Paper per il XXVIII Convegno SISP

Paper per il XXVIII Convegno SISP - Società Italiana delle Scienze Politiche –
Sezione 11: Metodologia della ricerca – Panel 11.2: Studiare la dimensione spaziale. Ricerche e
riflessioni metodologiche,
Perugia, 11-13 Settembre 2014
Gentleman, professional and profiteer.
Produzione di spazio e real estate community
Guido Borelli (*)
Abstract
Agli occhi di un sociologo il mondo del real estate occupa una collocazione ambigua.
Nel momento in cui ci si prefigge di comprenderne meglio il ruolo all’interno della società contemporanea, ci accorgiamo immediatamente che la conoscenza disponibile è estremamente scarsa e
– quella poca reperibile – è decisamente polarizzata su due estremi.
Da una parte stanno tutti gli studi, le ricerche e i trattati che ci spiegano come funziona e si articola il settore, quali sono le competenze necessarie per entrane a fare parte. Dall’altra parte troviamo
una abbastanza copiosa letteratura appartenente al genere del ‘giornalismo d’inchiesta’ che si interessa del settore solo in occasione della comparsa dei periodici scandali. In mezzo, quasi nulla di utile
a comprendere in modo non palesemente strumentale il ruolo e l’importanza del real estate nella
società contemporanea e nelle trasformazioni dello spazio urbano. A complicare le cose, si aggiunge
l’assoluta riservatezza con la quale il settore del real estate gestisce le proprie operazioni.
Questo fatto appare tanto più paradossale quanto più si considera che buona parte delle cosiddette discipline umanistiche (le scienze politiche, la geografia, l’antropologia, la sociologia, la demografia, per citarne solo alcune), concordano sul fatto che le trasformazioni dello spazio rappresentano da
sempre una delle pratiche intorno alle quali si concentra con maggiore intensità l’ interazioni tra i
soggetti della società civile. Queste interazioni riguardano una sfera molto ampia della vita quotidiana perché comprendono questioni di cittadinanza, di diritti non negoziabili, mescolano tra loro razionalità economiche e argomentazioni affettive e hanno una eco rilevante nella politica e nell’economia
delle nazioni.
Le ragioni di una tale clamorosa disattenzione sono numerose e possono essere indicate lungo
due direttrici: la radicata convizione che il settore immobiliare rappresenti un ramo arretrato del
capitalismo industriale (impressione derivata da una non ben chiara comprensione delle differenze
tra edilizia e real estate) e la inossidabile persistenza della dicotomia ideologica che divide in modo
manicheo il valore d’uso dal valore di scambio – e, come conseguenza, lo sviluppo dalla speculazione –
gettando esplicitamente o implicitamente un pregiudizio negativo sull’intero settore del real estate .
Sul piano della conoscenza sociologica, i protagonisti del real estate restano ipostatizzati tra l’idea di
algidi professional e quella di avidi profiteer . Quasi come per diretta reazione, gli attori del real estate non mancano occasione, invece, di presentarsi sulle ribalte pubbliche (talvolta in modo non completamente credibile), come benevolenti gentleman che perseguono l’interesse della collettività.
Sulla base di queste premesse, lo scopo del saggio ha alcune finalità.
Primo: produrre gli elementi necessari per avviare una adeguata comprensione del settore del
real estate – consistente con l’immagine di industria immobiliare a cui gli operatori fanno sempre più
spesso riferimento – che da un lato non parli né esclusivamente il linguaggio degli operatori, né sia
assoggettata a pregiudizi ideologici e, dall’altro lato, sia di qualche utilità ai ricercatori delle scienze
sociali.
Secondo: approfondire la conoscenza dei protagonisti del real estate – anche in questo caso, coerentemente con l’immagine della real estate community a cui fanno riferimento gli operatori del settore – raccontandoli sia come attori individuali, sia come appartenenti a una comunità che condivide
valori, scopi, modelli di razionalità e logiche di azione.
Terzo: problematizzare adeguatamente il ruolo del real estate nei processi di urbanizzazione, sia
come partner del settore pubblico nelle trasformazioni del territorio, sia come promotore della ‘rivoluzione urbanistica silenziosa’, che ha progressivamente allentato le rigidità spaziali dei vecchi
schemi politici e pianificatori, imponendo forme flessibili di contrattazione e di negoziazione delle
trasformazioni urbane.
(*) Guido Borelli insegna sociologia urbana al Dipartimento di Giurisprudenza, Scienze Politiche,
Economiche e Sociali dell' Università degli Studi del Piemonte Orientale, di Alessandria.
[email protected]
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Gentleman, professional e profiteer.
Produzione di spazio e real estate community
Guido Borelli
Introduzione
Real estate development is one of the few areas that a person can enter with
little expertise and become wealthy in a short time.
With the right financial backing, a little business savvy, and careful attention
to detail, you too can earn whatever you want to earn.
(Tanya Davis, Real Estate Developer's Handbook, 2007).
La sociologia urbana condivide con numerose altre discipline umanistiche
dedicate agli studi territoriali un pronunciato e prolungato disinteresse nei confronti dei processi di urbanizzazione. L'unica eccezione rilevante rimane la voce
radicale e solitaria di David Harvey (1989, tr. it., 2006, p. 124), che richiama la
nostra attenzione in questo modo:
«troppo frequentemente (...) lo studio dell’urbanizzazione viene separato dallo studio
dei cambiamenti sociali e dallo sviluppo economico, come se questa potesse essere
considerata o come un effetto collaterale, o come un prodotto secondario di più importanti e fondamentali cambiamenti sociali. Le susseguenti rivoluzioni nelle relazioni spaziali e sociali, nelle abitudini dei consumatori, negli stili di vita e altro ancora,
che hanno caratterizzato la storia capitalista possono – viene qualche volta suggerito
– essere compresi senza alcuna profonda investigazione delle radici e della natura dei
processi urbani. Anche se è vero che questo giudizio generalmente viene espresso tacitamente, peccando di omissione piuttosto che di commissione, il pregiudizio antiurbano presente negli studi macroeconomici e macrosociali risulta troppo persistente
per stare tranquilli».
In seguito, Harvey (2012, p. 54, enfasi aggiunta) ha spinto molto in là il proprio
pensiero e le proprie preoccupazioni, sino a ritenere le forze che guidano i processi di urbanizzazione come i principali responsabili della feroce crisi che attanaglia le economie mondiali:
«l’economia convenzionale solitamente tratta gli investimenti nell’ambiente costruito e
l’urbanizzazione in genere come se fossero un’appendice insignificante degli affari più
importanti che avvengono in un’entità astratta chiamata ‘economia nazionale’. Il sottogenere dell’‘economia urbana’ è, quindi, l’arena dove si scontrano gli economisti di seconda scelta, mentre i pezzi grossi mettono alla prova le loro capacità professionali macroeconomiche altrove. Questi ultimi, anche quando si occupano dei processi urbani, lo
fanno con l’aria di essere convinti che la riorganizzazione territoriale, lo sviluppo regionale e la costruzione delle città siano solo trascurabili effetti materiali di processi di
più larga scala, che non sono influenzati da quello che producono. Così, se nel rapporto
della Banca mondiale del 2009 sullo sviluppo, per la prima volta in assoluto, la geografia politica viene presa seriamente in considerazione, nondimeno gli autori non fanno
minimamente cenno che qualcosa possa andare tanto catastroficamente male nello sviluppo urbano e regionale da avviare una crisi nell’intera economia. Lo scopo di quel
rapporto, scritto da economisti senza consultare geografi, storici o sociologi urbani,
sembrava quello di esplorare ‘l’influenza della geografia sulle comunità economiche’ ed
elevare ‘spazio e luogo da mere circostanze organizzative a punti focali’».
Indipendentemente dal fatto che si condivida o no il pensiero del geografo
britannico, riesce abbastanza difficile immaginare – soprattutto se restringiamo il campo alla dimensione nazionale – che sia possibile costituire un gruppo
eterogeneo di ricercatori composto di sociologi, geografi o storici urbani (ma
l'elenco delle specializzazioni disciplinari potrebbe essere assai più lungo) non
2
solo e non tanto capaci di corroborare le tesi di Harvey, ma soprattutto interessati a prenderle in qualche modo in considerazione.
Le ragioni di tanto disinteresse possono essere spiegate tentativamente sotto due prospettive.
In primo luogo, possiamo trovarci più o meno a nostro agio nel condividere il
pensiero di un marxista genuino come Harvey e concordare (o non concordare
affatto) che, negli ultimi anni, qualcosa nello sviluppo urbano e regionale possa
essere andato così catastroficamente male al punto da innescare una recessione
di livello mondiale come quella che è sotto gli occhi di tutti. Rispetto a questo
punto, ciò che produce immediatamente delle difficoltà per gli intellettuali appartenenti alle discipline che si occupano di territorio è l'inevitabile confronto
con le tesi marxiane, da lungo tempo oramai al loro 'minimo storico di gradimento'. Sappiamo bene che le teorie marxiane sono state accusate – e prontamente accantonate – soprattutto per il modo con il quale si sono rivelate inclini a
scambiare ideologia per sostanza e astrazione per empirismo, ricorrendo alla
famosa 'determinazione in ultima istanza' che finisce per sottrarre e preservare
la teoria stessa da qualsiasi onere di confutazione, trasformando – impropriamente – tutte le questioni da metodologiche in ideologiche. Tuttavia, pure riconoscendo tali limiti, è difficile non ritenere queste ragioni insufficienti per decretare la preventiva giubilazione in toto delle ipotesi di Harvey. Perché allora non
pensare di trovare qualche motivazione coerente e convincente per confutare o
per precisare tali ipotesi, per ingaggiarsi in qualche modo originale nel dibattito,
piuttosto che sviare la questione, preferendo ostinarsi con la rimozione del pensiero di Marx1? Questo interrogativo ci introduce, in modo circolare, alla seconda prospettiva con la quale cerchiamo di spiegare il palese disinteresse nei confronti dei processi di urbanizzazione e ci riporta al punto di partenza: è difficile,
infatti, non cadere nelle braccia di Harvey e ammettere – peccando, se necessario, di omissione piuttosto che di commissione – che i processi di urbanizzazione
rappresentino davvero «un effetto collaterale e un prodotto secondario di più
importanti e fondamentali cambiamenti sociali» (ibid., enfasi aggiunta). Al riguardo, non facciamo certo molta fatica nel convenire con questa affermazione:
ci basta prendere atto dello sviluppo dei concetti, delle tendenze e degli strumenti metodologici che la sociologia economica ha sviluppato (e in una certa misura ha fatto propri) negli ultimi vent'anni, nella creazione di un campo di studi
– quasi un paradigma – che va sotto il nome di 'sviluppo locale'. Questo fecondo
campo di studi ci ha da tempo abituati a rappresentare e descrivere i processi di
trasformazione urbana e territoriale attraverso efficaci immagini-metafore di
organizzazione socio-spaziale finalizzata alla produzione: i distretti industriali
(Bagnasco, 1988; Bagnasco, Trigilia, 1984; Trigilia, 2006), i cluster di imprese
(Becattini, 1979), gli amalgama territoriali (Scott, 2001), le reti urbane (Perulli,
2000), le piattaforme territoriali (Bonomi, 2004).
1
Al proposito, è interessante l'ipotesi proposta da Jacques Derrida (1993, tr. it., 1994) ne Gli
spettri di Marx. Il filosofo francese allude sia agli spettri che ossessionavano Marx in vita, sia
allo stesso Marx come spettro della società capitalista contemporanea. Derrida (ibid.) sostiene
che, per tutta la sua vita, Marx fu un ghostbuster molto impegnato a dare la caccia agli spettri:
in altre parole egli fu sia ossessionato dai fantasmi del capitalismo, sia un fantasma ossessionante per il capitalismo. Il tema dei fantasmi affiora bene nella convinzione marxiana secondo il
quale la realtà in cui viviamo è una realtà spettrale, nel senso che il modo capitalistico di produzione è un mondo popolato di automi senza soggetti, un mondo nel quale i morti (le merci) dominano sui vivi (gli uomini). Tuttavia – nota Derrida (ibid.) – se ci si lascia prendere dalla foga di
sotterrare definitivamente il fantasma, si finisce fatalmente per essere dominati da esso. Detto
diversamente, più crediamo di potere farla finita con i fantasmi, più ci ritroviamo a essere loro
vittime. E, per Derrida (ibid.), Marx, soprattutto dopo il crollo del Muro di Berlino, è un fantasma che ci ossessiona.
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Giunti oramai al culmine della propria parabola intellettuale, gli studi di sviluppo locale, mostrano in modo abbastanza evidente come, a fonte di una
grande intensità interpretativa dei processi di sviluppo economico territoriale,
non sia corrisposta un'adeguata comprensione delle modalità – e soprattutto
delle conseguenze – attraverso le quali i nuovi modelli di organizzazione spaziale della società postindustriale producono una propria distinta urbanizzazione, insieme a un relativamente coerente sistema di relazioni spaziali. Questa lacuna ha finito per indurre gli studiosi a restituire un'immagine unidirezionale di sviluppo spaziale nella quale i processi di urbanizzazione sono modellati secondo precisi criteri di organizzazione sociale orientata alla produzione. Ciò è avvenuto senza particolari preoccupazioni per quanto riguarda il
fatto che le trasformazioni spaziali, a loro volta, si sono rivelate capaci di condizionare le condizioni e le circostanze delle strategie di sviluppo economico
sino al punto di assumere il ruolo non più di conseguenze dello sviluppo ma di
veri e propri obiettivi di sviluppo. Come vedremo di seguito, si tratta di uno
spostamento di prospettiva non particolarmente originale – la storia dell'industrializzazione viaggia da sempre accanto a quella del mercato urbano – ma
che introduce una relazione di reciprocità a due vie di non poco conto.
Per un altro verso, il crescente interesse mostrato dagli studi di sviluppo locale nei confronti delle imprese territoriali, dei processi di disseminazione
dell'innovazione e della creazione di beni collettivi locali per la competitività
(Crouch, Le Galès, Trigilia, Voelzkow, 2004) ha riportato in auge la figura
dell'imprenditore come attivatore di sviluppo economico (Bagnasco, 2006, p.
403). Anche in questo caso, tuttavia, faremo fatica a trovare, tra il vasto corpo
di case-history condotti secondo le metodologie dello sviluppo locale, qualche
elemento utile a comprendere in modo non banale le relazioni tra innovazione,
imprenditorialità e trasformazioni spaziali2. Se un lato, lo studio delle buone
pratiche di sviluppo locale attribuisce, in modo più o meno esplicito, caratteristiche quasi schumpeteriane all'imprenditore o alla piccola impresa innovativa, sovente agitati da una faustiana volontà competitiva; dall'altro lato quegli
stessi studi limitano tali riconoscimenti esclusivamente a imprenditori e ad
attività produttive (di beni e di servizi) capaci di attivare processi di sviluppo
con effetti territorialmente redistributivi di risorse (occupazione, reddito, welfare e qualità dell'ambiente). Ciò che resta in ombra, in questo circolo talvolta
virtuoso, sono gli attori delle trasformazioni spaziali, i loro modelli di razionalità, le rispettive logiche di investimento, gli effetti del loro agire. Sarà forse
perché gli imprenditori che investono nell'ambiente costruito (il cosiddetto
real estate) sono considerati (anche dagli studiosi di sviluppo locale) i pariah
del sistema economico, come ipotizza Harvey?
Su questo dilemma, in genere, cala come una mannaia la ben nota dicotomia
tra sviluppo e rendita. «Gli imprenditori che investono nel settore del real estate appartengono decisamente alla seconda categoria»: questo il giudizio espresso dagli studiosi sociali, il più delle volte implicitamente – peccando, anche in
questo caso, di omissione piuttosto che di commissione. Si tratta di un vero e
proprio 'rasoio di Occam', responsabile dell'ambigua collocazione dell'intero
settore del real estate all'interno delle discipline umanistiche. Infatti, nel momento in cui ci si prefigge di comprendere meglio il ruolo del real estate
2
Per fare un esempio di quanto qui si sostiene: sarebbe vano cercare, tra i numerosi studi che si
sono dedicati al formidabile sviluppo della logistica territoriale degli ultimi decenni, uno che si
sia occupato comprendere la razionalità, gli interessi e le responsabilità attribuibili all'insieme
degli imprenditori, dei proprietari terrieri, degli operatori immobiliari e degli amministratori
pubblici nella proliferazione incontrollata di piattaforme logistiche territoriali, molte delle quali
sottoutilizzate, una volta realizzate.
3 La ‘porta’ del real estate, a Milano rappresenta un caso di assoluta rilevanza nazionale, sia in
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all’interno della società contemporanea, ci accorgiamo immediatamente che la
conoscenza disponibile è estremamente scarsa e – quella poca reperibile – è
decisamente polarizzata su due estremi.
Da una parte stanno tutti gli studi, le ricerche e i trattati che ci spiegano
come funziona e si articola il settore, quali sono le competenze necessarie per
entrare a fare parte di un mondo degli affari che si presenta in modo assai
promettente. Dall’altra parte troviamo una abbastanza copiosa letteratura appartenente al genere del ‘giornalismo d’inchiesta’ che si interessa del settore
solo in occasione della comparsa dei periodici scandali. In mezzo, quasi nulla di
utile a comprendere, in modo non palesemente strumentale, il ruolo e
l’importanza del real estate nella società contemporanea e nelle trasformazioni dello spazio urbano. Pluralitas non est ponenda sine necessitate. A complicare
le cose, si aggiunge, infine, l’assoluta riservatezza con la quale il settore del
real estate gestisce le proprie operazioni.
La settima porta
Per chiarire il senso del pregiudizio nei confronti delle trasformazioni spaziali
da parte degli studi sociali, sembra utile richiamare brevemente una iniziativa
della Camera di Commercio milanese che, insieme all’Associazione Globus et
Locus, nel 2007 ha pubblicato i risultati di una interessante ricerca, intitolata
Milano globale e le sue porte. La ricerca intendeva elaborare «nuovi misuratori
di Milano globale, indici di connettività di Milano con le altre città globali, indici di posizionalità di Milano nella rete globale» (ibid., p. 2). Per colmare questa
necessità, la ricerca ha scelto di «ricostruire, analizzare, rappresentare e misurare i flussi materiali che caratterizzano il nodo della rete globale» (ibid., enfasi nell’originale). Il metodo prescelto è stato quello di identificare ‘sei porte’ –
o sistemi funzionali di accesso-transito-uscita a/da Milano – ritenuti in grado
di identificare «altrettanti flussi di persone, imprese, merci servizi, informazione e conoscenza» (ibid.): la logistica, gli aeroporti, la fiera, l’università, la
ricerca e il design, ritenendoli – sebbene in modo non esclusivo – «rilevanti per
i sistemi economico-territoriali a scala globale, per la possibilità di effettuare
comparazioni con le altre città globali, per la crucialità che in essi occupano
non solo gli investimenti in capitale fisso ma anche il capitale umano e i fattori
immateriali e, infine, per il peso specifico che Milano detiene nei rispettivi sistemi funzionali» (ibid.).
La scelta delle ‘sei porte’ è indubbiamente interessante, oltre che originale;
tuttavia, nonostante il coordinatore della ricerca riconosca il carattere non
esclusivo delle scelte operate, resta la sensazione che alcuni elementi rilevanti e
costitutivi del quadro che il lavoro milanese intende tratteggiare siano stati trascurati e che tale dimenticanza – come ci mette in guardia Harvey (1989, tr. it.
2006, p. 124) – sia frutto di un tacito ‘pregiudizio antiurbano’. Le sei porte individuate dimostrano una sostanziale indifferenza nei confronti dei processi di
urbanizzazione. Detto diversamente, è implicita, nel lavoro della Camera milanese l’idea che le trasformazioni spaziali associate al dinamismo sociale e, soprattutto, economico delle sei porte possa essere considerato senza una adeguata comprensione di come gli investimenti in capitale fisso, in capitale umano, nei
fattori immateriali e nei sistemi funzionali milanesi producono un distinto modello di urbanizzazione. Ciò è possibile perché la ricerca lascia deliberatamente
fuori dal quadro analitico una porta decisiva: quella dell’industria immobiliare,
dimostrando che alla base del ‘pregiudizio antiurbano’ vi è una scarsa compren-
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sione dell’evoluzione di questo settore3.Tale deficit di comprensione riguarda, in
termini generali, l’evoluzione complessiva del settore immobiliare degli ultimi
venti anni, ma in modo specifico, manca di rilevare come questa evoluzione sia
stata particolarmente intensa per il capoluogo lombardo, al punto che la ‘Milano
della rete globale’ – al pari di numerose altre metropoli mondiali – rappresenta
un caso specifico e imprescindibile dell’evoluzione del settore, entro un ambito
che travalica oramai i confini nazionali.
Cosa resta fuori dal quadro esplicativo?
Se su questi temi la letteratura sociale è carente, un possibile modo per colmare questa lacuna può prendere avvio dall'osservazione di alcuni aspetti attraverso i quali il settore del real estate rappresenta se stesso. Ci accorgiamo
allora che il settore si definisce da tempo come industria del real estate e si riferisce ai propri appartenenti come comunità del real estate.
Per un sociologo, entrambi i termini – industria e comunità – sono densi di
significati e, in quanto tali, da maneggiare con una certa cautela. Anche se non
abbiamo qui lo spazio per approfondire questi concetti, è comunque interessante osservare che il termine 'industria' richiama immediatamente sia un
ramo particolare e distinto di attività economica, sia un modo di produzione
avente suoi specifici connotati (Cafagna, 1994). Nel nostro caso – come vedremo nel dettaglio più avanti – è interessante notare come il termine industria possa risultare utile per chiarire il diffuso e persistente equivoco – derivante da una non ben chiara comprensione delle differenze tra edilizia e real
estate – che porta numerosi studiosi a considerare il settore immobiliare come
un ramo arretrato del capitalismo industriale.
A sua volta, il termine 'comunità' ci invita a cercare di comprendere da un
lato i fondamenti per l'appartenenza a tale vincolo: si tratta della condivisione
di determinati skill professionali e/o l'appartenenza a una parte della filiera
industriale del real estate? Di meccanismi di cooptazione di una élite affluente
che ne fa elettivamente parte? Dell'insieme degli attori (singoli o collettivi,
pubblici e privati) che in qualche modo sono direttamente interessati – pushed,
secondo il lessico manageriale – alle vicende immobiliari? Giova ricordare che,
nella sociologia classica, il termine 'comunità' è impiegato per definire un particolare tipo di relazioni sociali poste alla base di collettività che coinvolgono
gli individui nella loro totalità (Bagnasco, 1992). Posto in questo senso, occorrerà allora comprendere quali sono i meccanismi attraverso i quali gli appartenenti alla community del real estate si scambiano obblighi di lealtà nei confronti della collettività; come essi diversificano il loro status e il loro ruolo
all'interno della community; come essi si scambiano conoscenze e risorse diffeLa ‘porta’ del real estate, a Milano rappresenta un caso di assoluta rilevanza nazionale, sia in
termini di innovazione del sistema, sia per il livello di internazionalizzazione raggiunto, sia come
città preferita per le sedi centrali di società e developer. Dei 133 associati ad ASPESI (Associazione
Nazionale tra Società di Promozione e Sviluppo Immobiliare), 94 (70,7%) hanno sede in Milano e
103 in Lombardia (77,5). Interessante è scorrere il core business dell’insieme degli associati di
ASPESI (Tab. 1).
3
Attività
Promozione immobiliare
Servizi immobiliari
Patrimonializzazione e gestione
Trading e frazionamenti
%
31,8%
29,5%
13,6%
13,6%
Attività
Impresa costruttrice
Consulenza tecnico-progettuale
Intermediazione
Finanziamenti
Tab. 1 Core business associati ASPESI (fonte: www.aspesi-associazione.it)
6
%
4,6%
2,3%
2,3%
2,3%
renti, attraverso quali sistemi di compensazione e modelli di transazione. Occorrerà anche comprendere se l'utilizzo del termine community allude, invece,
più propriamente a un modello associativo, nel quale la disposizione all'appartenenza si sostanzia sulla base di identità di interessi o su legami (permanenti
o temporanei) di interessi razionalmente motivati.
Come si può constatare, queste affermazioni sono piene di cautela. Soprattutto per un sociologo che intenda occuparsi di urbanizzazione. Ciò è dovuto al
fatto che il percorso di ricerca appare inevitabilmente segnato dalla sensazione che molti e importanti aspetti necessari alla conoscenza non si trovino
all'interno dello specifico disciplinare. A partire dalla disponibilità di studi di
caso. Poiché il campo empirico della conoscenza è particolarmente carente, in
questa seconda parte del saggio utilizzerò un celebre film dedicato ai processi
di urbanizzazione nella Napoli degli anni '60: Le mani sulla città di Francesco
Rosi. Il film – premiato con il Leone d'oro al festival internazionale del cinema
di Venezia nel 1963 – utilizza un caso di speculazione edilizia nella città partenopea per descrivere i processi di occupazione del potere, rappresentandoli
come essenza stessa della politica. Nonostante il film risalga a più di cinquanta
anni fa, se (ri)considerato con la necessaria attenzione, fornisce numerosi
spunti per sviluppare alcune delle considerazioni sino a qui svolte. In particolare, sarà interessante rileggere le reazioni della critica al film di Rosi. Approfondiremo brevemente questo ultimo aspetto nelle conclusioni.
Cinquanta anni fa
Nottola: «Lo so che la città sta là e da quella parte sta andando perché il piano
regolatore così ha stabilito. Ma è proprio per questo che noi da là, la dobbiamo
fare arrivare qua».
Compari di Nottola: «E ti pare una cosa facile? Cambiamo il piano regolatore?»
Nottola: «Non c’è bisogno. La città va in là? Questa è zona agricola. Quanto la
puoi pagare oggi? 300, 500, 1.000 lire al metro quadrato?
Ma domani, questa terra, questo stesso metro quadrato (traccia con un bastone un quadrato sulla terra), ne può valere 60, 70.000 e pure di più.
Tutto dipende da noi: il 5.000% di profitto.
Eccolo là (indica la città): quello è l’oro oggi. E chi te lo dà? Il commercio?
L’industria? L’avvenire industriale del Mezzogiorno? Investili i tuoi soldi in
una fabbrica! Sindacati, rivendicazioni, scioperi, cassa malattia… ti fanno venire l’infarto queste cose. E invece, niente affanni e niente preoccupazioni.
Tutto guadagno e nessun rischio. Noi dobbiamo solo fare in modo che il Comune porti qua le strade, le fogne, l’acqua, il gas, la luce e il telefono».
(F. Rosi, Le mani sulla città, 1963)
Fig. 1. Edoardo Nottola (fonte: F. Rosi, Le mani sulla città, 1963)
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La scena iniziale del celebre film di Francesco Rosi, Le mani sulla città
(1963), da sola vale tutta una letteratura sullo sviluppo urbano.
Edoardo Nottola (Fig. 1), costruttore edilizio, proprietario dell’impresa di costruzioni Bellavista – magistralmente interpretato da Rod Steiger – spiega in
modo molto eloquente a un drappello di suoi compari come deve procedere
un’operazione di urbanizzazione. Sul ciglio di un’anonima periferia napoletana
(una «squallida distesa», la definirà poco dopo il Sindaco, nell’atto di presentare il
nuovo piano di edificazione, finanziato con denaro ministeriale), Nottola compie
una azione fondamentale e, contemporaneamente, dichiara un orientamento
preciso di sviluppo ed elegge gli attori necessari ad attuare tale orientamento.
Segnare la terra, produrre lo spazio
Per meglio spiegare il senso delle proprie intenzioni, Nottola afferra il bastone
di un suo compare e traccia un quadrato sulla terra (fig. 2): «quanto lo puoi pagare oggi? 300, 500, 1.000 lire al metro quadrato? Ma domani, questa terra,
questo stesso metro quadrato, ne può valere 60, 70.000 e pure di più».
Fig. 2. Nottola traccia un quadrato sul suolo (fonte: F. Rosi, Le mani
sulla città, 1963)
Con questo atto, Nottola compie un’operazione tipicamente urbanistica: modifica la destinazione d’uso del suolo e, con un semplice gesto, ne aumenta considerevolmente il valore di mercato. Sotto questo riguardo, si potrebbe obiettare
che non si tratta di un’operazione particolarmente originale: trasformare un
suolo da agricolo a residenziale comporta da sempre plusvalenze delle quali alcuni attori urbani si sono appropriati ricorrendo a pratiche non sempre lecite.
La storia urbana è costellata di questi episodi. Tuttavia, questa constatazione
finisce fatalmente per condurci a considerare queste prassi, insieme agli attori
che le praticano, nell’alveo della cosiddetta ‘speculazione4’ (fondiaria, edilizia),
assumendo quindi che tali operazioni vadano valutate entro una sfera morale e,
successivamente, giudiziaria. Tutto questo è vero, ma la tensione morale che inÈ interessante notare come il termine ‘speculare’ si presti a differenti interpretazioni. Secondo
l’Enciclopedia Italiana Treccani, si passa dal tardo latino speculatio per significare «l’indagine
filosofica (…) e il ricercare in quanto attività teoretica» a accezioni di natura commerciale che
spaziano da: «operazione commerciale o finanziaria consistente nell’acquistare per rivendere o
nel vendere per ricomprare, con il fine di conseguire un profitto dalla differenza di prezzo in
diversi momenti del mercato» a: «attività intesa a conseguire un profitto economico personale, o
un vantaggio a fini politici, condotta senza scrupoli e senza rispetto degli interessi altrui» (enfasi
aggiunta). http://www.treccani.it/vocabolario/speculazione/
4
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fonde il nostro giudizio ci porta frettolosamente a tralasciare una miriade di
aspetti importanti, la cui natura – invece – ci sembra qui fondamentale per una
più accurata comprensione sul piano sociale.
Nella terminologia urbanistica Nottola compie una zonizzazione: una operazione consistente nel suddividere lo spazio in parti omogenee, assegnando a ciascuna di esse una precisa destinazione d’uso. Si tratta di una pratica relativamente semplice e anche giustificabile attraverso motivazioni tecniche5. Ci accorgiamo però che, appena oltrepassata questa soglia di accettabilità, le operazioni di suddivisione dello spazio, trascinano con sé delle rilevanti complessità.
Nel tracciare il quadrato, Nottola compie un’operazione complessa e rituale.
Complessa perché scomponibile in un certo numero di attività: (a) divide lo
spazio tra un ‘fuori’ e un ‘dentro’; (b) nomina lo spazio, perché senza un nome
– area residenziale, o zona di espansione, o di completamento in luogo di zona
agricola – quello spazio non avrebbe né titolo, né origine, né valore; (c) si appropria dello spazio dopo averlo frammentato in parti liberamente alienabili
sul mercato dei suoli; (d) rappresenta lo spazio attraverso la costituzione di un
nuovo ordinamento sociale. Queste operazioni, nel loro insieme, costituiscono
un ordine – e una gerarchia – nello spazio e nell’organizzazione della città: come ci deriva dalla scuola dell’ecologia umana, le zone sono una espressione della gerarchia funzionale delle classi, dei gruppi sociali nello spazio.
Ma la città non è solo la rappresentazione di un mosaico di aree naturali,
come postulavano gli studiosi della scuola di Chicago, è un sistema spaziale
concepito come una merce malleabile e trasformabile per mezzo dell’azione
umana. Considerato come una merce, per lo spazio si pone il problema della
costruzione di un sistema di riferimento capace di consolidarne la rappresentazione nelle pratiche sociali in modo omogeneo, obiettivo e astratto. David
Harvey (1993, pp. 310-311, passim), ha osservato che, nonostante le pratiche
dei matematici, dei costruttori e nonostante le diverse concezioni disponibili
dello spazio – sacre e profane, simboliche, personali o animistiche – e malgrado
la pletora di programmi utopistici, la rappresentazione che ha finito per prevalere è stata quella della proprietà privata della terra, insieme alla compravendita dello spazio trattato come merce.
Dobbiamo però a Henri Lefebvre (1978), la congiunzione tra le trasformazioni sociali e le politiche dello spazio. Lo studioso francese ha acutamente colto le modalità attraverso le quali lo spazio raggiunge le caratteristiche di omogeneizzazione e di astrazione: Attraverso la sua totale ‘polverizzazione’ e
frammentazione in parti di proprietà privata liberamente alienabili, che possono essere acquistate e scambiate liberamente nel mercato urbano. Il dilemma che inevitabilmente ne consegue è che lo spazio può essere conquistato solo
attraverso qualche forma di produzione, con l’effetto di innescare conflitti e
movimenti di opposizione.
Scrive Lefebvre (1970, p. 25):
«ciò dà argomenti per sostenere una tesi: la città e la realtà urbana dipendono dal valore d’uso. Il valore di scambio, la generalizzazione della merce prodotta dalla industrializzazione tendono a distruggere, subordinandola, la città e la realtà urbana, ricettacoli del valore d’uso, germi di una virtuale predominanza e ‘una rivalutazione
dell’uso. Nel sistema urbano (…) si esercita l’azione di questi conflitti specifici: tra valore d’uso e valore di scambio, tra la mobilitazione della ricchezza (in denaro, in carta) e
investimento improduttivo nella città, tra accumulazione di Capitale e sperpero nelle
feste, tra estensione del territorio dominato ed esigenza di un’organizzazione severa
del territorio stesso attorno alla città egemone».
5 Per esempio, ci appare immediatamente comprensibile e di buon senso, localizzare la residenza lontano dalle attività produttive, o progettare i servizi pubblici secondo criteri di buona accessibilità veicolare.
9
Il quadrato tracciato da Nottola ha anche un carattere rituale che ci riporta ai
riti di fondazione. La produzione di spazio è, per utilizzare le categorie lefebvriane, produzione di spazio di rappresentazione, ovvero il riconoscimento di
principi permanenti che producono mitologie dello spazio e dei luoghi.
Sotto questo riguardo, tracciare dei segni sulla terra è una pratica antica e
densa di significati e implicazioni. Nel descrivere il rito di fondazione di Roma,
Plutarco (Vita di Romolo, 10, 1-2) racconta la lite scoppiata tra Romolo e Remo.
Quest’ultimo, sostenendo di essere stato ingannato dal fratello nella interrogazione degli auspicia ex avibus a cui erano ricorsi per dirimere la contesa su chi
avrebbe regnato, dileggiò il fratello intento a scavare il fossato entro il quale sarebbe sorta la nuova città. In particolare, Remo, per dimostrare la futilità dell’atto
di segnare dei confini, si mise a saltellare tra dentro e fuori il confine. Questo gesto
gli fu fatele perché cadde ucciso dalla mano del fratello che pronunciò la fatidica
frase «così perisca chiunque osi profanare le sacre mura!». L’atto di varcare il solco mette in discussione il potere, perché il potere si costituisce nel segno del solco.
Il solco consente di distinguere il distinto dall’indistinto, la città dalla campagna, il
pubblico dal privato, il nemico dall’amico. Il solco è contemporaneamente lo strumento e il pretesto per dare un nome a ciò che ancora non lo possiede.
Secondo lo storico latino Varrone, l’etimo urbs deriva da urvus: solco. Se riteniamo che questo etimo sia affidabile, allora il solco è l’azione necessaria al potere per definire uno spazio in cui esercitarsi. Nel caso di Roma, questo spazio è la
città che assume il nome del suo fondatore che ha tracciato il solco, macchiandosi di fratricidio6.Il primo postulato di cui possiamo prendere atto consiste nel
riconoscimento del sistema di relazioni sociali implicito nella produzione dello
spazio. Si tratta di pratiche che coincidono con l’imposizione di una gerarchia o
di un sistema di relazioni nello spazio. Detto diversamente, la produzione di
spazio rappresenta la costituzione di un imperio: afferma la possibilità di prevalicare e, se necessario, di uccidere.
«Tutto guadagno e nessun rischio»: la dicotomia rendita/sviluppo
Dopo avere compiuto il rituale di appropriazione dello spazio, Nottola dichiara idee molto precise in merito al suo utilizzo. Il costruttore napoletano spiega
con estrema chiarezza la differenza tra valore d’uso e valore di scambio. Come
abbiamo già detto, uno spazio può essere considerato in svariati modi: tuttavia,
la distinzione che ha finito per prevalere sostiene una dicotomia nella quale, da
un lato lo spazio è considerato come una derivata di processi sociali ed economici che, con il proprio svolgimento, ne determinano la produzione. È il caso di uno
spazio trasformato per ospitare delle attività industriali o dei servizi pubblici. Si
tratta di trasformazioni spaziali guidate da processi di sviluppo o di sostegno ai
diritti di cittadinanza. Dal lato opposto, lo spazio è considerato come una merce,
trattabile su specifici mercati la cui valutazione è soggetta a particolari considerazioni in merito a localizzazione, accessibilità e potenzialità di trasformazione.
È il caso di uno spazio trasformato per ospitare operazioni immobiliari (p. es.: un
quartiere residenziale o di edilizia convenzionata). Diversamente dal caso precedente, in genere questo tipo di trasformazioni non sono guidate da intenti di
sviluppo o di sostegno ai diritti di cittadinanza, ma seguono la logica del profitto
generato senza la produzione di valore aggiunto (i posti di lavoro generati da un
insediamento industriale, o il miglioramento della qualità della vita dei residenti) e inducono, come abbiamo già detto fenomeni di esclusione sociale.
Sul tema dei riti di fondazione, sono debitore di Luigi Mazza per i numerosi suggerimenti e
ispirazioni ricevute.
6
10
Le due possibilità così come presentate da Nottola – riportano in gioco, ancora
una volta, questioni di giudizio: ritorna il termine ‘speculazione’, questa volta declinato in modo antagonista rispetto all’idea di ‘sviluppo’. Anche in questo caso, le
posizioni morali che ne derivano denotano una certa superficialità che tende a
polarizzare le posizioni in campo. Schematizzando molto queste posizioni, troviamo da una parte l’imprenditore dello sviluppo, portatore di un’etica produttiva
e redistributiva, dall’altra parte, il rentier (o, per restare in termini anglosassoni,
il profiteer), intento a manipolare, distributivamente e a proprio esclusivo vantaggio, le condizioni del mercato immobiliare. Questa rigida schematizzazione
porta alla costruzione di una logica binaria fatta di dicotomie del tipo: sviluppo/rendita; investimento/speculazione; libero scambio/monopolio. Si tratta di una
logica che anima molta della retorica politica in merito ai processi di sviluppo urbano, che periodicamente appare nei titoli dei giornali e dei talk show televisivi.
Tuttavia, questi ragionamenti non ci portano molto avanti nella comprensione
delle modalità attraverso le quali le città si sviluppano e si trasformano.
È proprio in merito a questa necessità di comprensione che si rivela l'importanza del contributo di Lefebvre (1972, tr. it., 1973, p. 144) all’analisi dello spazio costruito: in particolare la concezione del settore immobiliare come un circuito secondario del capitale. Per Lefebvre lo spazio non si esaurisce
nell’ambiente costruito: esso è sia una forza produttiva, sia un oggetto di consumo; ma è soprattutto un oggetto di conflitto politico perché è uno spazio vissuto, «uno spazio di soggetti che ha una sua origine nelle esperienze» (Lefebvre,
1974, tr. it. 1978, pp. 346-348) e il conflitto tra l’inevitabile maturazione di
queste esperienze «segna lo spazio vissuto, e si conclude con l’affermazione,
più o meno forte, ma sempre conflittuale, della sfera ‘privata’ contro la sfera
pubblica» (ibid.). Per Lefebvre, le contraddizioni socio-politiche si realizzano
spazialmente (ibid., p. 349) e, di conseguenza, le contraddizioni dello spazio
esprimono i conflitti degli interessi e delle forze socio-politiche. Poiché in campo immobiliare sono i diritti d’uso che generalmente determinano il valore di
scambio, Lefebvre ha ben compreso ed elaborato la consapevolezza che questi
diritti non sono un prodotto del libero mercato, ma vengono in larga misura
assegnati dallo stato attraverso la pianificazione degli usi del suolo e della mobilità. I conflitti che ne derivano «hanno luogo nello spazio e diventano contraddizioni dello spazio» (ibid., p. 350, enfasi aggiunta) e finiscono per essere
riconducibili a una disputa riguardante le ineguaglianze e la distribuzione differenziata dei diritti di cittadinanza. Da questa convinzione, Lefebvre (1974,
tr. it. 1978, pp. 323-324, enfasi originale) deriva che:
«il settore ‘immobiliare (insieme all’edilizia) cessa di essere un circuito secondario,
un ramo aggiunto e per molto tempo arretrato del capitalismo industriale, e passa
in primo piano (...) il capitalismo ha preso possesso del suolo, lo ha mobilitato, e il
settore tende a diventare centrale (...) La mobilitazione dello spazio può avvenire
solo a condizioni ben precise. Essa comincia (...) dal suolo, che deve essere strappato alla proprietà di tipo tradizionale, alla stabilità e alla trasmissione patrimoniale,
con grosse difficoltà e concessioni ai proprietari (sotto forma di rendite fondiarie);
poi si estende allo spazio intero, al sottosuolo e ai volumi al di sopra di esso. Lo spazio intero deve ricevere un valore di scambio».
L'idea dell'esistenza di un secondo circuito del capitale si propone a partire da
una combinazione di elementi che comprendono da un lato gli elementi finanziari (le banche, le compagnie di assicurazione e i programmi statali di investimento), dall’altro lato gli investitori, i developer, i proprietari di immobili e tutti gli
individui che realizzano dei profitti dal mercato dei suoli (Gottdiener, 2000, p.
95). Per Lefebvre, questa tendenza avrebbe prodotto degli importanti effetti:
l’incremento degli investimenti nel secondo circuito del capitale avrebbe generato un consistente spostamento dallo sviluppo industriale all'investimento immo11
biliare (dai centri cittadini ai terreni periferici di basso costo).
L’idea dell’esistenza di un secondo circuito del capitale, distinto da quello teorizzato da Marx, introduce l’ipotesi che il settore immobiliare – il real estate –
rappresenti un circuito separato del capitale. Questa ipotesi può essere chiarita
attraverso un esempio. Quando noi facciamo riferimento alle attività economiche, descrivendo il modo con il quale queste implicano l’uso del denaro da parte
di investitori, l’assunzione di lavoratori, la produzione di prodotti o servizi in
un’industria e la vendita dei beni o dei servizi prodotti in un mercato a scopo di
profitto che, a sua volta, può essere utilizzato per ulteriori investimenti, noi facciamo riferimento al ‘circuito primario del capitale’. La produzione automobilistica è un buon esempio del funzionamento di questo circuito: buona parte del
profitto creato nelle società capitaliste è (ancora) di questo tipo. Per Lefebvre,
accanto a questo circuito esiste – e va assumendo una importanza fondamentale
per l’analisi sociologica urbana – il secondo circuito del capitale, che si realizza
negli investimenti immobiliari. È il caso di un investitore che acquista una porzione di terreno: questo può essere acquistato o può essere trasformato per altri
usi, può essere venduto in un mercato speciale dei suoli – il mercato del real
estate – o sviluppato a scopo di profitto. Il circuito si completa quando
l’investitore realizza il profitto e lo reinveste in altri progetti territoriali. Sostenendo il concetto che gli investimenti nel settore immobiliare spingono le politiche di crescita delle città in modi assai specifici, Lefebvre suggerisce (implicitamente) che il real estate non è (solo) un caso particolare di trasformazione dello
spazio – una derivata del circuito primario – ma un processo di riproduzione nel
quale le attività sociali non riguardano solo le interazioni tra gli individui ma
anche tra gli spazi (Gottdiener, Hutchinson, 2006, pp. 70-71).
Lefebvre ha compreso che le attività del real estate rappresentano una tipologia di investimento concorrente con altre nelle decisioni di allocazione di capitale da parte degli investitori e ha teorizzato in modo eccellente due aspetti:
in primo luogo che il mercato immobiliare è a tutti gli effetti parte integrante
del più vasto mercato dei capitali e, in secondo luogo, che il settore del real
estate, contrariamente alle attività industriali e commerciali, non necessita
della combinazione dei fattori di produzione in una struttura.
Seguendo le riflessioni di Lefebvre si giunge al nucleo di un aspetto molto
importante ma generalmente trascurato dalla letteratura. Gli investimenti nel
settore immobiliare hanno oramai cessato di rappresentare un ramo aggiunto
e per molto tempo arretrato del capitalismo industriale: sono passati in primo
piano e orientano le politiche di crescita delle città in modi assai specifici. Per
questo motivo è sbagliato considerare questo settore esclusivamente come un
caso particolare di trasformazione dello spazio – come se si trattasse unicamente del prodotto derivato dalle logiche socio-economiche che regolano il circuito primario del capitale – perché il real estate ha oramai assunto la consistenza di processo di riproduzione autonomo e separato.
Non ha quindi più molto senso liquidare la questione dello sviluppo immobiliare come irrilevante per le prospettive di crescita urbana per via della cronica arretratezza del settore edile rispetto alle più rampanti innovazioni tecnologiche a cui le città si abbandonano, o stigmatizzarlo in un’immagine demodè
di speculazione edilizia, come se i meccanismi di riproduzione fossero rimasti
fermi ai tempi delle vicende sanremesi narrate da Italo Calvino7.
«Noi» chi?
Nel proprio monologo, Nottola fa riferimento a un’azione congiunta: la tra7
Il riferimento a Italo Calvino, è La speculazione edilizia, pubblicato nel 1957.
12
sformazione urbana sembra, infatti, necessitare di un attore collettivo sufficientemente coeso – un ‘noi’ – che si deve fare carico di predisporre tutte quelle attività necessarie per reindirizzare l’edificazione: «da là, la dobbiamo fare
arrivare qua». È mediante la manipolazione del sistema decisionale – principalmente orientando la predisposizione di infrastrutture pubbliche: «dobbiamo
solo fare in modo che il Comune porti qua le strade, le fogne, l’acqua, il gas, la
luce e il telefono» – che Nottola può realizzare l’enorme plusvalore generato, a
favore esclusivamente del gruppo di attori compreso nel ‘noi’, dagli investimenti effettuati con denaro pubblico.
Se la coalizione del ‘noi’ si dimostra capace di manipolare le condizioni necessarie a reindirizzare l’edificazione, allora il gioco sembrerebbe semplice e – scontata una totale spregiudicatezza – anche scevro da possibili complicazioni: «niente affanni e niente preoccupazioni. Tutto guadagno e nessun rischio».
Da chi è composto il gruppo del ‘noi’?
Seguendo la logica binaria prevalente8 si sarebbe portati a sostenere che, in
una prospettiva di sviluppo, il 'noi' dovrebbe essere rappresentato dalla collettività, o quanto meno da un ampio gruppo di destinatari della redistribuzione
del surplus generato dall'impresa, mentre invece, in una logica di rendita il
'noi' coinciderebbe fatalmente con una ristretta cricca di beneficiari a discapito
di una vasta platea di destinatari che, nel migliore dei casi non otterrebbero
alcun beneficio e, nel peggiore, vedrebbero peggiorare le proprie condizioni di
cittadinanza9. Quest'ultima – se ci limitiamo a un'analisi superficiale del film di
Rosi – sembra essere il filo portante delle vicende napoletane descritte ne Le
mani sulla città.
Dobbiamo perciò accogliere l'impressione che la real estate community
coincida con i beneficiari della spartizione organizzata da Nottola?
Il primo (e, per certi versi, l’unico) autore che ha cercato di dare una risposta articolata e non soggetta a pregiudizi morali è stato Harvey Molotch
(1976). Molotch è partito dalla convinzione che le politiche di sviluppo urbano
non rappresentano solamente una delle molteplici sfaccettature delle politiche
locali ma, piuttosto, la posta più importante intorno alla quale vengono costruiti i governi locali. Tutte le altre issue, nonostante le passioni che sembrano ispirare, sono di secondaria importanza. La tesi che si sostiene è che una
coalizione di élite – nei lavori successivi (Logan e Molotch, 1987), una rentier
class – possieda una precisa e interessata visione dello sviluppo futuro della
città e abbia il potere di attuarla.
Molotch ha nominato questa élite una growth machine e l’ha identificata come qualcosa di più complesso di un’alleanza tra il sindaco, l’ufficio di pianificazione e la business community. La rentier class che compone la coalizione dominante è composta da quelle persone che, partecipando con le proprie energie – e,
in particolare, con le proprie risorse economiche – hanno più da guadagnare o
da perdere a seconda delle decisioni riguardanti gli usi del suolo. Particolarmente prominenti in questa coalizione sono i proprietari e i gestori dei grandi patrimoni immobiliari, gli investitori istituzionali, gli istituti di credito e i developer.
A corollario della rentier class, Logan e Molotch collocano tutti quei professionisti – consulenti legali e finanziari, intermediatori immobiliari, progettisti – e altri
attori ancora che anche se non personalmente coinvolti nelle vicende di sviluppo, vedono le proprie carriere simpateticamente legate all'intrapresa di strate8
Quella descritta precedentemente (cfr. supra), caratterizzata da dicotomie del tipo: sviluppo/rendita; investimento/speculazione; libero scambio/monopolio.
9
Rosi porta quasi al paradosso questo punto nella scena in cui il scialbo consigliere di opposizione, il comunista De Vita, rimprovera la popolazione proletaria e sottoproletaria del vicolo colpito
dal decreto di sgombero per fare posto ai palazzi di Nottola: «lo volete capire che siete voi che gli
date la forza di fare quello che vogliono?».
13
gie di crescita urbana. L’operato di una growth machine non sarebbe però completamente efficace senza il ruolo decisivo dello Stato che, attraverso la creazione di un sistema efficiente di trasporti e di comunicazioni, la produzione di beni
collettivi quali l'istruzione, la sanità, l'abitazione, la cultura, la proliferazione delle sovvenzioni pubbliche e dei trasferimenti d'imposta e la regolazione del costo
del lavoro, mette in opera una serie di misure che contribuiscono a diffondere
quello che Logan e Molotch (1987, pp. 57-62) definiscono un modern good-day
business climate. Sebbene il tipo di good business perseguito dagli attori pubblici
possa differire molto da luogo a luogo (p. es.: investimenti in nuove tecnologie,
ricerca e sviluppo, turismo, cultura, ecc.), per Logan e Molotch (1987, p. 58),
«ciascuno di questi arcobaleni finisce inevitabilmente dentro la stessa pentola
d'oro: maggiori valori fondiari, aumento degli affitti e incrementi significativi
per i salari dei professionisti più qualificati».
Fig. 3. Il Sindaco di Napoli presenta alle autorità il nuovo piano di
sviluppo urbano (fonte: F. Rosi, Le mani sulla città, 1963)
La tesi delle growth machine prosegue apparentemente sulla linea ipotizzata da Nottola ma articola in maniera molto ampia – forse troppo ampia – il concetto di real estate community, trascendendo sia l'idea di comunità propria
della sociologia, sia quella di élite derivata dalle scienze politiche e dalla sociologia. Si tratterebbe, piuttosto, di una filiera debolmente organizzata di attori
urbani che, perseguendo scopi differenti, convergono con intensità e interazioni variabili sul tema dello sviluppo urbano. Con queste caratteristiche, la
tesi delle growth machine, poiché comprende qualsiasi attore interessato ai
processi di ristrutturazione urbana – dai grandi investitori istituzionali ai piccoli proprietari di appartamenti – può essere classificata come una delle numerose policy community che costellano le politiche urbane. I processi di urbanizzazione si rivelerebbero quindi assi più plurali (in termini di attori coinvolti) e più frammentati (in termini di interazioni tra gli attori stessi) di quanto la teoria di Logan e Molotch inizialmente prometta.
A tutto ciò va aggiunto l'effetto correlato dei processi di globalizzazione che
favoriscono lo sviluppo– anche in Italia – di nuove organizzazioni internazionali in grado di pianificare, finanziare e realizzare importanti progetti di sviluppo
immobiliare. Si tratta di un (relativamente) nuovo tipo di real estate company,
in grado di operare contemporaneamente in più nazioni. L’emergere di questi
global player sposta l’attenzione sui processi decisionali dal livello locale ai livelli superiori di governo, mette in questione le dimensioni locali, del regionali
e nazionali della real estate community, complicandone ulteriormente l'identificazione. Una ulteriore conseguenza dell'allargamento dei mercati immobiliari
è rappresentata dalle differenze tra i sistemi politici nazionali: ciò comporta
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delle variazioni non indifferenti tra i legami tra l'industria del real estate, i politici nazionali e quelli locali, tra le modalità di governance e di formazione di
coalizioni decisionali.
Sviluppato lungo questa direzione il concetto di real estate community si rivela sfuggente. Se l'immagine di Nottola ci appare al contempo molto chiara ma
rozza e irreale, le successive evoluzioni – che qui abbiamo solo brevemente e
parzialmente illustrato – ci introducono in una pluralità di relazioni sociali, politiche, economiche e geografiche tali da farci apparire improbabile l'esistenza di
una community, almeno intesa nel senso scientifico del termine.
Tuttavia, l'insistenza con la quale il mondo del real estate presenta se stesso
come una community è troppo persistente per essere liquidata in questo modo.
Si tratta forse di una comunità comunicativa?
In fin dei conti non facciamo molta difficoltà ad accorgerci che la stampa specializzata tende a presentare i developer – qualunque sia la loro natura e le motivazioni economiche che li animano – come attori benevolenti che svolgono una
importante missione sociale nell'ambito dello sviluppo economico urbano. In
questa letteratura, il significato attraverso il quale le operazioni di trasformazione urbana sono comunicate, assume molto spesso le sembianze di una produzione di valore di cui a beneficiarne non è solo l'intera filiera dei servizi postindustriali, ma la città nel suo complesso. È in questo modo che le attività immobiliari sono presentate – almeno sul piano simbolico – come servizi di pubblica utilità. Non sorprende che, nelle retoriche e nelle rappresentazioni postindustriali
delle pubbliche amministrazioni, tra le nuove categorie di benefattori urbani,
sempre più frequentemente si trovino nei posti di rilievo i developer, con il loro
ruolo di promotori del proprio interesse e dell'interesse pubblico10.
«Il denaro è come un cavallo: deve mangiare tutti i giorni»: il secondo circuito del capitale al lavoro
In un movimentato incontro con Maglione – leader della maggioranza comunale di destra – Nottola si trova a dover replicare all'ipotesi di fermare, anche solo se temporaneamente, il cantiere di Vico Sant'Andrea, con l'intento di
gettare acqua sul fuoco del montante scandalo politico. Ma quest'ultimo insiste
per lo sgombero: «devo riprendere i lavori di costruzione, perché quando i lavori si fermano, si fermano pure le banche (...) Maglione, il denaro non è un'automobile che la tieni ferma in un garage, è come un cavallo, deve mangiare tutti i giorni».
Anche se in modo rudimentale, il ragionamento di Nottola si conforma alle
ipotesi di Lefebvre in merito al secondo circuito del capitale. Detto diversamente, il costruttore napoletano riconosce: (i) che il processo di urbanizzazione è
parte di un mercato della terra e degli immobili in perenne movimento; (ii) che
tale mercato non è nelle mani del singolo costruttore, ma è regolato da un complesso insieme di istituzioni di supporto che garantiscono la protezione dei diritti di proprietà, l'applicazione dei contratti e il rispetto dei finanziamenti immobiliari; (iii) che i lavori di costruzione non sono una merce comune perché poggiano su del capitale finanziario messo in circolazione attraverso appositi strumenti e precise obbligazioni (che sono andati entrambi sofisticandosi dai tempi di
10
Così il Sindaco di Torino, Piero Fassino, ha concluso (tra gli applausi) il suo breve intervento
al convegno Le professioni immobiliari tra presente e futuro, tenutosi a Torino il 14 ottobre
2011 in occasione delle celebrazioni di Italia 150: «vent'anni fa la città si è dovuta confrontare
con un parco di oltre 10 milioni di aree industriali dismesse (...) In questo contesto, la trasformazione urbana si è rivelata l'elemento dinamico di crescita (... Considerato che) le risorse per
portare a compimento tutto ciò che si vuole fare non sono infinite, per questo vi vendo Torino».
15
Nottola a oggi). In sostanza, Nottola si riferisce a una dimensione finanziaria del
denaro basata su aspettative future e sugli sforzi per farlo rendere al massimo.
Attraverso un ragionamento ben più sofisticato, più o meno negli stessi anni, Lefebvre aveva iniziato a osservare che, mentre il capitalismo industriale
del XIX secolo aveva generato una specifica forma urbana, fondata sulla divisione del lavoro, con l’avvento del XX secolo la società industriale capitalista
era stata trascesa dalla società urbana. In altre parole, Lefebvre, ne La production de l’éspace (1974), ha sostenuto che con il XX secolo è giunto a maturazione il momento urbano (o quantomeno possiamo dire che è iniziato). Non è
più l’industrializzazione a produrre urbanizzazione ad essa asservita, ma è
l’esatto contrario: si è aperta un’era di transizione nella quale il capitalismo di
cui Marx ha scritto nel Capitale iniziava ad apparire un artefatto storico. Come
abbiamo già visto precedentemente (cfr. supra): è il circuito secondario del capitale – quello che riguarda la produzione di surplus non più attraverso la produzione, ma attraverso la finanza e la speculazione – a essere divenuto egemone. Per Lefebvre, l’idea dell’esistenza di un secondo circuito, distinto da quello
teorizzato da Marx, introduce sia l’ipotesi che il settore immobiliare – il real
estate – sia a tutti gli effetti un circuito separato e distinto dal capitale industriale, sa la constatazione che le attività del real estate rappresentino una tipologia di investimento concorrente con altre nelle decisioni di allocazione di
capitale da parte degli investitori istituzionali.
Alcuni decenni dopo le intuizioni di Lefebvre, il neologismo ‘finanziarizzazione immobiliare’ – per certi versi un ossimoro – coglie bene questo aspetto e
testimonia l’avvenuta fusione tra il mercato immobiliare e quello azionario. Gli
asset immobiliari, per loro natura inamovibili dal luogo in cui sono collocati,
possono oggi essere trattati con una logica identica a quella del mercato dei titoli ed essere scambiati sul mercato secondario.
È significativo considerare che in Italia, la crisi del settore immobiliare della
fine degli anni ’80 ha generato una profonda riflessione sulle modalità e sui
problemi che l’investimento immobiliare comporta. In particolare, il ciclo negativo di quegli anni ha evidenziato una inversione della tendenza degli immobili a rivalutarsi nel tempo, focalizzando l’attenzione sui flussi di cassa periodici che il bene immobile può generare. Il passaggio da una logica patrimoniale,
basata sulla plusvalenza realizzabile grazie alla ‘naturale’ rivalutazione nel
tempo dell’immobile – il ‘mattone’ – a una logica nuova, di tipo reddituale, ha
comportato una significativa riconfigurazione dei criteri di investimento immobiliare. Nella sostanza, ciò ha comportato un deciso cambiamento nel concetto di ‘valore dell’immobile’ che è sempre più frequentemente posto in relazione alla sua redditività, piuttosto che alla plusvalenza generata dalla rivalutazione dell'immobile stesso nel tempo. Lo spazio costruito diviene quindi un
oggetto di investimento finanziario il cui obiettivo è quello di conseguire un
reddito periodico competitivo rispetto ad altre forme di investimento finanziario11.
11
I fondi immobiliari costituiscono uno degli strumenti maggiormente rappresentativi di questa
transizione. Si tratta di un comparto – decollato con sensibile ritardo in Italia rispetto ad altri
paesi industrializzati. I fondi immobiliari sono uno strumento di risparmi gestito consistente in
un “patrimonio autonomo diviso in quote di partecipazione di eguale valore unitario, sottoscritte
da una pluralità di investitori con lo scopo di investirlo interamente in beni immobili e partecipazione a società immobiliari, attraverso un’adeguata classificazione tipologica e geografica del
portafoglio, sulla base di una delega collettiva a un intermediario professionale specializzato: la
Società di Gestione del Risparmio (SGR), che assume verso i sottoscrittori le responsabilità del
mandatario” (Breglia, Catella, 2000, p. 54). Entro questa dimensione, assumeno un particolare
significato concetti quali il portafoglio immobiliare – che rappresenta un insieme di immobili
scelti secondo una precisa strategia fondata su sinergie che derivano da un mix ottimale (tipologia, localizzazione, ecc.) – e attività come il portfolio management, ovvero l’attività che conduce
16
Seguendo queste considerazioni, torniamo a domandarci se le preoccupazioni espresse da Harvey in merito alle (vere o presunte) responsabilità della
finanza immobiliare nei confronti dell'attuale recessione mondiale debbano essere comunque considerate come testimonianza della capacità del real estate
di condizionare non solo i destini locali, ma anche le economie mondiali. Harvey (2012, pp. 57, 58, passim), ovviamente non ha dubbi al proposito e cita la
crisi mondiale del 1973, originata da un crollo globale del mercato immobiliare
che ha spinto al fallimento diverse banche; la fine del boom giapponese negli
anni '90 a causa della caduta dei prezzi dei terreni; il crollo del Sud-Est asiatico
per via dell'eccessivo sviluppo urbano della Thailandia, sino ad arrivare alla
recente crisi dei mutui subprime.
Conclusione: critiche ricorrenti, pregiudizi e amore per la città
Sarebbe davvero tempo di occuparci dei processi di urbanizzazione a partire
da una prospettiva sociologica, evitando così che l'intera questione si riduca a
diventare o una questione di acquisizione di precisi skill professionali indispensabili per entrare a fare parte di una community che si presenta ricca di opportunità, o una questione di esclusiva pertinenza del cosiddetto 'giornalismo di inchiesta' che non perde occasione per dipingere come la stessa community come
antagonista della 'buona società civile' – una sorta di Baba Jaga in fiabe contemporanee quasi mai a lieto fine. Le stesse argomentazioni di Harvey, sebbene non
appartengano a nessuna di queste due categorie, finiscono per essere crivellate
dai dilemmi che tormentano da sempre le teorie marxiste. Nello specifico, possiamo certamente condividere che in qualsiasi momento storico sia possibile riconoscere particolari intreccio tra capitale e sviluppo immobiliare, ma facciamo
invece fatica a considerare la storia dello sviluppo urbano ridotta a un'immagine
caricaturale, come se si trattasse del racconto di come il capitalismo sia in grado
di raggiungere i propri obiettivi, praticamente senza alcun impedimento o resistenza. O come se si trattasse di un processo decisionale limitato a due soli attori, nominati real estate e finanza.
Quello che ci manca, in realtà, sono le argomentazioni della real estate
community, raccolte e ordinate all'interno di un protocollo di ricerca che abbia
l'ambizione di evitare di cadere sia nei luoghi comuni e nelle trappole ideologiche, sia nell'assunzione superficiale delle rappresentazioni comunicative –
molto spesso vicine al gossip – che la community offre di se stessa nelle sempre
più frequenti presentazioni pubbliche. Occorre un lavoro di ricerca che si presenta ostico per via della estrema riservatezza con la quale la community protegge i propri affari e per il forte radicamento di un sistema di pregiudizi. Per
un sociologo che intenda affrontare questa strada, risolvere il primo punto
comporterà armarsi di grande pazienza e capacità introspettiva nei rapporti
con i propri soggetti di ricerca. Paradossalmente, ancora più complicato appare la soluzione del secondo punto.
I pregiudizi sono duri a morire.
Se ne accorse anche Francesco Rosi. Questo il pesante giudizio del Centro Cattolico Cinematografico a Le mani sulla città (cit. in Mancino, Zambetti, 1998, p.
55. enfasi aggiunta):
«Se il film si fosse limitato a prendere energicamente posizione e a condannare il
fatto denunciato e cioè l'operato di quanti sfruttano la loro autorità civile e politica
alla selezione di una combinazione di immobili capaci di assicurare determinate caratteristiche
in termini di rischio o potenziale reddituale, dopo essere stati riuniti a formare un portafoglio.
17
per attuare colossali speculazioni economiche a proprio vantaggio, potremmo senza
dubbio aderire alla tesi che vede prevalere l'impegno sociale su quello politico, e accoglierlo con tutta la simpatia che può suscitare un'opera che seriamente e coraggiosamente richiami gli uomini politici ai loro doveri. Ma il film di Rosi è tendenzioso ed equivoco, e la polemica contro la speculazione edilizia diventa un pretesto per
fare della propaganda, e faziosa per di più, come è facilmente ricavabile sia dal tono
comiziesco che il film spesso assume, sia dal modo in cui è congegnato il racconto,
sia dal modo in cui sono stati prospettati i personaggi e i rapporti che tra loro vengono a instaurarsi. Nette riserve».
Nei fatti, il Centro Cattolico Cinematografico rimproverò a Rosi di avere dato voce a tutti i personaggi, comprese quelle degli speculatori mettendo sullo
stesso piano chi subisce una drammatica speculazione con chi pensa di contrastarla senza fare i conti con la 'libera iniziativa'. È proprio in questo che sta l'originalità del lavoro di Rosi: andare oltre il pregiudizio e dare liberamente voce
ai protagonisti, senza escluderne preventivamente alcuno, senza esercitare un
particolare giudizio morale nella costruzione di ciascun personaggio.
Proprio per questo il film subì la stroncatura furiosa di una parte della sinistra che critico la scelta di Rosi di non manipolare ideologicamente i personaggi del film: operando questa scelta, il regista ha finito per esaltare la figura di
Nottola come vero eroe della vicenda. Rosi fu, nei fatti, accusato di avere subito
la fascinazione di Nottola, raffigurandolo ora come un dominatore che, dall'alto
del proprio quartier generale, guarda la città come un'immensa preda immersa
nel buio, ora come un oratore convincente, capace di sovrastare il capogruppo
della sinistra, De Vita (raffigurato raggomitolato contro una parete bianca,
come un pugile messo alle corde), capace solo di vaghe argomentazioni legalistiche, ora come il boss di una political machine che va «ad accendere ceri elettrici alla Madonna, in una chiesa di quella Brooklyn che è Napoli» (ibid., p. 65),
infine come una forza necessaria alla città.12
In questo saggio abbiamo più volte richiamato il pensiero e l'opera di David
Harvey e di Henri Lefebre. Prima di concludere dobbiamo marcare la grande
differenza tra i due autori: l'assoluta mancanza di connotazioni ideologiche militanti del sociologo francese nei confronti del geografo britannico. Mentre per
Harvey in qualsiasi manifestazione urbana è sempre presente la minaccia cospiratoria del capitale globalizzato e, di conseguenza, la prospettiva radicale
del conflitto, in Lefebvre i termini della questione sono esposti in modo tale da
tenere sempre distinto il pensiero teorico dall'inclinazione ideologica. Questo
non significa certo che Lefebvre sia da considerarsi meno marxista di Harvey,
al contrario, proprio perché interessato a comprendere gli effetti della produzione dello spazio riconosce pari dignità alle parti in causa.
Su questa linea di pensiero una tra le sue più affascinanti affermazioni è
contenuta ne Le droit à la ville (1968, tr. it. 1970, pp. 23-25, enfasi aggiunta):
«La città conserva un carattere organico di comunità che le proviene dal villaggio e
si traduce nell’organizzazione corporativa. La vita comunitaria (...) non impedisce
affatto le lotte delle classi. Al contrario. I violenti contrasti tra la ricchezza e la povertà, i conflitti tra i potenti e gli oppressi, non impediscono né l’attaccamento alla
città, né il contributo attivo alla bellezza dell’opera. Nel quadro urbano le lotte di fazione, di gruppo, di classe, rinforzano il senso di appartenenza. Le lotte politiche tra
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Mancino e Zambetti (1998, p. 65) riferiscono di un'intervista rilasciata da un collaboratore di
Rosi alla Gazzetta del Popolo: «(per Rosi), gli uomini come Nottola sono una forza, sono necessari
a una città, sia Napoli che qualsiasi altra. Per quello che creano, che mettono in movimento, per
le forze che suscitano e che stimolano, meritano anche un incoraggiamento. È l'ambiente che
incanala le loro energie su una strada sbagliata, è la situazione nel suo insieme, con quel che ha
di vecchio e di ingiusto, che ne fa dei nemici della società, mentre potrebbero esserne elementi
preziosi».
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‘popolo minuto’, ‘popolo grasso’, aristocrazia, hanno per terreno e per posta la città.
Questi gruppi sono rivali in amore per la loro città»
Fig. 4 Amore per la città. Torino, 2013 (fonte: foto dell'autore)
L'affermazione di Lefebvre – con i riferimenti all'opera e all'amore – è tutt'altro che sdolcinata: considerare la città come opera e riconoscere che portatori
di interessi molto differenti tra loro possano essere accomunati da sentimenti
amorosi, che, sebbene molto lontani tra loro, costituisce probabilmente, il più
promettente punto di partenza per considerare le complesse relazioni tra valore d'uso e valore di scambio, tra sviluppo e rendita.
Considerare le interazioni che avvengono nei processi di urbanizzazione ci
invita a considerare l'intera questione nei termini di diritto all'opera, intesa sia
come luogo dove la collettività possa soddisfare i bisogni e le ambizioni non solo di prodotti materiali, ma di attività creative, di immaginario e di gioco, sia
come luogo dove ciascun individuo possa liberamente perseguire interessi
propri e particolari nozioni di felicità, senza il pericolo che una istituzione onnipotente imponga la propria nozione di 'felicità collettiva'. Ovviamente, come
queste due tensioni possano trovare un reciproco punto di equilibrio è un affare tutt'altro che semplice.
Questo dovrebbe essere il punto di partenza per lo studio dei processi di urbanizzazione nell'alveo di una prospettiva sociologica urbana. Tuttavia, l'oblio
nel quale il pensiero di Lefebvre è caduto da decenni (soprattutto nel nostro
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paese) non lascia molte illusioni sul fatto che saranno molti i ricercatori che
sceglieranno di percorrere questo cammino.
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