LA DAMA NERA

LA DAMA NERA
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A Georgia, con affetto
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Incurabile io sono, ora che la ragione più non mi cura,
e, pazzo delirante per la continua agitazione,
i miei pensieri e i miei discorsi sono quelli dei folli,
vanamente formulati alla rinfusa, fuori dal vero;
poiché ti ho giurata bella e pensata luminosa,
tu che sei nera come l’Inferno, e come la notte buia.
WILLIAM SHAKE­SPEARE,
Sonetto 147 1
Da W. Shake­speare, Sonetti, Milano, BUR, 1995, trad. Alessandro Ser­
pieri. Le note al testo sono del traduttore.
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Dramatis personae
AEMILIA BASSANO,
in seguito LANYER, una lady, poeta e cortigiana
WILLIAM SHAKE­SPEARE, un poeta
ALFONSO LANYER, un suonatore di flauto dolce, marito di Aemi­lia
HENRY CAREY, Lord Huns­don, un Lord Ciambellano
HENRY LANYER, uno scolaro, figlio di Aemi­lia
JOAN DAUNT, una farmacista e domestica
ANTHONY INCHBALD, un nano e padrone di casa
SIMON FORMAN, un uomo astuto e depravato
TOM FLOOD, un attore
ANNE FLOOD, una vedova, madre di Tom
MOLL CUTPURSE, un tagliaborse e travestito
ELIZABETH TUDOR, una Regina
RICHARD BURBAGE, un attore e comproprietario di compagnia tea­
trale
PADRE DUNSTAN, un prete
PARROCO JOHN, un parroco
LETTICE COOPER, una dama di Corte della Regina
CUTHBERT TOTTLE, un libraio e stampatore
THOMAS DEKKER, un poeta e autore di libelli
MARIE VERRE, una domestica
LILITH, un demone
ANN SHAKE­SPEARE, moglie di William Shake­speare
Inoltre: cortigiani, attori, musicisti, venditori ambulanti, mo­
gli, servi, barcaioli, cittadini, curiosi, ingannatori, vittime della
peste, giovani apprendisti, streghe e spettri.
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Prologo
S
ono una strega per l’epoca moderna. Incantesimi modesti, i
miei, che vendo a caro prezzo. La gente chiede sempre le stesse
cose. I sortilegi più comuni riguardano l’amore, o ciò che l’amo­
re promette, oppure l’odio, e ciò che questo può compiere: ovve­
ro fatture per ottenere un amante o la nascita di un figlio (o per
liberarsene) o utili agli affari o alla vendetta. Quando un incan­
tesimo funziona, mantengono il riserbo, godendo dei benefici in
silenzio. Quando fallisce, naturalmente la colpa è tua. Perciò è
consigliabile che una strega sia cauta, silenziosa e ben nascosta.
Questo valeva anche prima che dessero il via ai roghi. Oltre
il mare, in Sassonia e luoghi limitrofi, intere piazze di mercato
vengono date alle fiamme; cumuli di stoppia incendiano la not­
te; si bruciano anche cento streghe alla volta, perlopiù incapaci
perfino di incantare un verme per snidarlo dal suo buco e col­
pevoli solo di essere vecchie, stupide e imprudenti. Anche in
Inghilterra fermano la magia con il sangue. Ho visto una strega
impiccata a Thieving Lane: le hanno tagliato le mani e la lingua
e l’hanno squarciata dalla gola all’inguine, perché le budella
potessero balzarle fuori sotto i suoi stessi occhi. Sembravano
tanti lupi mannari ingordi di sangue. Mi sembra ancora di sen­
tirla gridare con quella bocca mutilata: invocava Male e pesti­
lenza su tutti i presenti. (Quella era una vera strega, vecchia di
cinquecento anni.)
Ma adesso voglio raccontarvi la mia storia. Di Aemi­lia, la
fanciulla che voleva troppo. Non certo segnata e scheletrica co­
me sono oggi, ma vivace, brillante e impaziente com’ero allora.
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Del mio adorato figlio, che amo moltissimo. Dei miei due mari­
ti, e del mio unico vero amore. E del dottor Forman, il più disso­
luto dei medici. Dell’abito di seta che indossavo la prima volta
che mi recai da lui per una profezia: giallo e oro, con una bellis­
sima gorgiera inamidata che si afflosciava a un semplice soffio
di pioggia, e che faceva ben risaltare la mia carnagione scura. E di
come la gente restasse a fissarmi nel vedermi passare.
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Atto I
Passione
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Scena I
«L
White­hall, marzo 1592
a Regina!»
«Arriva la Regina! Luce!»
È notte, e dal Tamigi la nebbia si arrampica furtiva su White­
hall, quasi nascondendo allo sguardo l’immensa mole del palazzo.
«Portate luce!» gridano di nuovo. Le porte del grande salone
si spalancano e uno sfolgorio di lumi accende la notte brumosa,
mentre la servitù si precipita fuori, le torce in fiamme, a illumina­
re la via.
Ed eccola, la grande Gloriana, risplendere di propria luce
mentre avanza verso l’enorme ingresso e il suo branco di genti­
luomini in attesa, con il Maestro di Cerimonie che aspetta an­
sante sui gradini. Non è mai esistito mortale che la eguagliasse.
Al suo seguito, il quadro vivente delle damigelle: bianche e d’ar­
gento come le ninfe di Nysa. Dietro di loro, il crepitare delle tor­
ce e il buio del cielo. Fra quei visi illuminati dal fuoco, il suo è
incastonato come una splendida gemma, sicché nel guardarlo
sono costretta a sbattere le palpebre per proteggere la vista. Il
viso è bianco come osso, le labbra sono del colore del sangue
appena versato. Gli occhi, scuri e dardeggianti, assorbono ogni
cosa senza restituire nulla. E la chioma, raccolta in cima al cranio
in trecce e volute, dello stesso rame delle foglie d’autunno, è cri­
vellata di perle.
«È con noi il signor Burbage?» domanda, nel posare il suo
piede minuscolo sul primo gradino. «È già all’interno? Abbiamo
sentito che si tratta di una commedia... Vogliamo la sua promes­
sa che non potremo trattenere le risate.»
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Abbasso lo sguardo sulle gonne del suo guardinfante, confe­
zionate con velluto di Genova e scintillanti di minuscole pietre
preziose.
Il Maestro di Cerimonie si profonde nel più ampio degli in­
chini. «Vi sta aspettando, Vostra Maestà. È all’interno insieme al
drammaturgo.»
«È abbastanza brillante?» gli domanda. «Siamo di spirito al­
quanto irritabile. Questa notte cupa ci inquieta.»
«Ho riso fino a temere la paralisi» risponde il Maestro di Ce­
rimonie. «Confido che saprà divertire Vostra Maestà.»
«Confidate! Uhm. Voi già ci divertite. Come avete detto che si
chiama?»
«La bisbetica domata, Vostra Maestà.»
«Ah!» replica la Regina. Che potrebbe significare qualsiasi co­
sa. Seguo gli affettati sorrisi del suo bisbigliante codazzo ed en­
tro insieme al corteo.
A un’estremità della lunga sala per i banchetti c’è un impo­
nente passaggio ad arco, costruito alla maniera del teatro di Ve­
nezia. Raffigura una magnifica strada romana fiancheggiata da
colonne marmoree e dorate. Al di sopra della strada, un firma­
mento di gesso. Re Enrico costruì la sala durante gli anni della
sua massima gloria, e il soffitto – un turbinio di cori di angeli – è
così alto che pare quasi toccare il cielo stesso, mentre dalle pare­
ti pendono stoffe intessute d’oro e organze simili alle confuse
periferie di un sogno. Le dame e i lord più potenti d’Inghilterra
stanno appollaiati su scranni e panchetti di fronte al palcosceni­
co, e sopra tutti loro, su una pedana rialzata, svetta il seggio rea­
le. Scintilla alla luce delle lanterne che i paggi portano nella sala,
dividendosi in due processioni gemelle di bagliori dorati. Perfino
il trono ha l’aria di nutrire una certa aspettativa, come se condi­
videsse l’eccellente discernimento della Regina fra ciò che è me­
ro divertimento e ciò che merita il plauso reale.
La Sovrana avanza verso il trono su cui si accomoda con
estrema attenzione, mentre le dame le si siedono intorno. Una
volta riuniti tutti, e dopo una buona dose di inchini e sciocche
lusinghe, ha inizio la commedia. Mi bastano pochi momenti per
capire che si tratta di un’opera della più orrenda crudeltà. E ri­
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tengo che il drammaturgo – chiunque egli sia – non sia altro che
un furfante dall’animo infimo, convinto che deprezzare una
donna renda l’uomo due volte più forte. Non gli basta che una
donna non goda di maggiore libertà di un cagnolino da salotto,
né che non possieda nemmeno lo sgabello sul quale è seduta, o
che le sia vietato lo studio o una professione (a meno che non si
tratti di una vedova costretta a lavorare al posto del marito de­
funto). No. Deve farne uno zimbello e scagliarla ancora più in
basso, fino a schiacciarle il viso nel fango della strada. E una co­
me me è proprio ciò che più infastidisce un simile individuo: una
donna fiera nello spirito e svelta nella lingua.
Fa della sua Caterina una sfacciata, solo per chiamarla “Cate”
e affamarla, sottraendole così non solo cibo, ma anche parte del
nome. «Ma come, mi ha sposata per affamarmi?» domanda lei, ed
è chiaro che la risposta è sì. Un pezzente è trattato meglio di una
moglie brontolona. Se una donna è saggia, sa quando parlare e
quando tacere. La Regina stessa gioca d’astuzia, celandosi dietro
belletto e portamento. In quanto a me, non taccio mai abbastanza.
Avverto un mormorio tutt’intorno, e i cortigiani spostarsi per
far spazio. Il gruppo dei musici si separa come il Mar Rosso, e
uno di loro, il mio grazioso cugino Alfonso Lanyer, abbassa il
flauto. Incrocia il mio sguardo e mi fa l’occhiolino, io fingo di non
vederlo. Alfonso si distingue non tanto per la sua musica, quan­
to per due pessime abitudini: andare a sottane e perdere ai dadi.
La causa dell’agitazione è l’arrivo del mio amante, ­Henry Ca­
rey, Lord Huns­don, un uomo il cui stesso passo suscita l’attenzio­
ne di chiunque si trovi nei paraggi. Eretto e militare, giacché que­
sta è stata la sua professione per molti anni. Non sopporta gli
sciocchi, non sopporta nessuno. Eccetto la Regina (della quale è
cugino) e me. È più vecchio di me di quarant’anni, sicché si po­
trebbe pensare che il nostro sia un rapporto padre e figlia. Eppure
questo pomeriggio abbiamo fatto l’amore. Dopodiché, mi ha lava­
ta con le sue stesse mani e vestita con il bellissimo abito che ho
indosso. Il guardinfante è perfino più ampio di quanto sia mia
abitudine, così che un’intera stanza sembra ruotarmi intorno ai
fianchi. La gonna, di un azzurro acceso, è di raso di Bruges, e le
maniche sono di seta, vistose e ricamate con minuscoli punti d’ar­
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gento. Per concludere, mi ha avvolto i capelli in un retino di zaffi­
ri. Quando mi sono guardata allo specchio, ho visto un’immagine
così perfetta da farmi quasi paura. Io, che non ho paura di nulla.
Mi si siede accanto, e lo bacio.
«Sangue divino, si direbbe una commedia alquanto bizzarra»
bisbiglia. «Qual è il problema? Non potrebbe trovarsi una don­
netta migliore che possa compiacerlo?»
Mi porto un dito alle labbra. «Non gli obbedirà, signore» gli
mormoro all’orecchio. «Prima resta catturato dai modi altezzosi
di lei, e poi si propone di punirla.»
«Che assurdità» dice Huns­don a voce piuttosto alta. «Un uo­
mo deve scegliere una donna che lo assecondi, non certo tentare
di cambiare una sfrontata che non ne ha l’intenzione. Il nostro
amico deve essere matto da legare.»
«Taci, mio signore» gli dico. Qualcuno ride e io gli do un legge­
ro buffetto sulla spalla. Lui mi afferra la mano e la stringe fra le sue.
Poi vengo distratta dalla voce di Caterina.
«Il dovere che lega il suddito al suo principe
è lo stesso che lega una moglie al marito.
E quand’è riottosa, petulante, imbronciata, acida...»
Pronuncia le parole di una donna sconfitta, o che si finge tale,
il che non fa molta differenza.
«... e disobbediente al suo onesto volere,
cos’è se non una sleale e contendente ribelle,
una goffa traditrice del suo amorevole signore?»
«Ho un altro regalo per te» mi sussurra Huns­don, tirandomi
vicina. «Un gilet di seta trapunto d’argento.» Per essere un sol­
dato, ha un certo gusto per la moda.
«Mio signore! Un altro dono?»
«Te lo darò quando verrai nella mia stanza. Stanotte?»
«Se lo desideri.»
Mi stringe la mano.
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Alla fine della commedia, con Cate sconfitta e resa la più ob­
bediente delle mogli, scattano applausi e acclamazioni. La Regi­
na alza la mano. Sorride, ma gli occhi sono gelidi.
«Vogliamo vedere l’autore!» ordina. «Dov’è? Che si mostri!»
E l’autore, leggermente esitante, avanza da dietro un pilastro.
«Vostra Maestà» dice, con un inchino teatrale. È alto, snello e
vigile, con occhi infossati. Abbigliato ad arte, con pendenti d’oro
alle orecchie e guanti eleganti.
Lei lo osserva per un momento, il sorriso impostato. «Un rac­
conto licenzioso, più adatto a una taverna di provincia che alla
raffinata Corte di un monarca, non credete?»
Lui si inchina nuovamente. Il viso pallido. «Credo contenga
personaggi meschini, e altri di più alto profilo, come Bianca.»
Il sorriso della Regina scompare. «Una lezione, per chi sa ascol­
tare, che potrebbe indurre una donna a ben guardarsi dal­l’es­se­re
imprigionata come moglie. Prima t’intrappolano, poi cercano di
cambiarti. E quelle fra noi che dispongono di una buona dote
devono essere le più caute di tutte.»
Questo scatena le risatine imbarazzate delle dame del suo se­
guito, scintillanti nei loro abiti d’argento.
«È una favola, Vostra Maestà, non riferita alla vita vera.»
Ha tutta l’aria di una confutazione. La sala trasale, e cala il
silenzio. Gli occhi di tutti sono rivolti al viso della Regina. La sua
espressione è vuota, la sua bocca è una lama. «Non abbiamo
bisogno che voi ci teniate una conferenza sugli antefatti della
vostra commediola. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole, e ancor
meno nella vostra trama.»
Poi, un rapido sorriso, ed ecco che pare cambiare umore.
«Vi siamo grate per averci mostrato quello che già sappiamo.
Secondo la nostra esperienza, è proprio questo ciò che a volte si
desidera in una commedia. A volte cerchiamo paesi incantati e
sfrenato divertimento; a volte, la conferma delle nostre più as­
sennate opinioni. Dato che, in questo caso, nostra opinione è
che il matrimonio favorisca gli uomini.»
Il drammaturgo, in evidente imbarazzo, s’inchina di nuovo.
«Non era forse vostra intenzione mostrare alle donne quanto
sia pericoloso il matrimonio? E indurci a fuggire da una condi­
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zione di schiavitù in cui nostro marito sarebbe nostro signore e
padrone agli occhi di Dio?»
Il drammaturgo si schiarisce la voce. «Era mia intenzione, Vo­
stra Maestà, raccontare una buona storia su una donna indoma­
bile, che trova poi la sua vera vocazione nel...»
La Regina lo interrompe. «Avete una simile moglie voi?»
Lui sbatte le palpebre. «Simile?...»
«Simile a questa. Una “petulante, imbronciata, acida” che
non sa stare al suo posto.»
«Il suo posto, Vostra Maestà, è a Stratford, e il mio è a Londra.»
Un breve silenzio, poi la Regina comincia a ridere, subito imi­
tata da coloro che la circondano. Con un largo sorriso, gli attori
guardano in tralice il poeta. La Regina lo liquida con uno schiocco
delle mani, e il pubblico si disperde in un vociare di chiacchiere
eccitate. È una scena gioiosa. La nuova commedia è un successo.
Huns­don si defila per consultarsi con Sua Maestà su certe
questioni urgenti, e io mi ritrovo sola nella grande sala, seduta
rigidamente su un panchetto. Non riesco a fare a meno di pen­
sare a questa Caterina e alla sua condizione, e alla crudeltà con
cui è stata ricondotta all’ordine.
Avverto una presenza, come un’ombra, e giro la testa. È il
drammaturgo. Si inchina, ancora più profondamente di quanto
avesse fatto al cospetto della Regina. Mi alzo in piedi, e il vorti­
care delle mie gonne rovescia il panchetto.
«Io vi conosco» dice, in modo assai poco raffinato.
Annuisco.
«Aemi­lia Bassano.»
Annuisco ancora.
«Vi ho vista... parlare...»
M’inchino anch’io, facendogli il verso. Davvero non si finisce
mai di stupirsi: una donna avvenente che riesce addirittura a
parlare.
Si avvicina di un passo. «Con una tale... vivacità. Una tale...
erudizione. Vi ho sentita citare Ovidio. Come uno studioso!»
Non ho intenzione di fornirgli dettagli. Tantomeno di dirgli
che sono stata allevata a Corte. O che sono orfana di un musici­
sta. Lo guardo, osservando i suoi occhi orlati di nero. Cosa va
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cercando? Perlopiù gli uomini mi lasciano in pace, temendo l’ira
di Huns­don. Ma questo ha l’aria di uno scriteriato.
«Perché tacete?» mi domanda.
«Taccio quando è necessario. In caso contrario sarei una
sciocca.»
«Tacete con Lord Huns­don?»
«Non è cosa che vi riguardi.»
«Ma con lui, parlate?»
«Ovvio che sì! Non sono certo la Sfinge!»
Mi esamina dalla testa ai piedi. «Le parole che scegliete devono
essere davvero poetiche, se sanno guadagnarvi un simile sfarzo.»
«Sono l’amante del Lord Ciambellano.»
«E per tale rango avete venduto la vostra virtù?»
«Come osate parlarmi in questo modo?»
Indugia, forse in attesa che io dica altro, ma non gli faccio la
cortesia.
«Tacete di nuovo?»
«Non ho nulla da dirvi.»
«Eppure, vedo che state pensando.»
«Ma certo! I miei pensieri sono lì, evidenti a chiunque, dato
che ho la testa fatta di vetro.»
«Credo che ciò che dite sia ben poco rispetto a quello che vi
passa per la mente.»
«Voi non avete la minima idea di quanto io parli, o di cosa
dica. Voi non sapete chi sono, né cosa penso. Ma, come ci ha
mostrato la vostra commedia, se una donna vuole prosperare
deve recitare la parte della timida ritrosa. Non era forse questo il
messaggio? Meglio una docile timida che una perfida bisbetica?»
«È questo che siete voi? Un’occulta, perfida bisbetica?»
Faccio un profondo respiro, stupita di sentir battere così forte
il cuore, e il viso incendiarsi nonostante i brividi di rabbia. Dopo­
diché, le parole sfondano l’argine.
«Avrei voluto che la uccideste, quella povera Caterina! Avrei
preferito che di lei si fosse abusato nello stile romano, obbligan­
dola poi a divorare i suoi figli cotti al forno in un pasticcio! Per­
ché attribuirle versi tanto affilati e fulgidi per poi soffocarla e spe­
gnerla?»
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Trasale e mi guarda sbalordito. «Io... cosa state dicendo?»
«Non esiste una sola scena nel vostro Tito Andronico che mi
abbia stretto il cuore come questa vostra commedia atroce! Ver­
gognatevi, per aver deprezzato così uno spirito tanto audace!»
«Cosa?»
«Vergogna. La vostra è una commedia crudele e bestiale, si­
gnore.»
Lui sorride, lentamente. Poi si volta e si allontana a grandi
passi. Raggiunto l’uscio, parla senza girarsi. «Siete la più bella
donna a Corte. Ma immagino che già lo sappiate. Nessuna è pa­
ri a voi.»
Mi gira la testa e mi si sciolgono le budella, ma mantengo il
contegno, raddrizzo il panchetto e dico: «E questa velenosa
commedia sarebbe poesia, vero? Solo perché messa in scena da
una compagnia di uomini che si pavoneggiano in calzamaglia?»
Si blocca con una mano sulla maniglia della porta, e si gira
verso di me.
So di aver già parlato troppo, ma a quanto pare non riesco più
a fermarmi. «Una rozza storiella di sciocca, abietta mortificazio­
ne? L’ingiurioso gioco di parole di un misogino? Giuro che io
stessa potrei fare di meglio!»
Si sforza in una specie di risata. Uno strano suono, quasi un
singhiozzo. Torna indietro e mi si piazza di fronte. Un po’ troppo
vicino. Ha gli occhi furiosi, ma per un momento tace. Poi dice:
«Vi auguro di godervi Huns­don e il vostro profumato letto di
palazzo.»
«Grazie, signore. In questo, vi accontenterò.»
Esita ancora una volta, poi aggiunge: «Siete la sua ritrosa, ma
vorrei poter fare di voi la mia bisbetica.»
Prima che io riesca a trovare le parole per rispondere, è già
sparito.
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Scena II
H
uns­don non si sente troppo bene: lamenta crampi ai pol­
pacci e dolori al ventre. Mentre mi agito qua e là alla ricerca di un
punto fresco del capezzale, mi giro e lo vedo lì disteso, immobile,
lo sguardo fisso nel buio.
«Sto diventando vecchio, Aemi­lia» dice. «Non mi resta più
molto da vivere.»
Mi rannicchio contro di lui, di colpo sopraffatta da un senso di
tenerezza e di timore. «­Henry! Cosa stai dicendo!»
«La pura verità. Tu mi sopravvivrai. Sarai là fuori nel mondo,
camminerai per le strade, bramata da chiunque ti veda... Io sarò
morto e sepolto, e chissà cosa succederà! Sono stato un egoista a
fare di te la mia amante.»
«No! Come può essere egoista l’avermi protetta e accudita
per tutti questi anni? Giuro che sei l’uomo più gentile che ci sia
a Corte.»
«Ma ti ho rovinata.»
Deglutisco con forza. «Mio adorato H
­ enry! Nessuno avrebbe
potuto amarmi di più.»
«Un altro uomo avrebbe potuto sposarti» dice Huns­don. «So­
no stato avido.» Si tira il copriletto fino al mento e si gira allon­
tanando il suo vecchio corpo dal mio. Dopo un momento co­
mincia a russare, lasciando che sia io, adesso, a fissare il buio.
Ripenso al primo giorno del nostro corteggiamento, dopo la
morte di mia madre. Immersa nel torpore, avevo lasciato la mia
stanza accanto agli alloggi della servitù e, con indosso solo la
camicia da notte bianca, ero fortuitamente capitata nel bel mez­
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zo di un banchetto in onore di Huns­don. Lui mi prese per mano
e mi condusse nel suo stesso letto, tornò alla festa e poi trascorse
la notte nel suo spogliatoio, lasciandomi tranquilla. Davvero no­
bile. E alquanto astuto, poiché da quel giorno in poi, completa­
mente sola e intimorita dalla costante lascivia dei cortigiani che
smaniavano per avermi una notte o poco più, vidi in lui un uomo
di cui potermi fidare.
Dopodiché, prese a corteggiarmi con parole gentili, piccoli
doni e libri provenienti dai Paesi Bassi, e quando poi mi ritrovai
nel suo lussuoso letto, ero sdraiata accanto a lui. Si stupì di quan­
to, seppure ancora vergine, fossi avida di piacere, e non chiu­
demmo occhio per tutta la notte. Una notte cui ne sono seguite
molte altre. Da sei anni sono la sua unica amante. E non c’è uo­
mo che osi occupare il suo territorio.
La mattina dopo mi sveglio tardi. Huns­don è uscito, ma vedo
che mi ha comprato altri regali: un paio di nuovi manicotti rica­
mati con ali d’angelo dorate, guanti di seta pallidi come brina e
un raffinato coltello d’argento in una guaina di pelle. Lo estraggo
e l’osservo. Non è di cattivo auspicio regalare un oggetto simile
al tuo amore? Lo giro e lo rigiro, osservando come la luce del
sole si rifletta sulla lama d’argento. Tocco la punta acuminata
con il polpastrello, la goccia di sangue che ne scaturisce non è
più grande di una coccinella. La lecco chiedendomi perché Dio
gli abbia dato un sapore tanto dolce.
Vado a sedermi accanto alla finestra e, attraverso le lastre di
vetro che sezionano la visuale in riquadri perfetti, abbasso lo
sguardo sul parco. È una giornata chiara, luminosa, e i rami spogli
delle querce si stagliano crudi contro il cielo. Apro la finestra e
sento l’aria pungente che sa di fumo di legna, e il grido rauco di
un cervo da qualche parte nella foresta. Ma non devo distrarmi.
Prendo uno dei grandi fogli dalla pila accanto a me e la penna già
affilata. La intingo nel calamaio d’argento e mi fermo, la punta
lucente sospesa sulla pagina bianca. Sto scrivendo un poema per
Huns­don, nello stile di Corte. Forse alcuni bei versi potrebbero
definire la passione che provo per il mio signore. Inoltre, le paro­
le hanno su di me un effetto calmante, come un lungo sorso di
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birra. Adoro leggere poesia, e desidero scriverla, ma ciò che ho
nella mente non somiglia affatto a ciò che sgorga sulla carta.
Per ora ho solo due versi:
Il mio amore è una purpurea rosa
Ovunque vada, su me il suo sorriso riposa...
Potrebbe mai un lord essere simile a una rosa? A dire il vero,
Huns­don somiglia più a un bel cardo. Ma per “cardo” mi viene
in mente solo “stuardo”, che non va bene. Cerco di pensare a un
fiore dall’aspetto più marziale. Una pianta dotata di forza e di­
gnità... e busto eretto. Non mi viene in mente niente. Mi sento
irrequieta e distratta. Dicono che ogni poeta debba soffrire per
amore per poter trovare la sua Musa. Io ne sto soffrendo adesso.
Un topolino sta scalando l’edera che sale lungo il muro ester­
no. Attorciglia la codina agli steli, così fragile e svelto da sembra­
re fatato, e pronto a volar via al primo alito di vento. Ripenso
alla mia conversazione con il drammaturgo. Un ricordo che mi
prude nella testa. Un’occulta bisbetica, è questo che sarei? O
piuttosto, più simile a questo topolino, una creatura timida e ri­
trosa? Mi chiedo che effetto farebbe avere quelle dimensioni e
sgattaiolare nelle intercapedini, nascosta al pubblico sguardo.
Ma fuori da qui cosa troverei? Le strade della City sono intrise di
brutalità, rumori, pestilenza, e oltre ancora non c’è che la barba­
rie delle campagne. Qual è allora il mio posto? Preferirei essere
un Colosso: nuda fino alla cintola, cavalcherei l’intera Londra
con un piede su ciascuna delle rive del Tamigi. Abbasserei lo
sguardo sul complesso di White­hall, sulla sua scacchiera di cor­
tili e giardini, poi guaderei il mare fino alla Francia e passeggerei
verso il sole più luminoso di Venezia la fluttuante.
Oh, Signore. È del tutto inutile. Questo per me non è giorno
da starmene diligentemente chiusa in casa. Cosa ne sarà di me?
Devo saperlo. Perché Huns­don mi ha detto così d’improvviso
che ero rovinata? E se fosse vero? Mai in vita mia ho fatto pen­
sieri tanto audaci riguardo il mio futuro. Non sono forse ammi­
rata e rispettata a Corte? Non me la sono saputa cavare, nono­
stante fossi orfana e illegittima, riuscendo addirittura a sistemar­
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mi in grande sfarzo nel cuore dell’Inghilterra? Uomini impor­
tanti premono, sgomitano e spendono intere fortune pur di far
parte della cerchia della Regina, ed ecco dove mi trovo io: esat­
tamente al suo centro. Perfino lei mi ha detto che sono estrema­
mente istruita, e a volte mi parla in greco. Potrei forse aver get­
tato via ogni speranza di lasciare la mia impronta personale sul
mondo? È possibile?
Ovviamente c’è un sistema per far luce su simili questioni. Se
quell’erudito del dottor Dee fosse ancora a palazzo, potrei chie­
dergli una lettura, giacché le sue carte astrali sono di gran lunga
le migliori di Londra, e con me è sempre stato molto gentile. Ma
adesso è ritornato a Mortlake e appare a Corte di rado. Penso
che la Regina sia convinta di possedere delle doti magiche, dal
momento che è stata scelta da Dio Onnipotente in persona. Do­
tata pertanto di un tocco reale in grado di curare malattie e di
capacità percettive superiori a quelle di qualsiasi uomo di umili
natali.
Che fare? Che fare? Non posso star ferma. Nel frattempo, mi
sembra di vedere quel drammaturgo scrutarmi come se stesse
esaminando ogni mio pensiero, ogni mio segreto. Che razza di
individuo abietto, impertinente e detestabile! È troppo. Chiamo
Alice, la mia serva, e le dico di prestarmi il suo mantello più vec­
chio e il copricapo più disdicevole che possiede, un orribile cap­
puccio di tela con degli assurdi paraorecchie. Me lo lego sotto il
mento, pago il suo silenzio con una moneta da sei penny e pren­
do con me un mazzolino di erbe aromatiche. Poi, scendendo fur­
tivamente la scala sul retro dei miei appartamenti, raggiungo il
cortile delle scuderie e mi dirigo verso il fiume e White­hall Stairs.
Il dottor Dee non è l’unico negromante celebre di Londra. Ci
sono molti ciarlatani – come il famigerato Edward Kelley – ma ve
ne sono altri di raccomandata fama. Fra questi ne conosco uno,
un personaggio dei più straordinari. Vive nella ­Stone ­House, la
sagrestia di St Botolph a T
­ hames ­Street, e il suo nome è Simon
Forman.
Mi affretto lungo viottoli e stradine con la mascherina sul vi­
so, aggirando le pozze di vomito ed evitando i rigagnoli maleo­
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doranti che mi scorrono accanto ai piedi. Lo splendore del cielo
adesso mi sembra ancora più lontano: alto, puro e irraggiungibi­
le. Guardo su e vedo le nuvole ammucchiate come ammassi di
tela e una formazione di rondini deviare da una parte e poi dal­
l’al­tra. Fra di noi c’è una cortina di spiriti occulti, in attesa, vigile,
pronta ad approfittare della fragilità dei mortali.
Ad aprire la porta del dottor Forman è un bizzarro individuo,
più basso di me, con i capelli rossi, le lentiggini e una barba gial­
lastra. Ricorda un gatto soriano pelle e ossa. Tuttavia, indossa
con un certo effetto una lunga vestaglia color porpora dalle ma­
niche orlate di pelliccia, ha modi spicci e appare sicuro di sé. Non
c’è dubbio: sono venuta nel posto giusto.
«Siete in ritardo» dice.
«No, signore, dev’esserci un equivoco. Non ero attesa.»
Mi accoglie in casa. «Non sono ancora certo del vostro nome,
ma siete assolutamente la persona della quale avevo previsto
l’arrivo.»
«Non vedo come sia possibile “attendere” una persona che
non si conosce.»
«Sì, oh sì» dice Forman. «Ho visto questo abito giallo. Anche
se credo che il copricapo non sia vostro, tantomeno questo man­
tello dal taglio così mediocre.»
Troppo ansiosa e confusa per discutere oltre, mi accomodo
sulla sedia che mi offre e mi guardo intorno. È una stanza solen­
ne e spartana, con il gelo che trasuda dai muri nonostante i cep­
pi ardano nel focolare. Sulle pareti sono appese strane mappe e
figure e su un piedistallo in legno di cedro vedo una sfera, un
quadrante usato per misurare l’altezza delle stelle e un orologio,
con i secondi indicati tutt’intorno al bordo.
«Adesso, vediamo un po’...» mi si siede accanto e mi osserva
intensamente. «Dite di sapere chi sono?»
«Voi siete Simon Forman. Un negromante. E siete guarito da
solo dalla peste.»
«Esatto, naturalmente, per quanto concerne il mio nome. Ed
è esatto che io abbia un rimedio per la pestilenza. Ma è inesatto
definirmi un “negromante”: non è questa la mia professione. Io
sono un medico.»
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«Ci sono tanti livelli in questa professione, quanti sono i pi­
docchi in testa a una prostituta.»
Mi sorride. Mi sembra che al centro, intorno alla pupilla, i
suoi occhi siano più slavati. Mormorando fra sé, rovista in un
cesto di vimini. Tira fuori un volume rilegato in pelle e alcune
carte, poi si schiarisce la voce, afferra la penna, la intinge nel
calamaio e dice: «Nome?»
«Pensavo mi conosceste.»
«No, mia cara, ho solo detto che vi stavo aspettando. Nome?»
«Aemi­lia Bassano.»
Mi guarda da sopra il bordo degli occhiali, sollevando le so­
pracciglia fulve. «Davvero! Estremamente interessante.» Scara­
bocchia qualcosa, sorridendo. «Che fortuna, una svolta di ottimo
auspicio...»
Dopo un momento, posa la penna e si schiarisce nuovamente
la voce. «Allora, cosa sapete della magia?»
«So che esiste. Che uomini eruditi le hanno dedicato anni di
studio e donne sapienti sanno ciò che fanno grazie all’istinto e
ad antichi racconti.»
«Ah! Sì. Sapevo che eravate intelligente.»
Mio malgrado, arrossisco. «Semplicemente guardandomi?»
«Dalla vostra reputazione. E dai vostri modi extra-ordinari. Il
Signore ha forse creato una categoria particolare apposta per
voi? Non riesco per niente al mondo a capire dove collocarvi.»
«Non ho bisogno di essere “collocata”, signore. Troverò il
mio posto.»
«A quanto ho sentito, siete una studiosa.»
«Credo di sapere quanto un qualunque altro uomo, e molto
di più di qualsiasi signora, con la sola eccezione della nostra ma­
gnifica Regina.»
«Che affermazione sfacciata! Ci sono grandi donne la cui co­
noscenza degli antichi supera di gran lunga la mia.»
«Mi riferisco al sapere, signore, che non è equiparabile all’e­
rudizione. Uno sciocco può studiare, ma cosa potrà mai sapere?
Insegnate il latino a un vanesio e lui saprà citare Cicerone a me­
moria. Io parlo di ciò che deriva dall’erudizione. Parlo della com­
prensione, dell’intelletto.»
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«Capisco. E dove vi ha condotta questa “comprensione”?»
«Al limite di quanto sia possibile tollerare. Alla certezza che
ciò che mi contiene sarà sempre troppo piccolo. Al timore che
non sarò felice. Alla strenua ricerca di un’anima gemella.»
Addossandosi allo schienale della sedia, si sistema meglio
nella vestaglia e dice: «Potrò svelarvi un po’ del vostro futuro se
voi mi svelerete un po’ del vostro passato. Ricevo ricche vedove
e dame di Corte e ogni genere di donna, ma non ho mai incon­
trato nessuna come voi.»
E così confesso. Confesso di non vedermi poi così intelligente
o singolare, né in alcun modo diversa da qualunque altra ragazza
il cui padre le sia stato assassinato sotto gli occhi, o per la quale
musica e poesia siano gioie quotidiane.
Si accarezza la barba. «Chi ha assassinato vostro padre?»
«Non lo so. Alcuni anni prima di morire subì un primo atten­
tato, i cospiratori furono poi torturati e banditi. Ma non sappia­
mo chi lo abbia ucciso. Nessuno lo sa.»
Annuisce. «Cosa vi ha detto vostra madre a proposito?»
«Non se n’è mai parlato.»
«Nemmeno subito dopo la sua uccisione?»
«Nemmeno allora. Abbiamo parlato della sua vita, mai della
sua morte. Mi ha raccontato di quando suo padre costruiva stru­
menti per il Doge di Venezia, e di quando Baptiste – mio padre –
navigò fino a Londra con i suoi cinque fratelli, diventando poi il
più grande dei musici presso la Corte del Re...»
«E dopo la sua morte?»
«Mia madre aveva conservato il suo flauto dolce in un luogo
segreto, che io però conoscevo. E a volte, quando ero sola, lo ti­
ravo fuori e suonavo alcune note, e mi sembrava che...» Esito,
incerta di voler aggiungere altro.
«Cosa?»
Mi sembrava che il flauto contenesse una sua propria musica,
come se alcune note stessero solo aspettando me per poter
erompere nell’aria. Era così bello. Questo è il motivo per cui ho
cominciato a suonare il virginale, tenendomi continuamente in
esercizio. Spinta dal desiderio di ritrovare quelle dolcissime note.
«Siete molto dotata» dice Forman, perentorio. «Siete la figlia di
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vostro padre. E tuttavia non avete chiesto a vostra madre perché
l’avessero ucciso? O chi avesse commesso un atto così terribile?»
Scrollo le spalle. «L’assassinio è cosa assai frequente.» Taccio
il fatto di sapere che era connesso alla straordinaria bellezza del­
la sua musica, e al suo essere un ebreo. So che i grandi doni
esigono un prezzo, e che non tutti i talenti ispirano ammirazio­
ne. Il suo era eccessivo. Lo poneva in disparte.
So che in quei primi sette anni fui felice. Quello che perlopiù
ricordo sono le cose come potrebbe osservarle l’occhio di un gi­
gante che guardi le persone dall’alto, e questo perché mio padre
aveva l’abitudine di andare a spasso portandomi a cavalcioni
sulle spalle. Ricordo le mie dita che gli ingarbugliavano i capelli
neri e ricci, e le strade e i campi dilatarsi tutt’intorno, e poi l’im­
provvisa comprensione di un mondo affollato e multiforme, do­
ve dietro a una cosa ce n’è sempre un’altra, e un’altra ancora, in
questa gran confusione di tetti su cui crescono foreste di comi­
gnoli, in questa mescolanza di uomini e carretti e cavalli, ovun­
que tu volga lo sguardo. I gesuiti dicono che se tengono con loro
un bambino per sette anni, lo possiederanno per la vita. Mi sono
spesso chiesta se l’essere portata in quel modo sulle spalle da
mio padre mi abbia fatto vedere il mondo attraverso i suoi occhi.
Ed è forse stata la sua tenerezza a infondermi questa venerazio­
ne per l’amore.
I miei ricordi mi hanno distratta. Forman sta scrivendo qual­
cosa sul suo registro.
«E questa vostra grande erudizione» dice, continuando a scri­
bacchiare, «come ve la siete procurata?»
«Grazie all’applicazione, signore» dico, rigidamente.
«Qualcuno vi avrà pur aiutata. Qualcuno vi avrà dato dei libri,
e del tempo, e il frutto del suo sapere.»
«Da ragazzina suonavo per la Regina, perché le piacevo. E ho
continuato a farlo dopo la morte di mio padre. Un giorno, Lady
Susan Bertie mi sentì suonare, volle parlare con me e poi chiese
a mia madre il permesso affinché mi trasferissi presso la sua re­
sidenza nel Kent. Mia madre acconsentì, a patto che potesse ve­
nirmi a trovare. Così da allora – due anni dopo la morte di mio
padre – sono vissuta fra la dimora dei Bertie e la Corte.»
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«E chi vi ha insegnato?»
«Lady Susan. Direi che è stata lei a dar forma ai miei pensieri,
essendo sua singolare convinzione che le femmine potessero
imparare tanto rapidamente e bene quanto i maschi.»
«Siete fortunata.»
«Una fortunata bizzarria della natura.»
Continua a scrivere, con l’aria di essere soddisfatto della no­
stra conversazione.
«Avete dunque dei consigli da darmi?»
«Ciò di cui mi occupo io è la magia più alta» dice, senza alza­
re lo sguardo. Poi smette di scrivere e osserva la punta della pen­
na. «Ovvero, lo studio di scienze come l’astrologia – la predizio­
ne del fato degli uomini attraverso l’analisi delle stelle – e l’alchi­
mia, con cui il vile metallo viene trasformato in oro. Le vostre
donne sapienti si occupano, invece, di quella che io definisco
“magia domestica”... roba di vita quotidiana.»
«Amore, malattia, rimedi erboristici e cose del genere. Molto
semplice. Qualsiasi sciocco capirebbe la differenza.»
«Certo, sì, è davvero molto semplice, ma non tutti i miei clien­
ti sono competenti quanto voi. Volendo metterla in parole più
crude, diciamo che la donna sapiente tratta la magia che si rife­
risce al corpo, mentre la magia alta è quella della mente» dice,
picchiettandosi la fronte. «In breve, è qualcosa di eccezionale. È
scienza.»
«Che tralascia il semplice fatto che la nostra mente indagatri­
ce è contenuta nel nostro corpo materiale. Come tutte le distin­
zioni operate all’interno della vostra “scienza”, si tratta di mera
congettura, di supposizione.»
«Cara signora, cederei volentieri al piacere della dialettica con
voi per tutto il giorno, ma dobbiamo andare avanti.»
Il dottore misura e calcola e borbotta e scrive, e tira giù dei
volumi dagli scaffali e li rimette a posto, e mi esamina a occhi
socchiusi e poi appunta ancora altre note.
Finalmente alza lo sguardo e sorride, mettendo in mostra
denti eccezionalmente neri e fetidi. «Fatto» dice.
«Allora... qual è il mio futuro? Cosa ne sarà di me?»
«Troppo vago. Fatemi una domanda più precisa.»
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«Mi sposerò?»
«Sì.»
«Con qualcuno che amo?»
«No.»
«Allora è la fine.»
«Ma amerete di vero amore. Il vostro amore sarà...» getta uno
sguardo al registro. «Il vostro amore sarà la parte migliore di voi.»
Mi alzo. «Siete rimasto lì seduto a guardarmi come se poteste
leggere ogni singolo frammento della mia esistenza, quasi fossi
stata uno dei vostri strani libri antichi, e non siete in grado di
dirmi nulla che non sia del tutto inutile!»
«Inutile? Pensavo di avervi dato molte informazioni.»
Gli getto un fiorino ammaccato. «Ecco il vostro onorario... non
pagherò un penny di più.»
Lui raccoglie la moneta. «E io di più non vorrei. È un piacere
fare affari con una signora animata da simile passione. Ma voi, al
contrario, vorreste molto di più di questo.»
«Sicuro che voglio di più! Non ve l’ho appena detto? Voglio
sapere... cosa ne sarà di me.»
«E dell’arte? E di quella vostra mente acuta... così ben nutrita
di Seneca e Platone? C’è qualcosa di intrappolato dietro a quella
voce da sirena. E voi non ne fate mistero.»
«Potrebbe essere l’apprendimento il mio destino?»
«Volete che lo sia?»
Mi acciglio, perplessa. «O forse la poesia?»
Sorride radioso e intinge un’altra volta la penna nel calamaio.
«Come hanno brillato i vostri occhi quando avete pronunciato
quella parola!»
Avverto una fitta di speranza e di riconoscimento. «Allora...
qual è la vostra profezia?»
«Sarete ricordata.»
La stanza si sta facendo buia. Accende una candela.
«C’è ancora una cosa che volete domandarmi.»
La mia mente grida: Chiediglielo! Chiediglielo, razza di stupida!
Ma non so da dove cominciare. «Non ho altre domande» dico,
invece.
«Allora perché siete venuta?»
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«Non riuscivo a calmarmi.»
Si sporge e, con mio sommo orrore, mi bacia dolcemente sul­
la bocca. Ha il fiato caldo e acre. «Vi chiederei di stare con me...
più a lungo. Ma temo che mi spacchereste il cuore.»
Lo spingo via. «Vi spaccherei la testa, signore, prima di qual­
siasi altra cosa.»
Si alza in piedi, la fronte aggrottata, e va a prendermi il man­
tello. Mentre me lo sistema sulle spalle, dice: «Il suo nome è
Shake­speare. William Shake­speare.»
«Il nome di chi?» Anche se lo so. Ovvio che lo so.
«Il drammaturgo che desiderate così disperatamente.»
«Cosa?...»
«Sarà il vostro amante. Almeno lo spero, perché in caso con­
trario lui diventerà pazzo come Legione.»
«Posseduto da spiriti maligni?»
«Condotto alla follia dal desiderio selvaggio. Giudicando dal­
la sua carta astrale, sarebbe una perdita per l’intera nazione.»
Lo guardo attonita, finalmente meravigliata dalla sua scienza.
Forman mi fissa con quel suo sguardo strano.
«È un tipo intenso. Non c’è bisogno di un astrologo per ca­
pirlo.»
«Lo conoscete?»
«È stato qui questa mattina.»
«Cosa?»
Apre la porta. «Attenta a dove mettete i piedi. Quei gradini
sono scivolosi.»
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