5/2/2015 - Studio Ducoli

QUADERN
/ GIOVEDÌ, 05 FEBBRAIO 2015
ILCASODELGIORNO
PRIMOPIANO
Iscrizione al Registro
Imprese del recesso
di socio di società
personali “a ostacoli”
Blocco della detrazione IVA con
cessione d’azienda “riqualificata”
/ Luciano DE ANGELIS
Nei confronti dei terzi, il recesso
del socio di una società di persone ha effetto da quando, con
mezzi idonei, venga loro portato
a conoscenza (art. 2290 c.c.).
Mezzo idoneo per eccellenza, nel
nostro ordinamento, è, senza
dubbio, l’iscrizione dell’“exit” nel
Registro delle imprese (d’ora innanzi anche R.I.), ex art. 2300 c.c.
Ovviamente, nessun problema si
pone nei casi in cui, a seguito del
recesso di uno di essi, tutti i soci
si rechino dal notaio per modificare l’atto costitutivo e questi provveda a depositare il novellato contratto sociale presso il R.I. Diversa situazione (piuttosto frequente nella pratica) si configura, invece, quando, a seguito di dissidi
nella compagine societaria, qualche socio rifiuti di recarsi dal notaio e non si riesca, quindi, a formalizzare il recesso tramite atto
pubblico o scrittura [...]
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Per la cessione rileva la regolamentazione degli interessi
effettivamente perseguiti, anche se con una pluralità di pattuizioni
non contestuali
/ Alessandro BORGOGLIO
Si configura una cessione d’azienda quando una
società cede, attraverso varie operazioni commerciali indipendenti, i beni di magazzino, la
proprietà del prodotto finito, le materie prime e
gli stampi ad un’altra società che corrisponde alla prima una “indennità di spoliazione”. È
quanto emerge dalla corposa sentenza della Cassazione n. 1955 depositata ieri.
La fattispecie è ormai abbastanza ricorrente e si
presenta allorquando, come nel caso di specie,
l’Amministrazione finanziaria contesti ad un
contribuente – nello specifico ad una spa –
l’omessa registrazione di un contratto di cessione d’azienda soggetto ad imposta di registro,
desumendo la sussistenza di tale cessione
d’azienda dalla riqualificazione complessiva di
diverse operazioni commerciali autonome di
vendita di beni (anche strumentali), sottoposte a
IVA da parte del cedente, ed in relazione alle
quali il cessionario esercita di regola il diritto
alla detrazione.
È allora importante ricordare che la cessione di
beni è soggetta all’IVA, mentre la cessione
d’azienda ne è esclusa ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. b) del DPR 633/1972. Quest’ultima,
INEVIDENZA
Indebita compensazione con confini da chiarire
Definita la contribuzione 2015 per artigiani e
commercianti
Fotovoltaico agricolo produttivo di reddito agrario
anche per il 2015
Operativo il credito d’imposta per la musica
Responsabile per la prevenzione della corruzione tra i
dirigenti in servizio
però, è un negozio giuridico soggetto all’obbligo di registrazione (a cui si applica l’imposta proporzionale di registro), per il principio di alternatività di cui all’art. 40 del DPR
131/1986. Pertanto, se l’Amministrazione finanziaria riqualifica un atto di cessione di
singoli beni in una cessione d’azienda, viene
sanzionata l’omessa registrazione dell’atto
attraverso l’applicazione dell’imposta di registro e viene altresì irrogata la sanzione amministrativa dal 120% al 240% ex art. 69 del
DPR 131/1986. Al cessionario, invece, è disconosciuta la detrazione dell’IVA che ha indebitamente corrisposto sull’acquisto dei singoli beni (cfr. Cass. n. 13222/2001).
Nel caso oggetto della pronuncia di ieri, il Fisco aveva riqualificato le singole operazioni
commerciali in una cessione d’azienda, considerando che con le stesse la società venditrice aveva di fatto ceduto, seppur non unitariamente con una sola transazione, l’intero
magazzino, le materie prime, gli stampi e i
prodotti finiti, ed aveva trasferito alla cessionaria i beni immateriali (know-how, marketing, intangibles e software), [...]
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FISCO
Illegittimo l’eventuale
disconoscimento della
voluntary disclosure
/ Alfio CISSELLO
La formulazione normativa e le istruzioni al
modello di richiesta di accesso alla voluntary
disclosure inducono a ritenere che l’attivazione della procedura internazionale richieda
anche la definizione di eventuali violazione
interne.
La questione si presenta delicata sotto diversi
profili, posto che si tratterebbe di fare una sorta di audit fiscale del contribuente, particolarmente lungo e difficoltoso se questo ha esercitato attività di lavoro auton [...]
A PAGINA 6
ancora
IL CASO DEL GIORNO
Iscrizione al Registro Imprese del recesso di
socio di società personali “a ostacoli”
Dovrebbero essere distinte le due situazioni attinenti al recesso “ad nutum” e a quello
per giusta causa
/ Luciano DE ANGELIS
Nei confronti dei terzi, il recesso del socio di una società di
persone ha effetto da quando, con mezzi idonei, venga loro
portato a conoscenza (art. 2290 c.c.). Mezzo idoneo per eccellenza, nel nostro ordinamento, è, senza dubbio, l’iscrizione dell’“exit” nel Registro delle imprese (d’ora innanzi anche R.I.), ex art. 2300 c.c.
Ovviamente, nessun problema si pone nei casi in cui, a seguito del recesso di uno di essi, tutti i soci si rechino dal notaio per modificare l’atto costitutivo e questi provveda a depositare il novellato contratto sociale presso il R.I. Diversa
situazione (piuttosto frequente nella pratica) si configura, invece, quando, a seguito di dissidi nella compagine societaria, qualche socio rifiuti di recarsi dal notaio e non si riesca,
quindi, a formalizzare il recesso tramite atto pubblico o
scrittura privata autenticata.
In questi casi, la giurisprudenza di legittimità (Cass. 26 febbraio 2002 n. 2812), la prassi professionale (Centro studi
UNGDC, circolare 15 aprile 2009 n. 5) e camerale (Registri
delle imprese di Roma e Triveneto, istruzioni del maggio
2014) ritengono che l’iscrizione dell’avvenuto recesso nel
Registro Imprese ai sensi dell’art. 2300 c.c. possa essere richiesta, nel termine di 30 giorni dal suo verificarsi, dagli
amministratori (anche senza intervento del notaio). Non solo: essa – si legge in un documento del Registro delle imprese di Torino (del maggio 2009) – rappresenterebbe, per gli
amministratori, uno specifico obbligo, con conseguente applicazione della sanzione amministrativa di cui all’art.
2630 c.c. nel caso in cui non vi provvedano entro il termine
previsto dalla legge.
Ma cosa succede quando il socio, in dissidio col recedente,
sia proprio l’amministratore chiamato alla registrazione e
questo non la esegua?
La giurisprudenza è, sul punto, ondivaga. Da un lato, ha sostenuto la possibilità per il socio receduto di sostituire l’amministratore quando questo non provveda tempestivamente
al deposito presso il R.I della dichiarazione di recesso (Cass.
nn. 5732/1999 e 2812/2002); dall’altro, ha sostenuto anche
l’esatto opposto (Cass. n. 14360/1999).
Tale diversificazione, a quanto consta, è propria anche nei
Registri delle imprese. A riguardo, infatti, mentre in alcuni
casi è stato ammesso l’intervento suppletivo del socio (Registri delle imprese del Triveneto e di Torino), in altri si è
escluso che la domanda possa essere presentata direttamente
dal receduto, atteso che questi, a seguito del recesso, ha perso il potere di gestione ed è divenuto un estraneo alla
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società, potendo, dunque, solo limitarsi a richiedere al
Conservatore l’iscrizione d’ufficio della sua fuoriuscita dalla
compagine (Registro Imprese di Roma, istruzioni del maggio
2014).
Il Notariato, peraltro, propone una soluzione ancora più radicale, ritenendo, sia a livello nazionale che interregionale, il
recesso non iscrivibile nel Registro delle imprese, nelle more dell’adozione di un formale atto modificativo dei patti
sociali, se non nella forma di atto pubblico o scrittura privata
autenticata (Cnn Notizie, risposta a quesito n. 203/2008 e
Comitato Notarile Triveneto, massima O.A.8 del settembre
2014).
L’opinione di chi scrive è che debbano essere distinte le due
situazioni attinenti al recesso ad nutum rispetto a quello per
giusta causa. Nel primo caso (tipico nella società contratta a
tempo indeterminato), l’intervento diretto del socio dovrebbe ritenersi ammesso, in quanto il recesso (una volta trascorso il periodo di preavviso) ha indubitabilmente prodotto i
suoi effetti e, quindi, l’accoglimento della domanda di iscrizione dello stesso da parte del R.I. diventa una sorta di atto
dovuto.
Diversamente, nel recesso per giusta causa, l’intervento diretto del socio dovrebbe passare al vaglio del Conservatore
del R.I. competente, il quale potrà provvedere all’iscrizione
nei casi in cui il recesso abbia prodotto conseguenze (ad
esempio, l’avvenuta liquidazione della quota spettante al receduto), mentre dovrebbe astenersi dall’iscrizione nei casi in
cui ciò non sia avvenuto o in quelli, all’epoca della richiesta
di iscrizione, al vaglio della magistratura.
Opportune modalità incontrovertibili per l’iscrizione del
recesso del socio
L’iscrizione dell’exit presso il R.I. appare, in ogni caso, di
rilevanza assoluta. È da questa, infatti, che deriva l’opponibilità ai terzi dello scioglimento del vincolo sociale al fine
di escludere la responsabilità illimitata del socio cessato per i
debiti sociali sorti successivamente a tale evento, nonché
l’assoggettamento del medesimo a fallimento unitamente alla società.
Secondo la Cassazione, infatti, anche il recedente che non
abbia più partecipato alla gestione della società, né abbia
avuto contatti con i creditori, risulta responsabile per le obbligazioni sociali contratte dopo il suo recesso e può essere
dichiarato “personalmente” fallito a seguito del fallimento
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ancora
della società senza alcun limite temporale (Cass. nn.
9234/2012, 4865/2010 e 28225/2008).
Nello stesso senso, la Suprema Corte ha ritenuto che la responsabilità del socio per i debiti sociali previdenziali nei
confronti dell’INPS riguardi anche il periodo intercorrente
fra la data di efficacia “interna” del recesso e quella successiva, in cui lo stesso sia stato iscritto nel Registro delle imprese (Cass. n. 13240/2013), e tale principio è stato considerato applicabile dai giudici di legittimità anche in relazione
ai debiti sociali di natura tributaria (come il debito IVA)
(Cass. n. 14002/2012).
Inoltre, sempre sul piano fiscale, si è ritenuto che il recesso
del socio, non iscritto dagli amministratori nel R.I., né comunicato all’Amministrazione finanziaria determini l’impu-
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tazione, in capo al receduto, del reddito da partecipazione
nella società ai fini dell’applicazione dell’IRPEF, nella misura spettatengli dal momento del recesso fino al periodo di
imposta in cui l’accadimento venga adeguatamente pubblicizzato (Cass. n. 2812/2002).
In definitiva, data l’evidenziata importanza dell’iscrizione
del recesso del socio nel R.I., parrebbe opportuno introdurre nel sistema modalità incontrovertibili finalizzate ad
ottenerla, sanzionando chi, all’interno della compagine
societaria, ne ostacoli la pubblica evidenziazione (per
approfondimenti, si rimanda al n. 1/2015 della Rivista di
Eutekne Dottrina “Società e Contratti, Bilancio e
Revisione”, in corso di pubblicazione).
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FISCO
Blocco della detrazione IVA con cessione
d’azienda “riqualificata”
Per la cessione rileva la regolamentazione degli interessi effettivamente perseguiti,
anche se con una pluralità di pattuizioni non contestuali
/ Alessandro BORGOGLIO
Si configura una cessione d’azienda quando una società cede, attraverso varie operazioni commerciali indipendenti, i
beni di magazzino, la proprietà del prodotto finito, le materie prime e gli stampi ad un’altra società che corrisponde alla prima una “indennità di spoliazione”. È quanto emerge
dalla corposa sentenza della Cassazione n. 1955 depositata
ieri.
La fattispecie è ormai abbastanza ricorrente e si presenta allorquando, come nel caso di specie, l’Amministrazione finanziaria contesti ad un contribuente – nello specifico ad
una spa – l’omessa registrazione di un contratto di cessione
d’azienda soggetto ad imposta di registro, desumendo la
sussistenza di tale cessione d’azienda dalla riqualificazione
complessiva di diverse operazioni commerciali autonome di
vendita di beni (anche strumentali), sottoposte a IVA da parte del cedente, ed in relazione alle quali il cessionario esercita di regola il diritto alla detrazione.
È allora importante ricordare che la cessione di beni è soggetta all’IVA, mentre la cessione d’azienda ne è esclusa ai
sensi dell’art. 2, comma 3, lett. b) del DPR 633/1972.
Quest’ultima, però, è un negozio giuridico soggetto all’obbligo di registrazione (a cui si applica l’imposta proporzionale di registro), per il principio di alternatività di cui all’art.
40 del DPR 131/1986. Pertanto, se l’Amministrazione finanziaria riqualifica un atto di cessione di singoli beni in una
cessione d’azienda, viene sanzionata l’omessa registrazione dell’atto attraverso l’applicazione dell’imposta di registro e viene altresì irrogata la sanzione amministrativa dal
120% al 240% ex art. 69 del DPR 131/1986. Al cessionario,
invece, è disconosciuta la detrazione dell’IVA che ha indebitamente corrisposto sull’acquisto dei singoli beni (cfr.
Cass. n. 13222/2001).
Nel caso oggetto della pronuncia di ieri, il Fisco aveva riqualificato le singole operazioni commerciali in una cessione
d’azienda, considerando che con le stesse la società venditrice aveva di fatto ceduto, seppur non unitariamente con una
sola transazione, l’intero magazzino, le materie prime, gli
stampi e i prodotti finiti, ed aveva trasferito alla cessionaria i
beni immateriali (know-how, marketing, intangibles e
software), ceduto i contratti in essere con fornitori e clienti,
ed infine distaccato il personale con funzioni chiave. A
fronte di ciò, inoltre, la società cessionaria aveva corrisposto
alla cedente una “indennità di spoliazione” di diversi milioni
di euro.
La Cassazione ha ricordato, innanzitutto, che, ai sensi
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dell’art. 20 del DPR 131/1986, l’imposta di registro è applicata secondo l’intrinseca natura e gli effetti giuridici degli
atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda
il titolo o la forma apparente. In forza di tale disposizione,
quindi, deve attribuirsi rilievo preminente alla causa reale
dei negozi giuridici e alla regolamentazione degli interessi
effettivamente perseguita dai contraenti, anche se mediante
una pluralità di pattuizioni non contestuali (Cass. nn.
13580/2007, 1405/2013, 10740/2013 e 6405/2014).
Nel caso di specie, secondo la Suprema Corte, le predette
cessioni di beni materiali ed immateriali dovevano ritenersi
un fenomeno a carattere unitario configurabile come cessione d’azienda, peraltro senza necessità di ricorrere all’abuso di diritto in forza dell’elusività dell’operazione, giacché
il predetto art. 20 non è solo una norma di interpretazione
degli atti, ma una disposizione intesa a identificare l’elemento strutturale del rapporto giuridico tributario, il quale è dato dall’oggetto e viene fatto coincidere con gli effetti giuridici indicativi della capacità contributiva dei soggetti che
compiono gli atti (cfr. Cass. n. 2713/2002).
Si ricorda, a tal proposito, che in passato i giudici di legittimità avevano già stabilito che si ha cessione d’azienda quando i contraenti pattuiscono il trasferimento dei beni organizzati in vista dell’esercizio dell’attività d’impresa, essendo
sufficiente che il loro complesso presenti una attitudine a tale esercizio, ovvero una potenzialità produttiva (Cass. n.
8362/1992), anche se non sono cedute le relazioni finanziarie, commerciali e personali (Cass. n. 23857/2007). Ed ancora che, ai fini della configurazione della cessione d’azienda, non è necessario che vengano trasferiti tutti i beni
aziendali, ma è sufficiente il trasferimento di alcuni di essi,
purché nel complesso di questi ultimi permanga un residuo
di organizzazione che ne dimostri l’attitudine all’esercizio
dell’impresa (Cass. n. 21481/2009).
Il cessionario può richiedere l’IVA al cedente
Sul fronte del cessionario, poi, la Suprema Corte, con la sentenza di ieri, ha confermato l’indetraibilità dell’IVA assolta sugli acquisti dei predetti beni, giacché l’imposta in fattura era stata erroneamente addebitata dal cedente, trattandosi appunto di una cessione d’azienda non soggetta ad IVA, e
non di una pluralità di cessioni di beni soggette invece ad
imposta. In sostanza, nel caso di specie erroneamente erano state ritenute soggette ad IVA le operazioni realizzate,
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con la conseguenza che il cedente che l’aveva versata ne può
chiedere il rimborso (nei limiti della decadenza), e il cessionario che l’aveva pagata al cedente potrà richiederla a
questi, ma non portarla in detrazione.
Ciò, peraltro, non lede il principio di neutralità dell’IVA,
atteso che in questo caso la cessionaria va parificata al consumatore finale che deve sopportare per intero il peso
dell’imposta in quanto soltanto il prestatore di servizi o il
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cedente di beni va considerato di fronte alle autorità tributarie debitore dell’IVA. Il cessionario ha, invece, sia pure erroneamente, pagato al cedente l’IVA non dovuta, ma non sorge in capo allo stesso il diritto alla detrazione, potendo richiedere solo nei confronti del cedente il pagamento di un
indebito di cui lo stesso cedente può, a sua volta, chiedere,
nei limiti della decadenza e prescrizione, il rimborso al Fisco.
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FISCO
Illegittimo l’eventuale disconoscimento della
voluntary disclosure
È in capo al Fisco l’onere di determinare correttamente le imposte dovute per gli anni
oggetto di collaborazione volontaria
/ Alfio CISSELLO
La formulazione normativa e le istruzioni al modello di richiesta di accesso alla voluntary disclosure inducono a ritenere che l’attivazione della procedura internazionale richieda anche la definizione di eventuali violazione interne.
La questione si presenta delicata sotto diversi profili, posto
che si tratterebbe di fare una sorta di audit fiscale del contribuente, particolarmente lungo e difficoltoso se questo ha
esercitato attività di lavoro autonomo o d’impresa.
Sarebbe poi sufficiente una contestazione sulla competenza
o sull’inerenza per rendere potenzialmente incompleta
l’emersione.
Già in un precedente intervento (si veda “Da chiarire gli effetti tombali della voluntary «interna»” del 10 dicembre
2014) ci eravamo interrogati sulla possibilità che l’Erario,
appurando il mancato possesso dei requisiti per accedere alla voluntary disclosure, notifichi, dopo il pagamento delle
somme o delle tre rate, un atto di disconoscimento della medesima. Riflettendo sul dato normativo e privilegiando una
ricostruzione sistematica, riteniamo che ciò non sia possibile.
Per prima cosa, la voluntary disclosure non si concretizza,
come nel caso di alcuni condoni del 2002 o di altre forme di
sanatoria, in una procedura di sanatoria ad hoc, ma, limitatamente agli effetti, in un semplice accertamento con adesione o in un’adesione all’invito, con alcune particolarità (si
pensi, ad esempio, al fatto che il perfezionamento coincide
con il versamento di tutte e tre le rate, e non solo della
prima).
Allora, non possono che operare le norme del DLgs. 218/97,
per quanto non previsto dalla L. 186/2014.
Ciò significa, da un lato, che l’accertamento con adesione
non è impugnabile o modificabile, e questo vale sia per
l’Ufficio che per il contribuente (lo dice l’art. 2 comma 3 del
DLgs. 218/97, secondo cui “l’accertamento definito con
adesione non è soggetto ad impugnazione, non è integrabile
o modificabile da parte dell’ufficio”).
Dall’altro, è possibile non il disconoscimento ma la reiterazione del potere impositivo, sulla base e alle condizioni
dell’art. 2 comma 4 del DLgs. 218/97, quindi, ad esempio, se
viene accertato un maggior reddito che supera almeno del
50% quello definito, oppure se la definizione concerne accertamenti parziali (cosa che mai si potrà verificare, posto
che l’atto ove vengono liquidate le somme non può
qualificarsi come parziale, essendo assolutamente irrilevante
la denominazione data dall’Ufficio).
/ EUTEKNEINFO / GIOVEDÌ, 05 FEBBRAIO 2015
Relativamente, invece, alle sanzioni da RW, esse vengono
definite ai sensi dell’art. 16 del DLgs. 472/97, e anche in tal
caso non è previsto un disconoscimento successivo, che neghi i benefici della L. 186/2014. Fermi restando i termini di
decadenza, è possibile contestare nuove violazioni dell’art. 5
del DL 167/90, che potranno essere definite con la sola riduzione al terzo.
Dal punto di vista sistematico, è altresì sostenibile che l’Ufficio sia impossibilitato a disconoscere la voluntary disclosure, in quanto si tratta di un procedimento che, a differenza di
molte tipologie di condoni, presuppone la liquidazione
d’ufficio, e non la determinazione del maggior reddito e
dell’imposta ad opera del contribuente. Entra in gioco anche
la tutela del legittimo affidamento, che verrebbe lesa qualora, a posteriori, venissero meno gli effetti dell’istituto, in
special modo la copertura penale.
Possibile la reiterazione dell’accertamento
Entro il 30 settembre 2015, occorre presentare la domanda,
poi, estremizzando, il funzionario può anche metterci un paio di anni per liquidare il dovuto.
Se il contribuente versa entro i termini quanto liquidato,
nulla quaestio. Ove, invece, egli non paghi le somme, la voluntary disclosure non si perfeziona, e l’Ufficio, ex art. 5quinquies comma 10 del DL 167/90, anche in deroga agli ordinari termini decadenziali, notifica l’accertamento o l’atto
di contestazione della sanzione con la “rideterminazione”
della sanzione entro il 31 dicembre dell’anno successivo a
quello di notificazione dell’invito o dell’adesione.
In sostanza, in ipotesi di mancato perfezionamento della
voluntary (ergo: di mancato o tardivo pagamento e non di insussistenza, a monte, dei requisiti per fruirne) arriva un accertamento con le sanzioni “piene”, definibile mediante i
normali istituti deflativi del contenzioso, senza i benefici
della voluntary, con la particolarità che, da un lato, il contribuente si è ormai autodenunciato, dall’altro, non opera più
neanche la copertura penale.
L’Agenzia delle Entrate, dal canto suo, ha tutto il tempo per
analizzare la posizione del contribuente, e ben può negare la
voluntary, emettendo, beninteso, entro i normali termini decadenziali, l’avviso di accertamento (fermo restando l’eventuale slittamento del termine per il rispetto dei novanta giorni di cui all’art. 5-quater del DL 167/90).
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IMPRESA
Indebita compensazione con confini da
chiarire
Rispetto alla fittizia esposizione di somme al lavoratore per indennità, con
conseguente conguaglio dall’INPS, proposte quattro diverse interpretazioni
/ Maurizio MEOLI
Integra la fattispecie di indebita compensazione, ex art. 10quater del DLgs. 74/2000, il datore di lavoro che, con la fittizia esposizione di somme corrisposte al lavoratore a titolo
di indennità per malattia, maternità o assegni familiari, ottiene dall’INPS il conguaglio di tali somme, in realtà non
corrisposte, con quelle da lui dovute all’Istituto per contributi previdenziali ed assistenziali, così omettendo di versargli
(o percependo indebitamente dallo stesso) le corrispondenti
erogazioni. Rispetto alla fattispecie ex art. 10-quater del
DLgs. 74/2000 rilevano anche compensazioni riguardanti
contributi previdenziali. Lo precisa la Cassazione nella
sentenza n. 5177, depositata ieri, intorbidendo ulteriormente
le acque già poco limpide dei rapporti tra la fattispecie
penale tributaria e taluni reati comuni.
In ordine alla condotta sopra ricordata, infatti, si contano
quanto meno quattro distinte ricostruzioni. Secondo un
primo orientamento integrerebbe il delitto di truffa (art. 640
comma 2 c.p.) – e non il meno grave reato di omissione o
falsità in registrazione o denuncia obbligatoria (ex art. 37
della L. 689/81) – la condotta del datore di lavoro che, per
mezzo dell’artificio costituito dalla fittizia esposizione di
somme corrisposte al lavoratore, induca in errore l’istituto
previdenziale sul diritto al conguaglio di dette somme, mai
corrisposte, realizzando così un ingiusto profitto e non già
una semplice evasione contributiva (cfr. Cass. n.
45225/2014, n. 42937/2012 e n. 11184/2007).
A giudizio di altra ricostruzione, nel caso di mancata corresponsione ad un dipendente, da parte del datore di lavoro, di
indennità di malattia e assegni familiari portati comunque a
conguaglio nei confronti dell’INPS, non ricorre il delitto di
truffa per difetto del danno patrimoniale all’istituto previdenziale, potendosi ravvisare in astratto il reato di appropriazione indebita (art. 646 c.p.) in danno del lavoratore
(cfr. Cass. n. 18762/2013).
Secondo le sentenze della Cassazione n. 51845/2014 e n.
48663/2014, invece, la condotta in questione sarebbe da inquadrare nella fattispecie di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, di cui all’art. 316-ter c.p. Delitto
che prescinde sia dall’esistenza di artifici o raggiri, sia dalla
induzione in errore, sia dall’esistenza di un danno patrimoniale patito dalla persona offesa; elementi che, invece, caratterizzano la truffa. Ad essere richiesto è l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere (o l’omissione di informazioni dovute) da
cui derivi il conseguimento indebito di erogazioni da parte
/ EUTEKNEINFO / GIOVEDÌ, 05 FEBBRAIO 2015
dello Stato, enti pubblici o Comunità europee (ovvero il conseguimento di erogazioni cui non si ha diritto); erogazioni
che possono consistere indifferentemente sia nell’ottenimento di una somma di denaro che nell’esenzione dal pagamento di una somma altrimenti dovuta.
Anche questa conclusione è ora contraddetta dalla sentenza
depositata ieri, secondo la quale il caso in esame farebbe
emergere la questione del rapporto tra la truffa (invocata dal
PM, dal momento che gli importi in gioco erano inferiori a
50.000 euro) e l’indebita compensazione (ravvisata dal GUP,
con conseguente sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza penale del fatto per mancato superamento della soglia di punibilità). Rapporto che, alla luce del principio di
specialità, deve essere risolto in favore della fattispecie penale tributaria, individuandosi l’elemento specializzante
nell’esatta individuazione sia della natura dell’artificio, ovvero la compensazione mediante crediti inesistenti o non dovuti, che del soggetto passivo, attraverso il rinvio ai soggetti creditori indicati nell’art. 17 del DLgs. 241/97 (cfr. anche
Cass. n. 22191/2014 e n. 35968/2009).
Al fondo di tutto ciò, poi, si pone la questione relativa alla riferibilità o meno della fattispecie penale tributaria anche alle compensazioni riguardanti contributi previdenziali. La
decisione in commento, in linea con la prevalente dottrina e
giurisprudenza (cfr. Cass. n. 35968/2009 e n. 13996/2012),
la risolve affermativamente. Ciò in quanto, innanzitutto, il titolo del DLgs. 74/2000 – che parla di reati in materia di imposte sui redditi e di IVA – non è vincolante per l’interprete. Rilevano, poi, il riferimento contenuto nell’art. 17 del
DLgs. 241/97, tra i debiti ed i crediti suscettibili di compensazione, anche a quelli relativi a contributi previdenziali, e
quello, contenuto nell’art. 10-quater del DLgs. 74/2000, agli
importi non versati che sono volutamente indicati con la
generica espressione “somme dovute”.
Una differente lettura, inoltre, renderebbe ardua l’applicazione della fattispecie qualora dovesse venire portato in
compensazione un credito fittizio incidente su partite debitorie fiscali e non fiscali, in quanto la compensazione è effettuata sulla somma delle posizioni debitorie del contribuente
senza distinzione tra debiti fiscali e di diversa natura. In
senso contrario, peraltro, si è espressa la Cassazione n.
48663/2014. A sostegno di tale conclusione, potrebbe rilevare, oltre al contesto normativo in cui la fattispecie è inserita,
il richiamo, attraverso il rinvio all’art. 10-bis del DLgs.
74/2000, al “periodo d’imposta”.
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ancora
LAVORO & PREVIDENZA
Definita la contribuzione 2015 per artigiani
e commercianti
Forniti dall’INPS i valori di aliquote, minimali e massimali di reddito, nonché il quadro
delle scadenze per i versamenti
/ Luca MAMONE
Con la circ. n. 26 di ieri, l’INPS ha fornito i dati di interesse
ai fini della contribuzione IVS artigiani ed esercenti attività commerciali per il 2015, quali aliquote, minimali e massimali di reddito, nonché le modalità di determinazione degli importi che i contribuenti appartenenti alle predette categorie dovranno corrispondere entro le previste scadenze.
Innanzitutto, si evidenzia l’incremento “automatico” dello
0,45% dell’aliquota base, dovuto ai sensi dell’art. 24, comma 22 del DL 201/2011, il quale ha previsto che, a partire
dal 2012, le aliquote contributive di finanziamento delle
gestioni autonome artigiani e commercianti dell’INPS siano
incrementate di 1,3 punti percentuali e successivamente dello 0,45% ogni anno fino a raggiungere il livello del 24%.
Pertanto, la misura dell’aliquota da applicare per il 2015 ad
entrambe le categorie è pari al 22,65% (lo scorso anno era il
22,20%).
Tenendo conto di tale valore, si ricorda che per i soli iscritti
alla Gestione commercianti dovrà essere sommato lo
0,09% (per un valore totale dell’aliquota pari al 22,74%) a
titolo di aliquota aggiuntiva istituita dall’art. 5 del DLgs. n.
207/1996, ai fini dell’indennizzo per la cessazione definitiva dell’attività commerciale.
In più, nel computo occorre considerare anche il contributo
aggiuntivo per le prestazioni di maternità, pari a 0,62 euro
mensili (7,44 euro annuali), così come previsto dall’art. 49,
comma 1 della L. n. 488/1999.
Di converso, trovano applicazione anche per quest’anno sia
la consueta riduzione contributiva del 50% per gli iscritti
con più di 65 anni di età, sia le aliquote ridotte per i coadiuvanti con età non superiore a 21 anni, fissate al 19,65% per
gli artigiani e 19,74% per i commercianti.
Ciò premesso, nella circolare in esame viene reso noto il valore del minimale di reddito annuo, utile ai fini del calcolo
della contribuzione IVS per artigiani e commercianti, che
per il 2015 è pari a 15.548 euro. Pertanto, la contribuzione
IVS sul minimale di reddito sarà, su base annua, pari a
3.529,06 euro (3.521,62 IVS + 7,44 maternità) per gli artigiani e 3.543,05 euro (3.535,61 IVS + 7,44 maternità) per i
commercianti, ovvero 3.062,62 e 3.076,61 euro con riferimento ai rispettivi coadiuvanti di età non superiore ai 21
anni.
/ EUTEKNEINFO / GIOVEDÌ, 05 FEBBRAIO 2015
Invece, con riferimento a periodi inferiori all’anno solare,
occorre calcolare il valore su base mensile, dividendo per 12
i predetti importi, ottenendo in questo modo valori mensili
pari a 294,09 euro per gli artigiani (255,22 euro per i coadiutori under 21), 295,25 euro per i commercianti (256,38
euro per i coadiutori under 21).
Invece, per quanto riguarda la contribuzione IVS eccedente
il minimale, l’INPS ricorda che il contributo per quest’anno
è dovuto sui redditi prodotti nel 2014 per la quota eccedente il minimale di 15.548 euro, con applicazione delle citate
aliquote fino al limite della prima fascia di retribuzione annua pensionabile pari, per il 2015 a 46.123 euro, mentre per
i redditi superiori a tale soglia si conferma l’aumento
dell’aliquota dell’1% disposto dall’art. 3-ter del DL 384/92.
Un altro importante valore di riferimento per la contribuzione IVS artigiani e commercianti è dato dal massimale di
reddito annuo, che, per il 2015, è pari a 76.872 euro per coloro che si sono iscritti alle citate Gestioni prima del 1° gennaio 1996, ovvero a 100.324 euro se iscritti con decorrenza
o successivamente a tale data, così come previsto dall’art. 2,
comma 18 della L. 335/1995.
Infine, nella circolare in esame, l’INPS detta la mappa delle
scadenze alle quali artigiani e commercianti dovranno attenersi per effettuare i versamenti dei contributi di loro competenza, come sempre mediante il modello di pagamento
unificato F24.
In particolare, per il versamento delle 4 rate dei contributi
dovuti sul minimale di reddito, i termini previsti sono il 18
maggio, 20 agosto e 16 novembre 2015, nonché il 16 febbraio 2016. Invece, con riferimento ai contributi dovuti sulla
quota di reddito eccedente il minimale, a titolo di saldo
2014, primo e secondo acconto 2015, i termini previsti sono
quelli per i pagamenti IRPEF.
Sul punto, l’INPS ricorda che già dal 2013 non vengono più
inviate le comunicazioni contenenti i dati e gli importi utili per il pagamento della contribuzione dovuta, poiché gli
stessi sono a disposizione dei contribuenti mediante l’opzione “Dati del mod. F24” presente nel Cassetto previdenziale
per artigiani e commercianti.
Tale opzione, inoltre, consente anche di visualizzare e
stampare il modello per effettuare il pagamento.
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ancora
FISCO
Fotovoltaico agricolo produttivo di reddito
agrario anche per il 2015
Il decreto “Milleproroghe”, in corso di conversione in legge, ha rinviato di un anno
quanto disposto dal DL 66/2014
/ Antonio PICCOLO
La regola della tassazione fondiaria per la produzione di
energia da parte delle imprese agricole è stata differita di
un anno dall’art. 12, comma 1, lett. a) del DL n. 192/2014
(decreto “Milleproroghe” – il cui Ddl. di conversione A.C.
2803 è all’esame delle Commissioni Affari costituzionali e
Bilancio della Camera), che ha modificato l’art. 22, comma
1 del DL n. 66/2014 (conv. L. n. 89/2014) che, a sua volta,
aveva novellato l’art. 1, comma 423 della L. n. 266/2005
(Finanziaria 2006).
Per effetto della modifica la regola, secondo cui il reddito va
determinato applicando all’ammontare dei corrispettivi delle
operazioni sottoposte a registrazione ai fini dell’IVA il coefficiente di redditività del 25% (ferma restando la possibilità di optare per la determinazione del reddito con la differenza tra ricavi e costi), si applica dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2015 (e della novella
occorre tener conto per determinare gli acconti IRPEF e
IRES dovuti per il predetto periodo d’imposta).
Di conseguenza, è stato modificato anche il successivo comma 1-bis dell’art. 22 del DL n. 66/2014, secondo cui, limitatamente agli anni 2014 e 2015, ferme restando le disposizioni tributarie in materia di accisa, la produzione e la cessione
di energia elettrica e calorica da fonti rinnovabili agroforestali (fino a 2.400.000 kwh/anno) e fotovoltaiche (fino a
260.000 kwh/anno), nonché di carburanti ottenuti da produzioni vegetali provenienti prevalentemente dal fondo e di
prodotti chimici derivanti da prodotti agricoli proveniente
prevalentemente dal fondo effettuate dagli imprenditori
agricoli, costituiscono attività connesse ai sensi del terzo
comma dell’art. 2135 c.c. e si considerano produttive di reddito agrario.
Al riguardo è utile rimarcare che la Corte Costituzionale,
nell’udienza del 25 febbraio 2015, dovrà scrutinare la censura sollevata dalla C.T. Prov. di Agrigento, secondo cui il regime fiscale di favore previsto per gli imprenditori agricoli
che producono e vendono energia da fonti rinnovabili, come
stabilito dalla Finanziaria 2006, non prevede un limite oltre
il quale questa attività diventa industriale, con il
conseguente reddito assoggettato a tassazione ordinaria.
Nel settore agricolo il “Milleproroghe” si è poi occupato anche dell’attuazione della revisione delle macchine agricole
in circolazione sostituendo, con il comma 5 dell’art. 8, i termini di cui all’art. 111, comma 1, primo e secondo periodo
del DLgs. n. 285/1992. La previsione sancisce ora in sostanza che, al fine di garantire adeguati livelli di sicurezza nei
/ EUTEKNEINFO / GIOVEDÌ, 05 FEBBRAIO 2015
luoghi di lavoro e nella circolazione stradale, il Ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro
delle Politiche agricole (MIPAAF), con decreto da adottare
entro e non oltre il 30 giugno 2015, dispone la revisione obbligatoria delle macchine agricole soggette a
immatricolazione a norma dell’art. 110 del DLgs. n.
285/1992.
Con lo stesso decreto è disposta, a far data dal 31 dicembre
2015, la revisione obbligatoria delle macchine agricole in
circolazione soggette a immatricolazione in ragione del relativo stato di vetustà e con precedenza per quelle immatricolate antecedentemente al 1° gennaio 2009; inoltre sono stabiliti, d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti
tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di
Bolzano, criteri, modalità e contenuti della formazione professionale per il conseguimento dell’abilitazione all’uso
delle macchine agricole, in attuazione di dell’art. 73 del
DLgs. n. 81/2008.
La revisione delle macchine agricole scatterà quindi dal 31
dicembre 2015, con precedenza per quelle immatricolate
prima del 1° gennaio 2009. Con l’allungamento del termine i
Ministeri potranno così valutare meglio la definizione dei
criteri di controllo dell’idoneità alla circolazione su strada
anche delle macchine agricole.
Sul punto si ricorda che il comma 14 dell’art. 1-bis del DL n.
91/2014 (conv. L. n. 116/2014) – provvedimento meglio conosciuto come piano di azioni “Campolibero” – ha stabilito
che le organizzazioni professionali agricole e agromeccaniche, comprese quelle di rappresentanza delle cooperative
agricole, maggiormente rappresentative a livello nazionale,
nell’esercizio dell’attività di consulenza per la circolazione
delle macchine agricole ai sensi del comma 13 dell’art. 14
(rubricato “Semplificazione degli adempimenti amministrativi”) del DLgs. n. 99/2004 e sue modificazioni, possono attivare le procedure di collegamento al sistema operativo di
prenotazione del Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, per immatricolare e gestire le situazioni giuridiche inerenti alla proprietà delle predette macchine.
La norma ha previsto l’emanazione di un decreto interministeriale, entro il termine di 90 giorni dal 21 agosto 2014 (entrata in vigore della legge di conversione del DL n. 91/2014),
per le modalità tecniche di collegamento con il Centro
elaborazione dati del Ministero e le relative modalità di
gestione, ma il provvedimento non risulta ancora essere stato
emanato.
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ancora
FISCO
Operativo il credito d’imposta per la musica
Agevolati i fonogrammi e videogrammi musicali, oltre agli spettacoli dal vivo
/ Pamela ALBERTI
Con DM 2 dicembre 2014, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 3 febbraio 2015, sono state fornite le disposizioni
applicative del credito d’imposta per la promozione della
musica e dei nuovi talenti di cui all’art. 7 del DL 91/2013.
Si tratta dell’agevolazione riconosciuta, per ciascuno degli
anni 2014, 2015 e 2016, alle imprese produttrici di fonogrammi di cui all’art. 78 della L. n. 633/1941 e di videogrammi musicali e alle imprese organizzatrici e produttrici di
spettacoli di musica dal vivo, esistenti almeno dal 1° gennaio 2012.
In particolare, il credito d’imposta è riconosciuto nella misura del 30% dei costi sostenuti, dal 1° gennaio 2014 al 31
dicembre 2016, per attività di sviluppo, produzione, digitalizzazione e promozione di registrazioni fonografiche e videografiche musicali, che siano opere prime o seconde, di
compositori, di artisti interpreti o esecutori, nonché di gruppi di artisti, commercializzate in un numero di copie non inferiore a mille, a condizione che al 18 febbraio 2015 (data
di entrata in vigore del DM) i predetti soggetti abbiano già
pubblicato e messo in commercio in Italia o all’estero, al
proprio nome anagrafico o eventualmente artistico, non più
di un’opera; non rilevano, a tale scopo, le demo
autoprodotte, i singoli, gli EP.
Il decreto in commento specifica che per “opera” si intendono registrazioni fonografiche o videografiche musicali composte da un insieme di almeno otto brani non già pubblicati diversi tra loro, ovvero da uno o più brani non già pubblicati di durata complessiva non inferiore a 35 minuti. Sono
ammessi brani già pubblicati rielaborati (“cover”) in una misura non superiore al 20% del numero complessivo dei brani o del minutaggio complessivo dell’opera. Sono considerate opere anche le raccolte di brani non già pubblicati di più
artisti che non costituiscano un gruppo.
Ai fini del credito d’imposta, sono considerate eleggibili,
ove effettivamente sostenute ai sensi dell’art. 109 del TUIR,
le seguenti spese:
- compensi afferenti allo sviluppo dell’opera, ovvero quelli
spettanti agli artisti-interpreti o esecutori, al produttore artistico, all’ingegnere del suono e ai tecnici utilizzati dall’impresa per la sua realizzazione, nonché spese per la formazione e l’apprendistato effettuate nelle varie fasi di detto sviluppo;
- spese relative all’utilizzo e nolo di studi di registrazione,
noleggio e trasporto di materiali e strumenti;
- spese di post-produzione, ovvero montaggio, missaggio,
masterizzazione, digitalizzazione e codifica dell’opera, nonché spese di progettazione e realizzazione grafica;
- spese di promozione e pubblicità dell’opera.
/ EUTEKNEINFO / GIOVEDÌ, 05 FEBBRAIO 2015
L’effettività del sostenimento delle spese deve risultare da
apposita attestazione rilasciata dal presidente del Collegio
sindacale, ovvero da un revisore legale iscritto nel registro
dei revisori legali, o da un professionista iscritto nell’albo
dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, o
nell’albo dei periti commerciali o in quello dei consulenti del
lavoro, ovvero dal responsabile del centro di assistenza
fiscale.
L’importo totale delle spese eleggibili non può essere superiore a 100.000 euro per ciascuna opera, la quale, di conseguenza, potrà beneficiare di un credito d’imposta massimo
pari a 30.000 euro. Inoltre, l’agevolazione è concessa a ciascuna impresa nel rispetto dei limiti “de minimis” (regolamento Ue n. 1407/2013) e, comunque, fino all’importo massimo di 200.000 euro nei tre anni d’imposta.
Istanze dal 1° al 28 febbraio
Quanto alla procedura per il riconoscimento dell’agevolazione, le imprese devono presentare, dal 1° gennaio al 28
febbraio dell’anno successivo a quello di commercializzazione dell’opera (intesa come data di prima messa in commercio del relativo supporto fisico), apposita istanza al Ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo; le modalità telematiche di presentazione saranno definite dal Ministero entro 90 giorni. Nell’istanza, sottoscritta dal legale
rappresentante dell’impresa, dovrà essere specificato, per la
singola opera: data di commercializzazione; costo complessivo della realizzazione e ammontare totale delle spese
eleggibili; attestazione di effettività delle spese sostenute;
credito d’imposta spettante.
Contestualmente all’istanza, le imprese devono altresì presentare alcune dichiarazioni (es. dichiarazione sostitutiva di
atto di notorietà relativa ad altri aiuti “de minimis”, dichiarazione di non essere controllate, direttamente o indirettamente, da parte di un editore di servizi media audiovisivi).
Nell’allegato A al decreto è indicata la documentazione che,
a pena di inammissibilità, deve essere allegata all’istanza.
Il credito d’imposta è riconosciuto previa verifica dei requisiti soggettivi, oggettivi e formali, nonché nei limiti delle
risorse disponibili (4,5 milioni di euro per ciascun periodo
d’imposta agevolato). Entro 60 giorni dal termine di presentazione delle istanze, il Ministero comunica il riconoscimento dell’agevolazione e il relativo importo o il diniego.
Il credito d’imposta è utilizzabile esclusivamente in compensazione mediante F24, ai sensi dell’art. 17 del DLgs.
241/97 e non rileva ai fini delle imposte sul reddito e
dell’IRAP.
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ancora
IMPRESA
Responsabile per la prevenzione della
corruzione tra i dirigenti in servizio
Nelle società controllate da P.A., solo in casi eccezionali il RPC potrà coincidere con un
amministratore, purché privo di deleghe gestionali
/ Alberto DE SANCTIS e Paolo VERNERO
In occasione del Tavolo congiunto ANAC–MEF del 23 dicembre 2014, sono stati affrontati alcuni dubbi applicativi
della disciplina per la prevenzione della corruzione nelle
società pubbliche ed è stato elaborato un documento in cui si
condividono le prossime linee operative, secondo cui, in
tempi brevi, l’ANAC provvederà ad adottare un atto di indirizzo destinato all’intero comparto delle società partecipate dalle pubbliche amministrazioni.
Sinteticamente, s’intende per società controllata quella in
cui sia individuabile, direttamente o indirettamente, un controllo ai sensi dell’art. 2359, comma 1, n. 1 e n. 2 c.c. (escluso il n. 3 della stessa disposizione). Una società è, invece, da
considerarsi semplicemente partecipata allorquando la partecipazione pubblica non sia idonea a determinare una tale
situazione di controllo.
Fatte queste premesse, si può dunque affermare che le società controllate, quando abbiano già provveduto ad adottare
un modello organizzativo ex DLgs. 231/2001 (MOG) – che
secondo le indicazioni del citato documento ANAC-MEF
parrebbe obbligatorio – sono tenute a integrarlo con l’adozione di un Piano di prevenzione della corruzione (PPC) che
preveda tutte le misure idonee a prevenire anche quei fenomeni di corruzione o di mera illegalità a questa potenzialmente collegati che non sono presi in considerazione dalla
normativa in materia di responsabilità degli enti.
Tra la L. 190/2012 e il DLgs. 231/2001 vi sono numerose
differenze, tra cui principalmente: l’ambito operativo (reati presi in considerazione); l’interesse protetto (ex 231 si
agisce nell’interesse o a vantaggio dell’ente; per la 190 si
devono prevenire condotte anche potenzialmente in danno
dell’ente); le conseguenze sanzionatorie (persona
giuridica/persona fisica). Da ciò discende l’impossibilità di
una completa sovrapposizione tra MOG e PPC, che operativamente può diventare una sezione del modello, ma che
potrà richiamare le parti generali del modello stesso solo in
quanto applicabili.
Va anche precisato che le amministrazioni controllanti dovranno adottare nei propri piani di prevenzione della corruzione tutte le misure, anche organizzative, di vigilanza
sull’effettiva adozione del piano e sulla nomina del Responsabile per la prevenzione della corruzione (RPC) da parte
delle società controllate.
Per quanto riguarda tale figura, questo deve essere nominato
dall’organo di governo della società e dovrà essere scelto
tra i dirigenti in servizio. Nella sola ipotesi in cui la società
sia priva di dirigenti o questi siano in numero così limitato
da poter svolgere solo compiti gestionali nelle aree a rischio
corruttivo, il RPC potrà essere individuato in un funzionario che garantisca idonee competenze (salvo stretto controllo da parte dell’Amministratore o del CdA).
In ultima istanza, e solo in casi eccezionali, questi potrà
coincidere con un amministratore purché privo di deleghe
gestionali.
È invece stato escluso, dal documento ANAC-MEF citato,
che questi possa essere un soggetto esterno alla società come l’OdV o altro organo di controllo a ciò esclusivamente
deputato, così segnando un deciso cambio di rotta rispetto
alle interpretazioni che si stavano diffondendo in merito ad
una possibile attribuzione delle funzioni del RPC all’organismo di vigilanza ex DLgs. 231/2001.
Simili considerazioni valgono anche in materia di trasparenza. A mente dell’art. 11 del DLgs. n. 33/2013 alle sole
società controllate e per le sole attività di interesse pubblico dalle stesse gestite, oltre che per la relativa
organizzazione, si applica per intero la disciplina pensata per
le Pubbliche Amministrazioni.
Ciò significa che le società controllate saranno tenute alla
pubblicazione dei dati indicati dall’art. 1, commi 15-33 della L. 190/2012, limitatamente alle c.d. attività di pubblico
interesse; alla realizzazione della sezione “Amministrazione trasparente” nel proprio sito internet; alla previsione di
una funzione di controllo e monitoraggio dell’assolvimento degli obblighi di pubblicazione (il c.d. Responsabile per la
trasparenza); all’organizzazione di un sistema che fornisca
risposte tempestive ai cittadini; all’adozione di un Programma triennale per la trasparenza che contenga la
programmazione di tutte le predette attività.
Tutto molto più semplificato per le società partecipate (in
minoranza) da enti pubblici, per cui sarà sufficiente la verifica dell’adeguatezza del modello organizzativo ex DLgs.
231/2001 nella parte in cui prevede idonee misure atte a
prevenire fenomeni corruttivi legati ai rapporti con l’ente
pubblico.
In materia di trasparenza, queste saranno tenute al rispetto
dei soli obblighi di pubblicazione dei dati indicati dall’art.
1, commi 15-33, L. 190/2012, limitatamente alle attività di
pubblico interesse da esse svolte (esclusa dunque la pubblicità in relazione alla propria organizzazione).
Direttore Responsabile: Michela DAMASCO
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