Periodico mensile della CGIL regionale Confederazione Generale Italiana del Lavoro Registrazione n. 611 del 29.01.1988 Tribunale di Cagliari www.cgilsarda.it [email protected] NOTIZIE Nuova serie Anno Ottavo Numero 6 Dicembre 2014 Enti locali, poco coraggio nella legge Bene l’impostazione della Finanziaria, ma sul lavoro la programmazione non è sufficiente di Michele Carrus Con la sua prima Finanziaria, la Giunta avvia in concreto la propria strategia di sviluppo regionale, ed è in questa logica che guardiamo a provvedimenti dentro ai quali vorremmo trovassero uno spazio centrale, prima di tutto, misure chiare per creare nuova occupazione e politiche settoriali per rilanciare l’industria e i settori produttivi. Il giudizio sull’impianto della manovra è positivo, in particolare perché si basa su un ciclo unico di programmazione che mette a correre insieme risorse europee, regionali e nazionali, perché si propone il rilancio degli investimenti pubblici nel territorio, in opere e infrastrutture, e perché non incrementa il carico fiscale per i cittadini né per le imprese. Sono certo aspetti importanti, ma dovrebbero essere declinati meglio in funzione dell’effettivo incremento dell’occupazione, obiettivo che ci pare assunto debolmente e non con la centralità che sarebbe necessaria. Bisognerà vedere meglio i capitoli di spesa e i disegni di legge collegati per un giudizio più compiuto, che rafforzi la condivisione espressa nell’impianto complessivo. Crediamo però indispensabile definire un sistema di condizionalità e premialità che modulino tutti gli interventi al fine di creare posti di lavoro o restituirlo a chi l’ha perso. Ad esempio gli investimenti pubblici, perché l’assegnazione di appalti e affidamenti andrebbe vincolata almeno in parte al reimpiego dei disoccupati, ad iniziare da quelli licenziati dalle stesse imprese aggiudicatarie; oppure gli sgravi d’imposta alle imprese, premiando di più quelle che li reinvestono nell’azienda e che assumono personale rispetto a quelle che si limitano ad intascarli, senza confidare solamente nei benefici spontanei del mercato. E non soltanto perché è eticamente giusto finalizzare ad utilità sociale - tale è l’occupazione - lo storno di quote di risorse collettive - la riduzione Irap - che oltrettutto finanziano il welfare, ma anche empiricamente perché gli ultimi due anni di riduzione dell’imposta del 70% non hanno creato un solo posto di lavoro in più in Sardegna, che anzi ha registrato il record dei licenziamenti dall’inizio della crisi. Rifletta sulla necessità di questi indirizzi correttivi, che servono anche a sostenere le imprese più responsabili e competitive, chi reclama invece, insaziabilmente, una riduzione dell’Irap maggiore di quella proposta del 25%, su un’imposta già calcolata con l’aliquota più bassa d’Italia, che inoltre si somma agli sgravi decisi dal Governo nazionale; così pure giudichiamo un positivo sostegno allo sviluppo e all’occupazione lo sgravio totale dell’Irap per cinque anni per chi investe in nuove iniziative. Sono invece affidate ad assunti generici le politiche attive per il lavoro, che andrebbero rafforzate con un piano d’interventi chiari e A L L ’ I N T E R N O pag. pag. pag. 2 4 6 Edilizia, un settore al collasso Politiche giovanili, dubbi su garanzia Giovani Disabilità, criteri da riscrivere esplicitamente finanziati, soprattutto se con esse si intendono sostituire le misure difensive che il Governo Renzi ha pesantemente tagliato a danno di migliaia di disoccupati sardi, ai quali adesso è urgente come non mai restituire una prospettiva di sopravvivenza, e di lavoro: ecco, su questo piano la programmazione non è affatto convincente e per questo noi siamo pronti a mobilitarci. Vigiliamo poi che non ci siano tagli nei servizi ai cittadini: l’idea di contenere il disavanzo sanitario e riqualificare la spesa sociale non può tradursi in nessun caso nella riduzione delle prestazioni, in particolare per le fasce più deboli. Noi siamo favorevoli alle riforme, secondo logiche di integrazione e complementarità, ma dentro i confini di una spesa qualificata, che estenda i benefici anziché ridurli e, nel farlo, alimenti buona occupazione e sviluppo economico. A nostro avviso, la Finanziaria riflette anche l’insufficiente attenzione che il Piano strategico regionale dedica alle politiche (continua a pagina 8) CONFEDERALITÀ Edilizia, ecco dove emendare per rilanciare un settore strategico Le proposte di modifica nel testo inviato dalla Cgil alla Commissione consiliare Intervenire in materia di edilizia con un disegno di legge, creando condizioni utili al rilancio dell’attività e all’apertura di nuovi cantieri, è una scelta giusta, capace di produrre opportunità di lavoro. Secondo la Cgil il settore delle costruzioni è strategico, per l’occupazione che è in grado di generare e per l’importanza del riassetto del territorio e della realizzazione di infrastrutture come fattori fondamentali per la difesa e lo sviluppo dei servizi e dei settori produttivi. Il rilancio deve basarsi innanzitutto sulla riqualificazione architettonica ed energetica del patrimonio esistente, limitando al massimo l’ulteriore consumo di suolo. Perciò occorre una specifica progettualità sostenuta da consistenti interventi pubblici, anche con misure di accompagnamento e sostegno alla riqualificazione del patrimonio edilizio privato: non vorremmo si puntasse solo alla premialità volumetrica. Sarebbe invece opportuno favorire interventi per le fasce più deboli della popolazione, che spesso hanno bisogno di migliorare e rinnovare i propri standard abitativi piuttosto che di ampliarli e in ogni caso hanno pochi mezzi per farlo. In questo senso, in particolare con riguardo ai centri storici, diventa essenziale la ricognizione del fabbisogno residenziale e dei pubblici servizi ed esercizi, e la redazione di appositi piani d’intervento urbanistico all’interno della programmazione degli enti locali, intorno ai quali si possa stimolare l’iniziativa privata. Particolare cautela va riservata agli interventi edilizi negli ambiti costieri e nei borghi marini, occorre limitare ogni aumento indiscriminato di volumetrie residenziali e della capacità ricettiva di strutture non classificate, che potrebbe porsi al di sopra della capacità dei litorali di assorbire un carico antropico crescente e degli stessi servizi pubblici di realizzare le proprie finalità con costi sostenibili per le comunità locali su cui gravano. Va scongiurato lo stravolgimento del Ppr. Soprattutto, la concessione di incrementi volumetrici in cambio della riqualificazione degli edifici esistenti deve essere 2 in linea con la potestà programmatoria degli enti locali e rispettarne gli indirizzi e le compatibilità. Non si vorrebbe, insomma, che la programmazione urbanistica degli enti locali, anche in termini di servizi generali e di sottoservizi, possa diventare subordinata ai diritti edificatori riconosciuti per legge ai privati. Incrementi di volumetrie. Una legge che, incrementando le volumetrie del patrimonio edilizio esistente, si propone di limitare il consumo di suolo e dare risposte a bisogni abitativi fortemente presenti nella società, deve rendere evidenti e cogenti una serie di condizionalità che non limitino i benefici ai soli proprietari degli immobili, ma li estendano all’intera collettività. Le previsioni di una migliore qualità architettonica, paesaggistica e urbana e della diminuzione di emissioni di gas serra, grazie ad una migliore qualità energetica degli edifici, dovrebbero diventare più evidenti nel testo, anche con motivazioni legate alla specificità culturale, economica e produttiva della nostra regione. Strutture turistico-ricettive. Stesso limite si individua negli interventi di incremento volumetrico di queste strutture (articolo 3), che dovrebbero invece essere vincolati più esplicitamente alla qualità energetica e architettonica degli edifici, con indicazioni sull’utilizzo di materiali locali, in particolare pietra e coppi, e di tipologie costruttive ispirate alla tradizione. Edilizia economico popolare. Per quanto riguarda le condizioni di ammissibilità degli interventi, pare di capire che in questo caso (articolo 5) siano sempre ammessi, salvo i casi espressamente indicati nel testo. Pur non essendo attualmente esclusi, crediamo invece che debbano essere citati come espressamente consigliati, e quindi sempre effettuabili, interventi di riqualificazione energetica ed architettonica. Lo sforzo di Area per finanziare questi interventi potrebbe essere sostenuto anche dall’utilizzo di fondi del Fesr e del Fse, nonché, in caso di costituzione di partenariati pubblico-privati, anche dal fondo Jessica. Si segnala anche la necessità che il testo faccia esplicitante riferimento al rilancio dell’edilizia abitativa pubblica, che non può essere lasciata ai pur positivi interventi di housing sociale: questi ultimi sono infatti destinati a chi è comunque in grado di sostenere il costo di un affitto, mentre la carenza di offerta di abitazioni a canone sociale è diventata una delle maggiori cause di sofferenza per le famiglie che vivono in condizioni di povertà e per i tanti giovani disoccupati o occupati con lavori precari e irregolari. Perciò andrebbe previsto in merito un impegno finanziario diretto della Regione e valutato, come per gli interventi di riqualificazione, il ricorso a fondi europei o nazionali. Le procedure. Per quanto riguarda la semplificazione delle procedure (articolo 6), non si può che esprimere condivisione circa la Dicembre 2014 necessità di abbattere i tempi delle autorizzazioni, si segnala però la necessità di non eccedere al fine di limitare la possibilità di abusi e violazioni di difficile rilevazione. Ciò che serve, non è solo un accorciamento dei tempi, ma anche un rafforzamento delle capacità operative dei Comuni, soprattutto attraverso processi di unione. Rischio idrogeologico. Si condivide la scelta (articolo 8) per il trasferimento di volumi da aree di particolare valore paesaggistico, aree dichiarate ad elevata o molto elevata pericolosità idraulica o idrogeologica, aree in prossimità di emergenze ambientali, architettoniche, archeologiche o storico artistiche, al fine di conseguirne la riqualificazione del contesto e la messa in sicurezza del territorio. Come dimostrato dai tragici eventi degli ultimi anni, in questo caso la permanenza di edifici in tali zone espone le comunità al rischio di gravi danni e persino al sacrificio di vite umane, e questo dovrebbe portare al riconoscimento di premialità anche consistenti, sempre però condizionate alla realizzazione di edilizia di qualità sia dal punto di vista energetico che architettonico. Anche in questo caso sarebbe opportuno che la legge richiamasse esplicitamente a tipologie costruttive tipiche e all’utilizzo di materiali da costruzione che, richiamandosi alla tradizione costruttiva locale, di fatto sostengano l’utilizzo di materiali prodotti in Sardegna, spesso all’avanguardia per qualità e rendimento, ma meno competitivi per prezzo, a causa degli storici limiti strutturali della nostra economia. Si fa riferimento, in particolare, ai coppi per tetti, ai laterizi, alla carpenteria in ferro, ai pannelli isolanti che, dal sughero alla lana di pecora, ricevono riconoscimenti anche in campo internazionale, ma sono poco usati nella nostra regione, agli sfridi di cava che possono essere adeguatamente valorizzati per diverse finalità costruttive. Stesse identiche considerazioni per il rinnovo del patrimonio edilizio con interventi di demolizione e ricostruzione (articolo 9). CATEGORIE Costruzioni al collasso, in 5 anni ventottomila lavoratori licenziati I sindacati di categoria siglano una piattaforma unitaria per uscire dalla crisi Il settore delle costruzioni attraversa una fase difficilissima che sta determinando l’espulsione di migliaia di lavoratori dal posto di lavoro. Negli ultimi cinque anni ben ventottomila lavoratori sono stati licenziati, il numero delle imprese registrate nel sistema degli enti ha subìto un drastico dimezzamento (fonte Casse edili). La crisi ha poi travolto gli altri comparti che ruotano intorno al sistema delle costruzioni: le produzioni di laterizi, quasi scomparse dal panorama produttivo regionale, quelle del cemento e dei suoi manufatti, dei lapidei e del legno. Tutti i settori hanno evidenziato un brusco ridimensionamento del valore aggiunto: nell’edilizia (sempre negli ultimi cinque anni), è crollato del 37,6 per cento, nel settore estrattivo del 28,8 per cento, in quello del legno del 30. La fase di difficoltà certamente trova la sua origine nella più generale crisi che ha colpito l’intero Paese, i cui effetti si manifestano nella nostra regione con dinamiche ed effetti notevolmente accentuati. La mancata soluzione di problemi strutturali ha finito per appesantire il costo della crisi, determinando una condizione di debolezza e declino del sistema produttivo regionale. Si tratta infatti di una condizione che si intreccia con alcuni fattori di svantaggio, ad esempio la situazione infrastrutturale, decisamente insufficiente visto che l’Istat attribuisce alla Sardegna una debolezza intrinseca dovuta a un indice di dotazione infrastrutturale prossimo a 48 su cento. A ciò si somma la percezione dell’abbandono del territorio che pare sottratto alle normali attività di manutenzione, con il rischio idrogeologico sempre più evidente, danni ambientali e sociali sempre più pesanti, come dimostra l’alluvione di novembre 2013. Per queste ragioni, come sindacato dell’edilizia, giudichiamo non più rinviabile la definizione di alcune partite necessarie al rilancio del settore e a favorire la ripresa dell’occupazione. L’obiettivo iniziale non può che essere quello di sbloccare tutte le risorse sinora stanziate per opere pubbliche immediatamente cantierabili. Per farlo occorre individuare: le opere progettate e finanziate, quelle già appaltabili, quelle da programmare; le risorse disponibili, regionali, nazionali e comunitarie. Questo monitoraggio consentirà, non solo di rispondere alle attese dei territori sugli interventi infrastrutturali, ma anche di attivare processi virtuosi per creare occupazione immediata dando priorità al reinserimento dei lavoratori in cassa integrazione. In quest’ambito occorre pensare alla definizione di un protocollo per disci- 3 plinare gli interventi in modo che si possano governare con la necessaria trasparenza gli appalti e, nel contempo, favorire dinamiche che portino al rispetto delle regole, sia legislative che contrattuali. Occorre stabilire un programma di interventi finalizzati a mantenere in efficienza il territorio per prevenire i disastri che abbiamo registrato negli ultimi anni. È inoltre urgente definire un tavolo di confronto in materia di disciplina urbanistica e paesaggistica con l’obiettivo di procedere alla costruzione di norme che garantiscano un uso armonico del territorio: vivibilità, attività produttive e tutela del paesaggio sono fattori fondamentali per ridisegnare un processo di sviluppo. Oc- Nuova serie - Anno VIII - Dicembre 2014 Registrazione n. 611 del 29.01.1988 Tribunale di Cagliari Direttore Editoriale Michele Carrus Direttore Responsabile Daniela Pistis Impaginazione 51M1 design Tel 070 663589 Stampa Jobs snc Tel 070 2298049 Amministrazione CGIL Sarda Viale Monastir 35 - 09122 Cagliari tel. 070 2795353 fax 070 272680 www.cgilsarda.it [email protected] Dicembre 2014 corre definire un piano di valorizzazione e tutela del patrimonio storico archeologico ripensando in modo propositivo interventi per il recupero dei centri storici, di quelli antichi, delle testimonianze della cultura materiale. Oltre a questo, è necessario costruire un progetto per il rilancio delle attività industriali connesse con l’edilizia, in particolare quelle relative al laterizio, all’attività lapidea, ai manufatti, al legno e al sughero. Ulteriore priorità è dare continuità agli interventi di riqualificazione degli edifici scolastici e maggiore impulso agli interventi di riqualificazione energetica degli immobili adibiti a funzioni pubbliche, avviare un piano di riqualificazione del patrimonio abitativo pubblico e di sostegno all’edilizia sociale, anche per rispondere al grave disagio economico delle famiglie, dei giovani e dei pensionati. Per raggiungere questi obiettivi è indispensabile predisporre un grande piano di aggiornamento professionale dei lavoratori attualmente in ammortizzatori sociali, per creare nuove professionalità delle quali un settore in continua evoluzione come quello delle costruzioni avrà bisogno nell’immediato futuro. Non dobbiamo correre il rischio che l’apertura di nuovi cantieri non trovi nel mercato del lavoro isolano le professionalità necessarie a rispondere ai bisogni delle imprese. Fillea Cgil, Filca Cisl, Feneal Uil CONFEDERALITÀ Quale garanzia per i giovani sardi? «Nessuna, l’alternativa è emigrare» Disattesi tempi e filosofia dell’opportunità offerta da Bruxelles di Andrea Coinu* Il collasso del sistema lavorativo regionale ha radici in una crisi endemica che, senza soluzione di continuità, caratterizza il nostro sistema produttivo da troppo tempo. Non è certo una novità il fatto che la scarsa offerta di lavoro generi un meccanismo migratorio che spinge i giovani a cercare una prospettiva altrove. Da sempre, infatti, appare più semplice provare a costruire il proprio futuro al di là del mare, tanto che è assai raro, dal secondo dopoguerra a oggi, trovare famiglie non coinvolte in questa diaspora. Da metà anni degli Novanta però - dall’applicazione del Pacchetto Treu per intenderci - le caratteristiche che sostengono questo flusso sono nettamente cambiate. Le motivazioni soprattutto: prima si partiva per fare fortuna, guardando a casa propria come un luogo in cui si sarebbe potuti comunque tornare, oggi invece, si fugge perché non c’è speranza di veder ripartire il sistema economico regionale. E ancora: se un tempo era raro che emigrassero profili di eccellenza, oggi - oltre ai fenomeni di emigrazione classica - registriamo una fuga di giovani altamente scolarizzati e specializzati. Secondo l’Istat, dal 1990 centodiecimila sardi hanno lasciato l’Isola, un laureato su cinque scegliere di emigrare. Le ragioni di questo fenomeno sono legate all’assenza di soluzioni strutturali a un problema che non si può risolvere con interventi estemporanei o piani di sviluppo scollegati da una dimensione europea a cui apparentemente, visto il trattamento che riserviamo ai fondi comunitari, proprio non vogliamo rapportarci. Si continua purtroppo a cercare di uscire dalla crisi pensando di rilanciare le stesse politiche lavorative e produttive che l’hanno spinta nel baratro. E soprattutto, si reitera una visione e un utilizzo degli strumenti a disposizione, ampiamente superati dal sistema europeo. Succede così, che anche l’ultima opportunità offerta da Bruxelles, venga notevolmente depotenziata. Perché quei 55 milioni di euro offerti dalla Garanzia Giovani come possibilità di dare una risposta almeno a una parte delle migliaia di Neet e disoccupati della nostra Isola, invece che come fondi da sfruttare per rivedere totalmente il meccanismo di inserimento lavorativo sono stati interpretati come un sostegno quasi assistenzialistico a un sistema in crisi. I tempi stretti annunciati con troppo ottimismo si sono rivelati molto più lunghi: non erano state messe in conto le necessità organizzative di un apparato burocratico che, come prevedibile, difficilmente sarebbe stato in grado di somministrare riposte concrete al quarto mese d’iscrizione, così com’è invece previsto. Sono tantissimi i casi in cui i giovani lamentano tempistiche lontanissime da quelle teoriche, negli innumerevoli gruppi creati nei social network dilagano le critiche al funzionamento della Garanzia 4 Giovani in Sardegna. Nei post e commenti in rete è chiaramente leggibile la totale assenza di speranza, l’alternativa rimasta a molti è partire, lasciando una terra in cui ci si sente abbandonati, in cui nessuno fa nulla per trattenere i suoi giovani. Già in tempi non sospetti, come Cgil abbiamo sottolineato che occorreva prestare molta più attenzione alle modalità di promozione e attuazione di questo strumento, che poi di per sé può essere apprezzabile ma rischia di vedere i suoi effetti vanificati. Perché promettere, illudere e tradire le aspettative dei giovani, è un fatto gravissimo, che genera ancora più incertezza e delusione, ed è ciò che si sta verificando. Per capire basta consultare la pagina facebook di Garanzia Giovani: è evidente l’assenza di qualsiasi tipo di comunicazione efficiente, le risposte appaiono tardive e imprecise. E poi, al di là di questo, c’è il merito, ovvero come gli eventuali percorsi verranno avviati. Pullulano i corsi di formazione più disparati e, in nessun caso, è chiaro quali siano i criteri con cui questi siano attivati, quale discussione ci sia stata alla base delle scelte, quale idea di Sardegna stia dietro questi percorsi, quale innovazione e soprattutto quale futuro si immagini per i ragazzi che li svolgeranno. E poi occorrerebbe interrogarsi su quali opportunità si creano quando i corsi di recupero per chi abbandona gli studi sono legati a esosissimi progetti (normati dalla vecchia Giunta) di cui ancora non si conoscono i risultati. Purtroppo però, conosciamo i risultati della vecchia gestione dei tirocini (Tfo), che negli scorsi anni ha alimentato non poche polemiche su quotidiani regionali e nazionali. Eppure, nonostante una particolare attenzione da parte della Re- Dicembre 2014 gione, corriamo ancora il rischio di investire soldi pubblici per garantire profitti ai privati senza creare posti di lavoro. Il meccanismo di accredito delle aziende mostra più di una falla, altrimenti non leggeremmo sul portale Sardegna Tirocini proposte di assunzione di tirocinanti così lontane dallo spirito dello strumento. Alla Regione chiediamo di vigilare meglio, per scongiurare il tentativo di grandi aziende di tutti i settori, di sfruttare forza lavoro pagata con soldi comunitari. Tutto ciò non fa altro che generare altra sfiducia e incertezza fra i giovani, e creare un solco enorme tra le modalità di attuazione di Garanzia Giovani qui e nel resto d’Europa. Perché dobbiamo sempre distinguerci nel fare peggio degli altri? Se non verrà invertita questa tendenza, sarà l’ennesima conferma che alla Sardegna una dimensione europea proprio non interessa. *responsabile politiche giovanili Cgil regionale UNIVERSITÀ UniCa 2.0, al via le assemblee per disegnare «La casa che vorrei» Non piace agli studenti il Regolamento Alloggi approvato dall’Ersu due anni fa In vista della discussione del nuovo Regolamento Alloggi che verrà affrontata dal consiglio di amministrazione dell’Ersu di Cagliari tra gennaio e febbraio, UniCa 2.0 ha lanciato la campagna “La casa che vorrei”. Un’iniziativa che si articola in diverse tappe, una per ogni Casa dello studente presente in città. Il 16 dicembre si è svolta la prima assemblea in via Businco, il 18 in via Biasi, poi l’anno prossimo: il 13 gennaio in via Montesanto e il 15 in via Sassari. Infine, il 19 gennaio tireremo le somme di tutta la campagna, con un’assemblea pubblica in via Trentino. Lo scopo dell’iniziativa è creare un momento di riflessione, all’interno di ciascuno studentato, che porti all’analisi della situazione focalizzando l’attenzione sulle regole imposte dall’Ersu. In queste assemblee, nate esclusivamente per raccogliere ed elaborare le proposte degli studenti, si vuole manifestare la volontà dell’associazione di voler contribuire, con la partecipazione attiva di tutti i quasi novecento studenti che vivono nelle Case dello studente, al miglioramento del Regolamento Alloggi. A nostro parere infatti, quello introdotto nel 2012 - tra numerose polemiche - per sanare una situazione di deregolamentazione ormai perpetuata da anni, mina alcuni diritti degli studenti, in particolare la garanzia di una permanenza serena all’interno delle strutture. Quel Regolamento per noi contribuisce a peggiorare la già disastrosa situazione che vede ridotti per qualità e quantità il numero dei posti letto e delle strutture messe a disposizione dalla Regione. Per fare un esempio, noi chiediamo che in caso di sgombero per ragioni di manutenzione ordinaria o straordinaria (come è avvenuto poco tempo fa, quando sono stati gli studenti a essere penalizzati), la Regione garantisca una sistemazione alternativa. Altro obiettivo è evitare che il regolamento contenga indicazioni pratiche - come il divieto di utilizzare un asciugacapelli in camera - che rappresentano un mero fattore di disturbo. Sono ben altre le questioni importanti che garantiscono accoglienza e sicurezza. Inoltre, pensiamo che sia opportuno garantire il diritto di ospitare per un breve periodo 5 un parente o un amico qualora la struttura abbia spazi sufficienti (camere non assegnate). Si tratta insomma di piccoli accorgimenti che possono però innalzare decisamente la qualità e la serenità della vita. Con la campagna “La casa che vorrei” - incentrata su uno spirito di condivisione, collaborazione e partecipazione di tutti gli studenti – vogliamo sentirci coinvolti nei processi decisionali all’interno dell’Ersu. Perché non pensiamo che questo ente debba essere inteso necessariamente come un soggetto nemico o estraneo, bensì come un interlocutore a cui noi ci rapportiamo, con le nostre proposte, affinché garantisca i nostri diritti e non li calpesti. Perciò siamo convinti che per ottenere i risultati occorra valorizzare e potenziare gli strumenti di una rappresentanza studentesca forte e riconosciuta proprio in virtù del dibattito e della partecipazione collettiva che alimenta. Solo se siamo uniti e compatti e diamo la nostra voce a chi ci deve rappresentare e tutelare, si possono raggiungere gli obiettivi che ci prefissiamo. Grazie all’entusiasmo della prima riunione, che ha visto partecipare una trentina di ragazzi, si sta piano piano creando una vera e propria rete di studenti che vogliono sollevare la questione studentesca con un raggio d’azione maggiore. La Regione per noi ha il compito prioritario di prendere in mano la legge 338 del 2000, che regola- Dicembre 2014 menta la condivisione tra Stato e Regione della spesa per la costruzione di nuovi studentati. Inoltre, è altrettanto fondamentale che siano individuati e riqualificati gli immobili abbandonati per convertirli in studentati. È infatti evidente che il numero esiguo di novecento posti letto garantiti agli studenti di un ateneo come quello cagliaritano, con quindicimila fuori sede, mostri tutta la disattenzione e l’inadeguatezza della politica. Ecco, con la nostra campagna ci proponiamo anche di sollevare il problema e chiedere risposte adeguate. UniCa 2.0 CONFEDERALITÀ Politiche sociali e disabilità: leggi e criteri da riscrivere Domande di sostegno in aumento, il 40 per cento chiede piani personalizzati di Marinora Di Biase* In un periodo di crisi economica e di tagli al sistema pubblico è determinante rilanciare la programmazione sociale, per definire una rete di servizi, strutture e prestazioni, che siano in grado di garantire la qualità dell’offerta, i livelli essenziali di assistenza e, contemporaneamente, la creazione di lavoro professionale e stabile. Dalla Giunta Regionale ci aspettiamo una seria rivisitazione delle politiche sociali: solo con una seria programmazione si può infatti coniugare l’esigenza di una spesa oculata, che superi sprechi e diseconomie, e al contempo, garantisca una crescita del sistema di welfare, omogeneo nel territorio regionale, efficace e appropriato nelle risposte ai bisogni, capace di creare buon lavoro e nuova ricchezza. In particolare, vorremmo che fosse affrontato con un approccio diverso il tema della disabilità, non come condizione permanente, ma come situazione di uno svantaggio da superare rispetto al contesto. Si tratta di dispiegare azioni che siano in grado di aggredire i fattori (culturali, scolastici, motori, lavorativi, sportivi, sanitari, abitativi) alla base dello svantaggio, modificando il contesto negativo in cui la persona è inserita. Un’azione a tutto campo, di tipo globale, mirata all’integrazione dei sistemi. Tale intervento necessita di una programmazione globale, che oggi non viene praticata, nonostante la legislazione nazionale e regionale sulla disabilità, sia orientata in tal senso. In sintesi possiamo dire che la legge regionale numero 23 del 2005, sicuramente un’ottima legge, attende di essere applicata pienamente. È una battaglia che dobbiamo fare a livello regionale, ma anche nei territori, negli enti locali, nelle Asl. Interazione, integrazione, approccio globale, servizi compiuti, centralità del territorio e soprattutto centralità della persona, che diviene parte attiva nel superamento dello svantaggio: queste sono le parole chiave per affrontare il tema. Altrimenti la risposta al bisogno si tra- 6 durrà, come spesso accade, in un atto riparatore, in risarcimento incerto nei tempi e nella modalità, in monetizzazione del disagio, che rasenta il pietismo, l’assistenza fine a se stessa, generando nelle persone interessate dipendenza invece che autonomia. L’handicap grave in Sardegna viene affrontato con i piani personalizzati, sulla base della legge nazionale 162 del ‘98 e di quella regionale numero 2 del 2007 sulla non autosufficienza. Gli invalidi in Sardegna sono 120 mila, gran parte sono molto anziani. C’è da chiedersi: come vengono costruite le schede di valutazione per definire le persone con handicap grave, piuttosto che quelle non autosufficienti? Perché la legge sulla non autosufficienza non viene adeguatamente finanziata? Chi decide di indirizzare un cittadino verso una risposta, piuttosto che verso un’altra, e sulla base di quali elementi? Conta la diversa entità finanziaria dell’aiuto previsto dalle diverse misure? Pesa il fatto che si prevede un cofinanziamento di enti locali e famiglie con una misura, la non autosufficienza, e non invece con un’altra? Siamo convinti che una modalità di valutazione che nasca dalla concertazione tra i diversi attori del territorio, eviterebbe errori e ingiustizie. Perciò chiediamo all’assessorato alla Sanità di modificare la situazione attuale. Le richieste di intervento sono in continuo aumento e mentre nel resto d’Italia appena l’8 per cento dei disabili ricorre alla legge 162, in Sardegna la percentuale sale al 40 per cento (38 mila i piani personalizzati finanziati nel 2013 a fronte di 123 nel 2000). La responsabilità va trovata certamente nella mancata integrazione tra servizi sociali e sanitari. Ecco perché è urgente una programmazione, per costruire un welfare locale di tipo comunitario, dove tutti i soggetti che operano nella sanità, nei servizi sociali, nei servizi al lavoro, nel sistema scolastico, nei trasporti, possano incontrarsi e interagire, mettendo in campo un sistema integrato di servizi alla persona, certo, esigibile, efficace e di qualità. Dicembre 2014 Servirebbero più strutture, più servizi, e di qualità, innovativi, un sistema pubblico e privato in cui la Regione deve svolgere il ruolo di programmazione, controllo e supporto. Il primo strumento utile è sicuramente la formazione professionale, rivolta al personale per una seria qualificazione e definizione delle professioni necessarie. Poi è indispensabile l’istituzione degli albi delle professioni tipiche del lavoro socio-sanitario, anche per garantire l’applicazione dei contratti collettivi di lavoro. Insistiamo dunque sulle riforme: il Piano sociale regionale, l’istituzione della Consulta regionale per le politiche sociali, la definizione chiara degli ambiti di intervento della legge sulla non autosufficienza e di quella per l’handicap grave, con la dovuta distinzione tra le due tematiche e le relative poste di bilancio. Quanto detto, a nostro avviso avrebbe ricadute positive anche sulla spesa sanitaria, perché buone politiche sociali liberano anche il sistema sanitario da interventi e carichi impropri, molto più costosi. Altre questioni rilevanti da affrontare sono le politiche del lavoro e l’inserimento dei disabili. La legge regionale numero 20 del 2002 ha previsto l’istituzione del Fondo per l’occupazione dei disabili diviso tra le Province. Nella precedente legislatura era stato quantificato in un milione ottocentomila euro, trasferiti regolarmente, per tirocini formativi, assunzioni a tempo determinato e progetti speciali. Purtroppo la programmazione del Comitato per il Fondo, in questo caso abbastanza puntuale nelle misure e negli incentivi alle aziende, non si è tradotta in una crescita dell’occupazione, per responsabilità precisa delle Province, che hanno lasciato la maggior parte delle risorse inutilizzate. Ora crediamo sia il caso di riprendere il filo di questi interventi, perché non è accettabile che per l’inerzia delle amministrazioni vadano sprecati soldi pubblici e vanificate importantissime occasioni di lavoro per le persone svantaggiate. *segretaria regionale [email protected] Interventi 1904-1914, un decennio da ricordare I minatori, le leghe, il movimento operaio dell’Iglesiente di Giannarita Mele* Il movimento operaio e sindacale nacque all’inizio del Novecento in una Sardegna legata all’Italia giolittiana da un rapporto di tipo “coloniale”. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento sorsero in Sardegna le prime forme associative e di lotta di un movimento operaio e sindacale che si sarebbe dotato di una propria autonomia e di una propria soggettività di classe. Le prime organizzazioni sindacali di tipo moderno, volte a coniugare mutualismo e resistenza e che fecero da battistrada a tutte le altre, sono state il frutto dell’impegno e del paziente lavoro di Giuseppe Cavallera. Socialista convinto, trasferitosi in Sardegna nel 1895 per sfuggire alle persecuzioni politiche in Piemonte, Cavallera nel 1897 prima promosse ed organizzò la Società dei macchinisti e dei fuochisti delle Ferrovie Sarde a Cagliari; subito dopo creò la Lega dei battellieri e dei giornalieri di Carloforte, protagonisti nel 1899 di un grande e vittorioso sciopero contro la società Miniere di Malfidano per il riconoscimento dell’organizzazione, la contrattazione collettiva e la ripartizione solidale del lavoro per il trasporto del minerale da Buggerru ai porti d’imbarco. È però solo a partire dal 1903 che la regione mineraria dell’Iglesiente diventò il centro di sviluppo di un moderno movimento operaio e sindacale, precisamente quando venne costituta la Lega minatori di Buggerru, che ebbe come suo primo segretario Alcibiade Battelli. Già dirigente socialista a Genova, trasferitosi nel 1903 a Buggerru con la famiglia, Battelli viene considerato, insieme a Cavallera, il padre del sindacalismo sardo: con la loro collaborazione esplose la “fioritura delle Leghe” di Masua e di Nebida, di Gonnesa, di Guspini e Arbus, che nel 1904 organizzavano quasi 10 mila minatori. La visibilità nazionale dei minatori dell’Iglesiente arrivò nel settembre 1904 quando il feroce eccidio di Buggerru fece scattare il primo sciopero generale nazionale, da cui nacque la Confederazione generale del Lavoro. Con l’eco dell’eccidio di Buggerru c’è stato l’incontro e lo scontro fra il movimento operaio e sindacale e la politica, per cui lo stesso partito socialista in Italia ed in Sardegna prese coscienza che la questione operaia era essenzialmente una questione nazionale, una necessità della democrazia, 7 mentre al contrario il governo giolittiano, fallendo nel suo tentativo di inserire il movimento operaio nel sistema politico e sociale esistente, lasciò al suo destino sia il meridione d’Italia sia la classe operaia. L’ondata di scioperi spontanei che nell’autunno 1904 investì i 12 mila minatori metalliferi pose il problema del rapporto fra la direzione delle leghe e le iniziative improvvise e spontanee degli operai, ma nello stesso tempo legittimò il ruolo di mediazione delle leghe nei confronti delle società minerarie e dello Stato. E così nelle singole aziende minerarie furono stipulati numerosi accordi che riguardavano salari e orario di lavoro, mentre il 7 agosto 1905 un corteo di 1.500 minatori percorse per la prima volta le vie di Iglesias, per protestare contro le tasse comunali e per chiedere scuole, strade, servizi medici e acqua potabile. Sui “gloriosi” moti di Cagliari del maggio 1906 s’innestarono le sollevazioni dei minatori dell’Iglesiente contro il caroviveri a partire da Gonnesa, che scatenarono il 23 maggio lo sciopero in tutte le miniere da Bacu Abis a San Giovanni, da Nebida a Monte Scorra. A ciò seguì una generale controffensiva padronale per smantellare tutte le organizzazioni operaie, anche tramite la repressione e con processi ai quasi 1.000 imputati dei “moti di Maggio” che durarono per tutto il 1908. Combinandosi con i licenziamenti causati dalla crisi che nel 1907 aveva colpito l’industria estrattiva in tutti i paesi, la repressione sfaldò il movimento dei minatori dell’iglesiente che, grazie all’appoggio della Camera del Lavoro di Cagliari (nata nel 1907), poté riorganizzarsi soltanto a partire dal 1910-11. Ci si può chiedere perché in una regione isolatissima, apparentemente immobile e giudicata fra le zone più arretrate e periferiche d’Italia, si sia manifestato un tale movimento operaio di tipo moderno. Nel primo decennio del Novecento si assiste nell’isola ad uno sviluppo senza precedenti dell’industria mineraria, sia per la favorevole congiuntura internazionale, sia a causa di rilevanti innovazioni tecnologiche, che avevano esteso i giacimenti di piombo e di zinco, un’integrazione dei processi produttivi ed un grado elevato di concentrazione delle imprese e della manodopera, con un forte impatto sul territorio, sulle relazioni sociali, sui modelli culturali e sugli stili di vita. Pur importato dall’esterno e non endogeno, que- Dicembre 2014 sto capitalismo rappresentò una modernizzazione, con tutti i suoi squilibri territoriali e di settore, di sfruttamento d’interi strati sociali e popolazioni. Il movimento operaio dell’Iglesiente, pur essendo qualcosa di “specifico”, un’isola separata in un’isola, aveva strette parentele con quanto accadeva tra la fine del XIX secolo e il 1914 nei principali paesi europei, sia quelli di prima industrializzazione come la Gran Bretagna e la Francia, sia quelli di tarda industrializzazione come l’Italia e la Russia zarista, dove assistiamo ad una forte tornata di scioperi e di proteste operaie e popolari polarizzata negli anni 1904-1906 e poi negli anni 1912-1914, con piattaforme che investivano tutti i principali aspetti della condizione lavorativa, ma che ponevano anche il problema dell’organizzazione autonoma degli stessi operai. Anche in Sardegna, come nel resto d’Europa, la “coscienza di classe” cresceva sulla base della solidarietà e della protesta collettiva dei minatori contro condizioni di lavoro d’estrema durezza e dai tratti quasi schiavistici, di totale privazione dei diritti: è nota la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni degli operai nelle miniere della Sardegna, avviata dopo i moti del 1906 e terminata solo nel 1911. Nonostante la mancata integrazione della Sardegna nel sistema economico e politico nazionale, perpetrata dai governi di Giolitti, e nonostante il rapporto subalterno fra classi dirigenti sarde e governo centrale, la Sardegna si mosse cercando di uscire dallo storico sottosviluppo e di cambiare il sistema di potere politico liberal-conservatore. Seppure le città, le campagne e le miniere funzionassero come compartimenti stagni, furono proprio queste ultime con lo sviluppo delle Leghe nel primo decennio del secolo e fino all’inizio della grande guerra, i primi agenti dello sviluppo dell’isola, poiché le Leghe hanno costituito il primo nucleo di una crescita democratica e civile che si sarebbe espressa nella conquista dei comuni dell’Iglesiente, nel contrastare il dominio assoluto del notabilato liberal-conservatore, interprete del padronato delle miniere e dei caseifici. Tra i moti del 1906 e la pubblicazione dei risultati della Commissione parlamentare d’inchiesta nel 1911, il movimento dei minatori si dedicò a rinsaldare l’organizzazione operaia, grazie alla Camera del Lavoro di Cagliari che tese a coordinare le tendenze particolaristiche delle singole Leghe, a coniugare istanze politiche ed economico-rivendicative e quindi ad impiantare le federazioni di mestiere. Nel 1910 fu costituita l’Associazione generale degli operai delle miniere di Sardegna come categoria della CdL di Cagliari, che nel 1914 sarebbe diventata la Federazione Minatori di Sardegna, con sede ad Iglesias, aderente alla Confederazione generale del lavoro. Il rinnovato rapporto fra rappresentanza sindacale e partito socialista è da ricercarsi nelle possibilità di esprimere proprie rappresentanze in parlamento e nei comuni offerte agli operai dalla nuova legge elettorale; ma è anche dovuto a uomini come Cavallera e Battelli che hanno incarnato, già dall’inizio del secolo, gli ideali di un socialismo né dottrinario né estremista (per intenderci, né alla Bernstein, né alla Sorel), ma strettamente legato agli interessi, ai desideri di riscatto e alla sete di giustizia dei minatori. Ed è questo il motivo per cui le elezioni nel collegio uninominale dell’Iglesiente videro una partecipazione straordinaria, fino ad allora impensata, di migliaia e migliaia di operai che elessero alla Camera il loro candidato Giuseppe Cavallera, cui seguì l’altrettanto forte partecipazione operaia e popolare all’”assalto ai Comuni” nel 1914, con la trionfale elezione di Alcibiade Battelli a sindaco di Fluminimaggiore e di Angelo Corsi a sindaco d’Iglesias. Ma la grande guerra era alle porte e avrebbe avuto subito un pesantissimo impatto sulle miniere con il licenziamento nel solo comparto d’Iglesias di 6.000 operai, nonostante la subitanea ripresa, e soprattutto avrebbe posto fine di colpo a quella straordinaria stagione di lotte operaie che attraversò per dieci anni, dal 1904 al 1914, tutti gli angoli d’Europa e che accomunò le sorti degli operai in una prospettiva pienamente internazionale. *ex presidente direttivo Cgil CONFEDERALITÀ (continua dalla prima pagina) dell’industria e dei settori produttivi, a iniziare dalla rapida definizione della questione energetica, che è condizionante per le prospettive di tutti i comparti e i territori. Non basta asserire che vanno difese le attività industriali esistenti, occorre dare chiare indicazioni rispetto agli interventi che si mettono in campo per i settori da sviluppare e rispetto all’allocazione degli investimenti, potenziando specificamente i fattori attrattivi. In questo senso diventa essenziale un’azione più incisiva nei confronti del Governo e dell’Eni, che sta mettendo in pratica un ulteriore disimpegno dei suoi presidi industriali senza offrire in cambio nessuna soluzione di riconversione produttiva: noi pensiamo invece che il fronte dell’energia, della metanizzazione in particolare, e il fronte delle nuove attività di chimica verde siano gli ambiti elettivi di sviluppo industriale su cui impegnare questa nostra multinazionale, con il necessario indirizzo e supporto del Governo e della Regione. I provvedimenti del governo regionale prevedono anche l’avvio di riforme della pubblica amministrazione, necessarie a far funzionare bene le politiche di sviluppo e di coesione, così come lo è la nuova normativa sull’edilizia (di cui parliamo a pagina 2), settore che ha capacità anticiclica trainante: la Regione, gli Enti e il sistema delle Autonomie Locali sono chiamati insieme, oggi, a vincere la scommessa dell’accelerazione della spesa dei fondi europei, che rischiamo di perdere in parte, realizzando quegli investimenti pubblici su cui si fonda la speranza di ripresa economica, ma anche ad adottare un modello di amministrazione più efficiente ed efficace, meno costoso e dispersivo. Quanto alla riforma della burocrazia, il percorso è ben avviato con l’intervento sulla dirigenza regionale, che semplifica il quadro puntando a una maggiore orizzontalità delle funzioni, al lavoro per progetti con la verifica dei risultati rispetto a obiettivi prefissati. Invece, sul disegno di legge sulle Autonomie locali, abbiamo diverse perplessità e molta preoccupazione: ci saremmo aspettati più chiarezza e coraggio nelle scelte, piuttosto che un coacervo di norme molto condizionato dalla 8 spada di Damocle delle scadenze della legge Del Rio. Si prospetta una moltiplicazione di livelli istituzionali, Comuni, Unioni di comuni e loro Associazioni, Province e Città metropolitana, ognuno con modalità di costituzione e funzionamento differenti, a iniziare dalle norme elettorali. Inoltre, sotto le vesti democratiche della libera scelta delle comunità locali, chiamate a costituirsi in Unioni di Comuni e poi, a piacimento, in loro Associazioni cui delegare funzioni di governo d’area vasta, in realtà si condizionano queste scelte con l’imposizione della reviviscenza, peraltro solo parziale, delle vecchie Province: la Regione, cioè, sembra rinunci ad esercitare la propria autonoma potestà ordinamentale con l’indicazione dei nuovi ambiti strategici della programmazione territoriale, che però sono parte essenziale del Piano di sviluppo regionale. Tuttavia, la positivissima istituzione della Città metropolitana di Cagliari produce una modifica delle vecchie circoscrizioni provinciali: perché dunque non approfittarne per completare, doverosamente, il quadro della proposta di riassetto territoriale secondo ambiti omogenei? Crediamo che l’interesse generale dell’Isola valga assai di più del malumore di qualche notabile locale abbarbicato alle sue colline! Lasciare indefinito lo scenario, così come fa il disegno di legge, non esalta le autonomie locali, che comunque sarebbero chiamate a scegliere la propria destinazione, ma enfatizza la mano libera degli “incursori legislativi” Dicembre 2014 che rispondono a interessi e ambizioni particolari. Il rischio serio è un sistema regionale che duplica funzioni e organismi che potrebbero trovarsi a confliggere tra di loro, posto che nessuno oggi può affermare con certezza - malgrado le sempre cangianti dichiarazioni politiche d’intenti - se e quando sarà approvata la riforma costituzionale che abolisce totalmente le Province. Chiaro è, invece, che sulle Autonomie locali ricadranno i maggiori costi delle attività e del personale delle Province, ma senza il trasferimento delle risorse che lo Stato ha tagliato e taglierà sempre di più, trattenendosele d’imperio: assurdo! Riforme di questa portata non meritano furbate propagandistiche a costo zero, perché gli effetti negativi ricadranno nei disservizi per i cittadini, come sanno già bene gli studenti delle scuole. Intravediamo il rischio che, a fronte di un sistema di Enti Locali indebolito dai maggiori costi a suo carico, dai tagli governativi e dall’incertezza sulle politiche di area vasta, si riproponga un eccessivo centralismo regionale: non crediamo che questa sia la soluzione dei mali della Sardegna e, anzi, pensiamo che debba essere favorito il massimo grado di coinvolgimento e condivisione delle comunità locali e del partenariato sociale ed economico nelle decisioni che riguardano la collettività. Ci preoccupa molto, infine, la sorte del personale diretto e delle società in house, perché in questo quadro non vorremmo trovarci a discutere non già di riallocazione di funzioni e competenze, bensì di trattamento degli esuberi. Deve perciò essere chiaro che per il sindacato questo non è accettabile, come non lo è che il disegno di legge non faccia riferimento alcuno al confronto con le parti sociali, malgrado la disponibilità dell’assessore e un protocollo condiviso di relazioni con il sindacato. Sta davvero cominciando a diventare stucchevole questa pretesa di autosufficienza del Palazzo rispetto alle espressioni collettive del Paese reale, che va affermandosi in questa fase politica, tanto più che essa non offre alcuna garanzia né di maggior democrazia, né di un più equo bilanciamento degli interessi, né di miglior qualità delle scelte. Michele Carrus, segretario generale Cgil
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