stato meno presente sui media nelle ultime settimane, beneficia del calo di
consenso di Renzi e di Grillo nell’elettorato che si colloca più a sinistra. In sintesi possiamo
dire che Renzi sta affrontando un passaggio delicato: le critiche su provvedimenti di largo
impatto da un lato e le difficoltà dell’economia dall’altro stanno erodendo la sua popolarità,
ma si tratta di un’erosione che può rientrare. Se chiuderà da vincente i due percorsi
principali (Jobs act e legge elettorale), se come sembra la legge di Stabilità supererà la
«tagliola» europea e, soprattutto, se si avvereranno le previsioni di Confindustria, dopo
tanto tempo diventata ottimista, e l’economia segnerà una sia pur piccola ripresa fin
dall’inizio del 2015, il ciclo negativo del premier potrebbe cambiare di segno.
del 01/12/14, pag. 10
Scontro tra Renzi e Berlusconi “Silvio non dà
più le carte sì alle riforme con i grillini”
La replica: “Siamo in campagna elettorale. Parlamento illegittimo” Il
premier al Pd: fuori c’è Salvini-Le Pen, non un’altra sinistra
ROMA .
Il Patto del Nazareno sembra lontano. Tra Renzi e Berlusconi è scontro su tutto. Il premier
avverte l’ex Cavaliere che non è più lui a dare le carte. «Berlusconi è una persona che sta
al tavolo, ma non dà le carte. Io faccio di tutto perché finisca la guerra civile in Italia, voglio
che Berlusconi stia al tavolo ma ho idee diverse», dice. E Renzi apre ai 5Stelle: «Se sono
disponibili a scrivere insieme le regole, tutta la vita... «.
Al centro della partita politica ci sono la corsa al Quirinale e le riforme istituzionali. Per il
premier non c’è dubbio alcuno che si debbano fare prima le riforme, certamente entro
gennaio e non sarà l’elezione del capo dello Stato a bloccarle. Ma Silvio Berlusconi non ci
sta, convinto com’è che le elezioni saranno in primavera: «Siamo in campagna elettorale
perché non sappiamo se andiamo a elezioni a marzo, in primavera, con il Consultellum o
dopo con l’Italicum». Proprio per questo Forza Italia si vuole preparare a conquistare i voti
dei moderati e rilancia l’abbattimento delle tasse, «visto che non possiamo fare una
rivoluzione armata». Il leader forzista vorrebbe mettere subito bocca nella scelta del
successore di Napolitano e denuncia la «a-democrazia» che non permetterebbe a questo
Parlamento di votare nuovo presidente della Repubblica e riforme, perché ci sarebbero
«148 deputati dichiarati incostituzionali» in quanto eletti con il premio di maggioranza
criticato dalla Consulta. Ma Renzi ripete che non ci sarà nessun cambiamento nella tabella
di marcia: «La riforma elettorale passerà in commissione e prima di Natale andrà in aula
ma non ce la faremo da approvarla», spiega in tv a “In mezz’ora”. Quindi una frecciata ai
dissidenti del Pd: «Una parte della sinistra preferisce fare le pulci al governo. Non si rende
conto che l’alternativa non è un’altra sinistra, bensì una destra che ha un nome e
cognome, la destra di Le Pen in Francia», e di Salvini in Italia, la destra della rabbia. Grillo
ha cavalcato questa rabbia come ora la cavalca Salvini. «Non temo Salvini come non
temevo Grillo», afferma. E sui sondaggi che lo vedono in calo: «È naturale, quando provi a
cambiare il calo di consenso ci sta».
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( g. c.)
del 01/12/14, pag. 10
Ma l’ex Cavaliere scommette: l’addio di
Napolitano frenerà l’Italicum
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA .
Adesso anche il gruppo del Senato di Forza Italia, che aveva tenuto in piedi il patto del
Nazareno al momento del voto sulla riforma costituzionale, ha recepito il messaggio di
Berlusconi: l’Italicum deve rallentare perché prima ci vuole un accordo sul presidente della
Repubblica. Non è in programma l’ostruzionismo o qualche palese manovra dilatoria.
«Basta il calendario», dice sornione il capogruppo di Fi Paolo Romani. La melina, la serie
di passaggi che fa perdere tempo nel calcio, è nei fatti secondo Romani. Che ha studiato
bene le prossime settimane e le tappe della legge elettorale, ancora ferma in
commissione. Ad aiutare Berlusconi nella strategia che dovrebbe garantirgli un capo dello
Stato non sgradito, l’impegno a evitare le elezioni in primavera e solo dopo a varare la
riforma del sistema di voto, c’è persino il tradizionale concerto di Natale a Palazzo
Madama. «Per organizzarlo l’aula deve chiudere almeno due giorni», ricorda Romani.
E’ dunque una guerra di nervi quella tra Berlusconi e Renzi, per la prima volta dal 18
gennaio, giorno della sigla sull’intesa istituzionale, impegnati in uno scontro. L’impressione
è che il leader di Forza Italia abbia davvero dalla sua parte il calendario. «Mi sembra che
Napolitano abbia tolto tutti dall’imbarazzo — spiega l’ex Cavaliere a chi lo ha sentito ieri da
Arcore —. Dopo l’incontro con Renzi ha addirittura accelerato sulla sua uscita. C’era il
problema se doveva venire prima la legge elettorale o le sue dimissioni. Direi che ha
deciso così: non fatevi illusioni, me ne vado prima io». Il 20 gennaio, secondo le
indiscrezioni, è il giorno in cui potrebbero riunirsi in seduta comune le Camere per iniziare
le votazioni del successore. «Non c’è neanche bisogno di fare ostruzionismo», prevede
allora Romani. Al momento il testo dell’Italicum modificato ancora non è pronto. Non c’è
nemmeno la calendarizzazione in aula e il 19 dicembre, dicono a Palazzo Madama, il
Senato chiuderà per le ferie natalizie. E’ un venerdì. «Giocoforza verrà prima il capo dello
Stato », insiste il capogruppo di Fi. Che non esclude l’approvazione in commissione
dell’Italicum modificato, ma poi i lavori dell’aula non cominceranno prima del 7 gennaio,
ovvero 13 giorni prima dell’ora X.
A Palazzo Chigi sono consapevoli delle difficoltà sui tempi, il calendario lo leggono anche
lì. Anna Finocchiaro, presidente della commissione Affari costituzionali, ha messo in
guardia sia Matteo Renzi sia Maria Elena Boschi. Ma il premier non rinuncia a provare una
corsa contro il tempo. L’obiettivo è non solo approvare il testo in commissione ma riuscire
anche a incardinarlo per l’aula alla ripresa dei lavori a gennaio. Si può fare anche
nell’ultima mezz’ora utile di di- cembre, con l’ultima conferenza dei capigruppo del 2014. A
quel punto ci sarebbero 10 giorni per arrivare al traguardo prima della chiamata dei grandi
elettori.
«Tecnicamente è difficile, ma Forza Italia fa un po’ di confusione sulle date. Le possibilità
ci sono», dice Renzi ai suoi collaboratori. Evitare l’ingorgo è la sua principale
preoccupazione come dimostrano le parole dell’intervista a Repubblica . Si può
certamente fare un accordo complessivo con Berlusconi includendo il nuovo inquilino del
Colle, ma la partita va giocata sul filo. Non è permesso lasciar credere al leader di Arcore
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che è lui a dare le carte, bisogna avere un piano B complessivo guardando ai movimenti
tellurici dei 5stelle e alla compattezza del Pd che da solo, dalla quarta votazione in poi
potrà contare su 440 voti, a 60 di distanza dal quorum necessario per eleggere il capo
dello Stato. In questo senso anche la “campagna acquisti” dentro Sel (con dieci deputati di
Gennaro Migliore passati al Pd) e dentro Scelta civica ha un peso. La mossa decisiva
tocca a Palazzo Chigi, ma sul calendario rischia di avere ragione Berlusconi.
Del 01/12/2014, pag. 7
Il diktat Berlusconi “Voglio tornare in
Parlamento”
Le condizioni del leader di Forza Italia per il Colle In cambio è disposto
a votare qualunque candidato
Ugo Magri
Qualunque nome di futuro presidente della Repubblica a Berlusconi può star bene, purché
sia disposto a restituirgli la piena agibilità politica. Non un normale provvedimento di
grazia: per quello ormai è tardi, il 15 febbraio l’ex Cavaliere avrà finito di scontare la pena.
L’esito positivo dei servizi sociali avrà come effetto di cancellare tutte le pene accessorie.
Tutte tranne una: il divieto di ricandidarsi in Parlamento. Ecco, l’uomo vorrebbe che il
prossimo Capo dello Stato prendesse a cuore la sua vicenda e comunicasse all’Italia:
«Berlusconi è innocente, anzi è un martire dell’ingiustizia». Dopodiché escogitasse
qualche forma di clemenza «atipica» e «ad personam» per consentirgli di ritornare in pista.
Attenzione: non è un semplice desiderio. Si tratta di una richiesta molto precisa rivolta a
Renzi, quale «dominus» delle prossime elezioni presidenziali. Berlusconi si attende che il
premier concordi la scelta, e questa cada su una personalità disposta a rimetterlo in
condizione, come dice lui privatamente, «di partecipare al girone di ritorno». Cioè di
tentare una disperata rivincita quando si tornerà alle urne. Se Matteo farà orecchie da
mercante, verrà meno un pilastro su cui si regge il famoso patto del Nazareno. Questo è
stato detto ad Arcore durante il weekend, e con le persone amiche Berlusconi è stato di
una chiarezza assoluta.
Che Renzi possa assecondare Silvio al punto di scegliergli un candidato su misura,
sembra quasi impossibile. Anzi, senza il «quasi». E d’altra parte, perfino se il futuro
Presidente volesse prestarsi , non si capisce come potrebbe. La questione era stata
approfondita un anno fa, dopo la condanna Mediaset. Letta zio e Quagliariello avevano
cercato una faticosissima mediazione con il Colle, nella speranza di evitare la crisi del
governo Letta (nipote). Salvo prendere atto che per la giurisprudenza costituzionale il
potere di grazia non può estendersi fino al punto di creare un’eccezione alla legge
Severino sull’incandidabilità dei condannati. Perfino l’avvocato Ghedini, che al suo cliente
vuole bene, gli ha consigliato di non battere quella strada, poiché l’art.174 del codice
penale sarebbe di ostacolo invalicabile.
Eppure Berlusconi persiste. Anzi, con il passare dei giorni, la sua insofferenza ingigantisce
vieppiù. Gli sembra incredibile che Renzi non voglia spendersi a trovare per lui una via
d’uscita, al limite cambiando la legge anticorruzione. Di qui i segnali lanciati all’indirizzo di
Palazzo Chigi: prima si sceglie il Capo dello Stato e solo dopo, come contraccambio,
Forza Italia darà una mano sulle riforme. Ieri Toti, il consigliere politico, dalla Latella è
stato chiaro: «Forza Italia ha sempre rispettato i patti, Renzi no». Viene dunque da
chiedersi se davvero nella prossima corsa per il Quirinale si frantumerà il patto tra i due.
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Al momento l’aria è un po’ quella. Qualcuno del giro stretto sostiene che Berlusconi veda
Renzi in calo di consensi, e non giudichi più interessante dargli un sostegno «gratis». O ci
sta, oppure addio. Da alcuni giorni il tono della sua opposizione si è improvvisamente
corroborato. Tanto che il senatore Minzolini, periscopio del sommergibile Fitto, pregusta
già la fine del Nazareno e di Renzi, lanciando su twitter l’hashtag #èinunmarediguai.
Brunetta, che ha molte letture alle spalle, cita invece una parola d’ordine delle rivolte
bracciantili nella bassa padovana e rodigina alla fine dell’Ottocento: «La bòje», pronostica
il capogruppo azzurro, «ormai bolle». Il riscatto berlusconiano è questione di mesi...
Del 01/12/2014, pag. 9
L’allarme delle Province “Tagliati i fondi, a
rischio i centri per l’impiego”
Via libera della Camera alla legge di stabilità
Roberto Giovannini
Niente più posto di lavoro garantito, ha detto il governo; ma i lavoratori licenziati, era la
promessa, potranno contare come avviene in Germania su una rete di servizi per l’impiego
in grado di aiutarli a trovare un’altra opportunità di lavoro. C’è il grande rischio però - lo
denunciano le Province in un documento - che i tagli ai finanziamenti per le Province
vanifichino quasi del tutto l’operazione. Costringendole a chiudere i Centri per l’impiego sin
da gennaio. Già sappiamo che i servizi per l’impiego del nostro Paese - oltre ad essere
molto poco efficienti, con le dovute eccezioni - sono tra i meno finanziati d’Europa. Nel
2013 in Germania si sono spesi in media 1.700 euro per ogni disoccupato: 8 miliardi per
servizi pubblici organizzati da una Agenzia nazionale con 80mila dipendenti. Poco meno
spende la Francia. In Italia sono a disposizione soltanto 450 milioni, ovvero 80 euro per
ogni disoccupato. Sono le Province, in base alle riforme legislative e costituzionali, a
gestire organizzativamente gli uffici su delega delle Regioni.
Su questa base non certo esaltante arriva la nuova mazzata della legge di stabilità, che
ieri è stata licenziata formalmente dalla Camera. Anche se poi il taglio agli stanziamenti
alle Province, inizialmente previsto a un miliardo di euro, è stato un po’ alleggerito, si
annunciano tempi grami per questi enti. Che nonostante la riforma Delrio, che le ha
«sterilizzate», continuano a esercitare per legge una serie di compiti «obbligatori». Ma con
sempre meno risorse. Uno di questi è il funzionamento dei centri per l’impiego, che
secondo previsioni attendibili potrebbero entrare in crisi sin da gennaio, con difficoltà per il
finanziamento del personale e degli uffici. Ovvero proprio dall’avvio della riforma contenuta
nel «Jobs Act», che sulla carta dovrebbe prevedere un deciso rafforzamento di questi
servizi a favore dei disoccupati e di chi perde il lavoro.
«Le Province lanciano l’allarme perché la riforma Delrio non ha confermato le loro
competenze. E con il taglio delle risorse il rischio del default in alcune Province, se si
vogliono continuare ad erogare i servizi, è reale», spiega Romano Benini, ascoltato
consulente per le istituzioni e le imprese sui temi del lavoro e della formazione. E c’è un
altro punto interrogativo su cui sarebbe il caso di fare chiarezza: il «Jobs Act» prevede la
nascita di una Agenzia nazionale. Ma non è ancora chiaro se si tratta di una nuova e
rifondata Italia Lavoro, oppure se ne faranno parte anche i centri per l’impiego. Che
normalmente, nelle esperienze degli altri paesi europei, sono gli organismi che prendono
in carico i disoccupati e li avviano a politiche attive di formazione e reimpiego.
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Poca chiarezza sulle risorse, sul personale, e sull’organizzazione. Se le Province non ce la
facessero, si potrebbe certo assegnare i Centri e il personale alle Regioni. Con il rischio
però di far nascere Agenzie Regionali che mal si concilierebbero con quella Nazionale. E
come conclude Benini, «lo scambio tra tutele che spariscono e nuovi servizi ha senso se
poi i servizi ci sono davvero».
del 01/12/14, pag. 15
Il Pd evita un nuovo flop ai gazebo
Scelti i candidati del centrosinistra per le prossime regionali in Veneto e
Puglia
DOMENICO CASTELLANETA
VINCONO Michele Emiliano e Alessandra Moretti: saranno l’ex sindaco di Bari e
l’europarlamentare Pd a guidare il centrosinistra alle elezioni regionali in Puglia e Veneto
nella prossima primavera. E lo fanno spinti dalle elezioni primarie di ieri che allontano il
fantasma dell’Emilia e portano alle urne oltre centomila persone in Puglia e 40mila nel
Veneto.
Nella regione di Nichi Vendola seggi chiusi alle 22, più di centomila votanti contro i
190mila del 2010 quando il leader di Sel sconfisse per la seconda volta Francesco Boccia.
A un terzo di schede scrutinate Emiliano (che sfiderà il candidato del centrodestra non
ancora individuato) era al 67 per cento delle preferenze superando il senatore Dario
Stefàno (Sel) con il 22,5 e un altro democrat, Guglielmo Minervini con il 10,5. «E adesso
lavoriamo tutti insieme», ha dichiarato Emiliano che riesce così ad allontanare lo spettro
del flop dopo che alla vigilia Nichi Vendola aveva prima minacciato il ritiro dalle primarie,
poi convinto dal sindaco di Bari, il renziano Antonio Decaro.
Sarà invece Alessandra Moretti, eurodeputata del Pd, a cercare di disarcionare il
centrodestra che da vent’anni guida la Regione Veneto prima con Giancarlo Galan, poi dal
2010 con il leghista Luca Zaia. La Moretti ha vinto con oltre il 67 per cento dei voti la sfida.
Lei, che era andata a Strasburgo forte di 230mila voti di preferenza, nella sfida a tre di ieri
ha battuto la compagna di partito Simonetta Rubinato, che ha preso il 28,53% e il
consigliere regionale dell'Idv, Antonio Pipitone, con il 4,36%. Negli oltre 600 seggi (chiusi
alle 20) hanno votato 40mila persone (anche se erano state stampate circa 70mila
schede). «E’ la certezza del merito: il Veneto merita questa vittoria. A vincere non sono io,
ma tutti noi veneti», ha dichiarato la Moretti. E adesso la aspetta la sfida con Luca Zaia.
del 01/12/14, pag. 1/29
La grande fuga dalle Regioni
ILVO DIAMANTI
IL VINCITORE delle elezioni regionali in Calabria e in Emilia-Romagna è il non voto. Così
hanno sostenuto molti osservatori e attori politici. In realtà, chi non vota non vince mai. In
modo più o meno consapevole e volontario, sostiene e legittima le scelte di chi vota.
Sicuramente, però, l’astensione è un segnale di distacco. Un indice di disagio della
democrazia rappresentativa. Ma occorre interpretarlo correttamente.
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L’ASTENSIONE alle elezioni regionali è sempre stata più elevata che alle politiche. Anche
se mai come questa volta. Soprattutto in Emilia-Romagna, dove storicamente si vota per
“appartenenza” politica e sociale. Se molti elettori hanno scelto di non votare, però, è
perché non ne hanno sentito la necessità. Non dico il dovere, che ormai è categoria che
non si addice al voto. Chi non ha votato (quasi due elettori su tre) l’ha fatto per diverse
ragioni. Indifferenza, disinteresse, rifiuto. Molto meno, a mio avviso, contro il PdR. Il Partito
di Renzi. D’altra parte, anche alle Europee gli elettori del Pd hanno votato per Renzi
“nonostante tutto”.
In questo caso, alle Regionali, cioè, la posta in palio era diversa. Il governo della Regione
— “rossa” per definizione. Dell’Emilia-Romagna. E se molti, troppi, non hanno votato è,
anzitutto e soprattutto, per sfiducia, disincanto, verso la classe politica e dirigente non
“nazionale”, ma “regionale”. Verso gli uomini di governo e di partito che, in Emilia-Romgna,
coincidono largamente. Perché sono passati i tempi del “buon governo locale”. La Ditta,
ormai, non garantisce più formazione e selezione della classe dirigente, come una volta.
Anche perché non è più quella di prima. Il Partito, come organizzazione radicata nella
società e nel territorio, non c’è più. Si è centralizzato, burocratizzato, personalizzato.
Mediatizzato. Non solo il Pd post-comunista, ovviamente. È il percorso seguito da “tutti” i
partiti. Ma il Pd post-comunista, nelle regioni rosse, ne ha sofferto di più. Perché
coincideva, largamente, con la società. Insieme alla rete di associazioni e di istituzioni
locali, che lo affiancavano, garantiva il sistema di servizi e di relazioni che
accompagnavano la vita quotidiana della gente. Costituiva la tela sociale del territorio.
Oggi quel mondo non c’è più. Da tempo. Ma, in aggiunta, non c’è più neppure la classe
dirigente che garantiva il funzionamento della società locale. O meglio, non ha la stessa
qualità e “popolarità”. E, soprattutto, si è deteriorato il rapporto dei cittadini con il governo
del territorio. Per primo, verso la Regione. Ciò non riguarda, specificamente, le “Regioni
rosse” (anche se il cambiamento, in rapporto con il passato, appare più acuto). Ma le
Regioni in quanto tali. La fiducia nei loro confronti, in pochi anni, è collassata, più che
declinata. Nel 2000 era espressa dal 44% dei cittadini, nel 2008 dal 39%, nel 2014 dal
28% (dati di sondaggi Demos).
Questo rapido cambiamento di umore ha più di qualche ragione, più di qualche
fondamento. Basti rammentare che, dal 2000, in quasi metà delle Regioni hanno avuto
luogo elezioni anticipate. Solo negli ultimi due anni: sette. Oltre a Emilia-Romagna e
Calabria, anche Piemonte, Lombardia, Lazio, Molise e Basilicata. Segno e conseguenza
degli episodi di corruzione, abuso, irregolarità, inefficienza che hanno interessato le
Regioni, in Italia. In particolare, dopo l’avvio dell’elezione diretta dei governatori, nel 2000,
e dopo l’approvazione del titolo V, sul Federalismo, nel 2001, che hanno aumentato
risorse e poteri delle Regioni.
Per restare agli ultimi mesi, è sufficiente rammentare gli scandali che hanno investito il
Veneto e la Lombardia, per le vicende del Mose e dell’Expo. Ma, soprattutto, sono molti,
troppi i casi di sperpero e di uso improprio — e indecoroso — dei soldi pubblici — dei
cittadini — da parte degli amministratori regionali. A fini personali. Difficile non provare
indignazione e disgusto. Difficile tornare a votare — come nulla fosse — per un’istituzione
rappresentativa che non si ritiene più rappresentativa. Se non degli interessi personali dei
(pochi) eletti. Così, al distacco nei confronti dei partiti e dello Stato, del Parlamento e dei
leader politici, si è sommata, in misura crescente, la sfiducia nei confronti della Regione.
Che è perfino più lontana e indefinita, agli occhi dei cittadini. E per questo più
inaccettabile. L’indifferenza si è cumulata all’indignazione. E, alla fine, solo un terzo degli
elettori, in Emilia-Romagna, si è mostrato disponibile a spendere il tempo necessario a
recarsi alle urne. A votare.
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Difficile, per questo, non pensare alla crisi, se non alla fine, delle attese riposte nel
progetto federalista. L’illusione federalista, potremmo dire. Che ha mobilitato molte
energie, molte iniziative, molti soggetti, molte persone. D’altronde, negli anni Novanta, due
“partigiani” del federalismo, come Giorgio Lago e Francesco Jori, notavano, con un po’
d’ironia, che l’Italia era divenuta «il Paese con il più alto tasso di federalisti per km
quadrato». Io stesso, d’altronde, ci ho creduto. Convinto che il trasferimento di poteri e di
competenze dal centro alla periferia, dallo Stato alle Regioni, avrebbe allargato e
qualificato la nostra democrazia. Così non è avvenuto.
Le Regioni — o, almeno, “queste” Regioni — hanno moltiplicato i centralismi. Non hanno
ridotto il peso dello Stato. L’hanno accentuato ulteriormente. Riproducendone i vizi e le
inefficienze. Così, oggi, diventa difficile discutere dell’astensione alle elezioni regionali
senza ricondurla alla sua origine istituzionale e territoriale: la Regione. D’altronde, il
governatore della Campania, Caldoro, ha proposto di sostituirle con macroaree. E perfino
la Lega di Salvini, dopo trent’anni di identità nordista, sta diventando “Ligue National”. E,
per questo, ha sfondato oltre il Po. La buona partecipazione, ieri, alle primarie del
centrosinistra, in Puglia (ma non si può dire lo stesso per il Veneto), non basta a fugare
l’idea — inquietante — che, in Italia, sia finita un’epoca della politica e delle istituzioni.
Fondata sulla “centralità della periferia” e del Territorio. E ciò proietta un’ombra, che disorienta. Perché, di fronte alla “fine del territorio”, fonte di rappresentanza e riferimento
dell’identità: com’è possibile non sentirsi s-paesati?
del 01/12/14, pag. 13
Caos M5S, espulsioni senza assemblea
I grillini apprendono dalla Boldrini che Pinna e Artini sono già nel Misto
e scoppia la protesta contro il capogruppo Fico chiude a Renzi sulle
riforme: “Vuole sembrare dialogante, ma poi sull’Italicum va avanti
come un treno”
ANNALISA CUZZOCREA
ROMA .
«Renzi va in tv, va a dire cose che non sono, mica quelle che sono». Roberto Fico - uno
degli eletti del nuovo direttorio a 5 Stelle - non crede all’apertura fatta dal premier a In
mezz’ora.
Non crede che il Pd voglia davvero collaborare con il Movimento sulle riforme.
«All’apparenza deve sembrare dialogante, dirci che siamo “bravini” - spiega il presidente
della Vigilanza Rai in un corridoio della Camera - dà i voti come se fosse un professore
della politica. Poi però la legge elettorale arriverà come un treno e verrà approvata. La
verità è che Berlusconi si trova meglio con Renzi che con Fitto».
È convinto del bluff, Fico. Se così non fosse, però, per il Movimento non dovranno più
esistere tavoli in streaming: «Secondo me il luogo deputato a parlare di tutte le leggi è il
Parlamento, sono le commissioni. Gli incontri fuori dall’arco costituzionale non ci devono
interessare». Dell’invito di Renzi, del resto, ieri non si è praticamente accorto nessun 5
stelle in Parlamento. Troppo scioccati da quanto accaduto alla fine della seduta - in
un’insolita domenica lavorativa a Montecitorio - quando la presidente Laura Boldrini
prende la parola e annuncia: «Massimo Artini e Paola Pinna cessano di far parte del
gruppo parlamentare del Movimento 5 Stelle alla Camera e passano al gruppo misto ». I
grillini, in aula, si guardano come se avessero visto un fantasma. Non bisognava ratificare
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in assemblea? Il capogruppo non avrebbe dovuto comunicare la sua decisione a loro,
prima che alla Boldrini? Com’è possibile che il presidente Alessio Villarosa non ne
sapesse nulla? Riunione urgente, si vola in sala Tatarella, e si litiga. Ancora. Qualcuno
chiede ad Andrea Cecconi - che il giorno prima aveva detto a Repubblica che la sua
decisione non sarebbe arrivata certo nel week end - «chi ti ha detto di farlo? Come puoi
scavalcare Villarosa? È un atto gravissimo, dovresti dimetterti da parlamentare». Lui si
prende tutta la responsabilità, non ammette di aver ricevuto pressioni. Interviene il
vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, che spiega: «Se il gruppo avesse votato contro
la decisione del blog, Beppe - ipoteticamente - avrebbe potuto togliere l’uso del simbolo a
tutti noi». «Avvertirci almeno, dirlo a tutti, non agire in modo mafioso», è la protesta dei
dissidenti. Che il direttorio è lì per placare: sempre Fico fa un intervento di conciliazione,
invita a restare concentrati sul progetto, sul sogno dei 5 stelle, senza perdersi in beghe
senza senso. È in nome di questo, che nella riunione congiunta di mercoledì è probabile
non ci sia nessuna nuova espulsione. Cecconi ha contato le richieste: non ce ne sono
abbastanza per nessuno dei 20 finiti nel mirino, la procedura non si aprirà. Un dietrofront
improvviso, il primo tentativo dei 5 eletti dal blog di conquistarsi la fiducia del gruppo
parlamentare. «Non è questo il punto - quasi urla uscendo una dissidente - perché ora con
il precedente di Paola e Massimo l’assemblea non conta nulla. Beppe può cacciarci
quando vuole». Per questo, nessuno sa cosa succederà. Se davvero la frattura - diventata
così profonda - potrà essere sanata. Se qualcuno deciderà di uscire comunque. La lista
nera è ancora sul tavolo di Casaleggio, i sedici che hanno osato chiedere: «Chi è lo
staff?» rifiutandosi di rendicontare sul sito apposito non possono certo sentirsi al sicuro. In
tutto questo, si apre la partita del Quirinale: «Faremo le quirinarie, avremo i nostri nomi racconta uno dei deputati più in linea con i vertici ma se dovesse arrivare una candidatura
che consideriamo super partes, una personalità di garanzia, potremmo votarla. Lo
faremmo decidere alla Rete, com’è successo per la Consulta. Dovrà essere il presidente
migliore, però, non il meno peggio».
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 01/12/14, pag. 22
“Bologna peggio di Reggio Calabria” Ecco la
mappa del rischio-banlieue
Conflitti sociali, studio della Fondazione Moressa Emergenza anche a
Milano, Genova e Roma
VLADIMIRO POLCHI
ROMA .
Bologna è più pericolosa di Reggio Calabria. Milano di Napoli. La mappa del rischio
banlieue disegna un’Italia sottosopra, con le città del Nord più “calde” di quelle del Sud.
A classificare i comuni italiani sull’orlo del conflitto sociale è la fondazione Leone Moressa,
che incrocia tre fattori di rischio: la marginalità socio-economica degli stranieri
(concentrazione in periferia, disoccupazione, diseguaglianze di reddito), i livelli di
criminalità e la spesa pubblica per l’integrazione. Il risultato? Bologna è il comune più a
rischio. Forte la differenza di reddito tra italiani e stranieri (oltre 11mila euro nel 2013).
Abbastanza alti il tasso di delittuosità (66 arrestati ogni mille immigrati residenti) e la
percentuale di detenuti stranieri sul totale (51,5%). In netto calo, invece, la spesa pubblica
per l’immigrazione. Al secondo posto Milano, città con la più alta presenza straniera
(17,4%) e concentrazione di immigrati in periferia (il 95% vive qui). Anche il tasso di
detenuti stranieri è molto alto (61,3%). Pur avendo una spesa per l’immigrazione di 13,5
milioni, il grande bacino di utenti determina un spesa pro-capite tra le più basse (82 euro).
Ma il valore che pesa di più è la differenza di reddito tra italiani e stranieri (11.300 euro).
La terza città a rischio è Genova. Anche qui il differenziale di reddito è molto alto (10mila
euro). Forte pure il tasso di delittuosità (ogni mille immigrati, ne vengono arrestati 102) e il
livello di detenuti stranieri (54,1%). A incidere è soprattutto la spesa per immigrato: con 46
euro rappresenta il valore nazionale più basso. A chiudere la classifica delle quattro città
più a rischio è Roma, sia per le alte diseguaglianze di reddito, che per i reati degli stranieri.
Tre città presentano un livello di rischio vicino tra loro: Venezia, Torino, Firenze. In questi
capoluoghi le differenze di reddito non sono molto alte. A Torino, in particolare, è forte la
concentrazione degli immigrati in periferia (93,9%), ma bassa la percentuale di detenuti
stranieri (41%). Venezia è la città con il più basso tasso di delittuosità degli immigrati (53
ogni mille residenti). Firenze è quella con la più bassa concentrazione in periferia (76,1%).
Le tre città meno a rischio sono al Sud, caratterizzate anche da una bassa incidenza di
stranieri sulla popolazione residente. A Reggio Calabria è alta la spesa per l’integrazione
sul totale della spesa per assistenza sociale (il 9,9%). Napoli ha una bassissima
percentuale di detenuti stranieri (9%). Infine Bari, pur avendo un alto tasso di delittuosità
(140 per mille), presenta la più alta spesa procapite per l’immigrazione (521 euro).
In conclusione, secondo i ricercatori della Moressa, «laddove si riscontra una forte
concentrazione in periferia, forti differenze di reddito rispetto agli italiani, alti tassi di
disoccupazione, alti tassi di criminalità e scarsi investimenti pubblici a favore
dell’integrazione, si crea inevitabilmente terreno fertile per situazioni di disagio e conflitto».
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SOCIETA’
Da il Messaggero del 01/12/14, pag. 15
Aids, in Italia undici infettati al giorno: il
pericolo non è passato
di Carla Massi
ROMA Centoquarantamila persone sieropositive, quattromila nuove infezioni ogni anno,
undici al giorno. Tre dati “raccontano” l'infezione da Hiv in Italia.
Oggi che è la Giornata mondiale contro l'Aids. Numeri alti. Troppo alti, dicono gli
epidemiologi, per un paese Ue. Tanto che l'Italia, con mille morti all'anno, è al primo posto,
nell'Europa occidentale, per numero di persone che si sono infettate.
I FARMACI
E il futuro prossimo venturo non annuncia notizie più confortanti. Perché non si fanno
campagne di informazione tra i giovani, accusano le associazioni di volontari come la Lila
e gli infettivologi. Perché la possibilità di cronicizzare la malattia, quindi di conviverci con il
sostegno dei farmaci, ha fatto ormai credere che l'infezione non è più rischiosa come
qualche anno fa. E, invece, non è vero. Convivere con la malattia non significa cancellare
la malattia né, tantomeno, limitare il contagio.
Un esempio è Roma: il trend delle infezioni da Hiv è in crescita, negli ultimi 4 anni è salito
+120%. Si è passati dai 503 del 2010, come fa sapere il Centro di solidarietà di Don Mario
Picchi, agli oltre 1106 nel 2014.
LA PREVENZIONE
«Per fronteggiare questa malattia - spiega Roberto Mineo, presidente del Ceis di don
Picchi - non basta più il sostegno del mondo medico ma occorre un impegno diretto per
informare. Negli ultimi anni è stata ridotta la politica della prevenzione che ha portato ad
innalzarsi il numero dei rapporti promiscui e non protetti».
Rapporti che riguardano, ormai, eterosessuali ed omosessuali più o meno nello stesso
modo. Da noi l'80% delle nuove diagnosi è dovuto a trasmissione sessuale.
«Più che parlare di categorie a rischio - a parlare è Andrea Antinori infettivologo
all'ospedale Spallanzani di Roma - è bene che chiunque sia sessualmente attivo sia
responsabile, soprattutto chi ha comportamenti improntati alla non protezione».
Chi rischia di più sono i ragazzi fin o a 19 anni. Come conferma una ricerca di Skuola.net.
Dicono di sapere tutto, assicurano di essere molto preparati in materia ma nel momento in
cui vengono fatte domande più precise sulla trasmissione del virus e sulle abitudini da
tenere per proteggersi le risposte rivelano un'ignoranza preoccupante. Uno su sei
ammette di avere rapporti senza precauzioni e uno su quattro è certo che si tratti di
un'infezione guaribile. «
Tendenzialmente sono i giovani con meno di trenta anni ad avere le conoscenze meno
accurate - commenta Alessandra Cerioli, presidente della Lega per la lotta all'Aids - e una
visione delle conseguenze dell'Hiv ancora più negativa di quello che è in realtà». Una
realtà fatta da 95mila persone seguite dal servizio pubblico. Delle quali, 60mila in terapia
con antiretrovirali (una spesa che oscilla dai 7mila ai 12mila euro a persona ogni anno).
I PAESI DELL'EST
In tutto il mondo quasi 13 milioni di persone sono in cura, ma solo un terzo dei 35milioni di
malati che ne avrebbero bisogno. Mei paesi a medio e basso reddito è particolarmente
grave la situazione dei bambini, di cui solo il 25% riceve la terapia. A preoccupare sono
soprattutto i paesi dell'Est, con la Russia in testa, dove i casi sono in forte aumento. Circa
l'80% rispetto al 2004. Nel paese ci sono numeri paragonabili al Sud Africa.
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Una previsione dell'Oms: il 2030 potrebbe essere l'anno delle “infezioni zero”. L'anno, cioè,
in cui finirà l'epidemia.
Del 01/12/2014, pag. 1-28
Le inaspettate schiavitù digitali
di Edoardo Segantini
Tecnologie: l’Italia è al 36° posto nella classifica mondiale. C’è divario tra aree urbane e
campagne e fra giovani «schiavi» di smartphone e quelli che integrano vecchi e nuovi
media. Tra le forme di ineguaglianza sociale c’è anche quella tecnologica. La prima e più
nota forma di digital divide è quella geografica: la distanza, cioè, che separa i Paesi che
hanno accesso a Internet veloce da quelli che non l’hanno. Secondo l’ultimo Ict
Development Index, che classifica i Paesi in base alla dotazione e alla competenza
digitale, l’Italia si piazza solo al trentaseiesimo posto, dietro a Paesi come Emirati Arabi,
Qatar e Barbados. La Danimarca supera la Corea del Sud come Paese più connesso del
mondo. Una lettura attenta dei dati mostra però che, in realtà, il digital divide ha molte
facce. Una è la dicotomia classica Paesi ricchi-Paesi poveri. Certo, Internet cresce ormai
rapidamente in tutto il mondo, con 3 miliardi di persone online . Nel 2013 la diffusione del
web è aumentata dell’8,7% anche nei Paesi in via di sviluppo, in cui vive il 90% delle
persone prive di accesso alla Rete. Tuttavia le differenze Nord-Sud restano profonde.
Grandi sono poi le disparità tra i Paesi più avanzati (ad esempio tra Scandinavia e Italia)
ma anche all’interno dei singoli Paesi: un esempio clamoroso di digital divide è il fossato
che separa le zone urbane e metropolitane dalle aree montane e rurali degli Stati Uniti.
Tanto profondo da alimentare il già diffuso disincanto degli elettori verso l’amministrazione
Obama. Ma non meno drammatiche sono le distanze culturali nel «mondo avanzato».
Questo secondo digital divide è particolarmente accentuato in Italia, dove molto poco,
finora, è stato fatto per contrastare il fenomeno. Sul quale pesa di certo l’inadeguatezza
dell’attrezzatura tecnologica ma che, a sua volta, genera un’insufficiente domanda di nuovi
servizi digitali. Scarsa, ad esempio, è la pressione esercitata dall’opinione pubblica sullo
Stato per ottenere buone forme di egovernment , cioè di burocrazia digitale chiara e
comprensibile. Una parte dei cittadini preferisce la coda allo sportello all’impaccio davanti
al computer. Da un lato c’è il divario generazionale tra i nativi digitali e le persone più
anziane. L’«alfabetizzazione tecnologica», tante volte invocata, non è mai stata neppure
tentata in modo serio e su vasta scala. Il servizio pubblico radiotelevisivo, cui forse
sarebbe spettato il compito di realizzare un’iniziativa del calibro di «Non è mai troppo
tardi», aggiornata all’era digitale, non ha dedicato al tema un impegno adeguato. Nei
Paesi scandinavi, al contrario, la semplificazione amministrativa è passata attraverso
un’educazione all’ egovernment che ha coinvolto simmetricamente gli impiegati pubblici e
gli utenti. C’è infine, più nascosto ma non meno cruciale, un terzo tipo di digital divide , ed
è quello nel mondo giovanile. In questa parte della società esistono le distanze forse più
grandi e, in prospettiva, più importanti. Una delle rappresentazioni più in voga è quella dei
ragazzi «tutti uguali», intontiti, curvi sullo smartphone , presi a scambiarsi informazioni
irrilevanti sui social network . Peccato sia anche una delle più rozze e false.
Anche il mondo giovanile si sta, al contrario, polarizzando: da una parte ci sono,
effettivamente, i giovani «schiavi» delle tecnologie della comunicazione, quelli che se ne
fanno dominare, poco abili a gestire il proprio tempo, privi di «disciplina mediatica».
Dall’altra però emerge un tipo di giovani che della tecnologia fa un uso attento e maturo,
integra vecchi e nuovi media, ama la lettura, usa i mezzi a disposizione per un progetto di
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crescita. Il loro profilo, c’è da scommettere, coincide con quello dei giovani che trovano
lavoro, in Italia o all’estero, oppure riescono a crearlo. Forse non sono la maggioranza ma
l’esperienza quotidiana ci insegna che non sono pochi.
Un buon progetto culturale (e occupazionale) per l’Italia non può prescindere, in partenza,
da una comprensione e da una valorizzazione del ruolo di questi giovani attrezzati: senza
dimenticare i loro coetanei meno bravi.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 01/12/14, pag. 7
Taranto spera ma la fabbrica inquina ancora
L’annunciato intervento statale rassicura gli operai anche se la
relazione dei custodi giudiziari è durissima
GIULIANO FOSCHINI
DAL NOSTRO INVIATO
TARANTO .
Il ritorno del «posto fisso», per dirla con uno dei ragazzi del tubificio. Ma anche la paura
che si freni sull’ambientalizzazione, «perché lo Stato diventerà controllore e controllato». È
frastornata Taranto il giorno dopo l’annuncio improvviso di Matteo Renzi di una nuova
nazionalizzazione dell’Ilva. Da un lato c’è il senso di «sicurezza » che dà l’intervento dello
stato per uno dei ragazzi come Cataldo, appunto, che quando «l’Ilva era pubblica io
nemmeno quasi ero nato. Sono entrato in fabbrica con i Riva — racconta — e mi trovo ora
ogni mese a sperare che lo stipendio arrivi». Non è un modo di dire. Da quasi due anni —
da quando cioè il Governo dopo le inchieste della Procura ha nominato un commissario,
prima Bondi e poi Gnudi, mettendo da parte la gestione dei Riva — la situazione
finanziaria è fortemente in crisi. Al momento Ilva perde una cifra che va dai 30 ai 60 milioni
al mese. Nel giro di tre anni, e cioè da prima a dopo l’inchiesta, si è passati da un utile di
88 milioni a un rosso di un miliardo. Proprio per questa situazione, ogni mese, Gnudi è
costretto a fare i conti con la cassa. Se a dicembre verranno pagate tredicesime e stipendi
è solo grazie alle banche che nei giorni scorsi hanno annunciato lo sblocco della seconda
tranche del prestito ponte. Ma non passeranno un buon Natale le imprese dell’indotto che
da qualche mese hanno di nuovo visto bloccati i pagamenti.
«Davanti a una situazione del genere non può che farci piacere — dice Donato Stefanelli
della Fiom — che il governo abbia cambiato idea decidendo di intervenire. Certo ora è da
capire in che cosa si sostanzierà l’intervento pubblico ma il cambio di impostazione è
fondamentale ». Una linea questa però che non piace affatto agli ambientalisti tarantini
che vedono nella nazionalizzazione una mancanza di garanzie. «Lo Stato diventerebbe
controllore e controllato » dicono da Peacelink. «E andremo incontro — dice Alessandro
Marescotti, leader del movimento ambientalista — a una sicura sanzione dell’Unione
europea che già è intervenuta sul caso Taranto segnalando l’aiuto di Stato». A
preoccupare è poi la situazione delle emissioni.
I custodi nominati dal gip Patrizia Todisco (l’Ilva, o per lo meno gran parte di essa, è
ancora sotto sequestro ma con facoltà d’uso dopo un decreto del governo) hanno
sostenuto che l’attività inquinante della fabbrica non si è affatto fermata. Sulla base di una
serie di blitz effettuati con i Carabinieri del Noe segnalavano anomalie nel funzionamento
di alcune aree e i ritardi di alcuni degli interventi più importanti per contenere le emissioni,
primo tra tutti la copertura dei parchi minerali che ancora deve essere autorizzata. Non
solo: per terminare i progetti di ambientalizzazione previsti dall’Aia, l’Autorizzazione di
impatto ambientale, servono non meno di un miliardo e mezzo. Il commissario Gnudi
pensava di poter utilizzare il miliardo e duecento milioni sequestrati ai Riva per motivi
fiscali che il tribunale di Milano gli aveva messo a disposizione. Al di là del ricorso in
Cassazione presentato dai Riva, esiste un problema di disponibilità: i soldi sono per lo più
incagliati in trust esteri e difficilmente, temono gli investigatori, potranno essere riportati in
Italia.
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del 01/12/14, pag. 25
La rivolta delle donne.
Da tre giorni si sono auto-seppellite e rivendicano il lavoro Una sola
riemerge per allattare il figlio neonato
“Siamo dure, resisteremo, stavolta non
vogliamo solo promesse”
La resistenza dolce delle Marie del Sulcis “Così occupiamo la nostra
miniera”
DAL NOSTRO INVIATO
MARIA NOVELLA DE LUCA
IGLESIAS . Si sono date un nome di battaglia uguale per tutte, “Maria”. Si presentano con
il volto coperto e l’elmetto in testa, come fossero guerrigliere senza armi, e da tre giorni
vivono barricate nel ventre scuro di una delle più antiche miniere di zinco della Sardegna,
alle porte di Iglesias. Nel cuore del disastro post-industriale di quest’area un tempo
produttiva, quarantamila disoccupati e cinquemila cassintegrati su centoventimila abitanti.
«Ecco, entrate, state attenti, in miniera ci vuole cautela». Sedute su blocchi di polistirolo
dentro la “Galleria Villamarina” di Monteponi, infinito cunicolo costruito a metà
dell’Ottocento dove il vero nemico è l’umidità che s’infiltra nelle ossa, le “Marie del Sulcis”
dicono che da qui sotto loro non usciranno. Né oggi, né domani, né chissà.
«Da sei mesi siamo senza stipendio, le nostre famiglie sono alla fame, abbiamo mariti
disoccupati e in mobilità, resteremo in miniera fino a che non avremo certezze sui nostri
posti di lavoro». Sono in trentasette, hanno dai ventotto ai sessant’anni, tutte dipendenti
dell’”Igea”, il grande consorzio di bonifica delle aree minerarie finanziato e voluto dalla
Regione Sardegna. Società in liquidazione che avrebbe dovuto salvare, riqualificare e
rilanciare queste straordinarie aree di archeologia industriale, e invece oggi rischia di
fermarsi per sempre, travolta da debiti, spese opache e cattiva gestione.
Assiepate dietro il grande portone di ferro della “Galleria Villamarina”, le “auto-carcerate”
salutano attraverso la grata figli, mariti, padri e madri.
Mani che si stringono, baci, lacrime. Ma anche vita quotidiana: «Fai i compiti», «Ubbidisci
a papà». Passano pasti caldi e vassoi di dolci, una giovane mamma esce per allattare il
figlio di otto mesi e rientra, a pochi metri dalle sbarre il vescovo di Iglesias, monsignor
Zedda, celebra all’aperto la messa della domenica, il coro canta l’Ave Maria, da dietro il
passamontagna le occupanti della miniera leggono il libro di Isaia.
Dentro si sta sedute a cerchio, vicine, così il freddo sembra meno pungente. Un po’ più in
là dove la Galleria si allarga c’è il “dormitorio”, coperte, sacchi a pelo, teli per fare da
barriera all’umidità che gocciola dappertutto. «Ci siamo chiamate “Maria” per un fatto
simbolico, perché qui stiamo occupando abusivamente e potremmo essere identificate e
denunciate. Anche se — scherza Ornella, che invece dà il suo nome — tutti sanno chi
siamo, visto che indossiamo caschi e giubbotti dell’Igea, ossia il nostro datore di lavoro».
«Noi siamo forti, siamo dure, possiamo resistere a lungo, quello che ci tratteneva dal
seppellirci qua sotto era il pensiero della famiglia. Ma di fronte al baratro, di fronte alle
prese in giro dell’azienda e della Regione, abbiamo deciso di agire. Magari anche per
sfatare il pregiudizio che le donne dentro le miniere portano sfortuna ».
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C’è angoscia, ansia, fatica. Il Sulcis è oggi la regione più povera della Sardegna, alla
disoccupazione si somma il disastro ambientale dei residui minerari e degli scarti
dell’ormai ex polo industriale di Portovesme.
Le polveri micidiali dei famosi fanghi rossi.
«Attenta, c’è un topo dietro di te». Lo scherzo riesce subito e in quattro saltano su come
molle dalla panca improvvisata, suscitando risate collettive. Ilaria: «Ogni tanto cerchiamo
di scherzare, ci facciamo coraggio, qui dentro ormai c’è una situazione particolare,
discutiamo, votiamo, poi cambiamo idea, rivotiamo... Poi la sera però giochiamo a carte, ci
confidiamo, alcune di noi sono nonne, altre da poco madri, è la vita, ma oggi tirare avanti è
durissimo». Si chiama complicità. Tra le donne nasce anche nelle situazioni più estreme.
Elena: «Noi siamo il welfare italiano, per anni abbiamo supplito alle carenze dello Stato,
adesso veniamo anche private della sopravvivenza. Per questo vorrei che una delle
ministre che tanto parlano di maternità e famiglia, la Madia per esempio, che ha appena
avuto un figlio, o la Guidi, venissero qui, scendessero in miniera per vedere cos’è la vita
vera ». Arriva un altro vassoio di dolci. «Aiuto, basta, guardi che solidarietà, qui finisce che
ingrassiamo, questi sono i nostri amaretti, sono speciali...».
Domani, martedì, i sindacati incontreranno a Cagliari l’assessore regionale al Lavoro. Ma
le “Marie” non si fidano. «Questa volta non può finire come sempre, ci danno
un’elemosina, uno o due stipendi, e poi non succede più nulla, anzi continuano a
smantellare posti di lavoro. Noi vogliamo certezze. Diteci voi come si fa a vivere, se in una
famiglia non c’è più nemmeno uno stipendio. Fa freddo, piove, è umido, ci sono i topi, ma
noi restiamo qui. La miniera la conosciamo, non ci fa paura, le donne ci sono sempre
state, facevano le cernitrici, un compito durissimo, dovevano dividere e lavare le pietre,
nell’acqua gelida, a mani nude... Questo per dire che sappiamo resistere. Il lavoro è tutto».
Del 01/12/2014, pag. 13
Tanti misteri intorno all’affare del millennio
Di Alessio Nannini
Immaginate di trovare all’improvviso, davanti alle vostre case, dei pozzi di trivellazione e
operai intenti a realizzare dei lavori di carotaggio dove poche ore prima c’era appena un
semplice appezzamento adibito a coltivazione. Il tutto senza avviso alcuno, senza
richiesta, senza soprattutto autorizzazione da parte delle autorità competenti. Come
sarebbe possibile, chiederete voi. Ecco, tutto questo è avvenuto tre settimane fa nei
terreni subito fuori dell’aeroporto di Fiumicino, nella parte nord verso Maccarese e per
giunta nella Riserva naturale del Litorale Romano. Ed è soltanto l’ultimo dei “misteri” che
circondano un progetto imponente, tra i più grandi mai realizzati in Italia, e che pertanto
può muovere tanto, tantissimo denaro. Stiamo parlando del raddoppio dell’aeroporto
Leonardo da Vinci e di un totale stimato in circa 20 miliardi di euro: quasi quattro volte i
costi del famigerato Ponte di Messina. Facciamo però un passo indietro di qualche anno
per capire cosa sta accadendo alle porte della Capitale.
SIAMO NEL 2009, mese di ottobre. Aeroporti di Roma presenta a governo ed Enac un
piano di sviluppo ambizioso che prevede l'ampliamento del traffico aereo a Fiumicino.
Obiettivo: 55 milioni di passeggeri nel 2020 e 100 nel 2040, da ottenersi, spiega Fabrizio
Palenzona, presidente di AdR, in virtù di “un grande patto tra investitori e istituzioni”.
Tradotto: vuol dire un aiuto dello Stato ai privati, che passerà attraverso un allargamento
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della struttura e una revisione verso l’alto delle tariffe aeroportuali. Da “passerà” a Passera
Corrado: è lui che nell’ultimo giorno del Governo Monti, come ministro dello Sviluppo
economico e Infrastrutture, fa arrivare nelle tasche di chi gestisce il Leonardo da Vinci un
aumento delle tasse da 16 euro a passeggero a 26,50 e dà l’avallo per il raddoppio dello
scalo romano, più infrastrutture esterne quali autostrade, ferrovie, parcheggi. I cittadini
delle aree interessate, cioè Fiumicino e Maccarese, insorgono, il Comitato Fuoripista
continua una battaglia nata ai primi segnali dell’opera. Questo perché l’ampliamento non
sembra innanzitutto necessario, dicono dati alla mano, avendo già l’aeroporto la
grandezza del londinese Heathrow. Per incrementare il traffico basterebbe ottimizzare le
operazioni in entrata e in uscita, e non creare nuove piste, le quali andrebbero a ledere le
attività economiche locali e il patrimonio ambientale e archeologico. A maggior ragione,
non convincono il giro di interessi e i nomi non proprio casuali che si muovono nella
faccenda. Mille dei 1.300 ettari interessati sono di proprietà dei Benetton, che li gestiscono
attraverso l’azienda agricola Maccarese Spa. I quali Benetton sono sia in Gemina, che
possiede il 95 per cento di AdR, sia in Cai come quarti azionisti, cioè Alitalia.
Nell’acquistare quelle terra nel 1998 (per 93 miliardi di lire) si erano impegnati in accordo a
mantenerne la destinazione agricola, a meno di un esproprio, che è ciò che potrebbe
accadere. Riassumendo, i Benetton andrebbero a rivendere allo Stato con notevole
vantaggio (si parla di 200 milioni di euro) un terreno preso dall'Iri, società statale, per
avere finanziamenti per qualcosa amministrato anche da loro. Praticamente, la famiglia
famosa nel mondo per il suo abbigliamento fa pagare Pantalone.
TORNIAMO PERÒ al fatto di cronaca: com’è stato possibile che di queste trivellazioni
nessuno abbia saputo nulla se non a cose fatte? L’autorizzazione per queste operazioni è
necessaria in base alla legge costitutiva della Riserva, e in particolare agli articoli 7 e 8,
che vietano lavori di questo tipo se non previo permesso, e questo non è stato concesso
né dalla commissione della Riserva né dal Comune di riferimento, Fiumicino. Il sindaco
Esterino Montino, che si professa contrario al raddoppio dello scalo, nel consiglio
comunale straordinario ha riferito di avere parlato con Lorenzo Lo Presti, amministratore
delegato di AdR, chiedendo se le operazioni fossero illecite. Che è come domandare
all’acquafrescaio se l’acqua è fresca. Ed ecco qua: “Da AdR ci hanno assicurato che i
lavori non erano per la quarta pista, ed erano finalizzati solo alla verifica della sismicità del
territorio”, spiega Montino. E l’autorizzazione? “Ci hanno detto che per queste indagini non
servirebbe, anche perché non c’è stata modificazione del territorio. Si sarebbe trattato di
un foro di una decina di centimetri”. Morale: nella riserva di Fiumicino si può comunque
costruire un pozzo e trivellare, ma per tirare su un pollaio bisogna attendere anni e mille
timbri. I cittadini del Comitato Fuoripista, primi a intervenire sul posto e a denunciare
l’episodio, non credono che si sia trattato di analisi sulla sismicità e dicono di avere prove
fotografiche della quantità e della profondità delle trivellazioni, materiale che sarà allegato
all’esposto alla Procura della Repubblica. I carotaggi, affermano, servono per fare analisi
geognostiche e verificare l’altezza della falda, la costituzione del terreno, la quantità d’ac qua presente. Ossia rilievi funzionali a un progetto miliardario e fondamentali, perché lì al
Leonardo da Vinci, durante l’inaugurazione per le Olimpiadi di Roma del 1960, la pista
principale era sprofondata a causa del terreno inadatto. Che fosse tale, e che la
costruzione sopra un’area paludosa bonificata sia stata una forzatura, lo sancì la
commissione parlamentare d’inchiesta nel 1963. Ora sulla stessa si vuole raddoppiare
l’aeroporto, dove non distante è già fallito il progetto di interporto per, indovinate un po’, un
terreno argilloso che ha mandato giù i capannoni di cemento. Ma è noto, la storia si ripete
e la seconda volta come farsa.
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INFORMAZIONE
del 01/12/14, pag. 14
NUOVA OFFERTA PER “L’UNITÀ”
Il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi (foto sopra) ha annunciato che la Fondazione Eyu e
la Veneziani Quotidiani srl hanno presentato una nuova offerta per rilevare la testata de
l’Unità.
Si tratta di “una proposta migliorativa rispetto alla precedente”, com’era stato richiesto dai
liquidatori. Bonifazi sottolinea che l’operazione è garantita da una importante banca e che
c’è l’impegno a “valorizzare prioritariamente i dipendenti che già c’erano”. Per il cdr del
quotidiano fondato da Gramsci è una svolta positiva: “Siamo soddisfatti della nuova
offerta”
Da Repubblica – Affari e Finanza del 01/12/14, pag. 1/8
Tv locali, l’ultimo far west troppe antenne e
frequenze mentre spot e share crollano
NON SI SA NEMMENO QUANTE SIANO ESATTAMENTE, GLI ELENCHI
DI MINISTERO E AGCOM NON COLLIMANO. PER DUE VOLTE LO
STATO HA DATO LORO CONCESSIONI PER RECUPERARLE SUBITO
DOPO CON INDENNIZZI. E DEVONO LASCIARE ALTRO SPAZIO ALLA
TELEFONIA MOBILE
Le tv locali sono lo specchio di un certo modo di governare l’Italia. Sono un caos, un
ginepraio inestricabile in cui non c’è alcuna certezza. Quante sono? Forse 480. O almeno
questo è l’ultimo numero noto nel 2012. In calo dalle quasi 600 del 2005, ma attenzione ai
numeri: nel 2012 si era quasi al termine della transizione al digitale, che moltiplicando i
canali per ogni frequenza, ha fatto portato il numero dei canali locali sopra la bella cifra di
3 mila. Troppi canali e troppe frequenze occupate. Tanto più che per fine anno le locali
della fascia adriatica dovranno spegnere le frequenze che disturbano quelle di Croazia e
Albania. Una decina di tv pugliesi sono a rischio (ma lo Sblocca Italia propone ora una
proroga fino ad aprile). Entro i prossimi due-tre anni, poi, lo stesso avverrà sul Tirreno per
le interferenze con la Corsica e poi in Sicilia dove molte delle 130 emittenti locali
trasmettono abusivamente su frequenze assegnate ai paesi della sponda sud del
Mediterraneo. E poi entro il 2022 si dovranno liberare altre frequenze per assegnarle alla
telefonia mobile. Meno spazio nell’etere ma anche nel mercato: i ricavi pubblicitari sono in
calo, lo share pure, i finanziamenti pubblici anche: dagli 85 milioni del 2012 si è passati ai
60 dell’anno scorso e ai 55 di quest’anno. Ripartiti poi in modo confuso e inefficace, con
ampi margini per contestazioni, continui ricorsi ai Tar e anche qualche truffa, tanto i
controlli sono minimi. Ce n’è abbastanza perché si cominci a cercare di fare ordine. It
Media Consulting ha appena presentato uno studio dedicato alla situazione nel Lazio ma
che ha ripreso e rielaborato dati nazionali. Già, rielaborato: perché il caos nasce a livello
centrale. Non esiste un elenco delle tv locali ma bisogna dedurli dal Roc, il Registro degli
Operatori della Comunicazione, tenuto dal ministero dello Sviluppo, e da quelli dell’AgCom che sono il catasto delle frequenze, l’elenco per l’Lcn (la graduatoria per
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l’assegnazione delle posizioni sui telecomandi, peraltro paralizzata da tre anni), la
graduatoria derivante dalle singole graduatorie regionali per l’assegnazione dei contributi
pubblici all’editoria (graduatoria assegnata ai Corecom, i Comitati regionali per le
comunicazioni) e altri elenchi ancora, specifici per l’assegnazione di altri fondi. Il fatto che
molte società siano piccolissime, spesso imprese familiari con meno di dieci dipendenti, fa
il resto. A volte uno stesso editore ha “gemmato” più srl ognuna delle quali è una singola
emittente tv. E la legge non aiuta. «Nell’ultimo bando del Mise per l’assegnazione dei fondi
pubblici non si chiarisce tra impresa e emittente – spiega Michele Petrucci, presidente del
Corecom Lazio e vicepresidente del Coordinamento di tutti i Corecom – Per cui noi,
dovendo stilare la graduatoria in base alla quale il ministero assegna i fondi, non sappiamo
se certi requisiti, i dipendenti, il numero di giornalisti, i requisiti di fatturato, vadano ascritti
all’emittente o all’editore. Nel primo caso un editore può ricevere tanti contributi quante
sono le sue emittenti. Serve chiarezza e soprattutto servono criteri di assegnazione più
selettivi, a vantaggio della qualità e delle società che investono di più sui contenuti». E’ per
questo che il Corecom Lazio ha commissionato a It Media uno studio per scattare una
fotografia più netta del settore a partire dalla quale iniziare a pensare una risistemazione.
Perché oggi il rischio è che in questo caos a chiudere siano le tv maggiori, quelle più
strutturate, che producono più contenuti locali veri e si salvino invece le micro tv a
gestione familiare. Perché pur nel caos il settore ha espresso realtà e marchi ormai
consolidati. Sono nomi come Telelombardia, Antenna 3 o Telenova a Milano e regione,
Canale Italia di Lucio Garbo in Veneto, ma con forte presenza in altre regioni, così come il
consorzio 7Gold che fa capo a Giorgio Tacchino. In Puglia c’è Telenorba dei Montrone, in
Sicilia le emittenti che fanno capo a Mario Ciancio. Nel Lazio due emittenti, T9 e Tr56 sono
del gruppo Caltagirone. Sono però tutte in crisi, tutte hanno in atto cassa integrazione e
mobilità. Qualcuno, come la storica tv romana SuperTre della famiglia Rebecchini ha già
spento le antenne. «Tutte assieme hanno gli stessi dipendenti di Mediaset, fanno un
decimo del suo fatturato e un centesimo dei suoi ascolti», è l’azzeccata sintesi che gira. «I
ricavi sono il fattore critico – spiega Augusto Preta, direttore di It Media – La pubblicità che
a livello nazionale tra il 2008 e il 2012 è scesa dll’11,7% nelle locali è crollata del 37,5%, e
nel Lazio ancora peggio, quasi il 50%. Nello stesso tempo i costi sono saliti del 13% a
livello nazionale e del 75% nel Lazio, dove ci sono 49 editori, e ben 164 canali. Gli ascolti,
sui canali rilevati dall’Auditel, scendono: sono passati, sul totale nazionale, dallo 0,16% del
2007 allo 0,03% del 2012. A livello locale e soprattutto sulle news, finora il vero punto di
forza di queste tv, si sente fortissima la concorrenza di Internet. Ma da parte degli editori
non abbiamo registrato strategie importanti per sviluppare la loro presenza sul Web».
Eppure ci sono marchi forti. I tg di emittenti locali come Telenorba in Puglia o Rttr o Tca in
Trentino fanno manbassa di ascolti sui rispettivi share regionali. Ma la gran massa fatica.
Si ipotizza che ci siano emittenti che fanno fino al 90% dei loro ricavi con il contributo
pubblico. Che non è proprio distribuito a pioggia ma quasi: l’80% va al primo 37% delle
emittenti regionali in base alla graduatoria, il 20% a tutti. Poiché i primi requisiti sono i
fatturati e il numero di dipendenti, operazioni giuridicamente lecite ma opache nella
sostanza sono molte: dai fatturati gonfiati tra emittenti dello stesso editore che si
comprano e vendono contenuti tra di loro, a una pletora di dipendenti amministrativi
rispetto ai tecnici e ai giornalisti. Quando non invece, come vogliono le leggende di
settore, dipendenti assunti dalle emittenti ma che svolgono i loro compiti per le altre attività
del piccolo editore locale. In questo caso sarebbe una vera e propria truffa, ma con i
controlli fatti solo sulla carta è quasi impossibile da scoprire. Come è impossibile scoprire
chi occupa davvero uno spezzone locale di frequenza. Le locali dovrebbero avere un terzo
del totale delle frequenze italiane. E poiché ci sono 25 frequenze nazionali, quelle locali
dovrebbero essere non più di 13. Ma l’occupazione delle frequenze assegnate ad altri
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Stati ha fatto sì, per esempio, che nel Lazio le tv locali, come rileva ItMedia, utilizzino una
ventina di frequenze. La storia del caos seguito alla digitalizzazione è più recente del
vecchio Far West tv italiano, ma ha lo stesso dna. Nasce infatti nel 2010, quando il
governo Berlusconi e il suo ministro delle Comunicazioni, Paolo Romani, permette alle tv
locali di occupare le frequenze degli Stati esteri. Bisognava arrivare in fretta per dare
certezze al mercato degli spot sulle tv nazionali che temeva una lunga transizione e le
incertezze sui valori degli ascolti tra le regioni digitalizzate e quelle ancora no. E per
tagliare corto sulle proteste delle locali che minacciavano blocchi e ricorsi, si scelse
l’occupazione abusiva. Salvo poi “espropriarle” quando si trattò di liberare spettro per
l’asta della telefonia mobile per l’Lte pagando però 174 milioni di indennizzi. E lo stesso
sta di nuovo accadendo. L’anno scorso sono state infatti riconfermate concessioni
ventennali agli attuali titolari di frequenze locali. E ora si dovrà pagare per riaverle. Il
governo aveva messo nello Sblocca Italia 20 milioni, che, per le proteste delle
associazioni, in testa la Aeranti-Corallo, che rappresenta 330 emittenti, sono già quasi
certamente saliti a 50. Infine un altro nodo mai affrontato. Le tv hanno messo le frequenze
a patrimonio: sfilargliele costringerebbe la maggior parte di loro a portare i libri in tribunale.
E per di più il contributo statale è legato alla frequenza e non alla attività editoriale. Ragion
per cui nessuno le molla. E questa è anche una barriera formidabile all’ingresso di nuovi
editori. Ora la pasticciata nuova norma di AgCom che sposta di canoni di concessione per
le tv sugli operatori di rete potrebbe essere un incentivo per gli editori a separarsene,
anche se per le locali la norma ha creato lo stesso sconquasso denunciato a livello
nazionale: lo sconto concesso a Mediaset e Rai ha decuplicato il prelievo sugli altri
operatori di rete. «Vedo una sola via d’uscita – spiega Antonio Sassano, docente di
Ingegneria a Roma ma soprattutto uno dei nostri massimi esperti in tema di frequenze –
Non solo assegnare alle locali le frequenze non attribuite nella recente gara dell’ex beauty
contest, come già pensa il governo, ma andare oltre e assegnarle a gara ad operatori di
rete regionali per ospitare fornitori di contenuti locali da selezionare anche in questo caso,
con una gara di evidenza pubblica. L’unico modo per valorizzare l’informazione locale di
qualità e spingere gli editori a produrre programmi in grado di conquistare pubblico e non
solo di occupare spazio». E chiunque abbia fatto zapping sul telecomando oltre i primi 60
canali sa di cosa parla. Sopra, uno studio tv. Oggi i fondi pubblici sono distribuiti secondo
criteri poco efficaci e non aiutano il settore a selezionare gli operatori che investono di più
nella produzione di contenuti locali di qualità e questo impedisce anche l’ingresso di nuovi
operatori.
di Stefano Carli
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ECONOMIA E LAVORO
del 01/12/14, pag. 29
QUEL FILM SUL LAVORO E LA DIGNITÀ DA
RITROVARE
STEFANO RODOTÀ
SI SCRIVE e si parla molto della dignità, ma questa parola scompare immediatamente
proprio quando i fatti quotidiani imporrebbero di tener conto del principio che essa evoca.
Troppi politici si rifugiano in un realismo ipocrita per sostenere che si tratta di un principio
che impone oneri troppo gravosi; i giuristi scoprono che siamo di fronte ad un riferimento
troppo generico perché si possa invocarlo come base di interventi concreti. E allora serve
un altro occhio, capace di guardare a fondo nella società e nelle sue dinamiche, per
mostrarci quanto possano essere grandi i guasti prodotti dall’abbandono di quel principio
fondativo di libertà e diritti. Lo hanno fatto Jean-Pierre e Luc Dardenne con un film — Due
giorni, una notte — sulla condizione umana nel tempo del lavoro difficile o negato. La
storia è nota, ci racconta della perdita e della riconquista della dignità ed appartiene alle
“scelte tragiche” di cui ha parlato un giurista come Guido Calabresi e che si stanno
moltiplicando nella vita d’ogni giorno. Un’operaia viene chiusa in un meccanismo infernale.
I lavoratori della sua fabbrica vengono messi di fronte ad un dilemma: riceveranno un
premio di mille euro solo se voteranno a favore del suo licenziamento. Per guadagnare i
voti necessari a salvare il posto di lavoro, la protagonista comincia una laica via crucis, le
cui stazioni sono le case dei compagni di lavoro. Lì, nella durezza e meschinità di
esistenze insidiate dalla povertà, incontra rifiuti imbarazzati o violenti e consensi faticosi e
generosi. È un calvario, al quale cerca di sottrarsi dicendo di non voler comportarsi come
una “mendicante”.
Cogliamo qui la perdita della dignità, l’obbligo di comportarsi perdendo il rispetto di se
stessi. Tutto è ridotto al calcolo economico, al non potersi permettere la perdita di mille
euro o, all’opposto, alla consapevolezza del sacrificio fatto col proprio voto favorevole
all’operaia. Solo una volta, nelle parole del più debole tra gli interlocutori, un operaio con
contratto a tempo determinato che sa di rischiare il licenziamento, compare una
consapevolezza diversa. Quel giovane nero dice di sapere che Dio gli chiede di guardare
all’altro e ai suoi bisogni. Un principio, e non una convenienza, ispirano la sua scelta.
Il voto finale sarà negativo, ma il dirigente della fabbrica convoca l’operaia e le dice che
potrà tornare a lavorare, quando vi sarà il posto lasciato libero da una persona alla quale
non sarà rinnovato il contratto. La protagonista capisce e rifiuta. Esce dalla fabbrica,
telefona al marito dicendo «ci siamo battuti bene, adesso ricomincio» e, dopo due giorni di
disperazione, sul suo volto torna il sorriso — il segno della ritrovata dignità. È una storia
semplice, che descrive un mondo nel quale la retribuzione non risponde più alla garanzia
di una “esistenza libera e dignitosa”, secondo le belle parole dell’articolo 36 della nostra
Costituzione, nelle quali si coglie l’eco della “vita degna dell’uomo” di cui parlava la
Costituzione di Weimar e l’anticipazione del riferimento all’esistenza dignitosa che
ritroviamo nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Il nesso tra retribuzione,
libertà e dignità è spezzato, la garanzia offerta dal lavoro declina verso il grado zero
dell’esistenza. E questa deriva travolge un altro principio — quello di solidarietà.
Passo dopo passo, infatti, il film dei Dardenne descrive la distruzione dei legami sociali,
l’impossibile produzione di solidarietà. Praticare la solidarietà diventa un lusso che non
tutti possono permettersi. E questa vicenda non può essere descritta come “guerra tra
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poveri”, perché vi è molto di più: la fine della coesione sociale, di una condizione
essenziale perché la contrapposizione molecolare tra le persone non divenga l’unica via
praticabile, con effetti che mettono a rischio la stessa democrazia. Non è proprio questo il
rischio che stiamo correndo?
Ma la coesione sociale non è un prodotto spontaneo, esige la costruzione di un ambiente
propizio da parte delle istituzioni. E questa deve muovere da quello che Lorenza
Carlassare ha chiamato “il valore dignitario del lavoro”. Ma questo valore appare ignorato
quando, per esempio, si attribuisce al datore di lavoro il potere di controllare l’apparato
tecnologico a disposizione del dipendente, cancellando le garanzie per i controlli a
distanza previste dallo Statuto dei lavoratori. Il lavoratore diviene così disponibile per il
datore del lavoro, perché è segno di inadeguatezza culturale l’ignorare che la tecnologia
trasforma le modalità stesse in cui si stabiliscono i rapporti tra persona e “macchina”, tanto
che la Corte costituzionale tedesca ha riconosciuto un “diritto fondamentale alla
riservatezza e alla integrità dei sistemi informativi tecnologici”. Siamo di fronte ad una
indebita espansione del potere imprenditoriale che confligge con il riconoscimento della
libertà e dignità d’ogni persona. Siamo di fronte a mutamenti strutturali, che vanno nella
direzione opposta al riconoscimento della dignità che l’articolo 1 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Ue definisce “inviolabile”, aggiungendo che va “rispettata e tutelata”. Non
si può invocare un’Europa rinnovata rifiutando solo le politiche di austerità, se poi si
trascura la dimensione dei principi e dei diritti che costituisce lo strumento più forte per
determinare un mutamento di passo e un recupero della legittimazione dell’Unione che
può venire solo dal riconoscimento dei suoi cittadini.
La protagonista del film dei Dardenne vive in Belgio, ma Bruxelles, capitale dell’Unione,
incarna oggi un’assenza che sta distruggendo i fondamenti stessi della cultura di
un’Europa che ha bisogno di tornare ad essere terra di diritti, luogo di dignità e di legami
solidali.
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