Dono della salvezza e realizzazione dell'illuminazione Pratiche in dialogo Nell’orizzonte di una società contemporanea, in cui il dialogo interreligioso si fa urgenza pressante per favorire la conoscenza, l’incontro e la convivenza con l’alterità, si rende necessario un confronto diretto tra gli elementi costitutivi delle diverse tradizioni religiose, in questo caso il buddhismo zen di scuola Sōtō e il cristianesimo. L’insegnamento dottrinale che sta alla base di questi sistemi di credenza, quindi anche l’idea di «salvezza» che essi propongono, si riflette sulle loro pratiche, intese come espressione e testimonianza di «fede». Capire e spiegare gli aspetti di consonanza e differenza tra gli insegnamenti e le pratiche di tradizioni così lontane tra loro, non è semplice. La loro lettura comparata suppone una profonda conoscenza dei sistemi di credenza in questione e grande attenzione per non scivolare in fraintendimenti e banalizzazioni che possono accentuare un certo indifferentismo e relativismo religioso. Nella consapevolezza dei pericoli che un simile approccio comporta, cercheremo di capire come la categoria di «salvezza» si esprima in alcune delle più importanti pratiche della tradizione Sōtō zen (zazen, canto dei sūtra e trasmissione del Dharma) e cristiana (liturgia, preghiera e catechesi). 1. ZAZEN E LITURGIA Lo zazen, pratica per eccellenza del buddhismo zen, è spesso paragonato, per importanza, alla liturgia cristiana. In realtà, si tratta di pratiche molto diverse tra loro, che manifestano una differente concezione di «salvezza». 1.1. Lo zazen Lo zen parla della salvezza in termini di satori, o «visione dell’essenza», realizzazione della propria natura-di-Buddha attraverso la liberazione della mente da ogni forma di pensiero, visione, cosa o rappresentazione. Una simile condizione è possibile solo nell’impegno personale nella pratica dello zazen. Questo, non era concepito dal maestro Dōgen come un mezzo per raggiungere l’illuminazione, perché non si può divenire ciò che si è già: gli uomini non «hanno» la natura-di-Buddha, ma «sono» la natura-di-Buddha. L’illuminazione, quindi, è ritenuta parte integrante dello zazen e viceversa. La pratica zen è molto fisica, caratterizzata da gesti, posizioni e schemi di movimento che celano significati profondi. La postura corretta, considerata come espressione dell’illuminazione originale presente in ogni essere, prevede il ricorso alla «posizione del loto» (posare il piede destro sulla coscia sinistra e il piede sinistro sulla coscia destra), ma chi non riesce può adottare la «posizione del semiloto» (posare il piede sinistro sulla coscia destra e il piede destro sotto la coscia sinistra) o dello seiza (mettersi in ginocchio, posando i glutei al cuscino). La schiena e la testa devono essere dritte, gli occhi aperti fissano un punto sul pavimento, a circa un metro davanti al praticante, e le mani vanno tenute nel mudrā della meditazione, ponendo la mano destra sotto la sinistra, entrambe con i palmi rivolti verso l’alto, mentre i pollici si toccano appena, formando un ovale. In questa posizione, il praticante è chiamato a realizzare il controllo del corpo, del respiro e della mente. Benché lo zazen sia spesso considerato una pratica individuale, non si può negare la sua forma comunitaria. La pratica con altre persone non è una rarità, anzi, può diventare una prova per il praticante, che deve comprendere il suo essere parte di un singolo organismo assieme a tutti 1 gli esseri e all’universo. Dagli scritti di Dōgen, si evince che la scelta di impegnarsi in tale pratica deve essere frutto di un atteggiamento di fiducia nei confronti dell’insegnamento, del maestro, della via proposta (zazen) e delle proprie capacità. Una pratica senza fede è del tutto inutile. 1.2 La liturgia In Sacrosantum Concilium 7 si legge che: «ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado». Essa è il luogo culmine in cui i credenti vivono l’incontro personale con Cristo a livello comunitario e si riconoscono parte del «corpo mistico di Cristo» (la Chiesa) in cui egli agisce. Contraddistinta da un nucleo cristologico, la celebrazione eucaristica può essere intesa come la forma più alta di preghiera, in quanto momento di dialogo tra Dio e l’uomo, con una dinamica salvifica discendente e una ascendente. La salvezza, mediata dall’evento dell’incarnazione, passione, morte e risurrezione di Cristo, è un dono gratuito di Dio che l’uomo è chiamato ad accogliere liberamente nella fede. La liturgia riceve significato ed efficacia solo se vissuta nella fede, perché essa è «celebrazione della fede», è fede pregata. Nella celebrazione eucaristica, ogni credente si pone in ascolto della Parola di Dio e compie il memoriale del sacrificio di auto-donazione da parte di Cristo, compiutosi una volta e per sempre. Nell’ambito del rito eucaristico, in particolare, il corpo sacramentale e il corpo ecclesiale diventano un tutt’uno nell’atto sacramentale: il popolo credente vive l’esperienza della comunione con il corpo e il sangue di Cristo. Senza la convinzione che nella Messa si incontra veramente quel Gesù che è morto, risorto e asceso al cielo per la salvezza dell’umanità, gli atti liturgici diventano solo movimenti e parole vuote. La liturgia è culmen et fons, luogo in cui si esprime in massimo grado la fede della Chiesa e fonte da cui essa trae l’energia e il coraggio per uscire nelle strade e testimoniare con la vita la sua esperienza di fede. 2. RECITAZIONE DEI SŪTRA E PREGHIERA Poiché la cultura occidentale tende spesso ad identificare la recitazione dei sūtra con una prassi simile alla preghiera cristiana, urge un chiarimento in merito. 2.1. La recitazione dei sūtra I sūtra sono testi che possono riportare insegnamenti di carattere filosofico o esprimere la fede rivolta agli insegnamenti dei Buddha e dei bodhisattva. La loro paternità è attribuita al Buddha storico, che trasmise oralmente quel Dharma che poi fu trascritto dai suoi successori, o ai grandi maestri del passato. Il fugin (nome tecnico per il canto dei sūtra) accompagna tutta la vita rituale del tempio. Qui, ogni giorno, i praticanti recitano i sūtra dopo lo zazen mattutino, per favorire uno stato di coscienza favorevole alla comprensione degli insegnamenti, per creare armonia tra corpo e mente, e per sperimentare l’essere un unico corpo e un’unica mente con tutti. Negli scritti di Dōgen, però, il fugin è descritto come una prassi insensata. Non si tratta di una condanna della pratica in sé, ma di un ammonimento: la sola recitazione, senza la pratica dello zazen, è inutile. Sviluppare una forma di attaccamento nei confronti della parola scritta significa essere imprigionati in quelle forme di pensiero che ostacolano il satori. Ecco perché l’atteggiamento mentale da tenersi nel fugin deve corrispondere a quello tenuto nella pratica dello zazen. 2.2. La preghiera La preghiera cristiana è considerata una forma di «dialogo con Dio, comunione di parola ed amore». Mettendosi in preghiera, il cristiano esprime la propria fede, fidandosi completamente di 2 Dio e riconoscendosi bisognoso del suo aiuto. Nella preghiera, l’azione di Dio e dell’uomo acquisiscono una certa reciprocità ed interdipendenza poiché, se l’uomo si pone in una condizione orante, è perchè Dio, con la sua grazia, ispira il credente a rivolgersi a lui nella fede. Per approdare ad una preghiera autentica è necessario che la persona orante scopra in sé la presenza dello Spirito di Dio, si affidi a lui e gli presti ascolto. I Vangeli documentano come Gesù stesso lodasse il Padre e insegnasse come farlo anche ai suoi discepoli. Nel Vangelo di Luca, in particolare, Gesù insegna che la preghiera corretta ed efficace deve essere continua e costantemente stimolata dal desiderio di giustizia; umile e discreta, realizzata da un uomo che si riconosce peccatore di fronte a Dio; importuna, che nasce da una necessità impellente. Le formule fisse che il cristiano generalmente adotta per rivolgersi a Dio, sono sussidi che Cristo, la Chiesa e i santi, hanno consegnato all’umanità per insegnarle a pregare correttamente ed evitare la soggettivizzazione di Dio e della preghiera stessa. La preghiera, che sia di lode, ringraziamento, richiesta o perdono, deve scaturire dal cuore, coinvolgendo il soggetto nella sua pienezza. 3. TRASMISSIONE DEL DHARMA E CATECHESI Ogni sistema di credenza è caratterizzato da una dottrina che va comunicata. In Occidente si pensa spesso ad un’educazione religiosa che inizia nell’età infantile e prosegue nel corso della vita secondo modalità differenti. Non è così nel buddhismo zen. 3.1. La trasmissione del Dharma La trasmissione dell’insegnamento zen ai bambini è piuttosto rara. In alcuni casi, si fa leggere loro un’antologia dei passi più semplici tratti dall’opera di Dōgen, ma più di frequente, i genitori si limitano a narrare ai figli le storie del Buddha, a spiegare loro cos’è lo zazen, e come compiere i gesti rituali. In Giappone, ogni persona è libera di dedicarsi alla ricerca personale della via a lei più consona per raggiungere l’illuminazione e, in genere, questo bisogno sorge in età adulta. Quella del maestro è una figura molto importante. Riconoscendo in lui una guida nella realizzazione dell’illuminazione, il praticante deve rivolgergli rispetto, fiducia, obbedienza, gratitudine e venerazione. Dopo un incontro preliminare, il maestro accoglie la persona tra i suoi discepoli ed insegna come praticare. Per aiutare il discepolo a lasciar cadere l’io e a comprendere che vi è un’unica realtà, il maestro può sottoporre all’attenzione del praticante dei kōan (anche se in genere la scuola Sōtō non si avvale molto di essi). Si tratta di casi paradossali, la cui risoluzione intuitiva trascende il senso comune. Non avendo valore universale e nemmeno un’unica soluzione, se ne discute quotidianamente con il maestro nel dokusan (incontro privato dello studente zen con il suo maestro). Diventa evidente come ogni praticante, con il retto sforzo, sia chiamato a cambiare se stesso dal di dentro, poiché la verità è in sé e non fuori di sé. La trasmissione dell’insegnamento, dunque, è strettamente connessa con la pratica e l’illuminazione. Generalmente, il praticante apprende la dottrina filosofica attraverso lo studio di uno dei tanti manuali presenti sul mercato, ma i maestri esortano a non lasciarsi dominare dalle scritture e dalla loro interpretazione letterale, poiché le sole parole non sono sufficienti per comprendere la verità. I grandi maestri zen hanno prodotto una vasta gamma di trattati per aiutare i praticanti ad individuare quale sia la corretta direzione da intraprendere nel proprio cammino spirituale. Il loro contenuto è esposto e presentato dal maestro nel corso del teisho, che non è una spiegazione a fini pedagogici, ma una semplice presentazione del Dharma. Lo studio dei testi può solo aiutare a migliorare la comprensione teorica del buddhismo, nella consapevolezza che esso non è l’unico modo per farlo. 3 3.2. La catechesi Obiettivo della catechesi è favorire la crescita e la maturazione della fede dei singoli individui, integrando il messaggio cristiano con le loro esigenze concrete. Si tratta di una testimonianza con la vita dell’esperienza vissuta in prima persona, della consegna della verità che salva in una relazione interpersonale, in cui il locutore trasmette una conoscenza che lo ha profondamente coinvolto per far sì che l’interlocutore diventi «uomo nuovo» in Cristo. All’origine dell’attività catechetica troviamo la persona del Figlio di Dio fatto uomo, morto e risorto per la salvezza di ogni uomo. Se il Verbo divino non avesse compiuto tutto questo, non sarebbe esistito il cristianesimo e non ci sarebbe stata nessuna fede e dottrina cristiana da comunicare. La comunicazione della fede si avvale di un linguaggio verbale ed uno performativo: il primo è basato sul racconto e sulla narrazione della fede vissuta, mentre il secondo acquisisce la dimensione della prassi comunitaria. La narrazione, in particolare, si pone in relazione con la rivelazione (la comunicazione che Dio ha dato di se stesso, entrando in una relazione dialogica con l’umanità attraverso la storia e la parola, consentendole di divenire partecipe della sua vita mediante il Figlio, nello Spirito) e l’esperienza (il vissuto della coscienza). La testimonianza individuale, che nasce dal desiderio di condividere con l’altro la personale esperienza di Dio, si inserisce all’interno di una dimensione comunitaria, celebrativa e comunicativa che si avvale di diversi strumenti condivisi: Bibbia, immagini, comportamenti, simboli, e così via. Il magistero della Chiesa rivela che l’attività catechetica non è solo uno strumento formativo riservato a bambini e ragazzi, ma ha un respiro universale, che si rivolge anche a giovani e adulti in una modalità pedagogica specifica, in continuo aggiornamento e dialogo con l’età contemporanea. 4. CONCLUSIONE In seguito a questo breve confronto, si possono notare alcuni punti d’incontro tra cristianesimo e buddhismo Sōtō zen, come: l’interesse per l’uomo (per il suo destino e la sua salvezza), per la verità, per l’esperienza (la pratica nello zen e l’incontro con Cristo nel cristianesimo), il respiro universale, l’interdipendenza tra le pratiche, che sono esperienza di una salvezza già data (insita nella natura umana nello zen, dono di Dio che interpella la libertà dell’uomo nel cristianesimo), dimensione individuale e comunitaria della pratica. Il riconoscimento di queste vicinanze, però, non deve distrarre da quelle che sono le differenze profonde. L’assenza di un Dio creatore nello zen, il considerare la religione come una costruzione della mente che impedisce la realizzazione della natura originaria, la grande fiducia nelle capacità di salvarsi con le proprie forze, l’atteggiamento di fiducia, il ruolo relativo delle scritture, la realizzazione della salvezza nella vita terrena. A questa visione, il cristianesimo si contrappone come religione che favorisce l’incontro di fede con un Dio che si rivela anche nelle Scritture e che salva interpellando la libertà dell’uomo. Questa breve analisi, finalizzata ad un dialogo più consapevole con la ricca tradizione che si muove sulla via del Buddha, è legata alla consapevolezza del fatto che, nell’età contemporanea, cristiani e buddhisti non possono ignorarsi, ma devono cercare di conoscersi per apprezzarsi e rispettarsi reciprocamente. Questo, però, non è possibile senza il rispetto e una conoscenza (intellettuale e pratica) della tradizione dell’altro. Sara Noventa 4
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