COLLANA DEL CENTRO INTERUNIVERSITARIO PER LE RICERCHE SULLA SOCIOLOGIA DEL DIRITTO, DELL’INFORMAZIONE E DELLE ISTITUZIONI GIURIDICHE (CIRSDIG) 11 Comitato scientifico PROF. LARRY BARNETT, Widener University (USA) PROF. ROQUE CARRIÒN–WAM, Università di Carabobo (Venezuela) PROF. DOMENICO CARZO, Università di Messina PROF. ALBERTO FEBBRAJO, Università di Macerata PROF. MAURICIO GARCIA–VILLEGAS, Università Nazionale di Bogotà (Colombia) PROF. MARIO MORCELLINI, Università di Roma “Sapienza” PROF. EDGAR MORIN, École des Hautes Études en Sciences Sociale (France) PROF. VALERIO POCAR, Università di Milano “Bicocca” PROF. MARCELLO STRAZZERI, Università di Lecce Tutti i volumi pubblicati nella Collana del CIRSDIG vengono sottoposti a un processo di peer–reviewing. CIRSDIG – COLLANA DEL CENTRO INTERUNIVERSITARIO PER LE RICERCHE SULLA SOCIOLOGIA DEL DIRITTO, DELL’INFORMAZIONE E DELLE ISTITUZIONI GIURIDICHE La collana ospita interventi, teorici o empirici, che trattino i processi normativi e/o comunicativi riguardanti le trasformazioni in atto nel mondo contemporaneo e, in generale, gli aspetti di potere connessi a genere, razza e disuguaglianze presenti in tali processi. Più specificamente i testi pubblicati riguardano ad esempio: dinamiche e mutamenti sociali e giuridici; la cultura, gli immaginari collettivi e le trasformazioni sociali; i nuovi diritti civili, politici e sociali; la comunicazione e le Nuove Tecnologie. Sebastiano Nucera Corpi in-tessuti Evoluzioni e mutamenti delle pratiche vestimentarie Prefazione di Domenico Filippo Carzo Copyright © MMXIV ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 978–88–548–7065–9 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: marzo 2014 Ai miei genitori Indice 11 Prefazione 17 Introduzione 23 Capitolo I Sarti per necessità 1.1. Le intuizioni di Mark Stoneking e David L. Reed, 28 – 1.2. Designer di 170.000 anni fa, 32 – 1.3. I primi attrezzi del mestiere: selci, aghi e denti, 41 – 1.4. Tecnologie semplici e tecnologie complesse, 47 – 1.5. Tracce vestimentarie visuografiche: la Rock Art, 50 – 1.6. Dalle “veneri” alla “rivoluzione della lana”, 54 – 1.7. La prima ri-funzionalizzazione: l’abito è adattativo, 59 65 Capitolo II Un po’ di storia, ancora. La nascita della moda 2.1. L’alba della moda: il Medioevo, 66 – 2.2. La Rivoluzione industriale e la Rivoluzione dei consumi, 72 – 2.3. Tra parvenu e galateo: noiose rivoluzioni?, 78 – 2.4. La moda diventa industria, 81 – 2.5. Dal “Paradiso delle Signore” alla Street Fashion, 85 93 Capitolo III Modelli teorici dell’abbigliamento e della moda 3.1. Moda come imitazione, 94 – 3.2. Moda come distinzione, 96 – 3.3. Moda come linguaggio, 102 – 3.4. Moda come performance, 107 – 3.5. Cosa è la “moda”?, 110 9 10 115 Capitolo IV Corpo, moda, comunicazione 4.1. The body project: questioni pratiche, 120 – 4.2. The body project: tecnologie, etica e privacy, 128 – 4.3. Strumenti di conoscenza: abiti e accessori, 136 – 4.4. Smart Clothing ovvero “abbigliamento intelligente”, 140 147 Conclusioni 151 Bibliografia Prefazione (di Domenico Carzo) Il volume di Sebastiano Nucera – dedicato all’evoluzione ed ai mutamenti delle pratiche vestimentarie – si colloca tra quelle indagini della sociologia dei processi culturali che, privilegiando un’analisi diacronica dei fatti socio-culturali, tenta di spiegare trasformazioni e livelli di significazione a partire dagli aspetti strutturali e storico-evolutivi dei fenomeni analizzati. Un’analisi essenzialmente, ma non esclusivamente, macrosociologica che, probabilmente, per il taglio del volume, è l’approccio più adeguato e proficuo. Lo studio, che si concretizza nei quattro capitoli, si armonizza attraverso un problematico, ma riuscito, confronto con linee di analisi che talvolta valicano i confini della sociologia raccogliendo spunti di notevole interesse che consentono all’autore di stabilire letture plurivoche conducendo agevolmente il lettore attraverso tematizzazioni teoriche ed evidenze empiriche verso la conclusione e la dimostrazione delle tesi iniziali. Su queste vale la pena concentrarsi poiché rappresentano la sintesi di una lettura originale circa le evoluzioni dell’abbigliamento e delle pratiche vestimentarie. La tesi della “rifunzionalizzazione” dell’abbigliamento e dell’accessorio appare chiara sin dall’incipit del primo capitolo all’interno del quale, l’autore, non senza difficoltà, come ammette lui stesso, riesce a sintetizzare un notevole lavoro di ricerca teorica che analizza e spiega la storia dell’abbigliamento fin da suoi albori. Un lavoro che nella parte iniziale è incentrato sulle protoculture e che si 11 12 Prefazione rivela necessario e, per certi versi, dirimente all’interno di una prospettiva comparativa che sceglie di analizzare la cultura nella sua evoluzione socio-tecnica. L’autore, attraverso l’analisi di diversi studi sulle capacità simboliche desumibili dalle prove archeologiche in nostro possesso, dalle pitture parietali fino all’uso di pigmenti per la decorazione dei manufatti o del corpo (peraltro, come sottolinea l’autore, un utilizzo, quello della pigmentazione epidermica, ancora oggi globalmente diffuso), riesce a proporre una sintesi di notevole interesse. Si tratta di una prospettiva che retrodata la stessa storia del costume e individua negli abiti, o nelle pelli assemblate che avrebbero costituito le prime forme di protezione, non solo un manufatto che incorpora una funzione ma, proprio a partire da quest’ultima, il riverbero di una struttura socio-culturale. La prima parte del volume presenta rilievi di concreta originalità quando l’autore realizza un confronto ed una complementazione teorica all’interno dei due modelli, quello di Stoneking e Reed e quello di Ian Gilligan, permettendo all’analisi sociologica di confrontarsi, ad armi pari, con le scienze cosiddette hard. Un confronto più che riuscito e che, oggi più che mai, risulta essere una linea di indagine all’interno della quale gli equilibri della sperimentazione sociologica si fondono e, in un certo senso, diventano prolifici strumenti interpretativi di linguaggi differenti che dilatano e ri-strutturano il concetto stesso di cultura. Su questo punto Sebastiano Nucera dimostra una buona destrezza argomentativa e teorica. D’altra parte, spesso, nell’esaminare un processo culturale in termini diacronici, evidenziarne le ricadute socio-culturali, metterne in mostra i livelli di significazione che strutturalmente e funzionalmente cambiano e riaccordando l’incessante, mutevole e diadica relazione dell’individuo con il suo ambiente culturale e fisico, si nasconde una delle più antiche (e oggi, ormai, obsolete) opposizioni, ovvero quella tra “natura” e “cultura”. Lo stesso Lévi-Strauss, come è noto, aveva evidenziato come tale dicotomia non avesse alcun significato storico e che questa opposizione fosse, molto semplicemente, la risultanza di una mera faccenda metodologica (Kilani, 2011; Carzo, 1977). Emerge in maniera chiara, in questa sezione del volume, l’intento dell’autore di sottolineare la consistenza del rapporto tra le pratiche, Prefazione 13 gli artefatti ed un concetto interessante e di grande attualità: la “cultura cumulativa” ovvero l’accumularsi di innovazioni e trasformazioni delle pratiche, da parte degli attori sociali, così da rendere i nuovi artefatti (ma non solo) più funzionali. Questo aspetto, legato al mondo della pratica sociale, permette all’autore una critica costruttiva del modello probabilmente troppo onnicomprensivo proposto da Ian Gilligan, proponendo una complementazione teorica, a partire dalle considerazioni di Marcel Mauss, relativamente al ruolo che la cultura avrebbe giocato nell’acquisizione e nel perfezionamento di competenze tecniche utili al raffinamento procedurale, tecnico e funzionale degli abiti, e di Etienne Wenger declinando, per i suoi scopi, il concetto di “comunità di pratica” e di forme di “impegno reciproco”. In particolare il concetto di Wenger appare ben collocato all’interno della cornice teorica proposta dall’autore. L’intento è quello di ipotizzare un universo simbolico a partire da considerazioni che, ad un primo sguardo, potrebbero apparire ovvie. Si tratta, infatti, di immaginare i primi processi creativi come “momenti di interazione” che travalicano lo stesso processo divenendo modelli di apprendimento collaborativo/cooperativo esattamente come teorizzato da Wenger. Non c’è alcun motivo di immaginare tali dinamiche diversamente, se non correndo il rischio, come specifica l’autore, di scadere in un inutile “cronocentrismo”. È interessante notare, infatti, come le conseguenze di questa posizione teorica abbiamo un’importante funzione nel dimostrare le tesi dell’autore che, nelle conclusioni della prima parte del volume, utilizzando le importanti eredità teoriche di Roland Barthes e Marshall McLuhan specifica una doppia dimensione dell’abito: da un lato evidenzia come dopo una «blanda evoluzione creativa» acquisisca un livello di significazione che si compone proprio a partire dalle rappresentazioni degli artefatti stessi e dalle possibilità d’azione che si realizzano come esito di un’intersoggettività, ovvero «di un agire in un ambiente comune, che comprende l’incontro, l’osservazione e la cooperazione in eventi in situazioni concrete»1; dall’altro specifica la dimensione “estensivo-protesica” dell’abito stesso. 1 T. INGOLD, Ecologia della cultura, Meltemi, Roma 2004, p. 29. 14 Prefazione Quest’ultimo punto è, probabilmente, il più interessante non tanto per la dimensione teorica scaturente, peraltro eviscerata all’interno di una letteratura scientifica sterminata, quanto per l’utilizzo speculativo che l’autore mette in atto nella parte conclusiva del lavoro dove realizza, come si vedrà, la dimostrazione della seconda tesi, ovvero quella della “transizione funzionale” dell’abbigliamento attraverso la wearable technology. Nella seconda e terza parte del volume l’autore, attraverso un difficile ma ben riuscito shift tematico, propone una riflessione storicoculturale sulla genesi del costume e della moda integrando, molto opportunamente, punti di vista critici, osservazioni personali e linee teoriche che riprendono noti modelli socio-antropologici e semiotici all’interno di una dimensione che oltrepassa un semplice resoconto evolutivo e realizza un originale cronistoria interpretativa, di natura transdisciplinare, con continui rimandi sia al contesto storico ed economico di riferimento sia rielaborando concetti e teorie provenienti da analisi di carattere socio-antropologico, dagli studi culturali, dalla filosofia del linguaggio. Questo aspetto, come sottolineato dall’autore stesso, è necessario per due scopi distinti. Da un lato la doverosa contiguità metodologica/procedurale rispetto alla prima parte del volume, con lo scopo di evidenziare il processo storico di “ri-funzionalizzazione” e insieme di “connotazione simbolica” che trasfigura e traduce nuovi livelli di significazione sociale dell’abito stesso, che a cavallo tra il Medioevo ed il Rinascimento, segnala, in maniera inequivocabile, la comparsa delle prime forme di moda; dall’altro quello di creare il background teorico-argomentativo sia per un’agile ma attenta analisi critica dei classici della sociologia come Simmel, König, Spencer, Tarde e Veblen, sia per determinare le implicazioni socio-culturali che hanno oggi la moda e l’abbigliamento attraverso un’agile rassegna di studi ed analisi aventi per oggetto il tema indagato. L’ultima parte del volume è, certamente, la più innovativa ed attuale sia per la metodologia utilizzata dall’autore, sia per quanto riguarda gli oggetti d’analisi e per l’impatto che questi ultimi hanno nello strutturare nuove dinamiche sociali-culturali legate al consumo. Prima di addentrarsi verso l’analisi di un modo nuovo di con- Prefazione 15 cepire l’abbigliamento l’autore, opportunamente, descrive con attenzione le problematiche connesse all’utilizzo delle tecnologie nell’industria vestimentaria, e, più in generale, i problemi di carattere etico derivanti dall’implementazione di un “doping tecnologico”. È singolare, infatti, come anche wearable technology e smart clothing ripropongano l’annoso problema della necessità di strutturare meglio gli impianti legislativi atti a proteggere la sfera privata degli attori sociali. L’autore propone, come sintesi del dedalo concettuale presentato nelle sezioni precedenti del lavoro, una prospettiva metodologicamente sincretica che, in sostanza, identifica il corpo come “luogo tecnologico”. Riprendendo, nuovamente, le tesi di Marshall McLuhan (1964), l’abito e l’accessorio, anche «non necessariamente alla moda», diventano una “seconda pelle” o una “protesi tecnologica” in un senso del tutto nuovo. Questo aspetto, come sottolineato dall’autore, oltre ad avere chiare ripercussioni sul “mercato di moda” suscita una serie di interrogativi relativamente alla necessità di ridisegnare le nozioni di “performance contestuale” e di “tecnologie della comunicazione”. In tal senso, infatti, la “tecnologia indossabile” o wearable technology, pur mantenendo una propria ed esclusiva dimensione “vestimentaria” pone la necessità di riformulare il concetto di second skin di McLuhan (cfr. de Kerckhove, 1998). Sebastiano Nucera, infatti, procedendo ad una attenta e meticolosa descrizione delle applicazioni più recenti in fatto di “tecnologia indossabile”, sottolinea come il nuovo ambiente tecnologico che si viene a creare costringe a ripensare le relazioni/mediazioni che si instaurano tra gli attori sociali ed il loro habitat comunicativo. D’altra parte, una porzione delle tecnologie indossabili comporta il ripensamento dello spazio info-comunicativo all’interno del quale gli individui interagiscono tra di loro ed esperiscono nuove modalità di fruizione dei flussi informazionali. Si tratta, infatti, di un passo ulteriore verso una capillarizzata “cittadinanza digitale” che, se da un lato concorre a reificare un nuovo “oggetto culturale”, il soggetto, appunto, dall’altro definisce dimensioni d’uso dei devices che si collocano all’interno di una classifica ideale in relazione alle loro capacità di compenetrazione sociale, velocità di esecuzione e processa- 16 Prefazione mento delle informazioni, ergonomie d’uso. In tal senso, appare dirimente la proposta dell’autore circa l’idea di considerare i processi di desomatizzazione e risomatizzazione indotti e mediati dalla wearable technology, come una capacità nuova e altra di autopoiesi. Si tratta, in fondo, di un’ulteriore funzionalizzazione, questa volta indotta dall’abito sul “suo disegnatore”. Questa transizione, secondo l’autore, non solo rappresenta un “naturale” progresso nell’acquisizione di nuove modalità di inter-azione ma è certamente diversa rispetto a tutte le altre: riprendendo un concetto di de Kerckhove, l’abbigliamento e l’accessorio diventano delle “psicotecnologie” in senso molto largo poiché il loro uso e le loro applicazioni, producono delle profonde trasformazioni nella psicologia individuale, nei rapporti tra gli agenti sociali e nell’affermarsi di nuove strategie “linguistiche”. Il corpo, quindi, mediato da una tecnologia indossabile acquista un nuovo livello di significazione attraverso, ancora una volta, una ultra-evoluta produzione vestimentaria, che costruisce narrazioni della quotidianità utilizzando “strumenti” che da 170.000 anni rendiamo sempre più ergonomici e funzionali. Messina, Università, 19 Gennaio, 2014 Domenico Carzo B ARTHES R., System de la Mode, Seuil, Parigi 1967 [trad. it. Sistema della Moda, Einaudi, Torino 1970] CARZO D., La società codificata. Simboli normativi e comunicazione sociale, Cacucci, Bari 1977 DE KERCKHOVE D., The Skin of Culture, Kogan Page Ltd, Londra 1998 K ILANI M., Antropologia. Dal locale al globale, Dedalo, Bari 2011 MCLUHAN M., Understanding Media: The extensions of Man, Ginko Press, Berkley, 1964 [trad. it Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 2008] Introduzione L’abbigliamento è essenziale per la nostra esistenza, ma chiaramente non è “naturale”: nasconde quella che dovremmo vedere come “la verità” […]. Veniamo al mondo nudi ma ne usciamo vestiti. L’abito è cultura. (Jack Goody) Gli studi sull’abbigliamento non passano di moda. Almeno non ancora. Si tratta di un fenomeno che, come vedremo, ha interessato l’uomo ben prima rispetto alle date formali che è possibile rintracciare nei manuali di storia del costume. Non si tratta, chiaramente, di retrodatare l’inizio delle analisi che hanno per oggetto l’abbigliamento. Sarebbe troppo semplice e non servirebbe scrivere un libro per palesare questo intento. Il volume nasce da tre anni di riflessioni e ricerche in un ambito, quello delle pratiche vestimentarie e della moda che, per definizione, è polimorfico, fugace, effimero e probabilmente ciò costituisce la solida base di un fascino esclusivo. Proprio per questo motivo, avvicinarsi allo studio dell’abbigliamento, comunque lo si consideri, nasconde sotto le sue spoglie, una serie di insidie metodologiche ed argomentative che, nella migliore delle ipotesi, finirebbero per concretizzare un resoconto parziale o riproporre idee abbondantemente analizzate all’interno di una copiosa letteratura. Scorrendo le pagine di un qualsiasi libro di storia del costume, ciò che appare immediatamente evidente, nella pienezza e nell’abbondanza di fogge, stili, colori e tessuti, è un cambiamento lento e impercettibile per lunghi periodi di tempo che a fronte di una cristallizzazione temporale presenta, però, una notevole e cangiante distribuzione geografica. Probabilmente, qualche anno fa, ci saremmo limitati ad un’analisi diacronica sulla scorta delle competenze pregresse di chi scrive che, 17 18 Introduzione inevitabilmente, ci avrebbero portato a privilegiare alcuni aspetti piuttosto che altri. Ciò, in verità, traspare nella prima parte del volume dove con vivo e profondo interesse abbiamo provato ad evidenziare come quando si tratta di spiegare le evoluzioni socio-culturali che hanno interessato il nostro passato, l’interpretazione dei dati provenienti dall’archeologia o dalla paleoantropologia, si prestano, alla lente della sociologia, per un’analisi ricca di contenuti, dettagli e sperimentazioni teoriche tali da concretizzare uno sprint straordinario nell’analizzare problemi di indiscussa importanza. L’evoluzione delle pratiche vestimentarie è un esempio lampante di come la sociologia, e, in particolare, la sociologia dei processi culturali, possa servirsi di una sterminata quantità di dati per elaborare prospettive complementari, per nulla scontate, all’interno di paradigmi spesso cristallizzati su asettiche interpretazioni che lasciano poco spazio al dibattito. Proprio per questo motivo si è cercato di stilare un programma d’analisi e di ricerca che rendesse conto delle molteplici forme sociali dell’abbigliamento e attuando una prospettiva che (di)spiegasse la coesistenza di proprietà pratiche, edonistiche, cromatiche, materiche, estetiche. Un programma ambizioso, certamente mancante in certe sue parti di ulteriori avvicendamenti teorici, ma che ha reso possibile una, ci auguriamo, armonica tessitura di concetti, idee e teorie provenienti da universi disciplinari diversificati. Ci rendiamo conto, naturalmente, dell’enorme ventaglio di significati che l’espressione “pratiche vestimentarie” può assumere in relazione alla metodologia d’analisi utilizzata e per questo motivo abbiamo prestato molta attenzione nel contestualizzare correttamente una terminologia appropriata che permettesse di identificare, senza ambiguità, i contorni storici e culturali degli argomenti oggetto della nostra analisi. In questo caso presenteremo, nel primo capitolo, utilizzando la letteratura più recente e le prospettive più influenti, una storia dell’abbigliamento che non si ferma alla nascita delle prime civiltà umane ma, attraverso una bibliografia che sconfina in campi disciplinari diversi dalla sociologia dei processi culturali e della stessa storia del costume, cercheremo di produrre una convincente prospettiva che risalti la nascita dell’abbigliamento come pratica culturale a partire dai suoi albori. Su questo punto ci vorremmo soffermare per fornire ulteriori ancore Introduzione 19 interpretative. I temi che vengono affrontati nella prima parte del volume sono due. Da una parte, infatti, proporremo, attraverso le intuizioni di Stoneking e Reed di retrodatare la nascita dell’abbigliamento spesso individuata, fumosamente, nella “preistoria”, nel “lontano passato”, “nell’antichità”, e sulla scorta di queste idee introdurremo un tema ulteriore e, certamente, più articolato: dopo aver presentato le raffinate intuizioni di Ian Gilligan, suggeriremo una complementazione di queste ultime riconoscendo al corpo una dimensione “tecnologica” ed “ecologica” che troppo spesso vengono date per scontate o totalmente ignorate (De Nardis, 1999). Difatti, gli abiti hanno certamente costituito un nuova interfaccia, sostituendosi alla pelle, nel rapporto tra individuo e ambiente. Una nuova “soglia” che da un punto di vista funzionale avrebbe addirittura favorito Homo sapiens nella “silenziosa” competizione con Homo di Neanderthal permettendo la lenta ed inarrestabile colonizzazione, da parte del primo, di molti territori inospitali e “climaticamente” ostili (Toups, 2011) sebbene, come sottolineeremo, molti indizi indicherebbero come anche l’Homo di Neanderthal fosse dotato di un completo e funzionale guardaroba. Questi aspetti sono propedeutici sia rispetto alle tesi della “rifunzionalizzazione”, ovvero della cooptazione funzionale (ma anche simbolica) dell’abito che si realizza nel momento in cui la produzione vestimentaria, sebbene ancora presentasse “collezioni” in cui l’aspetto materico imperava rispetto a quello estetico, diventa un processo di cooperazione. L’idea che vorremmo far risaltare è che, a differenza di Gilligan, non siamo per niente convinti che i primi vestiti non fossero portatori di un qualche “significato culturale” che trascendesse, appunto, lo stesso piano materico/funzionale. Saremmo piuttosto inclini a credere, invece, che individuare materie prime adatte per i processi di produzione di abiti, procurarsele con una certa continuità temporale, lavorarle ed assemblarle, siano difficilmente l’opera di monadi solitarie che più di 100.000 anni fa si apprestavano a diventare i primi “sarti” della nostra specie. Le nostre idee non solo sono avvalorate da molti studi che individuano, a partire dai dati archeologici, una evidente e palese “intelligenza sociale” nelle prime comunità umane ma vengono strutturate anche attraverso il manifesto, sebbene lento e spazialmente eterogeneo, progresso tecnologico che ha interessato l’industria litica e, indirettamente, quella vestimentaria e che dimostrerebbe come all’interno delle 20 Introduzione prime comunità di pratica (Wenger, 2006) non vi fosse una semplice partecipazione nel processo creativo ma una condivisione di esperienze soggettive ed apprendimenti interattivi che avrebbero assegnato una forma ed un significato ben preciso alle azioni degli individui coinvolti nella “pratica”. Utilizzeremo, inoltre, numerosi indicatori come le “Veneri” o le tracce visuografiche della Rock Art per definire meglio i contorni della transizione verso una cultura mitica (Donald, 1991) all’interno della quale l’abito e l’accessorio si appropriano di nuove e peculiari dimensioni simboliche. La seconda e la terza parte del volume saranno incentrate, rispettivamente, sull’analisi storica del contesto che vede gli albori di quella dimensione simbolica dell’abito sempre più socialmente strutturata e determinata cioè la moda, e l’analisi di alcuni dei modelli teorici della moda e dell’abbigliamento. Abbiamo evitato, in entrambe le sezioni, di proporre un resoconto eminentemente storico o esclusivamente teorico che, paradossalmente, oltre che “fuori tema” sarebbe risultato incompleto e parziale, preferendo una prospettiva che, con agilità, si muovesse tra aspetti storici, economici e sociologici e i tratti distintivi di una storia del costume utile a decifrare i cambiamenti in atto durante la Rivoluzione francese e quella industriale. Determinanti si sono dimostrati i contributi di Giorgio Riello, Daniela Calanca, Paolo Sorcinelli e Maria Giuseppina Muzzarelli per tracciare un quadro teorico-concettuale esauriente ed armonico a fronte dei notevoli mutamenti sul piano politico, economico e demografico in atto durante i periodi analizzati. La terza parte, invece, abbiamo deciso di dedicarla ai “modelli teorici” della moda e dell’abbigliamento individuando una serie di dimensioni di “comodo” tipiche, appunto, della moda e dell’abbigliamento. In particolare, questa sezione è stata certamente utile nella complementazione dei modelli teorici che abbiamo presentato in quella precedente ma ha anche precisato l’interessante e corretta distinzione che Volli opera tra moda e abbigliamento. La moda, infatti, “non identifica l’abbigliamento”, essa è piuttosto “un certo regime del gusto”, la “legge di un flusso” (Volli, 1998). La parte conclusiva, infine, si occuperà di indagare l’abbigliamento attraverso una prospettiva nuova. L’idea di identificare negli abiti una
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