Gli anni terribili (2008-2014) Michele Maduli(1)

MICHELE MADULI
GLI ANNI TERRIBILI (2008-2014)
(DALLA MIA FINESTRA DI FACEBOOK)
DICEMBRE 2014
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Sommario
PREFAZIONE....................................................................................................................................... 4
IL CODICE DI PASQUINO.................................................................................................................. 5
LE CARICHE DEI PADRI...NON RICADANO SUI FIGLI................................................................ 6
LA SECONDARIA DELLA GELMINI ................................................................................................ 7
E LE IMPRESE NELLA SCUOLA........................................................................................................ 7
PROPAGANDA E PRESIDENZIALISMO.
ILCODICE DI CECCANTI ..........8
ELUANA: FACEBOOK, OLTRE 6000 SCRIVONO A NAPOLITANO, NON FIRMI.................... 9
MODELLO DI TESTAMENTO BIOLOGICO.................................................................................. 10
TESTO DELL'ODG "ELEGGERE SUBITO IL SEGRETARIO DEL PD" DA PRESENTARE
STASERA ALL'ASSEMBLEA DEL PD DI SAN BENEDETTO DEL TRONTO..........................12
IO E IL TERREMOTO: QUAL È LA CITTÀ PIÙ SICURA? ........................................................... 13
LA LIBERTÀ DI STAMPA IERI E OGGI......................................................................................... 14
I BRACCIANTI DI ROSARNO, ........................................................................................................ 15
IERI BIANCHI, OGGI NERI.............................................................................................................. 15
2 GIUGNO 2010: LA DISUNITÀ D'ITALIA. CORAGGIO, POSSIAMO FARCELA! ................. 17
LE SETTE MOSSE VINCENTI DI SILVIO BERLUSCONI ............................................................ 18
MILANESI, RIBELLATEVI AI BOSS!............................................................................................. 19
SAPPIAMO TUTTI CHI È CESARE. MA BRUTO CHI È? ............................................................ 21
LA DROGA NON C'È PIÙ................................................................................................................. 22
ADOTTIAMO UN PARLAMENTARE PDL.................................................................................... 23
ZERO IN STORIA E GEOGRAFIA .................................................................................................. 24
ALL'ON. STEFANIA CRAXI............................................................................................................. 24
QUELL'INDOVINO DI LA ROCHEFOUCAULD............................................................................ 25
ABBASSO IL LEADERISMO!........................................................................................................... 26
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MODESTO PARERE PER LA FORMAZIONE DI UNA GIUNTA COMUNALE......................... 27
ELOGIO DEL FISCHIETTARE......................................................................................................... 28
UNA LEGA TUTTA DA RIDERE..................................................................................................... 29
C'ERA UNA VOLTA UN PORTO..................................................................................................... 30
UNA BIBLIOTECA DI STORIA LOCALE- PRESENTAZIONE DI "CRONACA DI UNA
STRAGE ANNUNCIATA"................................................................................................................. 32
RICORDANDO EMILIO ARGIROFFI............................................................................................. 38
E' SOLO UNA MANOVRINA............................................................................................................ 43
LA CALABRIA DI BERTO (COMMENTO ALL'ARTICOLO DI MARIA FRANCO SU
ZOOMSUD)........................................................................................................................................ 44
SALVARE LE BANCHE O SALVARE LE SCUOLE?....................................................................... 45
POSTO FISSO, GARANTITI, ........................................................................................................... 46
ART.18 E...MICHEL MARTONE..................................................................................................... 46
I CALCOLI SBAGLIATI DEGLI ESODATI. .................................................................................... 47
L'INCREDIBILE VICENDA DI UN'AZIENDA CALABRESE........................................................ 48
LETTERA A UN VINCITORE DA PARTE DI CHI HA VOTATO PER GLI SCONFITTI. ......... 49
IN RICORDO DI PEPPE VALARIOTI, UCCISO 33 ANNI ADDIETRO A ROSARNO,
PUBBLICO UNO STRALCIO DI UN VOLUME DA ME SCRITTO ALCUNI ANNI ADDIETRO,
DAL TITOLO "IN CALABRIA TRA SOTTOSVILUPPO E MAFIA (1964-1984) .................... 50
IL 21 GIUGNO DI 33 ANNI FA VENIVA UCCISO GIANNINO LOSARDO, GIA’ SINDACO
COMUNISTA DI CETRARO (APPENA 10 GIORNIDOPO VALARIOTI).................................55
DIAMO A CESARE QUEL CHE E' DI CESARE. COME E PERCHE' ANCHE LA LOMBARDIA
E' TERRA DI MAFIA E DI LOMBARDI MAFIOSI !...................................................................... 57
UNA BATTAGLIA DI DEMOCRAZIA IN ITALIA CONTRO POTERI CRIMINALI E
RAZZISMI........................................................................................................................................... 59
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PREFAZIONE
Quella che avete sotto gli occhi è una raccolta di note, di interventi, sui
temi di varia umanità, da me svolti nei sei “terribili anni” che abbiamo
vissuto in Italia e nel mondo, a partire dal 2008.
Chi, come me, appartiene all’era prefeisbucchiana, ha trovato, tutto
sommato, naturale continuare a esprimersi sui temi del giorno, passando
dalla carta stampata, dagli interventi politici, dalle lezioni, dai convegni di
varia umanità, al mucchio informe, di idee, di sentenze, di “inutilia”, di
opinioni più o meno coerenti, che è diventato, ormai, il deposito FB.
Qui, in questo grande calderone, ciascuno versa (a volte senza ritegno)
le riflessioni, le angosce, i pianti e le gioie. Perché FB è accogliente e nel suo
grande ventre riceve quel che di buono, di inutile, di malvagio si agita nelle
povere menti umane.
Ordunque, questa è una raccolta –ordinata nel tempo- di quel che ho
cercato di dire commentando gli eventi o rievocando anche fatti lontani nel
tempo.
Non è un libro ma un catalogo ordinato di riflessioni sull’attualità e
sulla memoria lontana.
Siccome è gratuito e immateriale (è un gentile omaggio ai miei “amici”)
potrà essere utilizzato o messo in un cantuccio.
Per ora (siccome non dispongo di un sito o di un blog) mi premurerò di
inviarlo per email a quanti vorranno richiederlo. In seguito, se troveremo
qualche anima pia disposta a ospitarlo, sarà scaricabile senza alcuna
formalità.
E, adesso, andiamo a incominciare.
Michele Maduli, dicembre 2014.
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23.12.2008
IL CODICE DI PASQUINO
Ho lievemente rielaborato il corsivo pubblicato sull'Unità di
domenica 21.12.2008 dal politologo Gianfranco Pasquino.
Personalmente condivido le "raccomandazioni" dell'autore che
qui pubblico sotto forma di codice comportamentale per il PD:
CINQUE REGOLE PER CRESCERE
L'amalgama dentro il Partito Democratico non è ancora
riuscito pienamente. E’ imperativo procedere ad uno sforzo
sostenuto e mirato di innovazione, politica e organizzativa.
Bisogna costruire un partito, non leggero
Primo, il segretario del PD, non potendo sciogliere le giunte
lambite dalla corruzione, comincia con il commissariare le
federazioni provinciali di Pescara, di Napoli, di Potenza e, forse,
anche le federazioni regionali della Basilicata e della Campania.
Secondo, il segretario invita tutti i dirigenti che cumulano cariche di
partito con cariche istituzionali a qualsiasi livello a optare
immediatamente per una delle due e, se necessario, inizia la
procedura per l'inserimento di questa modif ica nello Statuto del
Partito. Terzo, il segretario chiede a tutte le federazioni la
trasmissione al responsabile nazionale dell'organizzazione dei dati
relativi a coloro che hanno aderito al partito. Chiede, altresì, che
inizi una attività di reclutamento per il 2009, tanto più opportuna in
vista delle elezioni amministrative e europee. Sia il reclutamento
un momento di discussione, certamente in tempi difficili, con
potenziali aderenti, ma anche con tutti
coloro che, non disponibili ad aderire, vogliono saperne di più
sul partito, sulle sue priorità, sul ruolo che intende svolgere.
Quarto, il segretario emana una direttiva chiara e inoppugnabile
relativa alla circolazione delle cariche. Nessuno dei dirigenti potrà
passare da una carica di partito ad un'altra senza soluzione di
continuità, ad esempio, i segretari provinciali attenderanno un
turno prima di diventare segretari regionali. Quinto, verrà inserita
nello Statuto la norma secondo la quale, "senza eccezione
alcuna", nessuno/a potrà ottenere cariche elettive nelle zone nelle
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quali non risiede. In attesa di una legge elettorale che si basi sui
collegi uninominali, il Partito Democratico abbandona per sempre
la pratica dei candidati paracadutati. Parlamentari che conoscano
il loro elettorato, che lo incontrino periodicamente, per spiegare,
ascoltare, interloquire, costituiscono il più potente strumento per
dare vita ad un'organizzazione piantata sul territorio ed incentivata
ad essere molto attiva. Quei parlamentari verranno selezionati,
ogniqualvolta vi siano più candidature per ciascuna carica, con il
metodo delle primarie, l'unica innovazione politica di rilievo finora
entrata nello Statuto del Pd, anche se praticata spesso a
malincuore e controvoglia. Esclusivamente in questo modo,
osservando scrupolosamente tutte le regole della democrazia, con
piena assunzione di responsabilità da chi, a tutti i livelli, ha più
potere politico, sarà possibile fare crescere il gracile Pd e
garantirne il ricambio generazionale.
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24 dicembre 2008 ·
LE CARICHE DEI PADRI...NON RICADANO SUI FIGLI
Non vorrei infierire su certi personaggi, però una delle
sottoregole del codice di Pasquino io l'applicherei alle famiglie
italiane.
Se in una famiglia viene eletto un parlamentare, la famiglia
non può avanzare pretese su un altro seggio: deve saltare almeno
un turno.
Se volete è una regola uguale e contraria a quella fissata da
Diocleziano che, per evitare la mobilità sociale, stabilì che
ciascuno dovesse fare il mestiere del proprio papà. Proviamo,
invece, a immaginare un'Italia nella quale il figlio del parlamentare
non può fare il politico e occupare cariche pubbliche, il figlio
dell'avvocato non può fare l'avvocato, il figlio del barone
universitario non può aspirare a un incarico nell'università e via
seguendo. Forse è una regola troppo drastica ma almeno
eviterebbe a certi genitori di fare delle brutte figure a causa dei
figli.
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24.12.2008
LA SECONDARIA DELLA GELMINI
E LE IMPRESE NELLA SCUOLA
Si è detto in passato che il Ministro della Pubblica Istruzione è
teleguidato da Tremonti, nel senso che interpreta i tagli del
Ministro dell'economia e cuce le riforme per la scuola. Io, invece,
ho l'impressione che sia una gran furba, poiché dietro quegli occhi
a "fessuretta" nasconde una vocazione fortemente conservatrice.
Siamo sicuri che il ridimensionamento del personale per la
scuola elementare risponda solo ad una necessità economica? Se
si guarda a quanto sta accadendo adesso per l'Istruzione
secondaria e per gli Istituti tecnici in particolare, si potrebbe
fortemente dubitare.Che il numero degli indirizzi (39) e delle
tipologie (204) dell'istruzione tecnica fosse spropositato, si diceva
da anni. Così pure faceva sorridere la storia delle ore di lezione
ridotte forzosamente a 50 minuti.Una volta il Ministero convocò
tutti i presidi di Istituto tecnico e li invitò a formulare un nuovo
quadro orario. Nel mio gruppo di lavoro ci orientammo per 30-32
ore la settimana. I pareri vennero consegnati al Ministero che non
li tenne in alcun conto. E così gli alunni continuarono con l'assurdo
orario di sei ore al giorno per sei giorni la settimana e i presidi
continuarono a chiedere le deroghe per l'ora a 50 o 55 minuti per
causa di forza maggiore. La ragione di tale comportamento era da
attribuire, sostanzialmente, al fatto che il taglio di 4 ore per
settimana avrebbe comportato il ridimensionamento di alcune
materie e, di conseguenza, la riduzione del numero dei docenti
delle discipline oggetto del dimagrimento.Sarebbe stato più saggio
discutere questi problemi insieme con le categorie, con le scuole,
con i sindacati. Invece la Gelmini risolve il tutto d'imperio. Fosse
solo questo! La cosa grave (che ancora non è stata
sufficientemente elaborata) è che negli Istituti tecnici entreranno,
di peso, i rappresentanti delle imprese. Nella scuola pubblica,
finanziata dallo Stato, i rappresentanti delle imprese potranno
mettere becco nella gestione e nei programmi oltre che nelle
commissioni d'esami.Chi ha lavorato nella scuola può immaginare
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che cosa voglia dire tale tipo di intromissione. A parte il fastidio di
dover concordare la linea e la gestione con degli esterni, sta il fatto
che tali esterni sono portatori di interessi "altri" rispetto a quelli
della formazione e dell'istruzione pubblica. La scuola pubblica ha il
compito di formare dei cittadini, non degli esperti tornitori o esperti
periti in relazione ai bisogni delle aziende esterne. Voglio dire,
senza togliere nulla all'importanza della formazione tecnica o
professionale, che mentre è relativamente facile "istruire" o
"riconvertire" un bravo diplomato che abbia ricevuto una buona
formazione culturale e ideale, è molto problematico compiere lo
stesso "miracolo" con dei diplomati che abbiano ricevuto
soprattutto una formazione tecnico-specialistica.Continuiamo a
registrare il fatto che i Ministri della Pubblica istruzione (di vario
colore) sono molto bravi a "riformare" dall'alto la scuola e che la
scuola e la società sono di continuo costrette a mettere delle
pezze ai guasti da loro provocati.Parleremo un'altra volta della
"scuola ideale" di Renzo e Cristiano!
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25 dicembre 2008 ·
PROPAGANDA E PRESIDENZIALISMO.
ILCODICE DI CECCANTI
Anche oggi parto da un intervento sull’Unità del 24.12.2008
del costituzionalista Stefano Ceccanti. L’assetto costituzionale è
così delicato che non può essere affidato alle estemporanee e
pericolose esternazioni dell’attuale Presidente del Consiglio.
Ripartiamo, quindi, dalle riforme possibili e condivise.
L’esemplif icazione di Ceccanti è rigorosa e stimolante. Teniamo
tutti la barra dritta!Il Codice di CeccantiI problemi istituzionali
esistono, ma vanno affrontati con criteri rigorosi. Primo: niente
complesso di Penelope, che ricomincia sempre daccapo a tessere.
Nella scorsa legislatura i due schieramenti avevano condiviso la
bozza Violante che prevedeva tra l'altro un rafforzamento del
Presidente del Consiglio secondo standard delle democrazie
parlamentari europee. Si riparte da lì, anche per emendarla, ma
non da zero, altrimenti è propaganda inutile. Secondo, sempre sul
metodo: niente presenzialismo del Governo, la materia
costituzionale è tipica di intese tra i parlamentari, non schiacciamo
anche quella sulla logica maggioranza-opposizione perché
altrimenti le divisioni sul Governo si rovesciano anche lì. Conviene
a tutti, anche ai parlamentari della maggioranza che sulla
legislazione ordinaria hanno spazi minori di protagonismo. Il
Governo sia un facilitatore, come Prodi, ma eviti eccessi, come
parlarne in conferenze stampa sulla sua attività, per rimpinguare il
magro bilancio reale con fuochi pirotecnici. Terzo: quando una
transizione è iniziata, quando non si costruisce da zero, il diritto
deve nascere dal fatto, non da schemi astratti. Il nostro fatto è dato
da due elementi: una scelta sostanzialmente diretta del Presidente
del Consiglio attraverso la sua maggioranza, da regolare bene con
qualche dose di flessibilità ma non di trasformismi durante la
legislatura; un Presidente della Repubblica in cui possano
riconoscersi tutti. A questi elementi vanno aggiunti nuovi
contropoteri. Non si vede perché dovremmo trasformare il Capo
dello Stato in capo della maggioranza sopprimendo il Presidente
del Consiglio o trasformandolo nel proprio principale collaboratore,
riducendo una delle poche garanzie che già abbiamo.Quarto:
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niente clonazioni, niente modelli da prendere chiavi in mano. Il
collegio uninominale a doppio turno è ottimo a prescindere dalla
forma di governo; collega bene eletti ed elettori evitando
preferenze e liste bloccate, il primo turno può anche funzionare da
primaria, porta naturalmente alla scelta di una maggioranza. Lo
proponeva don Sturzo per l'Italia parlamentare dei primi anni '50
contro lo status quo della proporzionale pura e contro il premio di
maggioranza. Allora l'elezione diretta del Presidente in Francia non
c'era e quando arrivò, nel 1962, trovò già il collegio uninominale
introdotto dal 1958, dopo aver sperimentato sia la proporzionale
pura sia il premio. Ripartiamo dal Parlamento e non dalle
conferenze stampa del Governo, dalla bozza Violante e dalla
rif lessione profetica di Sturzo. Con Penelope si fa propaganda,
così invece si serve il Paese.
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6 febbraio 2009 ·
ELUANA: FACEBOOK, OLTRE 6000 SCRIVONO A NAPOLITANO,
NON FIRMI
(AGI) - Milano, 6 feb. - "Caro Presidente Napolitano,
nonostante i suoi recenti richiami alla moderazione riguardo all'uso
dei decreti legge, apprendo con ansia il comunicato del Presidente
del Consiglio dei Ministri, col quale annuncia un provvedimento
sotto forma di decreto legge volto chiaramente a bloccare
l'esecuzione della sentenza della Corte di Cassazione, riguardo il
caso della Sig.ra Englaro". Comincia cosi' la lettera inviata gia' da
oltre seimila persone attraverso il social network Facebook al
Capo dello Stato per chiedergli di non firmare il decreto legge
approvato dall'esecutivo. "Mi chiedo - continua la missiva - se il
Governo si renda conto che tale decretazione è in contrasto con
l'art. 77 della Costituzione, vista l'indimostrabile natura di
'straordinaria urgenza' e con l'art. 101 poiche' si configura come
una vera e propria censura politica di una sentenza definitiva,
minando la base elementare di uno stato di diritto, la divisione dei
poteri". "Scrivo a lei - e' la conclusione del documento - che e' il
Garante della nostra Costituzione, a lei che sapra' di certo vigilare
sulla deriva meramente decisionista di provvedimenti di questo
tipo e preservare il potere legislativo del Parlamento, l'unico
organo delegato dal popolo per rappresentarlo, cui spetta la
sovranita' della Repubblica".Numerosi i commenti sulla bacheca
del gruppo che ha raccolto migliaia di persone in pochissime ore.
"E' un colpo di stato!", grida qualcuno. "Mi vergogno di essere
italiano", scrivono altri. Piu' d'uno parla del rischio che l'Italia
diventi una "teocrazia".
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19 febbraio 2009 ·
Modello di testamento biologico
DICHIARAZIONE DI
TRATTAMENTI SANITARI
VOLONTÀ
ANTICIPATA
PER
I
Lo sottoscritto/a
______________________________________________
nato/a il _______________ a
_______________________________________
prov. __________
residente a________________________prov. ______
indirizzo
_____________________________________________________
____________________
nel pieno delle mie facoltà mentali, in totale libertà di scelta,
dispongo quanto segue in merito alle decisioni da assumere nel
caso necessiti di cure mediche.CONSENSO INFORMATO1. • Non
voglio • Voglio essere informato sul mio stato di salute e sulle mie
aspettative di vita, anche se fossi affetto da malattia grave e non
guaribile2. Nel caso decidessi di non essere informato sul mio
stato di salute e sugli esami diagnostici e le terapie da adottare,
delego a essere informato e a decidere in mia vece il signor
________________________________________nato/a
_______________________________________
il_______________
prov. ______residente a ______
prov._____ indirizzo_____________________. •
Voglio essere informato sui vantaggi e sui rischi degli esami
diagnostici e delle terapie
4. Autorizzo i medici curanti ad informare le seguenti persone:
5. DISPOSIZIONI GENERALI
In caso di perdita della capacità di decidere o nel caso di
impossibilità
di
comunicare,
temporaneamente
o
permanentemente le mie decisioni ai medici, formulo le seguenti
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disposizioni riguardo i trattamenti sanitari. Disposizioni che
perderanno di validità se, in piena coscienza, decidessi di
annullarle o sostituirle. Dispongo che i trattamenti:
1. • Siano iniziati e continuati anche se il loro risultato
fosse il mantenimento in uno stato di incoscienzapermanente
non suscettibile di recupero.
Non siano iniziati e continuati se il loro risultato fosse il
mantenimento in uno stato di incoscienza permanentee
senza possibilità di recupero.
2. • Siano iniziati e continuati anche se il loro risultato
fosse il mantenimento in uno stato di demenza avanzata non
suscettibile di recupero.• Non siano iniziati e continuati se il
loro risultato fosse il mantenimento in uno stato di demenza
avanzata senzapossibilità di recupero.
3. • Siano iniziati e continuati anche se il loro risultato
fosse il mantenimento in uno stato di paralisi con incapacità
totale di comunicare verbalmente, per iscritto o grazie
all'ausilio di mezzi tecnologici.• Non siano iniziati e continuati
se il loro risultato fosse il mantenimento in uno stato di
paralisi con incapacitàtotale di comunicare verbalmente, per
iscritto o grazie all'ausilio di mezzi tecnologici.
DICHIARAZIONE DI VOLONTÀ ANTICIPATA PER I
TRATTAMENTI SANITARI DISPOSIZIONI PARTICOLARI.
Qualora io avessi una malattia allo stadio terminale, o una
lesione cerebrale invalidante e irreversibile, o una malattia
che necessiti l'utilizzo permanente di macchine o se fossi in
uno stato di permanente incoscienza (coma o persistente
stato vegetativo) che secondo i medici sia irreversibile
dispongo che:1. • Siano • Non siano intrapresi tutti i
provvedimenti volti ad alleviare le mie sofferenze (come l'uso
di farmaci oppiacei) anche se il ricorso a essi rischiasse di
anticipare la fine della mia vita. 2. In caso di arresto
cardiorespiratorio (nelle situazioni sopra descritte) • sia • non
sia praticata su di me la rianimazione cardiopolmonare se
ritenuta possibile dai curanti. 3. • Voglio • Non voglio che mi
siano praticate forme di respirazione meccanica. 4. • Voglio •
Non voglio essere idratato o nutrito artif icialmente. 5. •
Voglio • Non voglio essere dializzato. 6. • Voglio • Non voglio
che mi siano praticati interventi di chirurgia d'urgenza.7. •
Voglio • Non voglio che mi siano praticate trasfusioni di
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sangue 8. • Voglio • Non voglio che mi siano somministrate
terapìe antibiotiche.
NOMINA FIDUCIARIO Qualora io perdessi la capacità
di decidere o di comunicare le mie decisioni, nomino mio
rappresentante fiduciario che si impegna a garantire lo
scrupoloso rispetto delle mie volontà espresse nella
presente
carta,
il
signor
______________________________________nato/a
a
__________________________ il _________\ a prov.
residente a ____________________________________
prov.___________
indirizzo__________________________________________
______________________Nel caso in cui il mio
rappresentante fiduciario sia nell'impossibilità' di esercitare
la sua funzione delego a sostituirlo in questo compito il
signor
________________________________________________
________________.nato/a
il
_____________
a
______________________________________
prov___________.residente
a
______________________________
prov.
indirizzo
ASSISTENZA RELIGIOSA1. • Desidero • Non desidero
l'assistenza religiosa della seguente confessione:2. •
Desidero • Non desidero un funerale.3. • Desidero un
funerale religioso secondo la confessione da me professata.
4. • Desidero un funerale non religioso. DISPOSIZIONI
DOPO LA MORTE1. • Autorizzo • Non autorizzo la
donazione dei miei organi per trapianti. 2. • Autorizzo • Non
autorizzo la donazione del mio corpo per scopi scientif ici o
didattici.3. • Dispongo che il mio corpo sia inumato/cremato.
In fede,Si autorizza il trattamento dei dati personali ai sensi
del decreto legislativo 196/2003 al solo fine dell’iniziativa
pubblica “Sottoscrivi il tuo testamento biologico” In fede
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20 febbraio 2009 ·
Testo dell'odg "Eleggere subito il Segretario del PD" da
presentare stasera all'Assemblea del PD di San Benedetto del
Tronto.
ORDINE DEL GIORNO CHE SI CHIEDE VENGA MESSO AI
VOTI
L’Assemblea del Partito Democratico di San Benedetto del
Tronto prende in esame la grave situazione determinatasi con le
dimissioni di Veltroni.
Non si tratta solo di una crisi di leadership ma anche di linea
politica dell’intero gruppo dirigente, che non ha saputo coniugare
le proposte del Lingotto con la necessità di dare corpo ad una forte
e decisiva organizzazione nelle realtà locali.Questo straniamento
ha contribuito a determinare le posizioni ambigue assunte dal
Partito in questi mesi, sulla politica economica e sindacale, sulla
collocazione internazionale, sul rapporto con la maggioranza di
governo, sul laicismo (vedi il comportamento vergognoso e
insopportabile della Bianchi sul tema del testamento biologico).
L’Assemblea ritiene che soluzioni provvisorie o differite nel tempo
possano esporre il PD a fortissimi rischi, in occasione delle
elezioni amministrative ed europee.E’ indispensabile, addirittura
vitale, che il PD sciolga immediatamente il nodo della direzione e
della linea politica.
20
6 aprile 2009 ·
IO E IL TERREMOTO: QUAL È LA CITTÀ PIÙ SICURA?
In principio c'è quello di Reggio e Messina, il "flagello" come lo
chiamava mia nonna che l'anno dopo avrebbe messo al mondo
mio padre. La Marina militare italiana giunse con un giorno di
ritardo rispetto alle navi norvegesi e russe. Per le generazioni
future fu una fortuna, poiché i marinai norvegesi scaricarono gran
parte delle provviste di cui disponevano: il merluzzo essiccato che
poi sarebbe diventato, come stoccafisso, uno degli elementi di
base della cucina calabrese.Curiosamente, conobbi il mio primo
terremoto fuori della Calabria, in Emilia dove -credo nel 1969andai a fare il commissario d'esame. Durante la notte nell'albergo
dove mi trovavo, a Castelnuovo nei monti, in provincia di Reggio
Emilia, avvertimmo distintamente una scossa sismica. Molte
vecchiette uscirono senza ritegno, spaventate e seminude, nei
corridoi.Nel 1970, qualche anno dopo l'evento, visitai Gibellina, al
centro del Belice. Ancora la ricostruzione non era stata nemmeno
avviata. Quei poveretti dormivano tra le lamiere infuocate delle
baracche messe a disposizione dalla Protezione civile. Fu quella la
prima volta che una grande organizzazione mafiosa poté mettere
impunemente le mani sui fondi che generosamente lo Stato aveva
destinato ai terremotati. Forse la mole dei danni recati al territorio
in Sicilia (a parte quelli che già la natura aveva provveduto a
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dispensare) fu di poco inferiore a quella procurata dalla camorra
campana all'epoca del terremoto dell'Irpinia.Quell'anno -si era nel
1980- dovevo urgentemente raggiungere la capitale, dalla Calabria
dove risiedevo, per sostenere le prove orali di un concorso. A
differenza di quanto è poi avvenuto per gli altri terremoti, la stampa
e la televisione non comunicarono all'opinione pubblica l'esatta
dimensione del disastro. Per questo, dopo appena tre giorni dal
sisma, io mi ritrovai con la mia auto immerso tra le colonne di
bulldozer, di autocarri che da nord e da sud portavano i necessari
soccorsi all'Irpinia. A Cava dei Tirreni, dove m'ero fermato per
salutare un amico, vidi un paese apparentemente intatto ma in
realtà ferito all'interno dalle scosse. Il mio amico aveva messo al
sicuro la famiglia trasferendola in una zona lontana e la notte
dormiva in corridoio a due metri dalla porta, pronto a balzare fuori.
M'avevano assicurato che la riviera adriatica era uno dei posti più
sicuri, perché le case sono costruite su un terreno sabbioso che
assorbe le scosse ecc. ecc.Quando mi trasferii a San Benedetto
del Tronto, in un palazzo costruito a qualche centinaio di metri dal
mare, nel piano sabbioso e antisismico, mi dissi "è fatta, abbiamo
chiuso con i terremoti!". Mal me ne incolse poiché una notte del
1998 sognai che la mia casa, al sesto piano, si muoveva di qua e
di là, ondeggiava come un canneto al vento. Quando accesi la
luce m'accorsi che non avevo sognato, visto che le pareti
continuavano a danzare.Una settimana dopo l'evento, invitato dal
mio amio Salvatore che guidava una missione di soccorso della
Regione sarda, mi avventurai per la strada di Colf iorito e raggiunsi
il campo di container tirato su in fretta a Serravalle. Cinque anni
dopo, invitati dai residenti, ritornai con i Sardi a visitare il paese
ricostruito.In viaggio verso il Sud nel 2002, uscii dall'autostrada per
fare il pieno di metano. Il ragazzo della stazione di servizio era
quasi in lacrime, aveva saputo che nei paesi dell'interno v'era stato
un forte terremoto. Quello, appunto, in cui morirono i ragazzi della
scuola di San Giuliano di Puglia.Dopo l'Umbria, le Marche, il
Molise e la Campania mancava nel rosario la regione Abruzzo.
Questa notte ho visto, ancora una volta, danzare le mie pareti al
sesto piano. E' stata la mia gattina ad accorgersene per prima e a
dare l'allarme. Il computer era acceso, dopo qualche minuto ho
localizzato il terremoto. Sulle mappe di Google, curiosamente,
andando su e giù, ingrandendo e riducendo, i primi nomi che ho
letto, a parte l'Aquila, sono stati Collefracido, Malepasso, Inciampa
La Notte, Fronte mortale. Non è uno scherzo. D'altronde Giustino
Fortunato descrisse la mia regione, la Calabria, come "uno
sfasciume geologico pendulo tra due mari". L'Italia, si sa, è
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ballerina. Abbiamo i centri storici -anche quelli dei piccolissimi
paesi- più belli del mondo. Mille e mille piccole città di una bellezza
sconvolgente che fa piangere, ma che necessitano di opere di
consolidamento, di sostegno per i secoli che hanno sulle spalle.
Questa che ho narrato è la vicenda di una persona normale che ha
incontrato tanti eventi drammatici, al pari degli altri italiani che
vivono sulle creste degli Appennini, sui monti ballerini, sulle coste
violentate dai pirati dell'edilizia.Bisogna mettere in sicurezza
l'Italia, ricostruire, consolidare gli abitati. Bisogna evitare di creare
altre ferite al territorio. Poco fa ho parlato della Calabria come
sfasciume geologico, ebbene, c'è qualcuno che pensa di potere
collocare sulle sponde della Calabria e della Sicilia un enorme,
pesantissimo manufatto come il Ponte. Tutti quei miliardi necessari
per la costruzione dell' "opera meravigliao", potrebbero, invece,
essere utilmente impiegati per la messa in sicurezza degli abitati.
Credevo di abitare nella zona più pericolosa d'Italia, dal punto di
vista sismico; e, invece, in cinquant'anni non ho mai avvertito
alcuna scossa di terremoto. Con il terremoto di Reggio e Messina,
la provincia di Reggio si è, in un certo senso vaccinata. Gran parte
delle case a rischio sono già crollate nel 1908. Quelle successive
sono stete costruite, nella grande maggioranza, secondo le rigide
regole vigenti nelle zone sismiche di prima categoria. Così,
paradossalmente, le case non rif inite di questa zona della
Calabria, edif icate secondo la logica della Casbah, sono, da un
punto di vista statico più sicure di quelle edif icate, in tante regioni
d'Italia dove, fino a pochi anni fa vigevano regolamenti più
permissivi.Se qualcuno adesso, dopo queste mie peregrinazioni
tra i luoghi devastati dai sismi, mi chiedesse qual è la città più
sicura dal punto di vista sismico, io risponderei "quella dove sono
vissuto nella prima parte della mia vita, Taurianova, provincia di
Reggio Calabria" Certo, anche grazie al terremoto del 1908!
23
24
2 settembre 2009 ·
LA LIBERTÀ DI STAMPA IERI E OGGI
Negli anni ’80 collaboravo con il quotidiano romano Paese
Sera. Il mio avversario politico, un democristiano noto alle procure
calabresi (quel Ciccio Macrì che già nel1977 era stato costretto a
darsi alla latitanza per oltre sei mesi) imperversava al comune,
nella USL di Taurianova, nell’Amministrazione provinciale di
Reggio, nonostante le condanne dei tribunali e le reprimende dello
stesso Presidente della Repubblica.I miei “pezzi” sul giornale
romano disturbavano i potenti del territorio che credettero di potere
risolvere i problemi sparandomi addosso un nugolo di querele. E
poiché la sede del giornale era a Roma, fui costretto a presentarmi
decine di volte presso il palazzo di Giustizia di piazzale Clodio per
difendermi dalle accuse lanciatemi contro dal boss locale
democristiano e poi sostenute da uno dei tanti avvocati al suo
servizio. Paese Sera, è vero, metteva a disposizione dei giornalisti
denunziati un avvocato, un compagno-avvocato; ma l’onere della
difesa spettava al malcapitato giornalista che veniva querelato per
qualche motivo. Solo qualche minuto prima delle udienze
conoscevo il mio difensore e lo informavo di come stavano i fatti.
In una di queste occasioni incontrai l’avvocato Guido Calvi che già
conosceva di fama il mio accusatore. L’avvocato non resistette alla
tentazione di raccontare a destra e a manca che stava per
presentarsi nell’aula del tribunale di Roma un campione del
clientelismo calabrese, il ben noto Ciccio Mazzetta. Fu un
accorrere di avvocati e di curiosi che, però, non poterono godersi
alcuno spettacolo, visto che Macrì pensò bene di starsene alla
larga dal tribunale romano affidando al suo avvocato il compito di
chiedere l’ennesimo rinvio. Chi ha esperienza di tribunali, sa che
l’arma della querela spesso viene brandita da quanti possono
disporre di un nugolo di avvocati al loro servizio. E’ la tecnica
dell’intimidazione contro i malcapitati che non dispongono di
assistenza legale o di grandi mezzi finanziari.Quando il tempo ha
già lenito l’offesa o quando i querelanti di professione non hanno
più ragione di rivalersi sui loro avversari, allora è facile che si
addivenga ad un accordo e che si chiuda la vicenda giudiziaria
-con grande sollievo per tutti, denunciante, denunciato, avvocati e
giudici- con la classica remissione di querela. Delle querele contro
25
di me ho perso le tracce. In alcuni giudizi sono stato assolto, in
altri casi i magistrati hanno proceduto alla archiviazione delle
denunce a causa dell’assenza del querelante e della manifesta
infondatezza delle accuse.E’ anche in ricordo e a nome dei tanti
“giornalisti” che scrivevano e lottavano con la penna negli anni bui
del regime democristiano che il 19 settembre sarò a Roma alla
manifestazione indetta dai rappresentanti della stampa e dalle
forze politiche di opposizione per la difesa della libertà di stampa,
in segno di solidarietà con i giornalisti de la Repubblica, de l’Unità,
dell’Avvenire e dei tanti che vengono minacciati o intimiditi per
conto dei potenti di turno.
26
8 gennaio 2010 alle ore 14.00
I BRACCIANTI DI ROSARNO,
IERI BIANCHI, OGGI NERI
Quello che segue è un estratto della memoria da me scritta in
occasione della scomparsa del sen. Emilio Argiroffi. Segue un
commento sui braccianti del 2020.
"Ricordo i rumori, i suoni, gli odori delle camminate collettive
in Calabria negli anni ’50.
In primo luogo le processioni religiose, silenziose e struscianti,
rotte dal canto stonato di qualche prete ma sostenuto, per fortuna,
dalle voci squillanti delle donne. Il rito prevedeva la preghiera, la
passeggiata, gli sguardi dardeggianti dei giovanotti e le risposte
con gli occhi delle ragazze, e qualche furtiva toccata.
Poi c’erano i funerali, aperti dalle urla strazianti e, spesso, di
maniera, delle donne vestite a nero; qui il rumore di fondo era
costituito dai carri pesanti e infiorati o dai primi furgoni che
rotolavano sul ceppato e sulle strade battute; e poi il sudore dei
passeggiatori forzati, il bisbiglio delle voci di quanti ormai s’erano
dimenticati del morto.
Di tutt’altro tenore le processioni dei ‘madonnisi’, i reduci dei
faticosi pellegrinaggi alla Madonna di Polsi, che si facevano
annunciare da mortaretti, urla di gioia, preghiere e canti alla
madonna.
Ma di tutte le camminate collettive quella che mi colpiva di più
era la sgroppata delle ‘cogghialivi’, delle raccoglitrici d’ulive che
scendevano da Cittanova, da Polistena, la mattina presto, per
recarsi sul posto di lavoro nelle campagne di Amato.
Era uno di quei rumori crescenti ed avvolgenti che aveva il
potere di svegliarti e di attrarti. Il passo delle femmine delle ante
era svelto, anche se appesantito dai fardelli e dai figli. I piedi nudi
battevano sulla terra o sulle pietre levigate della ‘via nuova’. L’orda
scendeva imperiosa e maestosa; le donne ridacchiavano e si
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scambiavano lazzi, a stento controllate dalle caporale. Poi tutto
cessava, quasi all’improvviso: rimaneva negli occhi il ricordo di
quelle ceste, di quei sacchi in equilibrio sui colli forti e levigati delle
donne, le movenze forzatamente sinuose di quei poveri corpi.
La sera era tutt’altra musica. Dopo una giornata di lavoro, le
ulive raccolte una a una, passate al pesante crivello, lanciate in
alto per evitare i sassi più pesanti o le foglie più leggere, le stesse
donne, scalze, lacere, stanche, risalivano come un serpente
stordito le strade della Piana e ritornavano ai loro tuguri paesani.
Questa era ancora simile alla Calabria di prima della guerra,
quando alla fame e alla disperazione dei braccianti del luogo si
aggiungeva anche quella dei jornatari disperati che venivano dalla
Jonica. I greci, con le loro zappette, si vendevano al migliore
offerente per una due, tre giornate e dormivano all’aperto o in
qualche casolare. Così come si vendevano, al mercato mattutino
delle braccia in Piazza Duomo, gli uomini del luogo in cerca di
lavoro.
Poi, il padrone radunava la ciurma, la portava sui campi, la
schierava in riga, si disponeva a un lato con la sua seggiola e
marcava stretti gli zappatori che dovevano procedere all’unisono:
guai a chi sgarrava e restava indietro!
Qualche anno dopo, nella sezione comunista, uno di questi
braccianti, Ciccio Zagari, raccontava ai compagni divertiti la favola
dell’uovo (il padrone aveva regalato a ciascuno zappatore un uovo
sodo, con la promessa che non avrebbe rivelato a nessuno il
segreto; poi, dalla sua seggiola gridava “ehi, tu di l’ovu!” e i poveri
braccianti, che si sentivano gratif icati dal regalo del buon padrone,
affondavano con maggiore vigore la propria zappa nella terra
umida).
Prima della guerra, dopo la guerra, fino a tutti gli anni ’50 e
anche a parte degli anni ’60, nella Piana esistevano le caste, le
stratif icazioni sociali. Si partiva dal mendicante per andare allo
zappatore, al piccolo contadino, all’artigiano, al piccolo
proprietario, al maestro elementare, all’impiegatuccio, al
professionista, al commerciante d’olio e d’agrumi, al proprietario
terriero, al nobile. Queste le caste principali; poi c’erano le
sottocaste, le sfumature tra l’una e l’altra, l’appartenenza ai rioni
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poveri e a quelli più nuovi, a Radicena o a Jatrinoli. Quello che è
certo è che nessuno poteva sgarrare, nessuno poteva, ad
esempio, sposarsi con una ragazza di casta diversa; tutti
dovevano rimanere entro i limiti assegnati, non si sa come o da
chi.
Certo, l’immobilismo sociale era il risultato di una lenta
sedimentazione secolare, di un sostanziale equilibrio che si era
creato e si era mantenuto nel tempo: nessuna legge scritta
impediva al singolo di travalicare il fosso, ma ciascuno stava ben
attento a non varcare i limiti sociali.
Fino a qualche anno addietro è sopravvissuto a Taurianova,
quasi mastio ringhioso, il vecchio carcere che ospitò per pochi
giorni, nei primi anni ’50, i braccianti e i dirigenti del movimento
sindacale e comunista che avevano osato ‘occupare le terre’ dei
baroni e dei ricchi agrari della Piana. E’ stato proprio nel corso
dell’Amministrazione presieduta da Emilio Argiroffi, negli anni ’90,
che il carcere è stato smantellato e al suo posto è stato creato un
parcheggio e un giardino su cui domina il busto del poeta
Francesco Sofia Alessio. Una coincidenza, certo, poiché le
pratiche per la demolizione erano state avviate molto tempo prima,
ma molto gradita al senatore e al poeta comunista.
Raccoglitrici di ulive (cogghialivi) nelle campagne della Piana di Gioia Tauro
Se oggi lo chiedi in giro, pochi saprebbero dirti perché in
quegli anni si svolgevano le lotte per la terra. O almeno, molti ti
direbbero che esse furono un grande momento di battaglia politica
e sociale, voluta dal partito e dal sindacato. Una decina d’anni
addietro, in un locale posto sul mare più bello d’Italia, a Palmi,
mille miglia lontano dalle cupe e drammatiche campagne della
Piana, ho rivisto i protagonisti di quelle battaglie: Falleti, Tripodi,
Rossi, Gullo e tanti altri vecchi militanti che in quelle esperienze
crebbero e poi si piantarono come querce nei vari borghi della
29
Piana, come segretari della Camera del lavoro, come segretari
delle sezioni comuniste e socialiste. In quel mondo fermo,
immobile, contrassegnato dal più cupo egoismo, quegli uomini e
quanti attorno a loro si radunarono, costituirono il primo nucleo di
progresso la prima volontà di crescita democratica.
Riunire i braccianti senza terra, le donne delle ante,
raccontare loro che tutti gli uomini erano eguali, che esisteva una
speranza di riscatto, magari prendendo la terra ai ricchi oppure
organizzandosi contro i padroni, oppure ancora partecipando alla
vita politica locale, eleggendo consiglieri comunali, gli onorevoli
nazionali; ebbene, questa era una grande novità, una sorpresa,
soprattutto in una realtà nella quale tutti erano abituati a stare al
loro posto, a ubbidire ai più potenti.
Qualche anno più tardi, negli anni ’60, toccò proprio a me e a
Emilio Argiroffi di commemorare, nel giorno dei funerali, il padre
dei braccianti di Jatrinoli, il vecchio Giuseppe Falleti, detto Pòpita.
Allora non riuscivo a capire il senso di quel funerale: in piedi su
una moto Ape, a turno con Emilio Argiroffi, rivolgemmo l’estremo
saluto a quel vecchio profeta che migliaia di braccianti erano
venuti a salutare nel rione Santa Lucia. Più tardi avrei compreso il
senso del legame forte che univa tutti quegli uomini, il grande
rispetto che quella gente per anni e anni ha provato per i
comunisti.
Oggi il vecchio rione dei braccianti di Jatrinoli non esiste più,
la popolazione s’è dispersa per l’Australia, la Germania, l’America
e la parte nuova della città di Taurianova. Ma, anche quando è
lontana o diversa, perché ha cambiato casa, perché ha tradito il
Partito (per necessità o per altro) mantiene questo filo sottile,
questo legame con quegli uomini e quegli anni."
Non è cambiato nulla per i braccianti della Piana. Solo il
colore. Ricordo ancora, sessant'anni addietro, la lunga fila di
braccianti che si assiepavano nei pressi del Duomo di Radicena
(Taurianova) per sottoporsi all'esame dei muscoli da parte dei
caporali che palpavano bene i braccianti e prendevano per le loro
squadre i più forti. A rimanere senza ingaggio erano i più deboli, i
più disperati che si mettevano a piangere per l'esclusione.
Oggi i braccianti calabresi sono stati sostituiti, in larga parte,
da quelli africani, quasi tutti immigrati clandestini, provenienti da
regioni diverse, portatori di valori, di culture differenti. Più deboli
perché clandestini ma più forti perché più giovani e più
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consapevoli. Abbiamo appreso che migliaia e migliaia di questi
braccianti si muovono da una regione all'altra d'Italia, in relazione
ai tempi di raccolta delle ulive, degli agrumi, degli ortaggi. Quello
che non cambia è la modalità dell'ingaggio, da parte dei caporali
mafiosi, ma anche di singoli coltivatori, per pochi euro. Questi
braccianti vivono in condizioni molto precarie, nei capannoni
dismessi, nei casolari abbandonati, ai margini di città che non
vogliono vederli né sentirne parlare. Invisibili ma indispensabili.
Senza di loro i mercati agricoli andrebbero in malora; ma 'loro'
devono stare attenti a non mischiarsi alle popolazioni delle
cittadine vicine ai luoghi dello sfruttamento.
Eppure, gli immigrati nordafricani no sono una novità in
Calabria. Molti risiedono nei quartieri abbandonati dei centri storici
da decenni, si sono integrati e si sono rifatti una vita, convivono
con i calabresi che non si sono mai dimostrati "razzisti", almeno
secondo il rito padano.
La novità è costituita dal fatto che i braccianti che si sono
ribellati ed hanno devastato in questi giorni Rosarno sono merce
sfruttata indegnamente dai caporali mafiosi ma anche da semplici
coltivatori. Vittime di questa esplosione di rabbia sono, da una
parte i cittadini di Rosarno già vessati dalla mafia e oggi colpiti
dalla furia di quanti, sempre dalla stessa mafia sono stati sfruttati e
abbandonati a se stessi.
La violenza a Rosarno è di casa. Non si contano nemmeno le
volte in cui il palazzo comunale è stato bruciato o devastato. Negli
anni in cui risiedevo in Calabria, i docenti evitavano accuratamente
di prestare servizio nelle scuole, anche medie, infestate dai giovani
con la pistola.
Doppia condanna, quindi, per la popolazione incolpevole che
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è costretta a subire la violenza della mafia e quella delle vittime
della mafia.
Con questo non si vuole, in alcun modo, giustif icare la
violenza compiuta dai nordafricani contro cose e persone.
Quel che si vuole dire è che l'analisi del ministro Maroni per il
quale esistono dei clandestini che vanno respinti, è monca. I primi
a non volere l'allontanamento degli immigrati sono i mafiosi e
quanti sfruttano il lavoro bracciantile. Senza i braccianti
nordafricani i prodotti della terra di Calabria, Puglia, Campania
marcirebbero. Senza i braccianti nordafricani gli sfruttatori
sarebbero costretti a rispettare i contratti e a pagare molto di più la
manodopera locale (ammesso che esista).
Un ministro della Repubblica meno miope si preoccuperebbe
di fare applicare la legge, di modif icare la normativa
sull'immigrazione, di creare condizioni di vita e di lavoro più
decorose.
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2 giugno 2010 ·
2 GIUGNO 2010: LA DISUNITÀ D'ITALIA. CORAGGIO, POSSIAMO
FARCELA!
Tristi dibattiti e tristi manifestazioni nel giorno in cui si
dovrebbe celebrare l'anniversario dell'unità della nazione italiana.
Apri la TV e incappi nelle cronache del Quirinale dove un
presidente del consiglio maleducato arriva in ritardo, delizia con le
proprie gag il codazzo dei sodali e solo alla fine va a salutare il
padrone di casa; il quale non le manda a dire e richiama con
educazione l'ospite ingrato. Salti sul canale dei dibattiti e ti imbatti
nel filosofo barbuto Cacciari che spande pessimismo e
nell'assessore leghista che tiene la solita concione sui meridionali
ingrati e spendaccioni e sul nord produttivo e generoso.
Le uniche note positive vengono dai commentatori sportivi che
rilanciano per l'ennesima volta il 4-3 di Italia-Germania del 1970 o
si aggrappano alla vittoria della tennista che sbaraglia l'avversaria
e sbava contro il terreno del Roland Garros.Il buon Michele
Mirabella fa l'elenco degli stereotipi sugli italiani e sulle autoironie
dei nostri connazionali.Ma come stanno effettivamente le cose?
Quando incominciai a interessarmi al tema, negli anni
dell'università (inizi anni sessanta), c'era un grosso dibattito sulla
"questione meridionale". Venivamo fuori dalla guerra ma stavamo
anche assaporando il boom economico di cui furono protagonisti
(spesso involontari) i milioni di lavoratori sradicati dal Sud e
catapultati nelle fabbriche del Triangolo industriale, oltre che nelle
aree industriali della Svizzera, della Germania, del Belgio.
In quegli anni, noi giovani che abitavamo nelle cittadine del
Mezzogiorno, vedevamo partire a centinaia, a migliaia, verso terre
lontane i nostri coetanei. Se ne andavano (come avviene oggi
dall'Africa) i più giovani, i più forti, i più attivi. Rimanevano i vecchi,
i malati, le donne, i benestanti.Cento anni prima, altri "emigranti"
calati dal Nord, da Bergamo, da Brescia, al seguito del folle
Garibaldi, sbarcavano a Marsala e conquistavano, con una certa
facilità, la Sicilia, la Calabria e, poi, sul Volturno sgominavano le
truppe borboniche. Quindi, consegnavano a Cavour e a Vittorio
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Emanuele le "terre liberate".
La relativa facilità della "conquista regia" non deve ingannarci:
le classi borghesi, gli intellettuali (senza scomodare Petrarca,
Guicciardini, Leopardi) si ponevano da tempo il problema della
unif icazione della penisola. S'è discusso tante volte delle ragioni
del ritardo della nazione italiana rispetto alle altre nazionalità
europee (Francia, Inghilterra, Spagna). La causa principale credo
sia da attribuire alla frantumazione dei poteri (comuni, ducati,
staterelli vari) oltre che alla presenza ingombrante della Chiesa.
Tra i meriti di Cavour c'è quello di avere approfittato della
congiuntura internazionale ma, soprattutto, di avere capito, al pari
dei grandi borghesi dell'800 che solo con l'unità politica della
penisola si sarebbe potuto dare vita ad un grande mercato
nazionale capace di eliminare dazi e gabelle.
Quello che avvenne dopo l'unità dovrebbe essere
sufficientemente noto: voglio solo ricordare che la nascita di un
nuovo mercato nazionale, senza le tutele e le garanzie necessarie,
si tradusse in una crescita rigogliosa dell'economia delle regioni
del centro nord e in un vero e proprio arretramento del vecchio
Regno delle Due Sicilie. Questo in ragione delle caratteristiche
diverse delle due economie regionali: più forte e più adusa al libero
mercato quella del Nord, più statalista e protetta quella del Sud: è
la nascita della "Questione meridionale".
Un esempio illuminante è quello relativo alla gestione delle
finanze del nuovo Regno di Italia. Con la vendita dei beni
ecclesiastici e dei vecchi feudi, lo Stato effettua un grandioso
drenaggio di capitali che vengono impiegati a favore del
capitalismo settentrionale.E veniamo ai nostri tempi. Negli anni '90
l'Italia discute sulla possibilità e sulla opportunità di entrare nel
sistema monetario europeo basato sull'euro. E' stato merito di
Ciampi e dei Governi di centrosinistra se l'Italia, dopo il tracollo
finanziario dei primi anni '90 riesce, non solo a risollevarsi ma
anche ad ottenere il via libera, da parte della Germania e degli altri
stati. per l'entrata nell'euro. In quella circostanza Tremonti e la
destra berlusconiana si dichiararono contrari.Alla luce di quanto ho
detto sinora, non si comprendono le ragioni che hanno portato,
prima il centrodestra a schierarsi contro la nuova economia
europea e, poi, la Lega a pigiare sul tasto della secessione e, in
subordine, della progressiva marginalizzazione delle regioni
meridionali.Non è solo una questione di giustizia e di riconoscenza
nei confronti del Mezzogiorno che ha contribuito in modo
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determinante, sia dal punto di vista finanziario, sia da quello
umano, al successo dell'economia "padana".Nessuno nega che il
Mezzogiorno, superata la lunga stagione dell'ascarismo (quando in
cambio dei sussidi, delle pensioni facili, dei posti di lavoro veri o
inventati, le genti meridionali sostennero il sistema clientelare della
DC e dei suoi satelliti), debba fare rapidamente i conti con la realtà
e procedere alla utilizzazione razionale delle risorse.E' un grande
lavoro che bisogna fare, tutti insieme, per scrollarsi di dosso la
morsa potente del sistema mafioso che colpisce in modo vario il
Sud e il Nord.C'è qualcosa di vero nelle tesi del federalismo
fiscale, nel senso che bisogna andare ad una corretta utilizzazione
delle risorse e ad un controllo della spesa in sede locale. Ma il
modello proposto dalla Lega (che prevede la secessione politica o
economica) confligge con quello adottato 150 anni addietro dalla
borghesia illuminata del Nord che procedette all'unif icazione della
penisola e alla creazione di una vasta area di scambio economico.
Io non condivido il pessimismo di quanti ritengono che sia
entrato in crisi il sistema politico unitario della nostra nazione. Per
alcune ragioni di fondo: non esistono (al di là delle velleità della
lega e delle sparate antiunitarie di Bossi e dei suoi fedeli) ragioni
valide per spingere gli italiani a rompere il patto stipulato 150 anni
addietro. Esiste una tradizione culturale antichissima che
costituisce la base solida sulla quale si è andata costituendo
l'italianità.
Nella seconda metà del secolo scorso si è completato il
processo di formazione della lingua comune che è l'italiano (al di là
delle bambinesche pretese di volere riesumare in maniera
impropria l'uso del dialetto). La televisione è stata un potente
strumento di diffusione della nostra lingua che viene compresa,
quando non parlata, dalla quasi totalità degli italiani e dei residenti
sul nostro territorio. Sono rimasto molto colpito dalla scioltezza di
eloquio di una anziana contadina calabrese che spiegava ad un
intervistatore televisivo le ragioni della frana di Maierato.
Chi parla si considera bilingue, nel senso che ha appreso
come primo linguaggio quello dialettale e continua a parlarlo
piacevolmente con i propri amici, specie nelle occasioni in cui è
richiesta una maggiore espressività. Ma non si sognerebbe mai di
scrivere sui cartelloni stradali i nomi delle località in dialetto
calabrese.
Lingua e dialetto si completano a vicenda, rendono più
espressiva la comunicazione (quando vengono usati assieme). Ma
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la lingua italiana è lo strumento principe della comunicazione tra
gli italiani e degli italiani con gli altri popoli. Imporre l'uso del
dialetto nella comunicazione tra italiani di diversa provenienza
geografica, è semplicemente idiota. E' giusto ed è bello che
ciascuno conosca il linguaggio materno (non esiste il dialetto
padano: nell'area settentrionale, impropriamente chiamata
Padania, esistono centinaia di dialetti con migliaia di sfumature
locali) ma è assolutamente decisivo, ai fini della corretta
comunicazione, che ogni italiano conosca la lingua italiana e
comunichi con essa.
A dimostrare che l'Italia è una nazione unitaria, concorre,
purtroppo, la considerazione che la mafia si è diffusa in modo
prepotente in tutto il territorio. Vale la metafora del cancro che può
diffondersi in tutto l'organismo, fino a provocarne la morte. In
questi anni (dal '70 in poi) la mafia è stata alimentata dal
malgoverno e dagli interessi speculativi. Facciamo un esempio per
tutti, quello della camorra o della 'ndrangheta che si alleano con
certe realtà industriali del profondo Nord, per procedere allo
smaltimento dei rif iuti tossici. Qui vale lo stesso discorso che si fa
a proposito del risanamento dei conti pubblici: è necessario uno
sforzo comune per procedere alla eradicazione delle mafie.
Ammettiamo per un istante che la "Padania" acquisisca lo status di
nazione sovrana; ebbene, dovrebbe comunque fare i conti con la
questione mafiosa e dovrebbe, paradossalmente ,ricorrere all'aiuto
delle regioni che hanno una conoscenza più approfondita
dell'argomento. Ma ritorniamo al punto iniziale: esistono ancora le
ragioni per credere nella necessità della nazione italiana e per
celebrarne con allegria e con convinzione il centocinquantesimo
anniversario dell'unità? Una volta si diceva: speriamo di non dover
morire democristiani. La mia generazione è riuscita a realizzare
questo sogno. Adesso non vorremmo morire berlusconiani o
leghisti o, peggio ancora, in una patria che non sia l'Italia.
Coraggio, possiamo farcela!
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6 luglio 2010 alle ore 16.48
LE SETTE MOSSE VINCENTI DI SILVIO BERLUSCONI
Ha detto "ghe pensi mi". Ci sta pensando sul serio.
Prima mossa: convince il fido Brancher, quello che quando
stava a S. Vittore lui andava a consolare idealmente girando
attorno al carcere con l'auto, a dimettersi da ministro. E' stata la
cosa più facile, visto che l'Aldo aveva già bruciato la formidabile
carta del legittimo impedimento.
Seconda mossa: per la nomina di un ministro per le Attività
produttive, al posto di Scajola, sta pensando a qualcuno che
provenga dal fronte finiamo e che abbia delle buone entrature con
la Fiat: perché è necessario, anche a costo di qualche regalia,
tenersi buona la Fiat e convincerla a produrre la Panda a
Pomigliano.
Terza mossa: dopo le severe rampogne a Tremonti che ha
disposto una manovra con la quale ricupererà, forse, 25 miliardi,
ma ha fatto incazzare tre quarti degli italiani, Berlusconi sta
procedendo alla distribuzione di zuccherini per tutti. Le prime
zollette per la Marcegaglia e i suoi amici imprenditori, poi ci sarà
qualcosa per alcuni amministratori e per le regioni di centrodestra.
Nella categoria zuccherini rientrano i vari refusi già ritirati e quelli
che verranno ancora, sbadatamente, lanciati da qualche
parlamentare.
Quarta mossa, la manovra, ripulita dalle tossine, verrà
ulteriormente imbellettata e e quindi votata con la fiducia. I finiani
si incavoleranno di brutto ma piegheranno la testa. Rimarrà solo
Errani, superincazzatissimo, a fare le linguacce al Governo.
Quinta mossa: La legge bavaglio verrà votata prima
dell'autunno non senza qualche mal di pancia tra i finiani. In
questa occasione non verrà utilizzata la fiducia; così Berlusconi e il
triunvirato potranno espellere i parlamentari infedeli e fare
finalmente pulizia nel partito.
Sesta Mossa: la legge Alfano, ulteriormente modif icata, ma
questa volta per escludere dai benefici il Capo dello Stato, verrà
approvata tra suoni di fanfare e alalà.
Settima mossa: per tutto quanto non rientra nei punti
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precedenti, si provvederà con la modif ica della costituzione,
seconda e prima parte.
39
13 luglio 2010 alle ore 23.58
MILANESI, RIBELLATEVI AI BOSS!
Risale al 1991 la strage delle "teste mozzate" di Taurianova,
quando la mafia provocò la morte, nell'arco di 24 ore, di cinque
persone. La reazione in Italia fu grande. Tutta la stampa guardò
con sdegno agli eventi barbari della estrema provincia calabrese.
Tra gli altri il Corriere della sera, per la penna di Giuliano Zincone,
si chiese perché mai i calabresi di Taurianova non si ribellassero
alla mafia. Io già vivevo lontano dal mio paese ma ero stato
testimone -e anche protagonista- della battaglia politica svoltasi
nei trent'anni precedenti. Per questo ritenni giusto scrivere al
Corriere della Sera una lettera di risposta a Zincone che di seguito
pubblico.
"Calabresi, ribellatevi ai boss", urla con sincero sdegno civile
Giuliano Zincone sul Corriere della Sera. Ma quando i calabresi si
sono ribellati ai boss e alla mafia, nessuno s'è accorto di loro.
Sono stato per ventisette lunghissimi anni capogruppo
consiliare dell'opposizione proprio a Taurianova, il paese delle
teste mozzate.
In questo paese ha sempre governato (tranne che per tre
brevi periodi) un potentissimo clan DC. Ma l'opposizione al sistema
clientelare democristiano è sempre stata molto forte, almeno sino
al 1988, quando è apparso chiaro a tutti che non serviva più a
niente e a nessuno ribellarsi.
Nel lontano 1956 la DC ed i prefetti impedirono l'elezione a
sindaco del leader dell'opposizione. Nel 1965 il presidente
dell'assemblea comunale (un democristiano) per ben tre volte
brigò per rendere nulla l'elezione di una Giunta di sinistra e ci volle
una lunga occupazione di consiglio per sbloccare la situazione.
Nel 1986 l'attuale sindaco democristiano, Olga Macrì, e suo
fratello Ciccio, tentarono con ogni mezzo di impedire a 18
consiglieri (comunisti, socialisti, dc dissidenti) di formare una
amministrazione alternativa. Dovettero scendere in piazza migliaia
di persone per cacciare dal consiglio i due fratelli.
Fino al 1970 la DC, per governare, ha dovuto sempre
catturare consiglieri di altri gruppi (tre sono stati strappati al PSI,
due al MSI). Ma, anche quando ha avuto la maggioranza assoluta,
40
essa quasi mai è riuscita a portare a termine il mandato.
Sono stato testimone delle più incredibili e sconvolgenti
violazioni della legge, dei regolamenti, da parte dei boss
democristiani e le ho puntualmente denunciate, insieme con i miei
compagni, in consiglio, ai giudici, alla stampa, agli organi
antimafia, in centinaia di interrogazioni, di inchieste che hanno
avuto il potere di mettere più volte in ginocchio il gruppo di potere
locale democristiano.
Innumerevoli sono stati i procedimenti giudiziari che hanno
visto come protagonisti i dirigenti locali di questo partito, quasi
sempre condannati in primo o in secondo grado e, qualche volta,
anche in cassazione. Per ben due volte il Presidente della
Repubblica è intervenuto per sciogliere gli organi dirigenti della
locale USL controllata dallo stesso clan con metodi che sono stati
più volte illustrati e portati ad esempio di come mai si dovrebbe
governare la sanità.
Ho iniziato la mia battaglia amministrativa quando i boss
democristiani perlustravano il paese, in campagna elettorale,
scortati dai guardiacaccia e l'ho, praticamente, conclusa nel 1990,
quando mi sono dimesso (insieme con tutti i consiglieri del PCI e
del PSI) da un consiglio comunale "eletto in un clima di terrorismo
politico-mafioso".
In tutto questo lunghissimo periodo la copertura dei dirigenti
provinciali, regionali e nazionali della DC è stata totale nei
confronti di un capoclan che ancora brandisce come arma, nei
confronti dei propri amici parlamentari o aspiranti tali, il controllo
pieno di 25.000 preferenze appartenenti, di certo, a cittadini italiani
rassegnati e dimezzati.
Nei momenti difficili tutti i dc che contavano sono venuti a
Taurianova per sostenere i loro amici in difficoltà. Quando Ciccio
Macrì era latitante, la DC inviava l'on. Ligato e il capolista alle
regionali, l'on. Battaglia, a parlare dal balcone di casa Macrì.
Ma altrettanto signif icativi sono stati i silenzi dei dirigenti
nazionali come Misasi, De Mita o Forlani più volte chiamati in
causa.
"Dov'è Taurianova?" -si chiede Zincone- Ce l'ha il coraggio di
promuovere una sua rivoluzione culturale?
Taurianova, i paesi della Piana e del reggino la loro protesta
l'hanno espressa, caro Zincone. Civilmente, ma con decisione,
41
quando scendevano in piazza contro la mafia negli anni '70. Allora
l'Italia democratica era forse -e giustamente- troppo occupata con
il terrorismo per comprendere la gravità e l'eccezionalità di
situazioni come quella di Taurianova, dove la parte più avvertita
della popolazione combatteva una battaglia in difesa della
democrazia e dei diritti civili, non solo locali, ma di tutto il Paese.
Non è retorica né esagerazione la mia. Se è vero che oggi il
gesto terribile dei tagliatori di teste, verif icatosi nella stessa città,
viene visto come offesa all'intera democrazia ed all'intera civiltà.
Ormai vivo lontano, per motivi di lavoro ma anche per libera
scelta, dal mio paese. Oggi, in una città profondamente sfiduciata
nei confronti dello Stato e che esprime un consenso di massa nei
confronti della mafia, non c'è più posto per chi voglia combattere in
difesa della democrazia.
No, io non pongo l'antico dilemma se valga la pena di morire
per Danzica o per Kuwait City. Mi chiedo, invece, se abbia un
senso continuare a combattere, ribellarsi, "sputare in faccia ai
mafiosi", quando coloro i quali dovrebbero guidare politicamente
tale lotta, in passato si sono sempre schierati dalla parte dei
prepotenti.
Non mi meraviglio più di tanto se questo è avvenuto. Anche
per la guerra del Golfo è successo qualcosa di analogo. Le nazioni
occidentali si sono accorte solo nel 1990 della pericolosità e della
diabolicità di un dittatore come Saddam Hussein che essi avevano
amorevolmente assistito, finanziato, rifornito di armi nei decenni
precedenti.
Molti di coloro i quali oggi si sbracciano e si scandalizzano per
la barbarie dei killer calabresi, ieri, però, assistevano tranquilli alle
trasformazioni sociali del Mezzogiorno, frutto di interventi
economici sbagliati e improduttivi. Nella Piana di Gioia Tauro, che
è un'immensa distesa di ulivi, sono piovuti -a partire dagli anni 60centinaia di miliardi di integrazione della CEE. I mafiosi, per
impossessarsene, hanno acquisito con le buone o con le cattive la
proprietà dell'uliveto, espellendo la vecchia nobiltà agraria. Nello
stesso periodo, lo Stato ha letteralmente corrotto con le pensioni
facili, con gli assegni di disoccupazione, di maternità, migliaia di
braccianti. Al resto hanno pensato i vari capiclientela, come i
Macrì, che hanno utilizzato gli enti pubblici, soprattutto gli ospedali,
per catturare i disoccupati locali.
Non ripeto quanto è più volte stato detto sul modo in cui si è
42
proceduto all'industrializzazione delle Calabria (cattedrali nel
deserto, Vo centro siderurgico, centrale a carbone) o sul tipo di
approccio che l'industria e l'impresa del Nord hanno avuto con
questa regione (ad alimentare la logica della mazzetta non sono
solo gli imprenditori locali, ma anche quelli blasonati del CentroNord, gli Enti pubblici, la grande Cooperazione ecc.).
Gli effetti di tali politiche disastrose sono sotto gli occhi di tutti.
I partiti di governo hanno sì stravinto nel Mezzogiorno, sul piano
dei consensi elettorali, ma facendo pagare elevatissimi costi
all'economia e alla società: in più hanno dovuto accogliere nei
propri ranghi i quadri della mafia, intenzionata ormai a controllare
non solo la campagna e il traffico di droga, ma anche l'edilizia, gli
appalti, il territorio.
Per ritornare alla guerra del Golfo, lì gli americani, gli europei,
nel momento in cui si sono schierati contro l'Iraq, hanno dovuto
operare una brusca inversione di rotta. Nessuno sarebbe andato a
combattere contro un nemico come Saddam Hussein rifornito di
armi dallo Stato maggiore occidentale.
Neanche i calabresi, che per la stragrande maggioranza
-come riconosce lo stesso Zincone- sono persone per bene, se la
sentono di combattere contro i locali Saddam Hussein, almeno fino
a quando lo Stato maggiore dei partiti di governo non intende
recidere, in tutti i sensi, i propri legami con le forze che inquinano
la democrazia meridionale.
Il problema non è solo di polizia o di leggi speciali. Riguarda
essenzialmente il tipo di politica economica che si vuole
perseguire in Italia; in tutta Italia, non solo nel Mezzogiorno.
Per questo, parafrasando Zincone, io dico: milanesi, ribellatevi
ai boss!
Mi chiedo, infatti, quanti democristiani o repubblicani o
socialisti di Milano o di Padova o di Torino, abbiano chiesto ai loro
dirigenti conto della politica seguita dai partiti di governo nel
Mezzogiorno! Possibile che tutti si indignino per i tagliatori di teste
e poi nessuno, o quasi, si scandalizzi per il comportamento della
Democrazia Cristiana che continua a proteggere ed a difendere la
Giunta comunale di Taurianova?
Ha ragione l'on. Martelli quando chiede lo scioglimento del
Consiglio comunale di questa città; anche se personalmente mi
riterrei soddisfatto di un semplice scioglimento della sezione locale
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da parte di una DC divenuta improvvisamente coraggiosa. Certo,
la DC, quella calabrese e quella di Milano, di Padova o di Torino,
potrebbe perdere (ma non è sicuro) in voti e in preferenze, ma
certo ne guadagnerebbe in trasparenza e in pulizia.
Oggi, potremmo dire paradossalmente, i calabresi per bene si
dividono in due grandi categorie: quelli che vorrebbero andare via
e possono farlo, e quelli che vorrebbero andare via ma non
possono farlo.
A dire il vero, tanti altri hanno accettato la logica e la
protezione dei capiclientela e dei mafiosi e votano per loro senza
costrizione alcuna. Tutti, però, hanno capito che il governo gioca a
lenire e a sopire e che non è per nulla intenzionato a tagliare i
rifornimenti ai boss, come pure dovette fare Bush prima di sferrare
l'attacco all'Iraq.
Questo è il motivo per cui a doversi preoccupare
maggiormente della situazione calabrese dovrebbero essere gli
altri, quelli che vivono nelle regioni più fortunate e più tranquille:
prima che sia troppo tardi, prima che il modello dei tagliatori di
teste prenda definitivamente piede anche altrove. Ecco perché
ripeto: “milanesi, ribellatevi ai boss!”
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15 luglio 2010 ·
SAPPIAMO TUTTI CHI È CESARE. MA BRUTO CHI È?
BRUTO: Siate pazienti sino alla fine. Romani, compatriotti, e
amici! uditemi per la mia causa, e fate silenzio per poter udire:
credetemi per il mio onore; ed abbiate rispetto pel mio onore
affinché possiate credere: giudicatemi nella vostra saggezza, ed
acuite il vostro ingegno affinché meglio possiate giudicare. Se vi è
alcuno qui in questa assemblea, alcun caro amico di Cesare, a lui
io dico che l'amore di Bruto per Cesare non era minore al suo. Se
poi quell'amico domandi perché Bruto si sollevò contro Cesare,
questa è la mia risposta: non che io amavo Cesare meno, ma che
amavo Roma di più.Preferireste che Cesare fosse vivo e morire
tutti da schiavi, o che Cesare sia morto per vivere tutti da uomini
liberi? In quanto Cesare mi amò, io piango per lui; in quanto la
fortuna gli arrise, io ne godo; in quanto egli fu coraggioso, io
l'onoro; ma in quanto egli fu ambizioso, io l'ho ucciso: vi sono
lacrime per il suo amore, gioia per la sua fortuna, onore per il suo
coraggio, e morte per la sua ambizione. Chi v'è qui sì abietto che
sarebbe pronto ad essere schiavo? Se vi è che parli, perché lui io
ho offeso. Chi vi è qui sì barbaro che non vorrebbe essere
romano? Se vi è che parli; perché lui ho offeso. Chi vi è qui sì vile
che non ami la sua patria? Se vi è, che parli, perché lui ho offeso.
Aspetto una risposta.I CITTADINI: Nessuno, Bruto, nessuno. (dal
Giulio Cesare di w. Shakespeare)
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25 agosto 2010 ·
LA DROGA NON C'È PIÙ
La droga è scomparsa dai luoghi di spaccio. Ricordate i
palazzi di Gomorra, i quartieri degradati di Palermo e delle altre
città, i vicoli di Genova, le discoteche dei vip e dei disperati, i
quartieri nelle mani degli slavi, dei nordafricani, dei cinesi, dei
calabresi, dei napoletani, dei siciliani? Non c'è più niente, è tutto
finito. Le grandi navi non attraccano più cariche di droghe al porto
di Gioia Tauro; la 'ndrangheta ha dovuto rivedere i propri piani di
conquista. In Afghanistan non si combatte più per il controllo del
papavero. La coca è stata restituita ai contadini colombiani e i
narcos son rimasti disoccupati.
Rapido flash back. Ricordate i filmetti tv americani con le
macchine della polizia di Rosco sempre in caccia di
contrabbandieri? Ricordate come la mafia italoamericana riuscì
negli anni '20 a fare il gran salto con il commercio dei liquori, allora
proibiti? Fu, quello del proibizionismo in America, un caso da
manuale. La mafia, i commerci illegali, l'aumento dell'uso degli
alcolici furono diretta conseguenza dell'assurdo divieto di
commerciare liberamente wisky e altri alcolici.
Ritorniamo a Scampia; dal momento in cui la droga è stata
resa legale, sono scomparsi gli spacciatori e i luoghi sordidi e tristi
di scambio di coca, crack, eroina. Adesso le droghe si vendono,
sotto controllo, in farmacia. E' un sogno, una richiesta irrazionale,
una invenzione giornalistica?
E' solo uno scenario possibile. Io non so se la diffusione
libera, a prezzi controllati, sotto vigilanza sanitaria possa servire a
limitare la diffusione delle droghe di qualsiasi tipo. Né discuto
sull'eticità della scelta. D'altronde, nessuno se la sentirebbe di
rimproverare i gestori dei tabacchini o dei bar che vendono
tabacchi e liquori!
So, però, che mafie, narcos, spacciatori sarebbero costretti a
cambiare mestiere ed a ridurre drasticamente le operazioni di
riciclaggio di denaro sporco nelle banche e nelle borse di tutto il
mondo. Riprenderebbero i sequestri di persona e altri crimini?
potrebbe darsi. Ma sarebbe poca cosa di fronte di fronte alla
prospettiva di potere eliminare, quasi definitivamente, lo smercio di
droghe nelle nostre città.
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Il dibattito è aperto.
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6 aprile 2011 ·
ADOTTIAMO UN PARLAMENTARE PDL
E' inutile sperare nella redenzione di Silvio Berlusconi. E' un
uomo perso, irrecuperabile, disperato ma tenace, bugiardo ma
apprezzato da milioni di persone. Il suo obiettivo (legittimo) è
quello di salvarsi la pelle, di evitare gli attacchi più o meno credibili
degli avversari e della magistratura. Per questo, qualsiasi
ragionamento politico viene meno di fronte alla preoccupazione più
grande dell'uomo: quella di salvarsi il patrimonio e la vita, di evitare
condanne e galera.
Chiuso, quindi con Berlusconi: inutile rimproverargli le
barzellette fuori luogo (e anche cretinette), le corna, il dito medio
proteso, le amicizie squalif icate, l'allegra compagnia di giro delle
starlettes televisive, la politica del cucù e il baciamani all'orribile
Gheddafi.
Occupiamoci, invece, delle centinaia di parlamentari che lo
sostengono. E' vero, sono stati quasi tutti "nominati" da Berlusconi
e dall'amico di balia Umberto Bossi. Non politici che hanno sudato
la cadrega, che hanno battagliato nelle piazze piccole e grandi del
Paese o nelle sezioni impolverate dei Partiti, ma addestrati
yesman, portaborse prima e poi servitori selezionati tra le
categorie preziose degli Avvocati, dei Fiscalisti, degli Esperti in
affari, imbrogli, pastette e poi, ancora, belle figliole capaci di
soddisfare le voglie dei camionisti e di allietare le serate di Palazzo
Grazioli, Arcore, Villa Certosa e altre residenze in giro per l'Italia e
nel mondo. Meno che a Lampedusa, dove l'affare non è stato
concluso.
Dopo queste divisioni per competenze, io passerei alle
divisioni per territorio -che sono le più importanti- tranne che per
alcuni personaggi senza tempo e senza storia che potrebbero
venire nominati in qualsiasi luogo.
La prima grande ripartizione è quella per regione. Almeno
venti grandi luoghi e, poi, per provincia: cento e passa (ma
potrebbero ancora crescere!).
La proposta che avanziamo è quella di procedere alla
identif icazione di tali personaggi, regione per regione, provincia
per provincia, vallata per vallata. Alcuni, pezzi di pregio, la gran
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parte, peones sconosciuti al di là dei confini municipali.
La catalogazione è facile. Sul sito della Camera dei deputati,
ad esempio, è possibile, con gli opportuni filtri, procedere alla
identif icazione dei deputati di maggioranza (PDL, Lega e varie
minuzzaglie). Ogni parlamentare può essere raggiunto tramite
posta elettronica. Alcuni dispongono di un sito internet o di un
blog. Tutto questo per facilitare il contatto tra parlamentare e
popolo. Non c'è rischio di incorrere nel reato di stalking perché i
deputati non sono bellocce o bellocci da importunare, ma
rappresentanti del popolo che, nel dialogo continuo con gli elettori,
hanno tutto da guadagnare.
Perché diciamo che il parlamentare va "adottato"? Perché
crediamo che molti, tanti di loro non si rendono nemmeno conto
del ruolo che sono stati chiamati a svolgere. Sì, lo sappiamo, non
sono degli imbranati da imboccare; fanno quel che gli viene
chiesto di fare. Ma un conto è che una squadra di rapinatori
compia il colpo del secolo, grazie alla professionalità e all'abilità
dei membri; altro che un insieme di scalcagnati entri in una banca
dalla porta principale, aperta dalle guardie private e che, poi,
scappi dalla scena del crimine con la protezione di polizia e
carabinieri, tra l'esultazione degli amministratori e del popolo
plaudente.
Pochi interrogativi bisognerà porre: moltissimi parlamentari
non riescono nemmeno a rispondere alle domandine delle Iene,
figuriamoci se possono fornire compiute spiegazioni su leggi,
decreti, commi e pandette!
Due domandine facili facili, per iniziare:
1) Onorevole, lo sa che la legge in votazione sul processo
breve, porterà all'annullamento di migliaia e migliaia di processi,
impedendo a tanti cittadini che attendono da anni, di avere
giustizia e a tanti probabili mascalzoni di farla franca? Lo sa che
l’approvazione di tale legge consentirà all'on. Berlusconi di evitare
il giudizio sulla vicenda Mills?
2) Onorevole, si discute se la competenza a giudicare il
Presidente del Consiglio per il reato di concussione sia del
Tribunale di Milano o di quello dei ministri. Pur di non comparire
presso il Tribunale milanese, Berlusconi ha affermato che era
proprio convinto che Ruby fosse nipote del Presidente egiziano
Mubarak. Proprio per evitare crisi internazionali e guerre in
Nordafrica (che, poi, sarebbero scoppiate comunque), lo stesso
49
Berlusconi ha telefonato da Parigi alla Questura di Milano
chiedendo la liberazione della Ruby e il suo affidamento, in quanto
minorenne, alla sua amica Minetti.
Prima di rispondere, Onorevole, rif letta: lei è proprio convinto
che il Berlusconi sia tanto “pirla” da credere che la ragazza
marocchina fosse, invece, egiziana titolata? O non ritiene, invece,
che Berlusconi sia una persona furba e intelligente che mai si
sarebbe bevuto la storia di una Ruby egiziana, nipote di un
potentissimo dittatore? Libero di pensarla come vuole, anche che
l’asino vola e che ai Poli si fanno i bagni termali.
Tutti i cittadini, a prescindere dall'idea politica, possono
interpellare i deputati e i senatori della propria provincia, del
proprio territorio. Lo possono fare isolatamente, scrivendo una email al Parlamentare "adottato" o invitando lo stesso a partecipare
a un dibattito aperto. Possono pubblicare un volantino, possono
scrivere lettere ai giornali, possono -in poche parole- compiere
tutte le azioni opportune al fine di evitare che il proprio "protetto"
incorra in ulteriori sviste.
Le domande che abbiamo posto, possono essere riformulate
o anche cambiate. L'importante è evitare che i nostri "adottati"
possano continuare a fare male a se stessi e agli altri.
23 aprile 2011 ·
ZERO IN STORIA E GEOGRAFIA
ALL'ON. STEFANIA CRAXI
Non c'è cosa peggiore che fare politica in nome del padre.
Perché questo ti carica di responsabilità e ti spinge ad assumere
comportamenti malsani. Il fatto che -nel caso che intendo
esaminare- il padre si chiami Bettino Craxi e che i due figli abbiano
abbracciato posizioni diverse, tutti e due in nome del padre
Bettino, conferma la validità del mio assunto.
Chi scrive non è stato mai antisocialista, anzi militava nello
stesso partito di Craxi nel lontano 1963, quando Stefania era una
bambina. Ha continuato a esserlo fino al '72, quando il Psiup si
scioglieva e, in ricordo di quel primo innamoramento, quando
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Occhetto liquidò il vecchio PCI, propose, insieme ad altri, che il
nuovo partito (che poi si sarebbe chiamato PDS) assumesse la
denominazione di "Eurosocialismo". Devo dire che Craxi, quando
era ancora in auge, facilitò l'ingresso del PDS nell'internazionale
socialista, dimostrando una lungimiranza sconosciuta ai tanti che,
poi, si dispersero, come schegge impazzite, nell'arcobaleno
politico italiano. Oggi, a fronte di pochi superstiti che resistono
nelle formazioni che ancora si richiamano al socialismo, si
ritrovano nuclei consistenti di ex-socialisti anche nel partito che, in
teoria, dovrebbe essere il più distante, dai principi universalistici,
egualitari, libertari, democratici del vecchio socialismo, cioè nel
PDL di Silvio Berlusconi. Ora, a me non interessa per nulla che
Stefania Craxi o Bobo Craxi si dichiarino di destra o di sinistra; è
nel loro diritto: l'importante è che lo facciano per conto loro, per le
convinzioni che hanno maturato e non perché "sic et simpliciter"
siano figli di Bettino Craxi.
Mi ha fatto una certa impressione, pertanto, sapere che per la
venuta di Stefania Craxi a San Benedetto del Tronto si siano
mobilitati due leader locali, uno dichiaratamente di centro-destra e
l'altro a capo di una lista che si richiama al socialismo. Ma la cosa
più strana è che, a un certo punto, l'on. Stefania Craxi, con
notevole sprezzo della storia e della geografia, abbia levato l'indice
accusatorio nei confronti delle amministrazioni locali marchigiane,
arrivando a sostenere che il centrosinistra le amministrerebbe
“con uno stile che non ha nulla da invidiare agli stili mafiosi del sud
Italia”.
Ora, per carità, comprendiamo che un intervento elettorale
non può avere la stessa nitidezza del saggio politico o
storiografico; però non è lecito a nessuno azzardare siffatte teorie
che fanno male non solo alla verità storica e geografica ma anche
alle intelligenze di quanti ascoltano o leggono i resoconti elettorali.
Partiamo dalla geografia; l’on. Craxi parla degli “stili mafiosi del
sud Italia”, lasciando capire che tali stili sarebbero propri delle
regioni a sud del fiume Tronto. Ora, è innegabile che la stragrande
maggioranza degli eventi mafiosi, delle collusioni politiche con la
mafia, la ‘ndrangheta e la camorra, appartengano alle regioni
meridionali, in primis la Sicilia, la Calabria, la Campania. Ma le
cronache, anche recenti, ci dicono che tali fenomeni collusivi si
ritrovano in quantità preoccupanti nelle regioni del centronord,
segnatamente a Milano e in Lombardia, dove l’on. Craxi svolge la
propria attività politica. Esiste una sorta di sciame mafioso
coincidente in gran parte con quello dell’emigrazione calabrese e
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siciliana nel secondo dopoguerra. Quando i braccianti, i disperati
del Sud, furono risucchiati dal sistema industriale del Nord
affamato di braccia, migliaia, anzi milioni di esseri umani si
spostarono nel Triangolo settentrionale Milano-Torino-Genova con
tutto il loro carico di sofferenze, di disperazione, di voglia di
riscatto sociale. E siccome gli uomini sono portatori di valori, di
abitudini, di convincimenti, assieme alla pastasciutta e al caffè,
portarono anche quei disvalori che, con una generalizzazione
comprensibile potremmo definire la “mafiosità”.
In un libro-intervista di qualche anno addietro, Pino Arlacchi
ripercorse l’evoluzione della mafia siciliana narrando la storia di un
esponente siciliano che non era vissuto nelle storiche lande
mafiose ma nella provincia “babba” di Catania. Le province
“babbe”, cioè buone a nulla, erano quelle orientali della Sicilia.
Così come “babbe” nella classif icazione interna alla mafia, erano
le altre realtà italiane: Roma, L’Emilia e Romagna, il Piemonte, la
Lombardia, la Liguria ecc, cioè tutte le regioni verso le quali si era
indirizzata l’emigrazione meridionale. Fino agli anni ’60 la mafia
era stata un fenomeno rurale; si era limitata a controllare le terre
dei baroni e aveva espresso sentimenti antistatuali. In alcune zone
della Calabria, gli ‘ndranghetisti avevano compiuto un tratto di
strada in comune con le organizzazioni contadine: gli uni e le altre
esprimevano una forte rabbia contro i rappresentanti dello Stato e
contro le forze politiche che con lo Stato erano un tutt’uno.
Sarebbe lungo e complicato descrivere la trasformazione delle
forze mafiose, ‘ndranghetiste che da antistatuali si evolvono in
forze alleate del potere e dei partiti che ne sono l’espressione.
Tutto questo avviene a partire dagli anni ’60, in seguito al
trasferimento di enormi risorse economiche verso il Sud e,
soprattutto, in relazione alle integrazioni europee a favore dei
produttori di olio e di agrumi. La ‘Ndrangheta in quegli anni
espelle, con metodi violenti, i vecchi padroni dalle terre (esemplare
è la vicenda della famiglia Cordopatri) e presenta un conto falso e
salato allo Stato e alla Comunità europea. Diventa cittadina,
organizza la speculazione edilizia e, a partire dal 1975, entra con i
propri rappresentanti nei consigli comunali del reggino.
Sempre in quegli anni, lavorando sottotraccia, si insinua tra le
comunità calabresi e siciliane del Triangolo industriale, stringe
rapporti, intese economiche e politiche con i rappresentanti del
potere locale. Il quindicennio berlusconiano coincide con lo sbarco
della finanza mafiosa nelle regioni economicamente progredite ed
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è storia di questi giorni (in seguito alle inchieste della tanto
vituperata magistratura milanese, d’intesa con quella calabrese) la
denuncia e l’arresto (con conseguente sequestro dei beni) degli
esponenti delle cosche in combutta con tanti amministratori locali.
Traiamo la prima conclusione: la maestrina Stefania Craxi che
viene dalle zone “inquinate della Lombardia” che, di certo, ha
sostenuto il sottosegretario Cosentino, espressione di un certo
mondo campano, viene nelle Marche a fare la lezione agli
amministratori marchigiani e ai loro “stili mafiosi”. Ora nessuno può
escludere che anche una Regione come le Marche possa essere
permeabile agli stili mafiosi. Ma si dà il caso che, storicamente,
l’emigrazione calabrese e siciliana abbiano interessato solo di
striscio la regione marchigiana e che solo, dopo il 1980, in
relazione al terremoto dell’Irpinia, ci siano stati trasferimenti
signif icativi di popolazione. In altri momenti ho espresso la mia
preoccupazione per quanto si sarebbe potuto verif icare nelle realtà
non contaminate dalla presenza dei gruppi mafiosi e tuttora
esprimo il mio allarme, da vecchio meridionale che ha conosciuto
da vicino la realtà terribile della mafia, per quanto potrebbe
verificarsi in qualsiasi parte d’Italia.
Se l’on. Craxi è a conoscenza di episodi specif ici di collusione
tra le cosche mafiose e le amministrazioni marchigiane, allora
proceda alle denunce. Altrimenti taccia e si ricordi di ripassare la
storia e la geografia.
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18 maggio 2011 ·
QUELL'INDOVINO DI LA ROCHEFOUCAULD
Come facesse il duca di La Rochefoucauld, nel lontano 1657,
a conoscere che cosa sarebbe successo in Italia nell'ultimo
ventennio, rimarrà per me sempre un mistero.
La lettura del brano pubblicato domenica scorsa da Scalfari
sul suo giornale mi ha stordito. Ecco che cosa scriveva il nostro
indovino:
"L'amore per se stessi quando supera il limite diventa una
perversa passione sia per chi ne è invaso sia soprattutto per gli
altri che egli vuole render suoi soggetti distruggendone
l'indipendenza e trasformandola in amore verso di lui. Se l'uomo
affetto da tale perversa passione si trova al vertice della società,
gli effetti che ne derivano sono ancora più sconvolgenti poiché
ogni equilibrio tra le varie istituzioni viene distrutto ed ogni libertà
confiscata".
Per fortuna dopo la domenica de La Repubblica è venuto il
Lunedì di Milano.
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26 maggio 2011 ·
ABBASSO IL LEADERISMO!
Ascolto in TV la trasmissione in cui si recensisce un libro non
molto tenero nei confronti della Chiesa, nel quale si sostiene che
c'è un crollo verticale delle vocazioni a cui si tenta di rimediare sia
con iniziative di marketing (i monaci svizzeri che selezionano i
nuovi quadri via web) che con il rilancio di figure emblematiche
(Woityla e la sua canonizzazione). Penso che il mondo vivrebbe
meglio se non avesse la fregola di creare miti e leggende.
Semplicemente stupida l'idea di trasformare in reliquia un prelievo
ospedaliero di sangue di papa Woityla (come s'è fatto per duemila
anni con tutti i santi tagliuzzati, smembrati, contesi, trasferiti da un
luogo all'altro del Medio Oriente e dell'Europa). Idiota la semplice
idea di mettere all'asta dentiere di potenti e cappellini di rampolle
reali inglesi. Lo stesso governo degli USA ha avuto paura di
seppellire da qualche parte Bin Laden e di trasformarne i resti in
oggetti di culto. Mi disturba la mitizzazione dei personaggi
trapassati ed ancora di più quella dei personaggi (della politica,
dello sport, dello spettacolo ecc.) viventi.
La mitizzazione della mummia di Lenin e del putroppo lungo
vivente Stalin, ha nuociuto alla causa del comunismo che se non
avesse trovato la nazione pià incartapecorita per affermarsi (la
Russia dei pope, degli zar) avrebbe potuto avere un decorso più
decente. Lo stesso dicasi di Fidel Castro o del campioncino del
liberalismo Silvio Berlusconi, che per il semplice fatto di
sopravvivere alla presa di potere iniziale e di volersi erigere a
icone delle proprie ideologie, hanno ammorbato l'aria di Cuba e
dell'Italia.
Detesto, quindi, tutte le forme di leaderismo (per fermarci in
Italia dal suddetto Berlusconi a Grillo, a Di Pietro, per finire a
Vendola e ad altri leader del centrosinistra. Perché il leaderismo è
la negazione della democrazia, o, meglio, la limitazione dei diritti e
della stessa possibilità di crescita di ciascun individuo. La vecchia
didattica prevedeva il racconto della storia attraverso la narrazione
degli eventi riguardanti i sovrani, le genealogie, gli scannamenti
reciproci di sovrani e cavalieri, duci, führer ecc. George Braudel e
gli storici francesi ci hanno, invece, insegnato che potevamo
apprendere di più leggendo un albero che consultando le
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genealogiae deorum et principum.
E, allora, a costo di passare per populista, vale di più la
conversazione che ieri ho fatto con un falegname sotto casa che le
farneticazioni di tanti politici che, attraverso gli innumerevoli talk
show tentano di convincermi anche a tradire la mia natura. Il
signore che ho già citato, sostiene che se votassi per Pisapia sarei
un uomo senza cervello. Dovrebbero essere per primi gli elettori di
destra a ribellarsi a tale riduzione della politica a cabaret, a
barzelletta.
E' utopia la mia, è fissazione anarchica? Né l'una né l'altra: è
solo voglia di maggiore democrazia di maggiore partecipazione, di
maggiore coinvolgimento di tutti i cittadini.
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4 giugno 2011 ·
MODESTO PARERE PER LA FORMAZIONE DI UNA GIUNTA
COMUNALE
Dopo le fatiche della campagna elettorale vi sono (per i
sindaci e i gruppi politici) quelle per la composizione della Giunta.
E' un momento delicato, importante, perché non ci si può
permettere di sbagliare e di mandare così all'aria gli importanti
risultati raggiunti nel confronto con gli elettori. Chi scrive ha più
confidenza con il vecchio sistema amministrativo (quello in auge
nella prima repubblica) che con l'attuale. Quando il metodo
elettorale venne cambiato, si ebbe l'impressione di assistere ad
una vera e propria rivoluzione del modo di fare politica nei comuni,
anche perché si consentì al Sindaco (vero centro del sistema) di
sganciarsi dalle camarille e dai ricatti dei consigli e di procedere
con speditezza alla formazione delle Giunte che divennero più
stabili, meno legate ai giochi di potere dei gruppi politici. Credo
che i primi dieci anni di esperienza siano stati molto positivi, hanno
fatto emergere nuove classi dirigenti locali ed abbiano reso più
autonomi e più credibili i Capi delle Amministrazione.
Poi, a poco a poco, sono emersi i difetti del sistema: anzitutto
per quanto riguarda la selezione dei consiglieri (il vecchio sistema,
con il gioco delle preferenze permetteva la selezione di una classe
amministrativa più in linea con il lavoro e i programmi dei partiti
politici). Nella moderna competizione amministrativa crescono le
liste e i candidati che non sono più frutto delle selezioni operate
politicamente ma con un duro e spietato lavoro individuale sul
campo: emergono soltanto i portatori di voti, spesso espressione di
ferrate clientele; vengono messi ai margini i gruppi e i candidati più
deboli: donne, giovani, e quanti, pur essendo validi dirigenti politici
non hanno le schiere cammellate a disposizione.
Emerge, così, un personale politico meno navigato
politicamente ma forte di consenso clientelare: spesso i consigli
comunali perdono la competenza e l'autorevolezza antica e
diventano luoghi dove il confronto politico tra maggioranza e
opposizione lascia molto a desiderare.
C'è la sensazione che i veri centri del dibattito politico siano
altri (in primis la Giunta comunale) e che il Consiglio sia una mera
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sede di ratif ica delle decisioni assunte altrove.
C'è da aggiungere che, con il tempo, in molti Comuni si è
proceduto ad un vero e proprio svuotamento (politico) dei consigli,
con la trasmigrazione dei consiglieri eletti in prima battuta verso le
postazioni di comando esterne (Assessorati, Enti comunali ecc.). Il
Consiglio comunale, in questi casi, ha perso ulteriore
autorevolezza ed ha reso politicamente più deboli le maggioranze
consiliari esposte duramente al fuoco nemico (di solito i consiglieri
di minoranza rimangono tutti al loro posto).
Venendo al caso specif ico del Comune di San Benedetto del
Tronto che, come si sa, ha confermato per la seconda volta al
comando il Sindaco Giovanni Gaspari, credo che il destino e
l'operatività
della
nuova
Amministrazione
dipendano,
essenzialmente, dall'equilibrio che si riuscirà a creare tra i vari
momenti amministrativi che io vedo ripartiti in tre grandi blocchi:
anzitutto il Consiglio comunale, poi la Giunta e gli apparati
amministrativi, infine il Sindaco. L'unico blocco definito e
immutabile, è quest'ultimo; gli altri sono variabili e la loro
composizione dipende essenzialmente dal Sindaco e dalle forze
politiche di maggioranza.
Personalmente ritengo che vada mantenuto e rafforzato, con
modesti ingressi, il Gruppo dei consiglieri comunali. Se gli eletti
sono i più forti e i più capaci (o, almeno, i più rappresentativi)
allora è giusto e preferibile (al di là delle sia pur legittime
aspirazioni personali) che essi rimangano nella postazione
originaria e che si battano perché il Consiglio e le Commissioni
consiliari riacquistino la giusta autorevolezza. Il destino di questa
"consigliatura" dipende tutto dalle scelte che verranno compiute in
questi giorni, anche perché le eventuali dimissioni dei consiglieri
non sono reversibili. Il Sindaco e i Gruppi dirigenti dei partiti di
maggioranza (che, a volte, si intrecciano con il gruppo degli eletti)
devono compiere delle scelte, anche dolorose, ben sapendo che
dal rafforzamento del Consiglio comunale può dipendere il
successo dell'eperienza amministrativa. La responsabilità
maggiore, ovviamente, è del Sindaco, dato che, come si diceva
poc'anzi, spesso i dirigenti politici di maggioranza sono pure
consiglieri comunali. Il secondo blocco è costituito dalla Giunta; e,
anche in questo caso il peso e la responsabilità del Sindaco sono
assolutamente preponderanti. Dalle scelte che il Sindaco compirà
(che dovranno, a mio parere, essere assolutamente svincolate
dalle rivendicazioni o dalle richieste di chicchessia) deriverà il volto
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della futura amministrazione.
So bene che la politica è anche un gioco di mediazioni, ma, in
questo momento, la mediazione peggiore e che, per questo, non si
può fare, è quella con le aspirazioni o le ambizioni degli individui.
Sono convinto che, alla fine, quando le decisioni verranno prese,
saremo tutti più tranquilli e più contenti.
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12 giugno 2011 ·
ELOGIO DEL FISCHIETTARE
Lo so, lo so che oggi è possibile ascoltare centinaia, migliaia
di brani musicali, mentre passeggi o corri o stai seduto in
panchina, utilizzando ipod vari e cuffiette. Ma non è la stessa cosa.
Certo, se guardiamo ai risultati, non c'è storia tra il brano
digitalizzato e quello fischiettato. Con un paio di cuffie importanti è
come se ti portassi dietro una filarmonica o una band, mentre la
canzone fischiettata è soggetta a interruzioni, a correzioni a
invenzioni dell'unico artista che esegue e che ascolta. Perché,
nella gran parte dei casi, si fischia (o si fischiava) per se stessi non
per gli altri. Da vecchio fischiettatore posso dire, infatti, che una
cosa è la musica percepita da chi fischietta, altra la musica
percepita da chi ascolta. Chi fischia, infatti, dispone di un
sofisticatissimo sistema di correzione in tempo reale che serve a
rimediare agli errori, ai toni sbagliati, alle note storpiate. Alla fine
l'artista del fischio è convinto di avere eseguito un brano
decentemente, proprio perché ha messo in azione il sistema di
autocorrezione. Un tempo, quando non si disponeva di strumenti
di diffusione della musica (prima ancora della TV o della radio, o
dello stesso grammofono che era, comunque, privilegio di pochi) le
occasioni di ascoltare musica erano ridottissime. A parte il Teatro
dell'opera, riservato a un'élite, c'erano le orchestrine e, soprattutto,
le bande musicali che, in occasione delle feste patronali,
diffondevano anche le arie famose di Verdi, di Bellini, di Rossini, di
Mascagni, di Cilea. Tutti ascoltavamo, nelle giornate di festa, le
arie celebri eseguite dalla Banda dei Carabinieri, da quella della
Polizia (la Metropolitana), della Finanza ecc. A volte
l'autorizzazione ad esibirsi nelle piazze di paese veniva data dai
Comandi centrali e dal Ministero dell'Interno che, poteva negare ai
sindaci "comunisti" l'autorizzazione. Quando la Banda partiva,
calava il silenzio assoluto; i più anziani zittivano i bambini
impertinenti e il maestro poteva miracolosamente dar vita al
concerto. A questa fonte si abbeveravano i fischiettatori i quali
erano in grado di memorizzare intere opere e di restituirle all'aria
per il proprio godimento ed anche per quello degli estimatori. Poi il
monopolio ebbe fine e milioni di macchinette furono in grado di
riprodurre brani di ogni genere. Oggi se vai in piazza, se passeggi
sul lungomare, vedi torme di cuffiettari che consumano
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onanisticamente i motivi sputati dalle macchinette, dai telefonini e
da ogni genere di dispositivi. All'inizio c'era una certa ritrosia, la
stessa che avevano i primi telefonisti con auricolare che temevano
di essere scambiati per squilibrati. Poi l'uso dilagò
impetuosamente in terra, in cielo, in ogni luogo. Ogni tanto scorgo
di lontano un anziano che modula le labbra per fare uscire dei
suoni. Ma è un attimo, appena si accorge che qualcuno lo nota,
chiude la bocca e si ammutolisce. Ma è nei bagni o all'aria aperta,
nei prati o nei luoghi solitari dove si celebra la vendetta del vecchio
fischiatore. E allora si scatena la fantasia, si accavallano le
melodie, riemergono i motivetti che nemmeno troveresti con
google o youtube. E' come quando ripeti le poesie mandate a suo
tempo a memoria; quando ringrazi in cuor tuo i professori cerberi
che ti costrinsero a imparare a memoria l'antologia dei poeti, i canti
della Divina Commedia e, persino, i brani dei Promessi Sposi.
Eppure, di recente, la moderna tecnologia ha riabiltato il
fischiettare, quando con alcune "Apps" per iPhone, Ipad e altri OS
(come SoundHound o Shazam) ha consentito di rintracciare dei
motivi o di definirne i titoli. Vuoi sapere come si chiama quel
motivetto che ti ronza in testa o che hai appena ascoltato alla
radio? càntalo o, meglio, fìschialo e docilmente SoundHound ti
darà il titolo, il nome dell'interprete e ti dirà dove potrai reperirlo a
pagamento o gratis.
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19 giugno 2011 ·
UNA LEGA TUTTA DA RIDERE
Con la Lega, mettiamola sul ridere: anzitutto, Bossi andrebbe
sottotitolato. La gente faceva finta di capire ma, in realtà, non
capiva un tubo. 4 Ministeri al Nord e perché non tutti? Riterrei più
logico il trasferimento dell'intera capitale piuttosto che il
frazionamento degli organi. Chiedere a un calabrese per farsi
un'idea di quel che avviene avendo la Giunta regionale in una città
e il Consiglio in un'altra. Ma chi andrebbe a spiegare la cosa a un
siciliano che dovrebbe impiegare alcuni giorni per andare e venire
dalla capitale? Se la capitale deve essere situata nel punto più
centrale d'Italia, allora facciamo riferimento al mitico birillo del
biliardo del bar centrale di Foligno. Oppure facciamo come i
brasiliani o come gli americani che hanno scelto città marginali o,
addirittura, inesistenti. Una soluzione potrebbe essere quella di
collocarla a L'Aquila. In questo modo prenderemmo due piccioni
con una fava. Oppure facciamo una capitale itinerante: dopo
Torino, Firenze, Roma, potrebbero starci Napoli, Palermo,
Venezia, Milano, Ponte di Legno e, con qualche sconfinamento,
come si fa per il Giro ciclistico d'Italia, San Marino, Siviglia, Tirana
ecc. Pensate quale enorme sviluppo per il turismo, quali movimenti
di massa si determinerebbero. Ultima ipotesi: facciamoci costruire
dalla Fincantieri (che è in crisi e che non sa che cosa fare) delle
enormi navi-ufficio che potremmo schierare a piacimento nei
quattro mari italiani. Oppure attiviamo la secessione della
Valtellina, diamo la buonuscita ai leghisti che scelgono la nuova
patria con Sondrio capitale, con una sola prescrizione: di non
imporre più ai bambini il nome di Roberto che non è solo il nome
dei moschettieri leghisti Maroni, Calderoli, Castelli ma anche una
sorta di acronimo delle città dell'Asse ROma-BERlino-TOkio (mi
scuso con i Roberto che rimarrebbero in Italia).
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6 luglio 2011 ·
C'ERA UNA VOLTA UN PORTO
Quest’anno dalla mia spiaggia preferita non vedrò più
scivolare sull’acqua le enormi navi porta-lego. Erano uno
spettacolo, specie se colte mentre abbandonavano di sera il Porto
di Gioia Tauro e si stagliavano come figurine sullo sfondo delle
fumanti isole Eolie. All’inizio era stata vista come una sorta di
profanazione del mare mitologico di Ulisse e del disgraziato Oreste
che venne inseguito dalle Erinni proprio sino a Taureana, sino a
quello che da lui prese il nome di Portus Orestis. Ma negli anni
precedenti se ne erano viste di peggio, quando si diede inizio alla
eradicazione di migliaia di mandaranci e di ulivi nel territorio delle
“Casette” di Eranova, a due passi dal centro di San Ferdinando.
Allora un immenso territorio venne spianato per potervi
ricavare l’immenso porto che avrebbe dovuto servire il favoloso
Quinto Centro Siderurgico. Quinto viene dopo Quarto che, a quei
tempi era il più grande centro siderurgico d’Italia, a Taranto.
Nell’immaginif ico “Pacchetto Colombo”, dal nome del Presidente
del Consiglio dei primi anni ’70, il Centro siderurgico sarebbe
dovuto essere il “contentino” per Reggio Calabria che aveva perso
il titolo di capitale della Calabria a vantaggio di Catanzaro e
dell’alleata provincia di Cosenza.
Nell’estate del ’70 la Provincia reggina aveva ormai perso
l’innocenza degli anni ’60, quando le elezioni erano feste di
popolo, vissute al suono delle trombe proletarie che cantavano inni
di speranza e di appartenenza. Occasioni per rif lettere sulla
politica, sull’attualità, sulle scelte da compiere, in un clima di festa
e di sagra paesana. Con i fascisti non ci si parlava, i veri nemici
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erano quelli che stavano al governo.
In un anno che doveva essere il 1968 ero a Caulonia per
tenere un comizio elettorale; prima di me parlava da un piccolo
podio a qualche decina di persone, un oratore del MSI, di nome
Ciccio Franco. Con la rivolta di Reggio quell’oratore sarebbe
divenuto un capopopolo, trascinatore di folle, più volte senatore
della destra dei ‘boiachimolla’.
I reggini non considerarono mai come risarcimento valido il
Centro siderurgico da costruire nella Piana del Tauro dove, invece,
l’opera venne accolta con riserva, come occasione per far lavorare
i tanti disoccupati.
C’erano voluti secoli per far crescere i grandi ulivi, decine di
anni per costruire gli aranceti e i mandarineti che lambivano le
coste di Gioia e San Ferdinando. Bastarono pochi mesi per radere
al suolo gli alberi, per scavare il terreno, per spostare la grassa
terra sulle centinaia di camion che la mafia acquisì in poco tempo,
intestandoli a società fittizie, a “ignari” impiegati, professori ecc.
Ricordo la lunga teoria di camion che percorrevano come
formiche le strade della Piana per scaricare, dove possibile, la
terra espiantata per far posto al mare che fremeva quasi per
subentrare.
Per mesi e mesi gli abitanti della Piana respirarono la terra
che volava dai bestioni su gomma; ma resistevano in attesa della
“fabbrica” che avrebbe dato lavoro ai giovani e ai meno giovani
che rientravano dalla Germania.
C’era parecchia gente che credeva sinceramente alle
prospettive offerte dal “siderurgico”; specialmente i socialisti di
Mancini, ma non solo. Quando fu sufficientemente chiaro che non
c’era più la prospettiva dell’acciaio e che in Italia si procedeva pian
piano allo smantellamento delle grandi acciaierie, iniziarono le
grandi manifestazioni per il “siderurgico”, organizzate dalla sinistra
e dal sindacato che reclamavano il pagamento della cambiale
firmata dall’incauto Colombo.
In quegli anni venne costituito il Comitato dei Sindaci della
Piana ad opera di amministratori di vario colore. In una riunione di
amministratori e delle forze sociali, un tecnico che non
rappresentava solo se stesso si alzò e disse con grande
spregiudicatezza: “Tutto ciò che provoca movimento di terra a noi
sta bene”.
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Inutile dire che quando si incominciò a parlare della possibilità
di utilizzare l’area portuale per la costruzione di una grande
centrale a carbone per la produzione di energia, il fronte
incominciò a dividersi. Anche questa volta le sirene della possibile
occupazione suonarono in tutte le direzioni e riuscirono ad
ammaliare molta gente.
Il movimento politico-sindacale fu a lungo indeciso sulle scelte
da compiere. Lo stesso PCI faticò prima di assumere una
posizione contraria alla centrale a carbone. Alla fine prevalse
l’opinione dei comunisti locali che riuscirono a esprimere un netto
no alla centrale.
Veniva posto con chiarezza l’alternativa tra un modello di
sviluppo pienamente in linea con la politica di abbandono e di
sfruttamento selvaggio del territorio e, dall’altra con un progetto di
trasformazione che facesse perno sulle potenzialità e sulle risorse
della Piana e prefigurasse la creazione di un tessuto industriale
compatibile con le sue vocazioni.
Chiuso il periodo carbonifero, si procede, in tempi
relativamente recenti, alla utilizzazione dell’area portuale, secondo
quanto ha raccontato qualche giorno addietro Eduardo Meligrana
(alle cui analisi rimando)
http://www.finanzaecomunicazione.it/admin/junior/la-navenon-va-piu-in-porto-il-dramma-di-gioia-tauro/
Alcune considerazioni finali.
Il porto, come abbiamo visto, nasce all’origine al servizio di
quello che sarebbe dovuto diventare il Quinto centro siderurgico
d’Italia. Successivamente, esaurita questa ipotesi e svanita (per
fortuna) l’altra relativa alla creazione di una centrale a carbone, si
pensa alla utilizzazione del porto come terminale del Mediterraneo
al servizio dell’area italiana ed europea. La cosa funziona bene
fino a quando non nascono altre alternative meno onerose per il
transhipment. Perché questo è potuto accadere? Una delle cause
più serie è da addebitare alla inadeguata rete di trasporti da e per
la Calabria sia su rete ferroviaria che su gomma. E’ una verità
semplice ed elementare, al di là degli altri ostacoli (presenza
mafiosa, scarsa produttività ecc.).
Commenti
Francesco Politi C'è stata pure l'Isotta Fraschini, tante
488 nate esclusivamente per vivere pochi anni e poi dissolversi nel
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vento e che alla fine hanno fatto solo gli interessi di chi è stato
l'artefice oppure il tramite per la loro realizzazione e foraggiato le
industrie del Nord che hanno effettuato la fornitura delle
attrezzature. Adesso in quell'area c'è un termovalorizzatore che
sta per essere raddoppiato, un megarigassif icatore da 12 miliardi
di mc di gas che potrebbe nascere e nessuna certezza.6 luglio
2011 alle ore 22.18 ·
Maria Franco Grazie della nota, Michele. Non ho
competenze economiche, ma penso che il Porto di Gioia avrebbe
potuto, anche senza il V Centro Siderurgico, un grande snodo
commerciale, se la Calabria avesse avuto adeguate strade,
ferrovie ecc. ecc. E' una grande tristezza questo continuo spreco
di energie, di soldi, di progetti che non resistono nel tempo, che
magari sopravvivono, vivacchiano, ma non creano movimento
reale...6 luglio 2011 alle ore 23.34 ·
Nicoletta Allegri dire di essere sconfortati appare quasi
inutile!!! da qualsiasi parte del mondo attorno a qualsiasi
porto,anche il più microscopico,c'è un pullurare di attività,
indotti...ecc.solo a gioia tauro non c'è praticamente nulla....!!!7
luglio 2011 alle ore 0.00 ·
Gianni Agostini Grazie Michele per ciò che illustri in maniera
cosi limpida. Per quel poco che ho letto credo che sia mancata
come al solito una visione progettuale unitaria e condivisa.7 luglio
2011 alle ore 9.17 ·
Michele Maduli Caro Gianni, il porto
nato...per caso. Per
caso é diventato un grande terminal. I governi, nazionale e locale,
non sono stati assolutamente in grado di sfruttare questa grande
opportunità. Una classe politica all'altezza e intelligente avrebbe
completato la A3 in un anno e costruito l'alta velocità in due.
Invece hanno tutti mangiucchiato in un piatto che prima o poi, date
le condizioni, si sarebbe svuotato. La Calabria può chiudere
bottega ed affidare alla 'ndrangheta spa il compito di curatore
fallimentare. D'altronde, anche se non è sottoposta al giudizio
delle società di rating, dimostra di sapere gestire con efficienza la
Val di Susa, Milano e l'Expo, Roma e i suoi bar, Duilsburg ecc.ecc.
7 luglio 2011 alle ore 12.23 ·
Gianni Agostini Sono perfettamente d'accordo con te!!!!!!7
luglio 2011 alle ore 16.34 ·
Antonino Maria Calogero Grazie Michele mi hai fatto
emozionare nel rivivere le pagine più recenti della storia del Porto.
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sono stato più toccato nel sentirmi coinvolto nei tuoi ricordi più
lontani che ho sentiti miei pur non avendoli vissuti E' LA STORIA
DEL POPOLO DELLA PIANA CHE HA INVESTITO OGNI
SPERANZA ...OGGI NON SI PUO' ACCETTARE DI FAR MORIRE
L'UNICO SUCCESSO VERO DELLA NOSTRA TERRA' !
67
20 luglio 2011 alle ore 10.21
UNA BIBLIOTECA DI STORIA LOCALE- PRESENTAZIONE DI
"CRONACA DI UNA STRAGE ANNUNCIATA"
Da vecchio studente di storia conosco l'importanza dei
documenti, per questo ho cercato, finché mi è stato possibile, di
conservare tutta la documentazione che mi passava per le mani
(libri, articoli, documenti amministrativi, politici, manifesti, volantini
ecc.). C'è un secondo livello di documentazione locale ed è
costituito dai prodotti semi-lavorati, come possono essere i libri, le
memorie, scritti da chi è stato testimone dei fatti o ha tentato di
ricostruire, su base locale, una prima versione degli accadimenti.
La proposta che lancio è di andare al ricupero ed alla sistemazione
di tutto il materiale documentale che riguarda la Regione Calabria
(o altre regioni o aree del Paese), in maniera sistematica, facendo
leva sui luoghi già esistenti della cultura locale: bilioteche, scuole,
fondazioni, comuni ecc. Penso di dar vita ad una pagina su
Facebook e attendo adesioni, suggerimenti, proposte.
68
Intanto, mi permetto di proporre alla vostra attenzione un
libretto che io scrissi, quasi a caldo, in seguito ai gravi fatti di
Taurianova del 1991: cinque morti ammazzati in un giorno. I morti
complessivi, nell'arco di pochi giorni furono nove, se vogliamo
aggiungere i poliziotti della scorta di Martelli e di Scotti. Fu in
seguito a tali fatti che il Parlamento varò la normativa sugli
scioglimenti degli enti locali per ragioni di mafia. Inutile aggiungere
che che quello di Taurianova fu il primo consiglio comunale sciolto
per mafia. Vi propongo, di seguito, l'introduzione:
Michele Maduli, Cronaca di una strage annunciata, Il caso
Taurianova (1986-1991)
Il 2 maggio 1991 ha inizio la danza macabra.
Il primo a cadere, nel salone del barbiere, sotto i colpi del
fucile a pallettoni, è Rocco Zagari, consigliere comunale della
D.C., ufficialmente infermiere presso la locale USL. Aveva
ereditato lo scettro del comando da Domenico Giovinazzo, il boss
di Jatrinoli ucciso, insieme con Vincenzo Rositano, il 22 maggio
del 1990 a Polistena.
Il 3 maggio tocca agli avversari di Zagari. Cadono sotto i colpi
della lupara Pasquale Sorrento e poi, nel pomeriggio, i due fratelli
Giovanni e Giuseppe Grimaldi, quest’ultimo padre di Giovanni, che
è in carcere e non può essere raggiunto facilmente. La sera viene
ucciso Rocco Laficara, garzone di negozio, fratello di due
pregiudicati.
Non è finita. Domenica 5 maggio, mentre piangono i parenti, i
figli di Giuseppe Grimaldi, Rosita e Roberto sono gravemente feriti
da alcuni killer travestiti da carabinieri.
La stampa nazionale dedica alla strage solo poche righe. Mi
tengo al corrente della situazione, sul filo del telefono,
comunicando con i miei familiari che sono rimasti in paese. Le
notizie, fornitemi quasi in diretta, s'intrecciano con gli spezzoni
d'informazione del televideo e dei telegiornali.
Indignato e preoccupato per il silenzio della grande stampa
spedisco un fax al giornale la Repubblica nel quale rilevo che
“cinque morti ammazzati in 24 ore per un comune di 15.000
abitanti, come Taurianova, equivalgono a 666 morti per Milano, o a
tre-quattromila, sempre in un sol giorno per New York”. Dopo
avere aggiunto che nell’ultimo anno sono già state uccise trenta
69
persone, ricordo che i consiglieri comunali d'opposizione della
cittadina “si sono dimessi esprimendo fortissime riserve sulla
legittimità di un consesso rinnovato nel 1988...in un clima di
terrorismo politico mafioso”.
La lettera viene pubblicata quando il caso Taurianova è ormai
esploso. Un giornale locale, infatti, ha rilevato un particolare
raccapricciante: i killer, dopo aver tranciato di netto la testa al
povero salumaio Grimaldi, l’hanno usata per compiere macabri
giochi di pistola.
La grande stampa e la televisione riprendono e amplif icano la
notizia; spostano i rif lettori della cronaca sulla sperduta località
calabrese.
***
Per la prima volta sono costretto a seguire le drammatiche
vicende della mia città da lontano.
Il ricordo corre al 1977, quando, in un casolare di campagna
nei pressi di Taurianova, al termine di uno scontro a fuoco,
muoiono due carabinieri e due mafiosi della famiglia Avignone, la
stessa alla quale appartiene il boss Giovinazzo, ucciso poi nel
1990.
Erano venute la grande stampa e la televisione; anche i
giornali stranieri, inglesi, francesi, s'erano interessati al summit
mafioso di Razzà ed avevano catapultato in Calabria i loro
corrispondenti.
Tante volte avevo ricevuto gli inviati della stampa ed avevo
illustrato loro la situazione difficile e contraddittoria della città.
Negli anni ‘70 Giuseppe Marrazzo aveva girato un documentario
sugli Intoccabili di Taurianova ed aveva visto giusto, poiché i
protagonisti del suo racconto sarebbero rimasti fermi ai loro posti
fino a qualche anno addietro. [1]
Gli inviati erano ritornati nel 1986, quando la maggioranza dei
consiglieri comunali aveva dovuto occupare l’aula consiliare per
vedere riconosciuto il proprio diritto a presentare le dimissioni.
Erano venuti, poi, nel 1988, durante e dopo le elezioni che
avrebbero visto il trionfo della mafia e poi l’arresto del capo della
DC, Francesco Macrì.
70
Questa volta, però, la strage di Taurianova riesce a tenere
desta per molto tempo l’attenzione dell’opinione pubblica italiana
che non s'accontenta più di poche e scarne notizie. Intervengono
gli editorialisti. Scrive Dacia Maraini sull’Unità del 6 maggio,
nell’articolo di fondo dal titolo "Quella testa presa a calci", “Troppe
immagini raccapriccianti ci hanno raggiunti in questi ultimi tempi
dal nostro sognante e furente Sud, di torture, squarciamenti,
atrocità senza nome. Non si risparmiano i bambini e ora, neanche i
morti” e poi continua “In tutti i paesi del mondo ci sono degli
individui che uccidono e torturano...Abbiamo permesso loro di
infiltrarsi nelle amministrazioni delle città, di spadroneggiare,
legalmente e illegalmente, in ogni parte d’Italia. E l’esempio, che è
la cosa essenziale, l’esempio che viene dall’alto non è purtroppo
limpido. Ci sono troppi intrecci, poco chiari, troppi silenzi,
ambiguità, menzogne...”
Su la Repubblica del 7 maggio, nel fondo intitolato I tagliatori
di teste, Corrado Augias annota: “C’è nella mattanza di Taurianova
un connotato politico, come se i criminali avessero detto: badate a
voi, nel nostro territorio queste sono la legge e la pena vigenti per
chi sgarra”.
“Il nemico è interno” scrive sul Manifesto dell’otto maggio,
Giuseppe Di Lello il quale poi ricorda come basterebbe “aver
presenti le due mappe, quella elettorale e quella criminale, per
capire come, di là dalle due parole, tra i poteri delle due aree non
vi sia antagonismo ma una chiara complementarietà”. Lo stesso
giorno, sul quotidiano la Repubblica il ministro della giustizia,
Claudio Martelli, denuncia d'avere “riscontrato latitanze del 20/30
per cento” negli uffici giudiziari. “Non si può fare finta di svegliarsi
adesso -rileva la Voce repubblicana- perché mentre la situazione
si deteriorava, coloro che compongono l’attuale maggioranza
hanno votato i provvedimenti di amnistia, di indulto, di concessione
di benefici anche a detenuti responsabili di crimini gravissimi”.
Il 9 maggio il ministro Martelli propone lo scioglimento del
Consiglio comunale di Taurianova “per evidente inquinamento
mafioso”.
Al Governo e al ministro dell’Interno Scotti, lo stesso giorno,
rispondono polemicamente i vescovi italiani che sono stati messi
sotto accusa: “In Calabria noi facciamo il nostro dovere, il Governo
no”, e a Taurianova il parroco Don Francesco Muscari si fa
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fotografare con un manifesto rivolto ai mafiosi: “Vi conosco,
fermatevi maledetti”.
Giorgio Bocca (la Repubblica 9.5.1991), dopo avere escluso
che “i partiti di governo vogliano davvero colpire, scardinare un
meccanismo elettorale, un'organizzazione del consenso basati
sulla complicità dei partiti padroni della finanza pubblica con la
malavita che controlla voti e territorio” conclude: “se al sud non si
muovono gli onesti, se non ci pensano i cittadini, la mano nera
della Mafia continuerà a crescere”.
Sullo stesso giornale, il giorno dopo, Guido Neppi Modona
rincara la dose: “Secondo un recentissimo sondaggio, in caso di
elezioni anticipate, nelle regioni del mezzogiorno DC e Psi sono
accreditati di un clamoroso successo elettorale, tale da assicurare
la maggioranza assoluta. Quei voti provengono -è inutile storcere il
naso- anche dalle zone sottoposte al controllo territoriale della
mafia, ed in questo confuso crepuscolo della nostra democrazia le
esigenze elettorali passano, come è noto, davanti ad ogni
valutazione dell’interesse generale del paese”.
Sempre il 10 maggio viene pubblicato il testo del rapporto
riservato dall’Alto Commissario per il coordinamento della lotta
contro la mafia, Domenico Sica, sul governo delle cosche a
Taurianova (vedi appendice). Il sindaco della città, Olga Macrì,
riesce solo a replicare “Qui la mafia non esiste” (La Repubblica
10.5.1991).
Ma l’articolo di fondo che mi colpisce di più è quello di
Giuliano Zincone sul Corriere della Sera dal titolo “Calabresi,
ribellatevi al boss”. E’ vero, qualche giorno prima alla
manifestazione indetta dalle donne contro la mafia a Taurianova
sono presenti solo qualche centinaio di persone, in massima parte
donne e ragazzi delle scuole medie. Ma il momento per scendere
in piazza non è dei migliori.
Ad ogni modo non è vero che la Calabria, i calabresi di
Taurianova non abbiano mai protestato contro la mafia. L'hanno
fatto, inascoltati per decenni.
***
Forse è proprio quest’ultimo intervento di Zincone che mi ha
spinto a riguardare tra le mie carte, per ripercorrere le tappe di una
72
battaglia iniziata negli anni ‘60.
Ho voluto limitare l’ambito d’indagine al periodo 1986-1991:
dal momento in cui la DC di Taurianova perde il monopolio del
potere ed è costretta a subire l’assalto dei boss che vogliono
contare di più nella vicenda amministrativa, alla strage del maggio
1991, quando la cittadina balza agli onori della cronaca nazionale
ed anche internazionale.
Le domande alle quali tento di rispondere vertono
sostanzialmente sulle cause che hanno determinato la caduta di
un’intera comunità sotto il controllo della mafia; sulla responsabilità
di quanti hanno tollerato o favorito con il loro colpevole silenzio o
con l’aiuto più o meno esplicito, l’ascesa delle forze mafiose; sulla
possibilità che certe realtà possano essere sottratte al controllo
delle organizzazioni criminali e che vi si possa instaurare o
ristabilire il potere dello Stato.
Le risposte sono tutte lì, nei disperati appelli che tanti di noi
lanciavano dalle pagine dei giornali, dai convegni, dai consessi
elettivi. [2]
Una democrazia può anche tollerare l’esistenza di corpi
estranei o malati nel proprio tessuto; quello che, però, non può
consentire è che tali cellule cancerose permangano, si
moltiplichino e che nessun chirurgo intervenga per tagliare, per
limitare i danni, per curare.
Il dramma esploso nel ‘91 a Taurianova era stato previsto con
notevole anticipo da quanti vivevano in quella realtà ed avevano
modo d'osservare l’evoluzione del male.
La rottura della legalità democratica era iniziata in modo
manifesto nel 1976, all’epoca della latitanza, durata sei lunghi
mesi, del boss locale democristiano, coinvolto nello scandalo
dell’Antimalarico reggino. [3]
Gli organi dello Stato, i dirigenti di quel partito che aveva
responsabilità di governo, non solo non fecero nulla per ostacolare
il ritorno alla politica di un esponente che intanto andava
accumulando decine di procedimenti giudiziari, ma lo difesero
accanitamente dagli attacchi degli avversari, anzi lo promossero a
nuovi incarichi politici e amministrativi.
Tutto l’establishement democristiano dai Vincelli ai Ligato, ai
Misasi, ai De Mita, ai Forlani, fece quadrato attorno ad un gruppo
73
di potere locale ormai politicamente alle corde, consentendogli di
resistere, di sopravvivere anche se a costo di gravissime
compromissioni.
Il patto stipulato da questi desperados locali assomiglia a
quello che i commercianti in difficoltà sono costretti a contrarre con
le bande degli usurai: il debito da pagare diventa sempre più
pesante; è davvero impossibile ricuperare il terreno perduto, la
conclusione spesso inevitabile consiste nello svendere la propria
attività agli strozzini.
Fino all’inizio degli anni ‘70 la ‘ndrangheta locale era rimasta
confinata nel rione Jatrinoli, occupata a gestire i piccoli affari della
campagna, poco interessata alle vicende politiche cittadine.
I mutamenti che stavano intervenendo nel Mezzogiorno e
nella Piana, toccavano in modo marginale la vecchia mafia locale
che, nei quartieri in cui contava qualcosa, lasciava l’elettorato
sostanzialmente libero di votare per la DC o per il PCI.
All’epoca del siderurgico nuovi protagonisti irrompono nel
gioco tradizionale delle cosche mafiose e ne mutano
profondamente abitudini e aspirazioni.
Tale processo di trasformazione è efficacemente illustrato
nella sentenza emessa dal Tribunale di Palmi sulla strage di Razzà
del 1977.[4]
Nelle elezioni amministrative del 1979 il Partito comunista
subisce un vero e proprio salasso di voti nei quartieri
tradizionalmente controllati dalla mafia e passa da cinque a tre
consiglieri: è il segnale inequivocabile che quest'ultima si è ormai
apertamente schierata. In molti comuni della Piana, d’altronde, i
mafiosi sono entrati nei consigli comunali già nelle elezioni del
1975.
Quando, nel 1988, si vota per rinnovare quel consiglio
comunale che poi nel 1991 sarà sciolto per motivi di mafia, questa
è divenuta ormai soggetto politico e condiziona pesantemente ogni
aspetto del vivere civile, dell’economia, della società.
Essa ha sciolto l’amministrazione comunale precedente della
quale facevano parte anche comunisti e socialisti ed ha dettato le
nuove regole per la politica locale.
Ai consiglieri di sinistra eletti in quel consiglio non resta altro
74
che protestare rif iutandosi di riconoscere la legittimità democratica
di un consiglio eletto in un clima d'intimidazione, di minacce, di
violenza sociale.
Le richieste di scioglimento, gli appelli alle istituzioni statali,
agli stessi dirigenti della DC nazionale perché intervengano per
porre fine ad una situazione molto pericolosa, cadono nel nulla.
Alla fine del 1990 l’opposizione formalizza le dimissioni dal
consiglio comunale e lascia sola la DC a governare, fino al tragico
maggio del 1991, quando la testa mozzata del povero Grimaldi
non sveglierà bruscamente dal sonno i poteri dello Stato e
un’opinione pubblica spesso distratta.[5]
***
Ma nel libro si parla anche d’altro; di come, ad esempio, sia
svanito il sogno di poter cambiare la Piana di Gioia Tauro e la
Calabria; si parla delle responsabilità dei tanti ascari meridionali
che hanno accettato il compromesso politico in base al quale, a
partire dagli anni ‘60, al Mezzogiorno è stato consentito di non
morire, di sopravvivere. Tutto questo grazie alle provvidenze della
Cassa; ai sussidi erogati in vario modo (pensioni, assegni di
disoccupazione, integrazioni comunitarie), alle illusioni tante volte
fatte balenare con il Centro siderurgico e le tante cattedrali nel
deserto, ormai sconsacrate. La contropartita era che i meridionali
non dessero fastidio, se ne stessero buoni buoni, non rompessero
l’anima e votassero per i partiti di governo.
E la mafia? Anche per la mafia, passata dall’opposizione
antistatuale degli anni ‘40 e ‘50, alla collaborazione attiva, c’è
stato un ruolo da svolgere: in molti casi è rimasta a collaborare in
ombra, in altri ha debordato pretendendo di sostituirsi pienamente
alla classe politica tradizionale.
Le notizie che mi giungono dalla Calabria, lasciano pensare
che nulla sia cambiato dopo tangentopoli e che nuovi equilibri si
siano venuti a creare tra gli interessi mafiosi e le nuove forze
politiche che hanno occupato il vuoto lasciato dai vecchi partiti
ormai scomparsi.
75
***
L’unica nota positiva è costituita dal fatto che nella vecchia e
sgarrupata Taurianova si è insediata nel 1993 un’amministrazione
guidata da un sindaco del PDS, l’ex senatore comunista Emilio
Argiroffi.
E’ stata una vera e propria vampata di novità, un desiderio di
liberazione covato per tanti anni, che ha spinto oltre il 60% della
popolazione -in un momento di vero e proprio interregno, poiché la
DC era scomparsa e i boss mafiosi erano in galera- a votare in
modo assolutamente inedito.
Nelle elezioni successive, però, gli antichi rapporti di forza
sono stati ristabiliti e i vecchi gruppi dominanti sono riemersi in
forme e sembianti diverse.
76
L’ultimo capitolo di questo libro è intitolato “Tertium non datur”.
Sull’onda dell’emotività accumulata dopo i drammatici fatti del
1991, forse con una radicalità eccessiva che, pure, traeva alimento
dalla mia vicenda personale, affermavo:
“Che dire ai tanti giovani incolpevoli che ancora non sono stati
corrotti, appestati dall'aria malefica che grava sulla città? Che non
vale proprio la pena di vivere a Taurianova se poi il loro ruolo
dovrà ridursi a quello di portatori d'acqua, di masse clientelari a
disposizione dei padroni e dei padrini di turno.
O lottare (con scarsissime speranze di successo) o andare
via: tertium non datur!”
Il limite della posizione espressa in quelle circostanze
drammatiche non consiste tanto nel suo pessimismo di fondo
quanto, piuttosto, nella riduzione, sia pure involontaria, del
problema della mafia a fatto locale.
Erano quelli momenti difficilissimi, in cui di lotta alla mafia non
si voleva nemmeno parlare; gli anni, tanto per intenderci, in cui si
andava consumando il dramma del pool di Palermo, dei giudici
Falcone e Borsellino.
Certo, dopo la strage di Capaci lo Stato è riuscito ad infliggere
colpi molto pesanti alla mafia. Merito delle forze di polizia ma
anche del clima unitario che si è venuto a determinare nel Paese
dopo l’uccisione dei magistrati siciliani.
Quello che manca nella battaglia contro la mafia è, non solo,
la continuità dell’azione, ma anche l’ampiezza del fronte di lotta.
E’ importante che le forze politiche non si dividano sul terreno
della mafia e che non cedano alla facile tentazione di allearsi con
essa al fine di acquisire posizioni di vantaggio nei confronti
dell’avversario. La vicenda, minore, ma non per questo meno
signif icativa, della mia città è lì a ricordarcelo.
Ma è indispensabile che tutti gli italiani, anche quelli che
abitano al di sopra del Garigliano, si convincano della necessità di
combattere il sistema mafioso.
Certo, è importante che i magistrati e le forze di polizia,
continuino a fare il loro dovere; che i cittadini del mezzogiorno
combattano la loro battaglia in difesa della democrazia. Ma a nulla
vale tutto questo se poi la mafia continua a tessere allegramente le
77
proprie trame politiche, economiche, finanziarie fuori della Sicilia e
della Calabria.
Non si è ancora creato nel Paese un clima analogo a quello
che si conobbe ai tempi del terrorismo. Allora le morte eccellente
di uomini come Moro servì a far comprendere quanto fosse
insidioso il germe di questa mala pianta. La lunga sequela di
cittadini, di magistrati, di uomini politici caduti sotto il piombo
mafioso non è stata ancora sufficiente a far maturare una
coscienza collettiva contro il fenomeno mafioso.
Nonostante tutti i bei discorsi, la preda dei voti meridionali è
troppo appetibile. Da Giolitti ad Andreotti ci si è turati il naso ma si
è trescato con le cosche mafiose. Anche la seconda repubblica
non sembra poi così insensibile al richiamo e al fascino del
compromesso mafioso, e tutto questo nel solco della migliore
tradizione politica italiana. S. Benedetto del Tronto, Giugno 1995
Note
[1]Con lo scioglimento del consiglio comunale di Taurianova,
per motivi di mafia, il clan Macrì scompare dalla scena politica. Il
maggiore rappresentante, Francesco, condannato a piú riprese,
sta scontando una pena detentiva.
[2] Le occasioni per denunciare i fatti non sono poi molte, se si
considera che l’unico quotidiano di peso esistente in Calabria, la
Gazzetta del Sud, è su posizioni conservatrici ed ignora, o quasi,
le posizioni della sinistra. Tolto il breve periodo (1980-82) in cui
Paese Sera stampa una pagina regionale, per gli esponenti della
sinistra non c’è la possibilità di esprimere le proprie opinioni.
Rimangono i periodici locali, come questacittà e Cittanuova,
davvero inadeguati a rappresentare le posizioni di un largo arco di
forze politiche che in Calabria rimangono spesso senza voce.
[3] Lo Sterminal concentrato liquido, acquisito in enormi
quantità dall’Ente presieduto da Macrì, era in realtà solo acqua
sporca.
[4]Saverio Mannino, La strage di Razzà, Ed.Dimensione 80,
1983
78
[5]Francesco Misiani, Per fatti di mafia, Ed. Sapere 2000,
1991. Cfr. Il cap. “Mafia, politica ed appalti a Taurianova, p.155
..........................................................
Chi fosse interessato, potrà chiedermi (lasciandomi il suo
indirizzo email) il testo in formato PDF. Provvederò a inviarlo per
posta elettronica,
Per quanti (anche in relazione al discorso prima avanzato
sulla costituzione di biblioteche locali) fossero interessati al libro su
carta, fornisco l'indirizzo presso il quale reperirlo:
http://www.lulu.com/product/a-copertina-morbida/cronaca-diuna-strage-annunciata/16295222?
productTrackingContext=search_results/search_shelf/center/2
Commenti
Maria Franco molto interessante il testo; condivido la
proposta di costituzione di biblioteche locali
20 luglio 2011 alle ore 12.02 ·
Giovanni Pecora Carissimo Professore, leggere i tuoi appunti
ed i tuoi ricordi ha scatenato in me una tempesta di sensazioni,
visto che anche io ho vissuto (in parte ed indirettamente) quegli
anni ed ho conosciuto i protagonisti citati.
Leggerò volentieri il resto del racconto, se vorrai inviarlo
anche a questa email su Facebook.
L'idea di una biblioteca di storia locale è ottima ed importante.
Mi permetterei solo di suggerirti di non pensare troppo al cartaceo
e più al web.
La nostra terra ha bisogno di prendere coscienza della sua
storia per cercare di predisporsi ad un futuro migliore e possibile.
20 luglio 2011 alle ore 19.41 ·
Michele Maduli Carissimo Giovanni, ti invio con piacere il
testo del mio libretto scritto quando ancora i ricordi erano vivi.
Quanti, come noi, hanno conosciuto i mali della prima Repubblica,
sono oggi in grado di comprendere meglio i guai della seconda.
Spero che il progetto di dare vita ad una biblioteca di materiali per
la conoscenza piena delle storie locali, possa andare avanti. Molte
volte siamo noi stessi a scartare e a cestinare documenti che,
invece, andrebbero messi a disposizione di quanti vogliono capire
79
che cosa è realmente successo nelle realtà locali (ricordo, a
proposito, una tua polemica sulla sintesi operata da Lucio Villari
nel suo ultimo libro sull'Unità d'Italia). Sono d'accordo con te sulla
opportunità di utilizzare sino in fondo, in modo intelligente, il web.
C'è un livello, però (mi riferisco alle carte, ai faldoni difficilmente
trasferibili in digitale) che rimane per forza di cose nel cartaceo. Di
qui la necessità che alcuni volenterosi si facciano carico dei lavori
preliminari che consentano agli storici di cose locali (e non solo) di
utilizzare una base di dati più ampia. Ho pure io qualcosa in serbo
che dopo le vacanze porterò a conoscenza dei nostri amici. 20
luglio 2011 alle ore 20.52 ·
Pasquale D'Agostino Dobbiamo accontentarci della tua
presenza culturale da lontano. Manca la tua presenza fisica in
questa Calabria che si va desertif icando, Scopelliti e Berlusconi
imperando. 22 luglio 2011 alle ore 15.29 ·Pasquale D'Agostino
Tu eri la prosa e ed Emilio era la poesia di Taurianova e della
Piana. Un abbraccio 22 luglio 2011 alle ore 15.30 ·
Pasquale D'Agostino Ma tu non sei stato allievo di Villari? 22
luglio 2011 alle ore 15.33 ·
Michele Maduli @pasquale, cerco di rimediare ritornando,
almeno una volta l'anno (da ieri sera sono in Calabria). Quello che
tu rimarchi, mi angustia; ma è un problema che tocca tantissimi
calabresi che, come me, sono andati via. Affondi la lama
ricordandomi il sodalizio con Emilio Argiroffi, un vero poeta che
riusciva ad affascinare anche gli stupefatti avversari democristiani
in quel consiglio dove siamo stati fianco a fianco per un quarto di
secolo. E' vero, sono stato allievo di R. Villari e mi sono laureato
con lui, con una tesi su G. Filangieri. Ma come fai a ricordare tutte
queste cose? Affettuosi saluti.22 luglio 2011 alle ore 20.30 ·
Domenico Luppino Ho letto il testo con molta attenzione e
l'ho trovato molto interessante. Ma altrettanto interessante mi pare
la tua proposta di costituire delle biblioteche locali. Voglio
augurarmi, soprattutto, di poter leggere storie e racconti di uomini
e donne da poco, produttori di sangue e terrore, che niente è, al
contempo, tutto hanno dato per determinare i destini di questa
terra. Sono loro, purtroppo, i protagonisti della nostra storia. Le
storie degli altri, gli esempi edif icanti, di quelli che hanno sollevato
lo sguardo e per questo sono morti ammazzati o sono stati
costretti ad andare via e, più semplicemente, ma non meno
importante, la gente comune, quella costretta per generazioni e
vivere con la testa e lo sguardo rivolti in basso, dovranno essere e
80
risultare un ulteriore elemento rafforzativo per evidenziare la
crescita esponenziale dello strapotere 'ndranghetista. Sarà bene,
dunque, raccontare e raccogliere tutto, ma ancora di più sarà bene
raccontare e parlare delle tante storie sconosciute, che molti di noi
figli di queste contrade conoscono e non hanno mai superato il
limite del coraggio o, in certi casi, del pudore per raccontarle.
Storie poco o per nulla conosciute, le più inconfessabili e proprio
per questo, forse, le più terribili. La Calabria, ed in particolare la
provincia di Reggio Calabria degli ultimi cinquanta anni, è stata
caratterizzata più da eventi che hanno seguito il loro corso, senza
che nessuno se ne interessasse e, quindi, finiti nel dimenticatoio,
che da storie e fatti conosciuti. Sono stati molti di più i Consigli
Comunali " costruiti " o " sciolti " dalla 'ndrangheta, che quelli
messi in piedi dalle regole della democrazia o sciolti dalle norme
dello Stato democratico. Mi auguro, dunque, che la tua
interessante proposta possa avere un seguito, da parte mia tutta la
disponibilità possibile.
24 luglio 2011 alle ore 10.12
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26 agosto 2011 alle ore 21.21
RICORDANDO EMILIO ARGIROFFI
Qualche giorno addietro il giornale online Zoomsud di Aldo
Varano ha pubblicato un ricordo di Emilio Argiroffi scritto alcuni
anni addietro da Adele Cambria. Proprio quest'estate, in un
incontro estemporaneo con i vecchi compagni di Taurianova
nell'antica sede del PCI, ho manifestato l'intenzione di proporre al
Sindaco della città di voler degnamente ricordare il nostro illustre
concittadino Emilio Argiroffi che, oltre ad essere stato dirigente e
senatore del PCI ha ricoperto l'incarico di Sindaco di Taurianova.
Non parlo soltanto di un discorso commemorativo ma di qualcosa
di più manifesto e duraturo quale l'intitolazione di un luogo della
città.
Emilio Argiroffi era nato in Sicilia, a Mandanici, ma ha vissuto
la parte fondamentale della propria esistenza, come medico,
intellettuale, poeta, dirigente politico, nella nostra città. La
proposta parte da chi, come me, gli è stato a fianco, per un quarto
di secolo, nel Consiglio comunale di Taurianova, nei luoghi della
cultura e della politica, in un rapporto autentico, non privo di
momenti di tensione, ma sempre alimentato dalla passione
comune per la crescita civile e culturale delle nostre genti.
Nell'invitare le forze politiche, le forze vive della città a voler
sostenere questa proposta, ritengo utile ripubblicare quanto ebbi a
scrivere in memoria di Argiroffi in occasione della prima festa
dell'Unità di Taurianova svoltasi dopo la sua morte.
IIN RICORDO DI EMILIO ARGIROFFI
lI medico dei braccianti
Emilio Argiroffi venne dalla sua Mandanici a Jatrinoli nei primi
anni ’50 e divenne subito il medico delle raccoglitrici d’ulive, dei
braccianti diseredati.
Quando il medico era una persona rispettabile che passava il
tempo libero al circolo e che curava solo la gente che aveva i soldi
o le cambiali per pagare, Emilio Argiroffi apparve come un diverso
che curava anche gli indigenti e che, soprattutto, parlava ai suoi
pazienti trattandoli da esseri umani. Le donne e i braccianti di
82
Jatrinoli che negli stessi anni seguivano le indicazioni politiche di
Falleti, adesso, per la prima volta, avevano la possibilità di
raccontare la propria vita a questo strano giovane dai modi gentili,
che aveva la pazienza di ascoltarli e di curarli.
In quegli anni conobbi anche io il giovane medico Argiroffi e
rimasi colpito, oltre che dei suoi modi anche della personalità
complessa, degli interessi culturali e artistici che in lui si agitavano
e che spesso venivano fuori in modo prorompente attraverso i
disegni e le poesie. Ma era soprattutto la parola che mi
affascinava. Ho ritrovato in un libro di Argiroffi una sua dedica “A
Lino Maduli che ritrovo vicino soprattutto nell’uso della parola
come arma rivoluzionaria contro la violenza…”.
Le donne di Jatrinoli. Gli asili-nido.
In quelle case basse di Jatrinoli, nelle tristi abitazioni dei
braccianti che vivevano la loro grama esistenza nell’unica stanza
dove coesistevano il bagno, la cucina e il letto, il giovane medico
conobbe sul serio la vita, che non era più soltanto quella dei
salotti, dei libri e della bella gente, ma anche quella degli umili, dei
bastonati, dei morti di fame.
83
In quegli anni mi ritrovavo spesso tra le donne del popolo che
frequentavano lo studio medico di Emilio Argiroffi, nel cuore
popolare di Jatrinoli. Quei visi, tristi e allegri, scavati, sofferti
raccontavano al medico non solo i propri mali, ma anche la propria
vita, le proprie angosce. Lo studioso raccoglieva i dati, metteva le
notizie l’una dietro l’altra e faceva venire fuori un racconto
impietoso sulle condizioni delle braccianti nella Piana di Gioia
Tauro.
In quel libretto pubblicato agli inizi degli anni ’60[1] Argiroffi
raccoglieva le testimonianze di centinaia di donne che avevano
svolto per decenni il loro lavoro di braccianti, dalla mattina alla
sera, scalze, malnutrite, con il peso della famiglia e dei figli oltre il
duro orario di lavoro. Nel rapporto veniva sottolineato, ad
esempio, il legame esistente tra il lavoro dei campi e
l’ankilostomiasi, una vera e propria malattia professionale delle
braccianti quasi tutte infestate dai vermi perché abituate a lavorare
scalze negli uliveti.
Nel 1963 Argiroffi e il PCI organizzarono a Taurianova un
convegno nazionale sulla condizione umana e sociale delle
raccoglitrici d’ulive che servì a lanciare la proposta di legge sugli
asili nido.
Nel 1964 da Cittanova a Taurianova si dispiegò la “Marcia
dell’ulivo”. Migliaia di giovani, di donne, di militanti e di uomini
non legati ai partiti; calabresi e venuti da ogni parte d’Italia,
gridarono la loro voglia di pace.
L’organizzazione della “Marcia dell’ulivo” aveva coinvolto
decine di militanti e di giovani che, prima ancora che scoppiasse la
grande stagione delle battaglie pacif iste in America e in tutto il
mondo, esprimevano la loro voglia di reagire alle prepotenze degli
uomini di governo, locali e nazionali, che non tenevano in alcun
conto la voglia di costruire una società più civile e più aperta.
Nella marcia dell’ulivo e nelle tante manifestazioni per la pace
promosse da Argiroffi in Calabria e sostenute dal Partito comunista
che, a partire dal 1964 era diventato anche il suo partito, erano
presenti simboli, paesaggi, ritmi voluti da Emilio Argiroffi.
V’era il richiamo all’ulivo, alla palma, al mare, alla poesia.
Riemergevano anche in queste manifestazioni politiche i miti che
appartenevano all’uomo Argiroffi che aveva trasferito in terra di
84
Calabria i colori, i sapori, gli odori, gli dei Penati della sua Sicilia.
Il mito e la parola
Argiroffi aveva inventato la dizione “Piana del Tauro” per
definire la Piana di Gioia Tauro. Il Tauro non era solo il fiume
Petrace, ma anche la radice della sua Taormina, Tauromenium.
Dalle coste ioniche della Sicilia, dove Argiroffi era nato, passavano
i pescespada che poi sarebbero stati catturati nel mare di Bagnara
e di Scilla. Sulla spiaggia di Palmi, la Tonnara (il Portus Orestis)
era approdato, tanti secoli prima, il matricida Oreste. Nei discorsi
del medico che diveniva in quegli anni politico, trascinatore di folle,
con la sua calda oratoria, il mito omerico si fondeva con l’epopea
dell’emigrante: i fiori, gli odori, le piante della sua Sicilia divenivano
tutt’uno con i sapori, le storie, i colori della Calabria, della Piana
dell’ulivo sacro alla dea Atena.
Per l’uomo e il poeta Argiroffi la parola contava molto; così
come molto contavano i miti, antichi e recenti (la Grecia classica di
Omero si mescolava con quella nuova di Panagulis; la Resistenza,
le rivoluzioni si fondevano con le lotte dei braccianti, con le
battaglie dei democratici e dei laici). Questo impasto di antico e di
moderno, di vicino e di lontano mi divenne familiare negli anni
trascorsi fianco a fianco in Consiglio comunale, quando Argiroffi
esprimeva con passione, con ironia, con gusto, la propria
indignazione nei confronti di quanti contribuivano a rendere il Sud
sempre più lontano, più distante dal resto d’Italia e d’Europa.
La battaglia che Emilio Argiroffi e i suoi compagni iniziarono a
combattere negli anni sessanta e poi proseguirono fino agli anni
’90, fu essenzialmente una battaglia per affermare i diritti
elementari delle classi più povere, innanzitutto, e poi quelli delle
migliaia di cittadini laboriosi, di giovani, di donne, di intellettuali,
offesi da un governo locale tra i più corrotti e i più inetti che la
storia italiana conosca.
85
Argiroffi visto da Renato Guttuso
Argiroffi al Senato: Taurianova alla ribalta
Nel 1968, sull’onda di un’avanzata popolare della sinistra nella
Piana di Gioia Tauro, Argiroffi venne eletto senatore della
repubblica, nelle liste del PCI-PSIUP; in contemporanea con
Mommo Tripodi, sindaco di Polistena, nominato deputato. Al
Senato Argiroffi, sempre nelle liste del PCI, venne confermato per
altre due legislature
Nella sua attività parlamentare, come in quella consiliare a
Taurianova, v’è il richiamo continuo al dramma della sua città, al
grave vulnus inferto alla democrazia e alla convivenza sociale dai
potentati locali che godevano del consenso delle gerarchie
politiche provinciali e nazionali. Grazie al suo impegno, alla sua
appassionata denuncia, Taurianova balza all’attenzione della
cronaca nazionale, diviene un monstrum sul quale si esercitano la
grande stampa, nazionale e internazionale, gli inviati della
televisione, la magistratura.
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Taurianova viene indagata dai giudici, viene vivisezionata
dalla stampa, dagli studiosi di scienze politiche e sociali, diviene
oggetto di rif lessione per quanti hanno a cuore le sorti della
democrazia: poiché non può non preoccupare il fatto che
ordinanze dei giudici, inviti delle forze politiche, raccomandazioni
degli enti di controllo, delle prefetture, decreti del Presidente della
Repubblica vengano disattesi, respinti, buttati nel cesso.
In questa situazione di estremo degrado che aveva, per
giunta, in serbo l’esplosione della violenza mafiosa e la sua
affermazione come classe politica predominante, Argiroffi e la sua
gente esercitarono un’azione di denuncia e di controllo, di
contenimento della frana politica e sociale che poi si sarebbe
scaricata addosso al paese all’inizio degli anni ’90.
L’uomo politico Argiroffi.
Si farebbe un torto all’uomo se si legasse l’attività politica di
Argiroffi solo all’ambito cittadino. In effetti, Argiroffi ha goduto di
grande popolarità in tutta la Regione Calabria, per il suo impegno
continuo e appassionato in difesa dei diritti civili e democratici (per
molti anni fu presidente della Consulta calabrese per la pace). In
questo campo il suo impegno era di lunga data. Ricordo i viaggi
fatti assieme su e giù per la Calabria in occasione delle
manifestazioni, delle marce, delle campagne politiche. Mi è vivo, in
particolare, il ricordo di una lontanissima notte del 1963 o 1964,
quando ci avventurammo tra le strade innevate della Calabria per
raggiungere, a Catanzaro, nei giorni di Natale, una comunità
evangelica che voleva rif lettere sul signif icato della pace. Ecco,
Argiroffi su questo terreno non aveva pregiudizi di sorta, sapeva
dialogare con tutti, comunisti, laici, cattolici, purché si mirasse a
consolidare il bene più prezioso: la pace.
L’altra grande passione della sua vita, che egli seppe
trasfondere nell’attività politica, fu la questione della salute. Di
questo tema si occupò nell’ambito delle commissioni di partito,
nelle commissioni e nell’assemblea del senato, come presidente
dell’Ospedale di Polistena. Del suo impegno quale amministratore
dell’ospedale rimane traccia in un libro che egli volle pubblicare
sulla sua esperienza di medico e di organizzatore.
87
Non ho avuto modo di apprezzare l’attività di Argiroffi nelle
aule del Senato o nelle tante occasioni in cui egli ebbe l’incarico di
rappresentare il suo Paese o il suo Partito, in Italia o all'estero.
Credo, però, di essere stata la persona che più e meglio ha goduto
della sua presenza nelle sezioni del partito, nelle aule del
Consiglio comunale di Taurianova. Qui, in particolare, ci siamo
ritrovati, quasi ininterrottamente, dal 1964 sino al termine degli
anni ’80.
Più di venticinque anni di riunioni, di accese discussioni, di
battaglie. Era difficile, per me, essere il capogruppo di una schiera
di consiglieri di cui faceva parte un uomo come Emilio Argiroffi. Il
quale sapeva ascoltare, seguire il dibattito politico, raccogliere le
indicazioni di quei compagni che si interessavano da vicino delle
questioni locali; poi, l’oratore appassionato, il fine dicitore, riusciva
a raccogliere i brani sparsi di un dibattito, nel quale v’erano state le
concretezze dei fatti, le asprezze degli scontri, e li trasformava in
un discorso alto, politico, che volava nell’aula, arricchito della
sapienza, della esperienza di un uomo che conosceva il cuore e le
passioni degli altri uomini.
In quell’aula di Consiglio comunale, nella quale sarebbe
ritornato come primo cittadino quasi al termine della sua vita, c’è
ancora il ricordo di quella voce calda, appassionata che sapeva
invitare alla rif lessione e alla pacif icazione ma sapeva anche
incitare alla battaglia, come quando si trattò di reagire nel 1965 e
poi, ancora, nel 1986 ai soprusi di quella classe politica che da lui
era lontana anni luce, per i contenuti e per la forma della lotta
politica.
Michele Maduli
[1] E. Argiroffi, La condizione umana e sociale delle
raccoglitrici d’ulive nella Piana di Gioia Tauro.
Commenti:
Filippo Andreacchio Grazie Michele per il tuo contributo,
dopo averlo letto ho avuto un flashback, ricordando la prima volta
che entrai in una sede di partito.
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Era la sede del PDS di Taurianova (oggi PD) ed io ero
giovanissimo, attratto da un movimento di ragazzi e ragazze molto
propositivo e soprattutto "insolito" per la letargica Taurianova di
quel periodo non semplice.
Era un tardo pomeriggio d'estate, dopo la prima rampa di
scale e alcuni manifesti della CGIL, di Enrico Berlinguer, nella
seconda stanza, quella più grande e con televisore, stava seduto
sul divano il senatore Emilio Argiroffi, calmo, con il suo bastone,
intento ad ascoltare un'edizione del telegiornale.
Mi sorrise, conosceva mio padre che mi accompagnò fin
sopra e conosceva il padre di mio padre, uno dei tanti braccianti
agricoli che si faceva assistere e curare da Argiroffi, medico e
politico.
Io aspettai qualche minuto in compagnia di gente che non
conoscevo, poi arrivarono Gianni Accardi, Walter Schepis e mi
accolsero subito come se fossimo stati sempre amici, quel
pomeriggio c'era la mia prima riunione, ascoltai tutto il tempo e
anche se non capivo tutti i ragionamenti e i riferimenti, "sentivo"
che lì circolavano idee fresche.
Emilio Argiroffi era una di quelle persone in grado di folgorarti
al primo incontro, capace di tessere con ricercate parole una
visione "umana e poetica" del futuro. Un politico che ha lottato per
conquistare nuovi diritti, richiamando come pochi potevano
permettersi, il ruolo centrale della "cultura" nel progresso reale
dell'uomo.
Per molti la sua era solo "utopia delirante" rispetto ai problemi
veri di una comunità, pensiero che secondo me ha ancora molti
sostenitori nella nostra città.
Quanto manca a Taurianova un personaggio come Emilio?
Io credo tantissimo, fuori da ogni retorica commemorativa.
26 agosto 2011 alle ore 22.05
Maria Franco ti ringrazio molto di questo scritto, Michele;
penso che hai molte cose da raccontare: un'esperienza ricca che
va trasmessa con cura26 agosto 2011 alle ore 22.56 ·
Pasquale D'Agostino Caro Michele, grazie per questo
messaggio.26 agosto 2011 alle ore 23.55 ·
Pasquale D'Agostino Voglio ricordare che ho partecipato alla
marcia della pace del 64 portando un grance cartello (2mc. circa)
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con un dipinto, di cui dovrei rinvenire la foto, con la scritta "Con la
piena di un nuovo diluvio laveremo le città dei mondi". Majakovski.
Ricordo la presenza, tra gli altri, di don Andrea Gaggero,fondatore
del Movimento dei Partigiani della Pace-. Ricordo, oltre Emilio,
anche la tua allora giovanissima cara persona-@Michele un forte
abbraccio-27 agosto 2011 alle ore 0.04 ·
.Servizi Al Cittadino Taurianova Emilio possedeva l'anima
pura dell'artista, il suo passo elegante ed il colore delicato della
sua pelle rendevano il suo carisma ......disarmante. Ho avuto
l'onore di conoscere l'uomo, l'artista ed il politico.....ed in tutte e tre
le sfaccettature.....si esternavano sentimenti di grande solidarietà
umana. La sua eloquenza incantava qualsiasi interlocutore.....il
quale rimaneva disarmato dinanzi a tanta cultura verbale....e alla
stessa umiltà con cui la condivideva.Ricordo il rammarico della
solitudine negli ultimi mesi.....della sua vita, la cagionevole salute e
la consapevolezza con cui attendeva il grande passo. Ricordo il
racconto di sua sorella Maria che colse l'ultimo istante di vita di
Emilio....in una mattinata qualunque mentre i raggi del sole
illuminavano il suo volto in quel, inospitale per chicchessia, letto
d'ospedale. Ricordo....il suo rispetto verso il prossimo...e l'acuta
ironia nel descrivere la personalità di chi politicamente lo
calunniava..... Emilio vive ancora...nel ricordo di chi aveva avuto la
fortuna di riconoscerne l'estro...,chi si è perso questa
occasione.....ha sprecato una grande occasione.....Lory27 agosto
2011 alle ore 1.57 ·Giovanni Pecora Taurianova e la Calabria tutta
non sono riuscite a scrollarsi di dosso la maledizione che ha visto
sempre privilegiare il furbo sul migliore, l'utile sul bello, il servilismo
sulla liberazione. Anche, e forse devo aggiungere soprattutto, nel
partito comunista prima e nella sinistra fino ai giorni nostri.
Altrimenti oggi non ci sarebbe Berlusconi, né il berlusconismo.
La parabola politica di Emilio Argiroffi, ancorché prestigiosa, fu
sempre sofferta e frenata.
Né il suo amato paese adottivo, né il partito che aveva avuto
la fortuna di averlo tra le sue fila, seppero valorizzarlo se non nel
limite di quanto non gli si poteva negare se non cadendo nello
scandalo.
E mentre non uno ma almeno due personaggi gli
contendevano la sua città, alcuni altri politici di caratura
infinitamente inferiore alla sua gli rubavano spazi elettorali e nel
partito.
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Avremmo potuto avete un grande principe a rappresentare la
nostra terra, ed abbiamo scelto un astuto scudiero, ed a possibili
ma non certi banchetti futuri abbiamo preferito il sicuro pane e
cipolla.
E poi ci lamentiamo se Taurianova viene ricordata per la
stagione circense di Ciccio Mazzetta, per la strage di Razzà, per la
testa mozzata e per il baby killer. Questo signif ica rinunciare ad
alzare la testa e accontentarsi di nutrire l'anima di pane duro e
puzzolente cipolla. Non si vive, si sopravvive.
Emilio Argiroffi voleva darci un'anima, e lo abbiamo
sbeffeggiato. Era gentile e mite, e lo hanno chiamato finocchio.
Era ricco di cultura e di intelligenza superiore, e lo hanno definito
superbo.
Ci voleva donare le ali per farci volare, ed abbiamo preferito
volare a calci in culo.
Adesso sta a noi, Michele, far si che almeno prevalga il suo
bel sorriso nei nostri ricordi anziché il ghigno beffardo e catarrale
dei suoi oppositori.
Forse la memoria può essere catartica. 27 agosto 2011 alle
ore 10.28
Achille Bonifacio Ricordo con commozione Emilio Argiroffi!
Uomo dotato di altissime qualità umane e culturali. Il suo impegno
politico e culturale nella Calabria delle grandi lotte è stato degno di
grande ammirazione e di grande stima! Grazie per il tuo
lucidissimo intervento e per avermi fatto ricordare il compagno
Emilio Argiroffi! 27 agosto 2011 alle ore 17.29
Beppe Orefice Avevo scritto ai Commissari qualche tempo
addietro; in particolare trovavo folle non ci fosse alcuna menzione
nel sito internet comunale. Magari intitolare una via complica il
lavoro di uffici e servizi ( a dir il vero poco) ma scrivere due righe
sul web e' cosa semplice : quantomeno. Poi, con tutto il rispetto
del caso, il tempo per inserire Antonio Marziale e Agostino Sacca'
lo hanno trovato. Mi chiedo allora se sia una pregiudiziale politica.
Scrivessero del poeta e del pittore allora. Ma forse e' meglio cosi'
infondo e' come dire che non ce lo siamo meritato. Vediamo cosa
fara' Romeo.
Ps. Vorrei ricordare anche una persona da poco scomparsa
come la Prof.ssa Loschiavo: donna caparbia e caparbiamente
protesa ad accultutare generazioni dal liceo all'universita' della
terza eta'.
29 agosto 2011 alle ore 19.56 ..Altro...29 agosto 2011 alle ore
91
19.56 ·
Giovanni Pecora Bravo, Beppe. In effetti se il sito del
Comune di Taurianova commemora i vivi Marziale e Saccà,
diciamo diplomaticamente che Emilio Argiroffi è... un'altra cosa!
Un caro ricordo, mi associo anch'io, per la cara Professoressa
Isabella Loschiavo, donna di scuola per quasi quarant'anni,
giornalista, saggista e meridionalista di prim'ordine.29 agosto 2011
alle ore 20.58 ·
Nicoletta Allegri Emilio Argiroffi era un faro nel nostro"
mondo oscuro",il faro si è spento ed ora siamo circondati da una
greve oscurità!!30 agosto 2011 alle ore 20.23 ·
Michele Maduli Ecco, adesso potremmo riaccendere quel
faro! 30 agosto 2011 alle ore 20.31 ·
Nicoletta Allegri l'oscurità è particolarmente intensa!!30
agosto 2011 alle ore 20.33 ·
Antonio Marziale Condivido totalmente, ricordando
signorilità, la delicatezza e lo spessore culturale di Emilio.
la
26 agosto 2011 alle ore 22.30
Maria Corica Ricordo che alla sua morte un illustre
esponente del partito con incarichi regionali promise la
costituzione di una fondazione a suo nome, mai realizzata! Emilio
Argiroffi è stato un grande non solo dal punto di vista professionale
( forse meno in quello politico, come lui stesso ha riconosciuto nel
corso della sua ultima intervista) ma anche come uomo di cultura,
pittore e poeta.
26 agosto 2011 alle ore 22.47 ·
Maria Corica Intitolare una strada o quel "famoso" centro
culturale( grande incompiuta) è il minimo che il paese per cui ha
speso quasi tutta la sua vita possa fare!26 agosto 2011 alle ore
22.51 ·
Sandro Taverniti Niente era più estraneo alla Piana di Emilio.
Eppure era così fertile la sua presenza e così disperatamente
vana.31 agosto 2011 alle ore 9.57 ·
Lina Boeti Forse ha combattuto troppo spesso contro i mulini
a vento.23 maggio 2013 alle ore 8.49 ·
Nadia Parrone Io ho di lui dei teneri e cari ricordi, ero piccola
ma abbastanza grande da appassionarmi alla sua arte oratoria;
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trainata dalla passione di mio padre per quelle correnti, quel
partito, quelle persone, mi immergevo in quel calore umano,
sentivo quei discorsi di lotta e mi prendevano... mi prendevano lo
stomaco. E' anche merito suo che oggi ho, nonostante i tempi, la
forza di lottare ancora.24 maggio 2013 alle ore 19.53 ·
Lina Boeti Nadia , nono ti conosco ma ti ringrazio per le tue
parole , perchè i tuoi ricordi sono anche i miei. Anche io e mio
fratello seguivamo mio padre e quei discorsi di cui parli ci hanno
aiutato a crescere con certi valori .Certo quei valori oggi sono un
po' sbiaditi ma noi continuiamo a lottare! 24 maggio 2013 alle ore
21.17
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6 settembre 2011 ·
E' SOLO UNA MANOVRINA.
Quella definita la sera del 6 settembre 2011, nonostante le
apparenze, è solo una manovra parziale, ingiusta e inadeguata.
Andiamo al cuore del problema: l'Italia ha un debito enorme (circa
1.800 miliardi di euro) per coprire il quale è costretta a ricorrere
periodicamente all'emissione di titoli di Stato. Fino ad ora i titoli
sono stati acquistati da investitori italiani ed esteri che hanno avuto
fiducia nella solvibilità del nostro Stato. Viviamo in un mondo
orientato, condizionato dai mercati finanziari. Quel che conta non è
più, o soltanto, la ricchezza o la produttività di una nazione, ma
l'immagine che viene costruita dalle borse, dalle società di rating,
dagli investitori e dai grandi scpeculatori. Il paradosso è costituito
dal fatto che l'Italia continua ad essere una delle nazioni più ricche
(con un grande fondo patrimoniale pubblico e privato) ma, nello
stesso tempo è una delle nazioni più a rischio di default.
Ed ecco due notizie positive: la nostra economia tira,
soprattutto sul versante delle esportazioni, dove percentualmente
siamo più forti della stessa Germania. E, poi, a fronte di un debito
pubblico enorme, disponiamo di una ricchezza privata
impressionante. Se i nostri ricchi decidessero, in un impeto di
generosità, di comprare il nostro debito, avrebbero la possibilità di
farlo senza svenarsi, poiché essi dispongono di fondi equivalenti
ad oltre 8.500 miliardi di euro.
Allora, facciamo alcune semplici considerazioni: i nostri guai
sono iniziati quando i governi della prima Repubblica hanno
gonfiato le spese ed hanno depositato sul nostro groppone un
peso insopportabile. Il debito, in un contesto di economia
globalizzata, ci ha reso succubi dei mercati e degli speculatori.
Che cosa fare? Bisogna, nella maniera più assoluta, riacquistare la
nostra autonomia e la nostra libertà, liberandoci dal mostro del
debito pubblico. Il rischio, se non la certezza, è che si possa
andare verso il default, il fallimento nazionale.
Non sono un economista e non sono nelle condizioni di
avanzare proposte scientif icamente sicure; però mi baso sulle
analisi di alcuni esperti che, con molta cautela hanno ipotizzato la
possibilità di ricavare nell'immediato, un incasso dai 200 ai 400
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miliardi di euro mettendo mano ai grandi patrimoni che, come si è
detto prima, ammontano a circa 8.500 miliardi. Se poi questa
"patrimoniale", questo prelievo sulle grandi ricchezze, sui grandi
patrimoni mobilari e immobiliari, assumesse carattere di continuità
(almeno cinque anni), si potrebbe ipotizzare un taglio sostanziale
del debito nazionale. Ovviamente verrebbe meno la necessità di
impoverire gli enti locali, i pensionati, i lavoratori e i consumatori
con gli iniqui prelievi che fanno parte dell manovra 4.0.
Rimarrebbero di riserva la lotta all'evasione fiscale e al lavoro
nero, la liberalizzazione delle professioni, l'alienazione di parte del
patrimonio dello Stato ecc.
Il Governo in carica è costituzionalmente incapace di
concepire una manovra che assomigli, anche vagamente, a quella
sopra delineata. Eppure, negli ultimi tempi, a propugnare la
patrimoniale sono proprio i grandi capitalisti, come Buffett, De
Benedetti, Montezemolo, Della Valle ecc. Perché tutto questo?
perché chi ha un po' di sale in zucca si rende conto che dal
fallimento della nazione tutti usciremmo più poveri. Certo, alcuni
furbi scapperebbero a Montecarlo, in Svizzera, nei paradisi
tropicali; ma il grosso dei benestanti sarebbero costretti a rimanere
in Italia. A chi giova, quindi, lo sfascio? Nella favoletta della nave
sequestrata dai pirati che ho pubblicato ieri (1), i ricchi e i
benestanti, alla fine decidono di mettere mano al portafogli per
evitare il sequesto o l'affondamento della nave. Perché sono gli
unici a potere pagare.
Ad ogni modo aspettiamoci tra qualche settimana la manovra
5.0. Alla fine, quando la Banda dei Berlusconi con la coorte delle
escort, dei Tarantini, dei Lavitola; dei Tremonti e dei Milanesi, dei
Sacconi e dei Brunetta, per non dire degli Scaiola, abbandonerà
questo "paese di merda" (la definizione è di Silvio Berlusconi),
questo Paese potrà ritornare ad essere un "Bel Paese".
(1) Un panfilo con mille persone, passeggeri, personale,
lavoratori, viene aggredito dai pirati che pretendono un milione di
euro per non fare affondare la nave. c'è chi dice:"paghiamo mille
euro a testa". Altri, tra cui il Comandante, obiettano che ciascuno
deve pagare in rapporto alle proprie capacità, per questo, chiedono
che paghino i ricchi e i benestanti. La nave così viene salvata con
soddisfazione di tutti.
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15 settembre 2011 ·
LA CALABRIA DI BERTO (COMMENTO ALL'ARTICOLO DI MARIA
FRANCO SU ZOOMSUD)
V’è stato un momento in cui la civiltà contadina calabrese ha
avuto una connotazione progressista: in occasione delle lotte
sociali e dell’occupazione delle terre del secondo dopoguerra. Per
secoli, infatti, essa aveva sempre diffidato delle rivoluzioni
borghesi che miravano a rompere il feudalesimo e a riscattare le
terre dall’abbandono, Nel corso dei secoli i contadini avevano
acquisito pochi ma indispensabili diritti (raccogliere la legna e i
frutti di bosco in montagna, coltivare piccoli appezzamenti al di
fuori del feudo ecc.) Per questo s’erano sempre schierati contro la
rivoluzione, per il mantenimento dello status quo. Con
l’alienazione dei feudi e la vendita dei beni ecclesiastici, i contadini
ricevettero un colpo terribile, proprio perché dovettero rinunciare ai
miseri privilegi che avevano strappato ai vecchi padroni.
Con la grande migrazione degli anni 50-70 del secolo scorso
verso il Nord, la Svizzera, la Germania, la Calabria si svuota, il
vecchio sistema contadino entra in crisi. “L’antica civiltà contadina,
che si era tenuta in piedi sugli stenti –nota Berto- è crollata di
colpo: al suo posto non è nata alcun’altra civiltà, è rimasto un
vuoto di valori le cui manifestazioni visibili, sono, a dir poco,
incivili…”
Come siano andate le cose noi calabresi lo sappiamo molto
bene. I vecchi braccianti, reduci dalla fatica dell’emigrazione,
trassero fuori le famiglie dai catoi e dai vicoli e costruirono, senza
regole e senza geometria, le nuove case sui terreni ceduti loro, a
basso prezzo, dai proprietari dei suoli. Contemporaneamente la
borghesia benestante investiva nel mattone marino e devastava le
coste del Tirreno e del Jonio.
Berto, da poeta, racconta l’evento: “L’antica civiltà contadina,
che si era tenuta in piedi sugli stenti è crollata di colpo: al suo
posto non è nata alcun’altra civiltà, è rimasto un vuoto di valori le
cui manifestazioni visibili, sono, a dir poco, incivili… La
conoscenza dell’alfabeto, se non diventa cultura, dà forza
all’ignoranza, e la disponibilità di mezzi rende più potente il
disonesto, il furbo…” e, poi, dà la mazzata finale “ (I calabresi)… si
sono messi fervidamente al lavoro e, bisogna riconoscerlo, hanno
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sbagliato quasi tutto. E’ sorprendente come siano riusciti, in un
tempo tutto sommato neanche tanto lungo , a rovinare bellissimi
paesaggi con brutte costruzioni, a trasformare siti fino a poco fa
campestri in luoghi pieni di cartacce…”.
Quello che lo scrittore vede come offesa alla bellezza: ” I
calabresi sono i primi a non credere alla bellezza e all’altezza della
loro civiltà, che è una civiltà contadina. Per essi la civiltà contadina
è simbolo di miseria, di scarso cibo e di molte malattie, di
disprezzo, vero o supposto, da parte di altre popolazioni
economicamente e tecnicamente più progredite. E’ comprensibile,
quindi, che essi vogliano cancellare le vestigia di tale civiltà”, noi
possiamo prosaicamente classif icare come assenza di regole e di
legalità.
Nel secondo dopoguerra in Calabria non sono mancati i soldi
e le occasioni. Fiumi di miliardi (di lire) si sono rovesciati sotto
forma di impianti industriali destinati ad essere smantellati, di
pensioni e di sussidi facili, di rimborsi ai produttori agricoli (olio,
agrumi). A beneficiarne sono stati tutti coloro i quali hanno vissuto
la democrazia come il luogo dell’assenza della legalità. Quando
qualcuno, preso da legittimi dubbi, chiedeva se fosse conveniente
comprare i suoli al di fuori dei piani regolatori, l’amministratore
corretto spiegava che il vantaggio del minor costo sarebbe svanito
dinanzi al fatto che non esistevano le opere di urbanizzazione
(strade, fogne, impianti ecc). Ma la battaglia per la legalità era
persa in partenza, perché il vecchio bracciante aspirava ad avere
un tetto sopra la testa e subito; della legge, della “Bucalossi” non
gli interessava niente e, poi, alle elezioni avrebbe votato per chi
non gli rompeva le scatole con le storie di legalità.
Qualche volta riprenderò la storia delle “vacche sacre” e delle
inutili perorazioni agli uomini dello Stato e ai politici. Quando
raccontavo di questi animali bradi che sconvolgevano le
campagne, che mettevano in pericolo la vita di quanti circolavano
per le strade della Piana, che facevano morire per la seconda volta
i morti del Cimitero, uomini anche importanti dello Stato e della
politica mi sorridevano divertiti e tiravano avanti.
Mancanza di bellezza o mancanza di legalità; dite quello che
volete, il risultato non cambia: una terra violentata, piena di veleni.
Notava Berto:” I calabresi si sono messi con grande energia e
determinazione a distruggerla. In questo sono infaticabili e, a
modo loro, geniali”
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30 novembre 2011
SALVARE LE BANCHE O SALVARE LE SCUOLE?
In vita mia ho avuto modo di conoscere centinaia di edif ici
scolastici. Tranne pochissime eccezioni, sono quasi tutti scalcinati,
bisognevoli di cure, privi dei certif icati rilasciati dagli enti proprietari
ai sensi della L. 616. Nei miei ricordi c'è anche qualche bidello in
divisa: per fortuna la credibilità dei luoghi o dei settori di lavoro non
dipende tanto dall'apparenza, quanto, piuttosto, dalla sostanza.
Per questo le scuole sopravvivono nonostante i tagli di Tremonti e i
tunnel della Gelmini.
Non conosco, invece, una sede bancaria scalcinata; al più
qualche arredamento d'epoca ma, in genere, le banche sono
ubicate in ambienti moderni, bene arredati, con tanto di
riscaldamento o di condizionatori, con macchine e strumenti
sempre all'altezza della situazione. Certo, lo status del bancario
non è più quello di una volta, ma non di questo voglio parlare.
Nella città in cui abito ci sono più banche che scuole, non
solo, ci sono gruppi bancari che hanno una decina di sedi sul
territorio cittadino; c'è una grande banca che ha due sedi nella
stessa via, a cinquanta metri di distanza l'una dall'altra. Il rapporto
sedi bancarie/abitanti è impressionante: almeno una ogni mille
abitanti, una ogni 250 famiglie (e non contiamo le poste che sono
diventati veri e propri sportelli bancari oltre che suk stile arabo
dove si vendono libri, telefonini, giocattoli ecc).
Perché in un momento in cui si propongono misure lacrime e
sangue, in cui si tagliano diritti, risorse, pensioni, stipendi,
parlamentari, province risorse per lo sviluppo (e chi più ne ha più
ne metta), non si pensa a razionalizzare le sedi e le attrezzature
delle banche? Mi si dirà: ma le banche sono in gran parte private,
coi loro soldi possono fare quello che vogliono. E qui casca l'asino,
perchè non appena le banche hanno qualche lieve mal di pancia,
tutti i governi intervengono per salvarle coi soldi pubblici. Perché
-si sostiene- le banche svolgono una importantissima funzione
sociale ed economica: debbono prestare i soldi alle imprese e ai
cittadini ecc.
Abbiamo finito per credere a tali fandonie ed oggi rischiamo di
fallire come nazioni euro per colpa delle politiche finanziarie (ma
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sono cose di cui tutti siamo diventati esperti!). Io mi limito a un
semplice problema, quello dello spreco delle risorse pubbliche per
mantenere in piedi questi enormi carrozzoni dove si propinano ai
risparmiatori titoli tossici, si pretendono commissioni elevatissime
per la gestione dei conti e si liquidano interessi sui depositi a volte
ridicoli. E finisco con una proposta provocatoria: chiudiamo la metà
degli sportelli e utilizziamo i risparmi così ottenuti a favore delle
scuole!
Commenti:
Patrizia Gambini La ringrazio, Preside, per aver
condiviso anche nella mia bacheca un suo pensiero così
importante..lei sa molto bene quante lagrime e sangue si spargono
invece nelle scuole,dove i riscaldamenti sono al minimo,i colloqui
con i genitori di pomeriggio avvengono a termosifoni spenti,e gli
esami di maturità contendendosi gli unici due o tre ventilatori,
leggasi ventilatori, esistenti in tutto l'istituto..altro che
condizionatori...quando invece dei tagli vergognosi ed inopinati alla
scuola si penserà ad incentivi fruttuosi e davvero proficui perchè si
investe sul reale futuro della società, forse,e dico forse, potremo
essere orgogliosi di noi stessi... La saluto, caramente! 30
novembre 2011 alle ore 22.34 ·
Mirella Cappelli Grazie!30 novembre 2011 alle ore 23.17 ·
Giovanni Gaspari caro preside, sei ottimista; 65
(sessantacinque) sportelli bancari per 48.000 abitanti e non finisce
qui. lucida analisi ma temo sarà poco ascoltata da questo governo
se penso a qualche ministro dal trascorso (presente) ai vertici della
più importante banca italiana. nel nostro piccolo, come comune
stiamo progettando poli scolastici di nuova costruzione ma da soli
non potremmo farcela.1 dicembre 2011 alle ore 1.23 ·
Michele Maduli Grazie a Giovanni Gaspari per la
puntualizzazione: il rapporto tra gli sportelli e le banche
(considerando circa 12000 famiglie, ma il sindaco potrebbe
ulteriormente correggere il dato) è di 185 famiglie per ogni
sportello. Se consideriamo il personale impiegato in ciascuna sede
(dal Direttore agli addetti alle pulizie) possiamo ipotizzare un
rapporto di poco superiore a 1 a 10. Quando penso che si lesina
su un docente di sostegno e che si chiede ai ragazzi di portare la
carta igienica da casa...@Giovanni Desideri sono d'accordo
sull'apertura di un dibattito. Potremmo scoprire altre relazioni
interessanti!
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1 dicembre 2011 alle ore 16.54 ·
Marina Franza grazie del tag, nota
interessante.1 dicembre 2011 alle ore 17.53 ·
decisamente
Achille Bonifacio Condivido in toto il ragionamento di
Michele Maduli; mi pare di dover aggiungere una considerazione:
non penso assolutamente che le cose possono essere risolte con
la razionalizzazione dell'edilizia bancaria, magari in favore
dell'edilizia scolastica. Credo che ci troviamo, ancora una volta, ad
una precisa situazione di lotta di classe: non esistono governi
tecnici, si tratta esclusivamente di una presa di posizione politica. I
"cosiddetti" professori hanno una precisa connotazione politica e si
regoleranno secondo queste precise ispirazioni politiche. Cioè il
liberismo non è una "condizione obiettiva", secondo cui si debbano
richiedere lacrime e sangue, ogni volta che le cose si mettono
male. Siamo ancora ad uno scatto della borghesia padronale,
l'indecenza e l'incapacità politica berlusconiana sono inefficaci e
dannose, cerchiamo di ammantare di nobile "tecnicità" quella che
è una politica di destra, e a fare pagare, sempre, le classi
lavoratrici!
2 dicembre 2011 alle ore 10.42
Michele Maduli Bisognerà valutare con molta attenzione le
proposte che il Governo adotterà lunedì prossimo. Certo, le prime
avvisaglie non sono per niente rassicuranti: non ci si fa scrupolo di
modif icare le pensioni e di bloccare gli aumenti legati all'inflazione
ma non si fa nulla per bloccare la regalia delle frequenze televisive
che, se regolarmente messe in vendita, procurerebbero 6-7
miliardi di euro. Potrebbero essere queste le "garanzie" chieste da
B. nel corso del pranzo con Monti a favore delle aziende di
famiglia.
2 dicembre 2011 alle ore 17.46
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7 febbraio 2012 ·
POSTO FISSO, GARANTITI,
ART.18 E...MICHEL MARTONE
C'è chi sostiene che dietro le dichiarazioni sul "posto fisso" di
vari esponenti del Governo vi sia la deliberata intenzione di
picconare l'art. 18 e le tutele dei "garantiti". Ebbene, affrontiamo il
toro per le corna. Vediamo qual è lo status dei singoli ministri;
chiediamo loro quale sia il percorso seguito dai loro padri (e
parenti) e dai loro figli. Di Michel (Dio ti ringrazio perché il mio
nome è Michele!) Martone sappiamo tutto. Degli altri gradiremmo
conoscere che mestiere facevavo i loro padri; che mestiere fanno i
loro figli. Vado a naso: i figli dei professori universitari, se non sono
già diventati cattedratici, hanno goduto dei privilegi riservati alla
casta e oggi sono banchieri, consulenti finanziari, addetti
diplomatici ecc. Lo stesso dicasi (tranne che per qualche 'maestro
di strada') per i figli dei luminari della medicina, degli avvocati di
grido ecc.ecc. Mi si dirà: ma hanno dovuto frequentare
costosissimi master in università straniere; allontanarsi dalle
famiglie e dall'Italia; lasciare le comide residenze e le città
d'origine ecc.ecc. A parte il fatto che da un secolo e mezzo a
questa parte, tantissimi veneti, meridionali, italiani in genere, i loro
"master" li hanno frequentati nelle miniere di Marcinelle e
d'America, nelle vie di Broccolino o di Adelaide o di Toronto, o di
Buenos Aires; che nelle loro borse cartonate v'era solo il biglietto
d'andata e che solo pochi hanno avuto la possibilità di rientrare
nelle loro contrade.
Da un'inchiesta giornalistica (Bechis, mi pare) risulta che solo
uno tra i membri del Governo non possiede nemmeno un misero
appartamento. Gli altri ne hanno uno o più di uno, lo stesso Monti
ne ha 20, alcuni addirittura trenta o quaranta e così via. Nessuna
intenzione qualunquistica, come sa bene chi mi conosce, solo un
tentativo di riportare la conversazione nei corretti binari. Ecco,
possiamo discutere con Monti e Fornero, con Cancellieri e con
Passera, e con gli altri eccellentissimi ministri e sottosegretari, solo
quando faranno chiarezza -come si diceva- sul loro "status". Poi
potremo accettare che si ponga mano a tutte le riforme necessarie
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28 marzo 2012 ·
I CALCOLI SBAGLIATI DEGLI ESODATI.
CHE LA FORNERO E GLI ALTRI SAPIENTONI SI
PRENDANO CARICO DEL DESTINO DI QUESTI LAVORATORI
La vicenda ha dell'incredibile. Una caterva di teste d'uovo,
capitanate da Monti e dalla Fornero, non sono riuscite a effettuare
il calcolo preciso degli "esodati". Badate, l'errore non è dell'ordine
di centinaia o anche migliaia di persone ma di centinaia di migliaia.
Quando decisero di elevare a 67 gli anni del pensionamento degli
italiani, qualcuno fece presente che ci sarebbero stati tanti
lavoratori che, per effetto degli accordi con le proprie aziende,
sarebbero rimasti per tanti anni senza alcuna fonte di reddito. Il
"governone" Monti calcolò che non sarebbero andati al di là delle
40 - 50.000 unità, e che si sarebbe provveduto in seguito, con
calma. Adesso sembra che il numero degli esodati sia almeno
dieci volte tanto, oltre mezzo milione. Al di là della soluzione che si
dovrà trovare, rimane il fatto che esistono precise responsabilità
per quanto riguarda la determinazione dei numeri. O è malafede o
è ignoranza. Mi augurerei che non si tratti di malafede, poiché
questo porrebbe un problema di credibilità di tutti i conti, di tutte le
riforme, di tutte le elaborazioni del Governo Monti.Che cosa fare, a
questo punto? Io una modesta proposta ce l'avrei. In attesa che il
ministro Giarda faccia il punto sulla "spending review" e
sull'enorme massa di denaro che si potrebbe risparmiare,
chiederei allo stesso Giarda di estrapolare le somme che lo Stato
spende per pagare migliaia di alti e medi dirigenti e funzionari dello
stato, degli enti locali, delle aziende statali o parastatali. Ci sono
alti dirigenti che costano 300.000, 600.000 o milioni l'anno (per
non parlare dei magistrati col doppio incarico, degli stessi
parlamentari (almeno quelli che, come gli avvocatoni, guadagnano
più dalla professione che dallo scranno parlamentare). Ebbene,
basterebbe che ciascuno di questi strapagati personaggi
"adottasse" un esodato (diciamo uno per ogni centomila euro).
Che cosa volete che siano 15.000 euro l'anno ogni centomila, per
questi "signoroni" che hanno spremuto per anni le casse dello
Stato? So bene che un liberal che più liberal non si può, come
Monti, salterebbe dalla sedia, alla sola notizia che qualche
sprovveduto, come chi scrive, osi mettere in discussione le regole
104
del mercato. Ma qui, cari Monti e Fornero, si tratta di assicurare la
sopravvivenza a tanti (mezzo milione) capifamiglia. O vogliamo
che esploda la rabbia di quanti, di fronte al silenzio e
all'indifferenza di chi comanda, adottano la soluzione drammatica
e terribile (come il piccolo imprenditore di Bologna) di dare fuoco
alla propria persona e di chiuderla con la vita?
105
28 novembre 2012 ·
L'INCREDIBILE VICENDA DI UN'AZIENDA CALABRESE
Franco fa l'imprenditore e vive a Gioia Tauro. Ogni anno,
quando ritorno in Calabria, vado a trovarlo. Discutiamo, ci
raccontiamo le cose che sono successe agli amici, ai nostri
conoscenti, ricordiamo la militanza comune nel PCI, quando
dirigevamo il Partito nella Piana.
Erano anni di grande tensione civile e sociale, quando
bisognava fronteggiare problemi di un qualche rilievo, come la
difesa del territorio (centrale a carbone), dell’industrializzazione
(Centro siderurgico, Porto ecc.); come la mafia che usciva dagli
agrumeti e dagli uliveti ed entrava nei grandi affari (fondi europei,
movimento
terra,
sequestri
di
persona),
occupava
progressivamente i consigli comunali, dava il via a una sanguinosa
ristrutturazione degli apparati.
In quei momenti difficili (la mafia aveva ucciso il segretario
della Sezione comunista di Rosarno, Peppe Valarioti), Franco,
Nicola e tanti altri giovani dirigenti, mi aiutavano a tenere i contatti
con le sezioni e i gruppi del territorio, a comprendere la natura dei
nuovi processi.
Poi, dopo la morte del padre, Franco decideva di dedicarsi
alla piccola azienda di famiglia e, nel giro di qualche decennio, la
trasformava in una moderna impresa con qualche decina di
dipendenti.
Qualche anno addietro, l'azienda di Franco, la “Elettroimpianti”
viene coinvolta nella cosiddetta “operazione Arca” promossa dalla
DDA di Reggio Calabria, ma tutte le accuse vengono, poi,
totalmente archiviate, su richiesta degli stessi magistrati inquirenti.
Intanto un altro calabrese, Giovanni Tizian, emigrato al Nord
dopo l’omicidio del padre, avvenuto nel 1989 a Bovalino, ad opera
della ‘ndrangheta, si appassiona al tema delle infiltrazioni mafiose
nelle zone del Nord, scrive libri sull’argomento, viene anche messo
sotto scorta perché, in base a informazioni investigative, il suo
lavoro ha dato fastidio alle organizzazioni che operano in Emilia
Romagna.
106
A questo punto il destino di Tizian si incrocia con quello di
Franco Romeo perché il giovane giornalista che adesso scrive per
L’Espresso, cita il ‘caso esemplare’ della Elettroimpianti: “L’azienda
arriva dalla Piana di Gioia Tauro, feudo della famiglia Piromalli.
Negli atti dell’operazione Arca sulla ’ndrangheta nei cantieri della
Salerno- Reggio Calabria, si legge che due soci sarebbero vicini
proprio alla cosca Piromalli. La donna del gruppo imprenditoriale è
cugina di Tommaso Atterritano, «organico alla cosca Piromalli»,
inserito nel 1998 nell’elenco dei ricercati più pericolosi e a lungo
residente a Bologna”
E qui Tizian si fa prendere la mano e si dimentica di compiere
dei controlli sullo sviluppo delle indagini relative alla “Operazione
Arca”. Così, prima ancora che le Prefetture e gli inquirenti si
esprimano sulla integrità delle aziende (tra cui quella di Franco)
iscritte nella white list, Tizian esprime seri sospetti sulla stessa
azienda, etichettandola come contingua alla mafia perché già
coinvolta nella cosiddetta “Operazione Arca” attuata nel 2007 dalla
DDA di Reggio Calabria!, perché la moglie di Franco, “la donna”
della società, è cugina di un tale che è stato annoverato fra i più
pericolosi latitanti, per giunta già residente in passato a Bologna.
E’ un grave scivolone che rischia di ritorcersi su una persona
per bene e su una azienda che potrebbe essere esclusa da
qualsiasi chiamata di lavoro da parte della comunità emiliana.
E’ vero, Franco ha il torto di essere nato e di avere operato a
Gioia Tauro e in Calabria. Ma questo è un “peccato” originale dal
quale sono marchiati milioni di cittadini calabresi.
Il fatto nodale è costituito dalla “Operazione Arca” Lì furono
formulate le accuse nei confronti della Elettroimpianti. Ma, sempre
in quella inchiesta, Franco venne totalmente scagionato, proprio
per decisione degli stessi magistrati inquirenti. Ricordo i mesi di
tensione all’interno della famiglia e la legittima soddisfazione nel
vedere riconosciuta la totale estraneità di Franco e della
Elettroimpianti.
Un altro dei capisaldi dell’accusa è costituito dal fatto che
Franco ha sposato una donna di Gioia Tauro che ha la sfortuna di
avere un parente di sesto grado, accusato di essere collegato con
una importante cosca della stessa città. Ma ci si dimentica di dire
che lo stesso personaggio era solo un ragazzo all’epoca del
matrimonio e che, comunque, non ha da anni alcun rapporto con la
famiglia Romeo.
107
Ebbene, confesso anch’io le mie colpe: ho incontrato più volte
uno studioso di letteratura italiana e calabrese che aveva lo stesso
cognome della cosca suddetta. Inoltre, anni addietro sono stato
inquilino di uno stabile di proprietà di un signore che aveva lo
stesso cognome della cosca più importante del mio paese. Non
parliamo dei tanti figli di mafiosi di cui sono stato docente nelle
scuole pubbliche. In ultimo, confesso che la mia nonna materna,
originaria di Cinquefrondi, morta circa 90 anni addietro, aveva lo
stesso cognome di una nota famiglia di Rosarno recentemente
colpita dalla mano della giustizia.
Dimenticavo, sono stato seduto per anni sui banchi del
consiglio comunale di Taurianova, più volte sciolto per motivi di
mafia.
Io ritengo che un giornalista serio, come Tizian, non possa
non riconoscere lealmente l’errore commesso; anche perché ne va
della serenità di una famiglia e del futuro di un’azienda.
E lo chiedo anche da ex giornalista che, di recente, si è
espresso duramente contro gli estensori di una legge che mira a
colpire la stampa e i giornalisti.
108
19 aprile 2013 ·
LETTERA A UN VINCITORE DA PARTE DI CHI HA VOTATO PER GLI
SCONFITTI.
Diciamoci la verità. Alla base dello scompiglio nel mondo della
politica italiana c'è il grande, sconvolgente risultato di Peppe Grillo.
Il PDL s'è, in parte, salvato dietro l'usbergo di Berlusconi e anche
perché non ha avuto l'onere dell'iniziativa politica. Per Monti, ma
soprattutto per il PD e di tutto quello che sta alla sua sinistra, è
stato un vero e proprio cataclisma. In questo clima di rovine
fumanti è stato chiesto al povero Bersani di elaborare delle
proposte per la salvezza dell'Italia. E' come se avessimo chiesto al
Sindaco dell'Aquila, all'indomani del terremoto, di assumere la
guida del Paese e anche quella delle operazioni militari in
Afghanistan.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
A questo punto, spetterebbe all'autore del sommovimento, a
quello che viene unanimemente indicato come il vincitore, l'onere
di provvedere alla messa in sicurezza del territorio ed alla sua
ricostruzione.
Grillo sostiene Rodotà come Presidente della Repubblica?
Ebbene, aiutiamolo ad eleggere il valido giurista. Grillo ha da
proporre un presidente del Consiglio? Aiutiamolo a sbrogliare la
matassa. Che vada lui all'estero a difendere i diritti degli italiani,
che indossi i guantoni con la Merkel e la stenda a terra.
Se ha bisogno di ministri competenti, sia a sinistra che a
destra ne abbiamo a carrettate. Venga a chiederci i nomi, glieli
daremo!
Perché è vero, disponiamo di grandi competenze come
partito: abbiamo ex-presidenti del Consiglio, ministri degli esteri,
economisti di vaglia ma non riusciamo a utilizzarli decentemente.
Anzi sono gli stessi grandi politici che si beccano l'un l'altro e si
mandano alternativamente al tappeto.
E allora, Grillo, rimboccati le maniche: hai voluto la bicicletta?
Allora pedala. La tua grande aspirazione, lo sappiamo tutti, era
quella di vedere PD e PDL alleati in un abbraccio mortale e di
109
poterli impallinare da dietro una siepe. Invece t'è toccato l'ingrato
compito di sanare i conti del Paese, di provvedere agli esodati e ai
licenziati, di salvare gli aspiranti suicidi, di rilanciare la ripresa
economica, di eliminare la povertà, di dare assistenza e istruzione
a tutti ecc. ecc.
Hai un'unica possibilità alternativa: rinunciare a tutto e
ritornare ai tuoi brillanti show! Altrimenti mettiti subito al lavoro,
mobilita Stanlio e Ollio (autodefinizione della Lombardi), manda i
tuoi giovani deputati a lezione dai vecchi e scafati parlamentari che
gli insegneranno il mestiere: come scrivere un disegno di legge,
come fare un discorso credibile ecc.
I deputati del PD (che non hanno gran che da fare e che sono
occupati a farsi le scarpe a vicenda) saranno ben lieti di
trasmettere ai neofiti del Parlamento tutta la loro scienza.
Approfitta di questa temporanea disponibilità delle forze degli
sconfitti, perché fra qualche mese, quando avrai preso il 99%,
dovrai sopportare per intero l'onere della gestione.
110
12.6.2013
IN RICORDO DI PEPPE VALARIOTI, UCCISO 33 ANNI ADDIETRO A
ROSARNO, PUBBLICO UNO STRALCIO DI UN VOLUME DA ME
SCRITTO ALCUNI ANNI ADDIETRO, DAL TITOLO "IN CALABRIA
TRA SOTTOSVILUPPO E MAFIA (1964-1984)
VALARIOTI
La mattina dell’11 Giugno fui svegliato dalla telefonata di un
compagno che mi comunicò la notizia dell’assassinio di Peppe
Valarioti.
Quando giunsi a Rosarno molti compagni erano già in
sezione.
Gli attacchini stavano affiggendo i primi manifesti sui muri
scalcinati. Entrai nella stanza semi-buia e vidi i compagni seduti a
semicerchio con gli occhi umidi che si ricevevano le condoglianze.
La famiglia era lontana, in un’altra stanza fredda a piangere il
povero Peppe, ma qui v’erano gli affetti, i ricordi, la rabbia degli
amici più cari. Abbracciai uno ad uno i compagni e me ne sedetti
muto, come s’usa fare ai funerali in Calabria.
Al centro della stanza vi era Peppino Lavorato, incapace di
parlare e di piangere. Era stato lui, insieme con gli altri compagni
recatisi al ristorante La Pergola, a raccogliere Peppino Valarioti tra
le braccia, morente: “Mi hanno ammazzato, compagni.”
Poi la corsa in macchina verso l’ospedale, inutile, perché
111
Peppe era morto quasi subito. Ma perché avevano ucciso Valarioti
e chi?
Sin dai primi momenti apparve chiaro che si trattava di
omicidio politico. Quella sera Peppe e gli altri dirigenti comunisti
erano andati nei quartieri popolari di Rosarno per ringraziare i
cittadini che non avevano avuto paura di votare comunista.
Le elezioni erano andate bene per il PCI dopo il calo subito
l’anno prima alle comunali e alle politiche: il 3,4% in più che aveva
consentito di rieleggere alla provincia Peppino Lavorato e di
mandare al consiglio regionale Fausto Bubba, che per tanti anni
era stato direttore della Cooperativa Rinascita. Tutta la campagna
elettorale condotta dai comunisti era apparsa come una sfida ai
mafiosi che nel ‘79 erano riusciti ad intimidire molti elettori. Come
non rif lettere sul fatto che l’anno prima tra le amministrative e le
europee vi fosse stato un salto di 880 voti?
La sezione comunista decise nel 1980 di affrontare di petto il
nodo mafioso; anzitutto andando a parlare nei quartieri controllati
dai capibastone, sforzandosi di spiegare a giovani e ad anziani
che non bisognava avere paura della mafia.
LE “CASE NUOVE” DI ROSARNO
Le “case nuove”, i quartieri popolari di Rosarno, sono
cresciute nel dopoguerra a misura dei bisogni dei braccianti; anzi
degli ex braccianti che, dopo aver occupato negli anni cinquanta le
terre del Bosco, erano divenuti ormai piccoli proprietari. Casette
basse, massimo a un piano sopraelevato, costruite muro dopo
muro coi primi guadagni, senza alcun rispetto per l’estetica, come
le vecchie casette a schiera dove i braccianti poveri di un tempo,
dopo diciottoore di fatica, ritornavano la sera a dormire come cani.
Ancora oggi Rosarno presenta un tessuto urbano elementare,
una tipologia edilizia tra le più povere della Piana. Tutto questo,
unito all’incuria in cui sono tenute le piazze e le strade, al pessimo
stato dell’igiene pubblica, infonde in chi vi giunge un senso di
profondo squallore.
In quelle “case nuove” abitano, però, uomini dotati di memoria
storica che legano indissolubilmente la propria vicenda personale,
la propria ansia di riscattarsi dalla condizione bestiale in cui sono
stati tenuti per secoli, alle lotte, alle fiammate ideali del sindacato,
del Partito comunista degli anni difficili ma pieni di speranza del
112
dopoguerra. A distanza di tanti anni il Partito continua a essere un
cuore pulsante che può rallentare i battiti, anche ansimare, ma che
riprende la corsa non appena il suo popolo gli si riaccosta. Così,
dopo gli anni neri e tristi seguiti alla morte di Valarioti, il Partito
comunista ha riguadagnato i consensi di un tempo, ha riaperto
affollata come una volta la propria sezione.
Nelle “case nuove” il tempo passa, tante cose sono cambiate;
sono invecchiati i padri, sono cresciuti i figli che, spesso si sono
allontanati dal quartiere ed hanno dimenticato l’epopea vissuta dai
genitori. Qualcuno, come Peppe Valarioti, è andato a scuola, fino
all’università, s’è laureato ed ha provato l’ebbrezza di riscoprire le
proprie radici contadine, di collocare la vicenda della propria
famiglia in una dimensione più ampia. Per questo ha scelto,
razionalmente, di militare nel PCI e ne è divenuto ben presto
dirigente.
Nel suo rione, chiamato anche signif icativamente “Corea”,
Peppe cresce alimentato dalle voci, dalle liti, dalla passione delle
donne contadine, costrette ogni giorno a fare i conti con i problemi
dell’esistenza. Sono gli anni ‘50; I braccianti poveri di Rosarno
hanno occupato da poco le terre del Bosco, le stanno mettendo a
coltura, consapevoli di essere stati gli unici nella Piana ad averla
spuntata contro gli agrari, contro i galantuomini. Altrove, infatti, i
braccianti, anche se hanno sostenutol unghe e appassionate lotte,
sono rimasti con un pugno di mosche in mano, perché gabbati
dallo Stato o traditi da chi avrebbe dovuto difenderli.
Fino alla seconda guerra mondiale, chi, che cosa ,erano i
braccianti? Niente, villani, “mezzomini”, perché non sapevano
nemmeno leggere. Con Peppe Valarioti, già professore, spesso
discutevamo di come le classi diseredate del Mezzogiorno si
fossero sempre collocate, negli ultimi secoli, dalla parte della
conservazione. Al cafone meridionale poco interessava la
scomparsa del feudo, se poi questo doveva signif icare per lui più
fame, più oppressione, e nemmeno un fazzoletto di terra per
coltivare pomodori e patate.
Poi la grande illuminazione della lotta per la terra degli anni
‘40. Con il partito, con il sindacato, il bracciante povero acquisisce
coscienza, si fa uomo, conquista il suo pezzo di terra.
Quante volte si è sentito dire: “cu non ha, non è”, chi non
possiede qualcosa, cioè, è come se non esistesse. Per questo
s’iscrive al Partito comunista, partecipa alle lotte sociali, alle
113
battaglie politiche per la conquista del Municipio. Certo, a partire
dagli anni ‘60 la società va cambiando; i braccianti più poveri
emigrano verso la Fiat, in Calabria giungono le autostrade.
Quando Peppe Valarioti ha vent’anni ed è già uomo, a
Rosarno spuntano le prime cooperative; la “Rinascita” sorge per
un atto di volontà dei dirigenti comunisti e dei piccoli proprietari, i
vecchi assegnatari del Bosco, i quali intuiscono che è necessario
associarsi per non cadere nelle grinfie della speculazione mafiosa.
Nel ‘74 il referendum sul divorzio mette in luce nella Piana
l’esistenza di un grave handicap culturale: qui la “cultura” popolare
non è stata sopraffatta ma non ha nemmeno vinto. Peppe è uno di
quei giovani che comprende l’importanza della cultura ai fini della
sopravvivenza e della crescita del partito e delle organizzazioni
democratiche a cui, intanto, si è avvicinato per un atto di amore e
di intelligenza.
Lì a Rosarno (l’antica Medma) egli coltiva interessi inconsueti,
come quello per l’archeologia e per la musica classica. A un certo
punto, messi da parte il latino e Ammiano Marcellino, argomento
della sua tesi di laurea in lettere classiche, va alla scoperta delle
proprie origini, incomincia ad indagare con passione il mondo
contadino e le lotte del dopoguerra.
114
Nelle case dei contadini, dunque, i comunisti erano ritornati
durante la campagna elettorale del 1980, per spiegare ai padri
l’importanza di riprendere a votare comunista dopo la sbandata
dell’anno precedente, e per far capire ai giovani che il messaggio
della mafia, la quale prospettava alle nuove leve ricchezze e
prestigio, era insidioso ed insincero.
Vecchi e giovani compresero, in gran parte, il messaggio di
liberazione e di pace lanciato dai comunisti e li votarono
scrollandosi di dosso la paura dei capetti mafiosi dislocati in ogni
quartiere .Quando i comunisti andavano a parlare nei rioni, le
donne del popolo si affacciavano sugli usci e lanciavano fiori.
In Calabria la mafia detiene il potere attraverso il consenso di
massa. I regolamenti di conto sono un fatto eccezionale e interno
alla comunità mafiosa. I boss non hanno bisogno di mostrare i
pugni e le pistole alla gente che, da parte sua, li sostiene perché
convinta della validità delle norme che sovrintendono
all’organizzazione della ‘ndrangheta. I mafiosi, del resto, più che
delle leggi, dei carabinieri (hanno messo nel conto la possibilità di
incappare nei rigori della giustizia ed anche di morire
violentemente) hanno timore dell’isolamento e della perdita del
consenso popolare in virtù del quale essi si ritengono legittimati a
esercitare il potere.
La mafia, capisce dunque la pericolosità del messaggio
lanciato dai comunisti e decide di fermarli. Il 20 maggio dell’80 la
sezione del PCI viene data alle fiamme; la stessa notte viene
incendiata l’auto del consigliere provinciale e capogruppo al
comune, Peppino Lavorato. Non solo: bande di mafiosi pedinano i
militanti comunisti durante la campagna elettorale, controllandone
ogni mossa; infine, per lanciare un chiaro messaggio di violenza e
di morte, strappano i manifesti del PCI e li ricollocano capovolti.
I FUNERALI
I funerali di Valarioti si svolsero il 12 Giugno e furono
imponenti: vennero dalla Piana, dalla Provincia, da tutta la
Calabria. Il sindacato invitò i lavoratori a fermarsi per quella
giornata; la Giunta comunale (Valarioti era consigliere) proclamò il
lutto cittadino.
115
La cosa che più mi colpì in quel funerale fu la lunga teoria di
donne vestite di nero che seguivano il feretro: in pratica tutte le
donne del popolo (che di norma non partecipano
all’accompagnamento dei morti al cimitero) si strinsero quel giorno
attorno alla bara di uno dei loro giovani.
In piazza, tra il silenzio di tutti, parlò per primo Lavorato, poi
altri oratori, infine l’on. Achille Occhetto per la Direzione nazionale
del PCI. Provai a salire sul palco e vidi una marea di gente,
almeno ventimila persone sparse in una piazza oblunga. Franco
Romeo, un giovane funzionario di partito piangeva ai piedi del
palco e così pure altri giovani, compagni di partito o di lavoro del
povero Peppe.
“Con il feroce assassinio del nostro compagno – disse
Occhetto- si torna, dopo decenni, ai delitti compiuti ai primordi del
movimento. Si torna a quando si colpivano i contadini non tanto
per i comportamenti personali quanto per l’azione di progresso
impostata.”
A macchiare quella giornata di dolore e di commozione
giunsero le incaute dichiarazioni del sindaco socialista di Rosarno,
secondo il quale il delitto era da ricondurre ad una “questione di
donne”. Lo stesso quotidiano del PSI, l’Avanti, scrisse a proposito
delle voci che anche la mafia aveva fatto circolare: “E’ questo un
modo di continuare ad assassinare Giuseppe Valarioti, senza che,
come nella morte reale possa difendersi. D’altra parte i mafiosi
sanno soltanto sparare alle spalle.”[1]
“Valarioti - affermò Occhetto nel suo comizio – nona veva
nemici personali. Egli aveva però accusato la Giunta comunale di
avere distribuito fondi in modo clientelare e di aver affidato
importanti incarichi urbanistici ai propri amici.”
Per il partito comunista il colpo fu molto duro. I dirigenti
alternavano a momenti di fiducia vere e proprie manifestazioni di
sconforto. Poco prima dei funerali, nel corso di una conferenza
stampa, il segretario regionale del PCI, Tommaso Rossi, ammise:
“Nella lotta contro la mafia noi comunisti ci sentiamo abbastanza
soli.” In una lettera a “Paese Sera” un militante comunista di Vibo
Valentia, riferendosi ai funerali di Valarioti, scrisse: ”Eravamo in
molti, ma eravamo soli: noi comunisti, soli a combattere la mafia...
Contro la mafia non c’erano né le bandiere dello scudo crociato né
quelle del garofano né altre”.[2]
Ai funerali, in realtà, c’era stato accanto ai comunisti tutto il
116
popolo di Rosarno, solo che dalla commozione e dalla
partecipazione del primo periodo si passò alle ambiguità del giorno
dopo, per poi precipitare nel silenzio e nella paura dei giorni
successivi.
“Questa azione - giudicò a caldo il Direttivo provinciale del
PCI - testimonia un salto di qualità dell’iniziativa mafiosa nella
Piana di Gioia Tauro: ci troviamo di fronte ad un vero e proprio
omicidio politico compiuto dalla mafia...”[3]
IL PSI MUTA ALLEANZE
Nel documento si faceva riferimento a pericolosi segnali di
inversione di tendenza manifestatisi nel settore della giustizia
all’indomani delle elezioni politiche del 1979. In particolare alla
conclusione, non certo esaltante, del giudizio d’appello al processo
dei 60 che aveva visto la sostanziale assoluzione dei boss
precedentemente condannati a pene ben più severe; ed ancora
alla assoluzione del clan degli Ursini per i fatti di Gioiosa Jonica.
In questa cittadina il sindaco comunista, Francesco Modaffari,
protagonista di tante battaglie contro la mafia, era stato
estromesso dall’incarico per colpa dei socialisti, alleatisi con la DC.
Ma anche a Rosarno la Giunta di sinistra era stata sfasciata per far
posto al centrosinistra.
“Sull’onda di acquiescenza e di complicità – sostenevano i
comunisti reggini - si sono ulteriormente cementati i rapporti tra
mafia e potere politico; in particolare con il sistema di potere della
DC che costituisce il principale brodo di coltura per la crescita
dell’organizzazione mafiosa. Accanto a ciò si sono, però,
manifestati già da qualche tempo, e in particolare in concomitanza
con le ultime elezioni, nuovi intrecci che hanno interessato anche
altre forze politiche, non esclusi alcuni settori non trascurabili della
stessa sinistra”.4
Nell’analizzare i comportamenti dei socialisti che in diversi
comuni (Rosarno, Africo, Gioiosa) avevano operato un
rovesciamento delle alleanze e s’erano accordati con la DC,
Corrado Stajano affermava: “La sinistra perde il potere. il
coraggioso sindaco comunista Modafferi, instancabile avversario
della mafia, è costretto a lasciare. La lotta alle cosche si arena:
117
l’amministrazione comunale è addirittura assente dalle
manifestazioni popolari contro le violenze mafiose. Cosa dire del
PSI calabrese dopo tutti questi fatti? Il passaggio dall’altra parte
degli amministratori diAfrico procura una gran vergogna... Quando
si realizza il passaggio dei socialisti dell’area della sinistra alla DC,
l’atteggiamento nei confronti della mafia cambia”.[4]
All’indomani del delitto molti di noi s’interrogarono sulle ragioni
che avevano spinto la mafia a individuare come obiettivi della loro
azione la città di Rosarno, la sezione comunista, il suo giovane
segretario.
“La mafia - scrivevo in quei giorni su “Paese Sera”,ha voluto
lanciare con il delitto Valarioti un esplicito messaggio ai comunisti
e alle popolazioni della Piana e della Calabria. E’ a Rosarno, cuore
economico dell’agricoltura della Piana, che le forze della reazione
e della mafiai ncontrano notevoli resistenze. Per questo
l’avvertimento è stato dato a Rosarno: sfondato il caposaldo, la
mafia non avrebbe difficoltà a vincere le ultime resistenze della
Piana.
L’on. Occhetto ha affermato dal palco dei funeraliche, di là
dalla identif icazione dei killer e dei mandanti, la responsabilità di
fondo ricade sul sistema di potere instaurato dalla DC nel
Mezzogiorno...Anche per il terrorismo esistevano delle motivazioni
di fondo; eppure ci si è mossi con tenacia, con rigore... ed oggi,
anche se permangono le cause di fondo, il terrorismo appare in
grosse difficoltà”.
Per quanto tempo ancora il Mezzogiorno, o gran parte di
esso, sarà considerato come un’isola alla deriva che ora si
avvicina al continente della democrazia, per effetto delle correnti,
ora se ne allontana? In quest’isola alla deriva, il sistema
assistenziale, voluto dalla DC, e la mafia, la stanno facendo la
padroni. La mafia sta progressivamente occupando in tutta la
Calabria spazi importanti all’interno dei partiti di governo. Negli
anni Settanta, con una serie di attentati e di intimidazioni, ha
piegato la resistenza di molti uomini politici al potere nelle
province, nella regione e nei comuni; adesso mira a vincere la
resistenza di chi sta all’opposizione.
I dirigenti comunisti calabresi che vanno a Roma in questi
giorni dovranno dire con estrema chiarezza alla Direzione del loro
partito che la partita contro la mafia non può essere giocata solo
dalle forze locali; proprio perché quella mafiosa è una delle grandi
118
questioni nazionali che, come la strategia della tensione o il
terrorismo, hanno mirato e mirano a sconvolgere le basi
democratiche dello Stato. C’è bisogno di un impegno generoso
delle forze democratiche, del PCI in primo luogo, per fermare e
piegare le forze della mafia.”[5]
Se si guarda agli altri delitti politici ordinati dalla mafia in
quegli anni (da Boris Giuliano a Piersanti Mattarella, dal capitano
Basile al giudice Terranova) ci si accorge che dietro ciascuno di
questi fatti criminosi esiste un fatto preciso, una ragione specif ica.
L’uomo politico, il poliziotto, il carabiniere, il magistrato, erano
persone scomode che avrebbero potuto, nell’esercizio delle loro
funzioni, ostacolare gli affari della mafia.
Nel caso del segretario della sezione comunista di Rosarno
niente di tutto ciò; Valarioti era un capace dirigente sezionale
che ,alla pari di tanti altri, aveva denunciato brogli e malefatte; ma
non era il leader della sua sezione né apparteneva al gruppo degli
esponenti più noti e più prestigiosi della Piana di Gioia Tauro. Nella
stessa Rosarno, infatti, il Partito aveva eletto un consigliere
provinciale e uno regionale.
Nessun fatto specif ico, dunque, nessuna circostanza precisa.
Il delitto Valarioti appare tanto più grave - forse il più grave dei
delitti politico-mafiosi consumati in Calabria - quanto più si
consideri che con l’uccisione del dirigente comunista si è voluto in
quegli anni lanciare un messaggio terroristico, al Partito comunista
in primo luogo, ma anche alle altre forze politiche, agli
amministratori locali, a quanti, insomma, costituiscono le prime
maglie del tessuto democratico. Perché, in fondo, il fine della mafia
è identico a quello del terrorismo nel momento in cui si propone di
minare alle basi lo Stato democratico, di colpirne le istituzioni (e
anche il Partito comunista che nella Piana di Gioia Tauro ha finito
per assumere, in assenza di altro, il ruolo di grande istituzione
democratica).
Forte era la consapevolezza in ognuno di noi della gravità del
momento. Si giustificano così gli accorati appelli che in quei giorni
lanciavamo sulla stampa al Partito nazionale, alle altre forze
democratiche, perché rif lettessero con attenzione sul signif icato
nuovo che andava attribuito agli eventi di Giugno.[6]
119
NOTE
[1] D.Labate, Il boss ha lasciato il confino per aiutare la DC in
“Avanti”,14.6.1980 p. 4.
[2]Lettera di G. Loriani, Noi comunisti soli a combattere la
mafia, in“Paese Sera”, 22.6.1980, p. 5.
[3]Partito comunista italiano, Comitato direttivo provinciale di
Reggio Calabria,comunicato del 12.6.1980.
[4]Corrado Stajano, Fermare la lotta del PCI è l’obiettivo dei
killer, in “PaeseSera”, 21.6.1980. Autore di una monografia su
Africo, Stajano venne assolto daltribunale di Torino dall’accusa di
averdanneggiato la reputazione del prete don Stilo che,
nell’Agosto del 1984, è statotratto in arresto sotto l’accusa per
associazione per delinquere.
[5] in“Paese Sera”, 15.5.1980.
[6]“L’assassinio di Valarioti può stimolare, come a suo tempo
quello di Guido Rossa, la reazione delle forze sane del Paese
contro l’imbarbarimento. Solo che la battaglia contro la mafia è più
120
difficile e complessa di quella contro ilterrorismo.
Il PCI e le altre forze democratiche debbono capire che se la
lotta contro la mafia non viene assunta come uno dei doveri
principali dello Stato democratico, come un impegno nazionale di
lunga lena, se non si comincia, intanto, a porre un argine nella
Piana di Gioia Tauro, identif icando mandanti e killer, del delitto
Valarioti, facendo pulizia all’interno delle istituzioni. c’è il pericolo,
non tanto di perdere un avamposto ma di perdere alla democrazia
grossa parte del Mezzogiorno. Anzi, di sprecare un’importante
occasione per porre su basi nuove e diverse il rapporto tra lo Stato
e il Mezzogiorno.
I dirigenti comunisti calabresi debbono saper dire che sono gli
stessi militanti di base che oggi gli chiedono di essere cauti e
attenti contro la mafia. C’è in tutto ciò la consapevolezza del semiisolamento in cui si trova il PCI calabrese nei confronti delle altre
forze democratiche locali. Guai se le grandi forze democratiche
nazionali, in primo luogo i comunisti, i socialisti, il sindacato, il
movimento cooperativo, non riuscissero a rispondere con
decisione a questa accorata richiesta di aiuto che viene dalla
Calabria”. In Paese Sera cit.
Commenti
Beppe Orefice Lino lo metto sul mio blog ...ovviamente
scrivo che è roba tua 12 giugno 2013 alle ore 14.22 ·
Michele Maduli Ti ringrazio. Il povero Peppe se lo merita. Io
non l'ho mai dimenticato. Nel primo anniversario (allora ero
Segretario del PCI della Piana) feci venire a Rosarno un'orchestra
perché suonasse in suo onore (era un appassionato di musica
classica).12 giugno 2013 alle ore 14.31
Beppe Orefice Faccio con piacere e per dovere.12 giugno
2013 alle ore 14.32 · Beppe Orefice IN RICORDO DI PEPPE
VALARIOTI, UCCISO DALLA MAFIA 33 ANNI ADDIETRO. (di
Michele Maduli)
http://www.peppeorefice.it/?p=363
http://www.peppeorefice.it/wpcontent/uploads/2013/06/1010510_10200605552174585_2137775
724_a.jpgPeppe Orefice » IN RICORDO DI PEPPE VALARIOTI,
UCCISO
DALLA
MAFIA
33 ANNI ADDIETRO.
(di...
PEPPEOREFICE.ITDomenico Cristofaro Ma quanti oggi sono
121
degni di uno come Peppe Valerioti!!!12 giugno 2013 alle ore 19.56
·
Achille Bonifacio La tua rievocazione merita una risposta
lunga e articolata: sulla lotta dei braccianti a Rosarno, sul ruolo del
PCI...Limito il mio intervento a poche righe soltanto. La morte di
Peppe Valarioti l'ho appresa quando già abitavo in Sicilia. Ma
conoscevo tutti i protagonisti della vicenda e del ruolo dei partiti
della sinistra. E ho voluto ricordare Peppe Valarioti, con la
presentazione del libro "Gli africani salveranno Rosarno..." (sulla
lotta dei neri africani a Rosarno) di Antonello Mangano, con uno
scritto commovente di Peppe Lavorato, e alla presenza dell'autore
stesso del libro Mangano. E' stato un evento veramente di
notevole rilievo....emozionante! Grazie Michele Maduli, per queste
tua nota: mi ricordano molte cose...!
13 giugno 2013 alle ore 10.21
Nicola Gargano .... E fu proprio in seguito al dramma causato
dal barbaro assassinio per mano mafiosa del caro Peppe che il
PCI della Piana (e della provincia di Reggio) attraversò uno dei
periodi più difficili della sua storia. Quella tragica vicenda cambiò
la vita di tanti, e anche la mia. Fu proprio in seguito a quel tragico
atto, al culmine di una strategia terroristico-mafiosa contro il PCI
ed il Movimento democratico della Piana, che mi fu proposto di
entrare nell'apparato e diventare, a settembre del 1980,
funzionario del PCI...12 giugno 2013 alle ore 15.05 ·
Michele Maduli E fu proprio in seguito al dramma che io
venni chiamato (da "laico") a dirigere il PCI della Piana dove trovai
due giovani funzionari che si chiamavano Nicola Gargano e
Franco Romeo...
Lory Viola Generalmente questi atti di vile barbarie ci
vengono raccontati ......dalla terra siciliana, una terra
contraddittoria quanto coraggiosa se si pensa ai più nobili servitori
dello Stato.....di origine siciliana.....e paradossalmente....agli
ingegni mafiosi che quella terra ha generato.....Valerioti era un
calabrese, un eroe silenzioso di Rosarno.....a cui la cronaca non
ha riservato grandi meriti, solo il ricordo dei suoi compagni lo
narra, e mentre la Sicilia...celebra i suoi eroi.....la
Calabria......nell'indifferenza ne distrugge anche la memoria, con
questo omicidio si è annientato....il seme rivoluzionario che si
stava generando, lasciando spazio ai falsi eroi ed alle pseudo
eroine, ai moderni bollini autoreferenziali....che della lotta alla
122
mafia ne rappresentano solo l'utile personale propaganda....La
nostra terra non celebra eroi.....12 giugno 2013 alle ore 21.02
Michele Maduli E pensare che gli eroi sono stati tanti. Ho
intenzione di parlarne in un'altra occasione. Per ora dico soltanto i
nomi: Lo Sardo, dirigente della Sezione di Cetraro, ucciso una
settimana dopo Valarioti; Francesco Vinci, della Federazione
Giovanile Comunista di Cittanova e Rocco Gatto, indomito
mugnaio comunista di Gioiosa Jonica.12 giugno 2013 alle ore
21.07 ·
Lory Viola ecco...prof......la mia ignoranza sconosce....questi
nomi....., mi vergogno di questo...anche se non ho deciso io....di
non sapere in merito......, però la sua lodevole considerazione....mi
ha suggerito un idea......, ne riparleremo....presto.....GRAZIE per la
conoscenza che mi trasmette.......12 giugno 2013 alle ore 21.16
Antonino Romeo Il loro ricordo ci porta a pensare che il
cambiamento avviene sempre e comunque.13 giugno 2013 alle
ore 18.17 ·
123
20 giugno 2013 alle ore 20.32
IL 21 GIUGNO DI 33 ANNI FA VENIVA UCCISO GIANNINO
LOSARDO, GIA’ SINDACO COMUNISTA DI CETRARO (APPENA 10
GIORNIDOPO VALARIOTI)
(da“In Calabria tra sottosviluppo e maf ia -1964-1984”, di
Michele Maduli)
A rendere più drammatico il clima contribuì, a distanza di
pochi giorni, l’assassinio del dirigente comunista Giannino Lo
sardo da parte della mafia di Cetraro. Ai funerali di Losardo, il 24
giugno 1980, intervenne anche il segretario generale del PCI,
Enrico Berlinguer, ma c’erano pure Occhetto e il povero Pio La
Torre.
Ci ritrovammo, in una Cetraro già infuocata dal sole
dell’estate, tutti quelli che eravamo stati a Rosarno per Valarioti. “
Attenzione- disse Berlinguer - si comincia dai comunisti, per poi
124
colpire tutti. Tutti gli uomini onesti, di tutti i partiti. Tutti coloro che
vogliono proseguire il cammino per il rinnovamento. In Sicilia,
un’altra regione dominata dalla mafia, si è colpito il giudice
Terranova, e si è colpito anche il Presidente democratico della
Regione, Mattarella. Nessuna forza democratica deve
sottovalutare quanto sta avvenendo in Calabria.”[1]
Per le stradine tortuose di Cetraro c’era un via vai di compagni
che si recavano in municipio per rendere omaggio alla salma di
Losardo. Sui visi della gente vi erano sgomento ed incredulità. Lì,
in quella cittadina a strapiombo sul mare più azzurro della
Calabria, in una provincia fino a poco tempo prima preservata dai
riti barbarici della mafia, la violenza compiuta ai danni di un uomo
inerme e coraggioso appariva ancora più grave, ancora più
inaccettabile.
“Colpiscono i dirigenti comunisti - affermò in quell’occasione
l’on. Frasca - perché in questo momento è il PCI che conduce più
conseguentemente la battaglia contro la mafia... Chi ha
ammazzato Ferlaino? -proseguiva l’esponente socialista - chi ha
ammazzato Valarioti e Losardo? Non si può rispondere a metà, o
col silenzio, a queste domande. E poi voglio dire chiaro e tondo
che sta succedendo anche di peggio, ossia che qui in Calabria
non c’è sindaco o consigliere regionale o deputato o senatore che
non sia stato eletto con l’appoggio della mafia. Insomma la
delinquenza organizzata sta diventando un partito politico, sceglie
gli uomini e formula i pianir egolatori...”[2]
In seguito ai due delitti la direzione del PCI incominciò a
prestare grande attenzione a quanto succedeva in Calabria. Ai
primi di luglio una delegazione di parlamentari comunisti, guidata
da Pecchioli, visitò le zone più calde della Regione. Il 12 Luglio fu
Pietro Ingrao a commemorare a Rosarno Valarioti, a un mese dalla
scomparsa.
In estate, nel corso delle feste dell’Unità s’incominciò a
discutere del problema della mafia anche nelle altre regioni d’Italia.
Molti di noi furono invitati a partecipare a dibattiti o a conferenze.
A me toccò di andare in una borgata romana, a Torpignattara.
Non era facile parlare di mafia a settecento chilometri di distanza. I
compagni mi accolsero con calore e mi consegnarono 300.000 lire
perle sezioni di Cetraro e di Rosarno. Partecipai pure a un dibattito
organizzato dalla Federazione comunista di Cosenza, a Paola,
insieme con i giornalisti Madeo e Ardenti.
125
Da queste esperienze, ma anche dai contatti che ebbi in quel
periodo con gente di diverso orientamento, in varie parti d’Italia,
trassi l’impressione che esistesse una sostanziale sottovalutazione
di quanto stava succedendo in Calabria. Sfuggivano a molti il
senso dell’operazione che la mafia stava conducendo, la qualità
nuova dell’attacco mafioso volto a indebolire il PCI, ma anche le
istituzioni democratiche, in ultimo il taglio terroristico delle imprese
criminali.
Nel mese di Agosto la FGCI lanciò ai giovani di tutta Italia
l’invito a scendere a Palmi per manifestare contro la violenza
mafiosa ed il suo messaggio di morte. Nei tre giorni di festival, dal
10 al 12, tanti giovani lindi, ignari di quanto potesse accadere, per
il resto dell’anno, a pochi passi dai loro campeggi, ascoltarono
musica e parlarono di politica.
In quest’occasione gli inviati dei principali quotidiani italiani
discussero su come il problema mafioso veniva proposto sulle
pagine dei giornali. Qualche settimana prima, il giornalista Andrea
Santini aveva pubblicato su “Paese sera” un’intervista fatta all’on.
Franco Quattrone, democristiano reggino, che aveva risposto con
sincerità e spregiudicatezza alle domande postegli sul nuovo ruolo
assunto dalla mafia nella regione calabrese. Sulla “Gazzetta del
Sud”, invece, l’on. Vico Ligato, anche lui reggino e democristiano,
aveva fatto capire come non fosse consigliabile per nessuno
parlare, sbilanciarsi sul terreno minato della mafia.
Era inevitabile che nel corso del dibattito il pubblico
polemizzasse apertamente con l’inviato di quest’ultimo giornale,
accusato di scrivere da 20 anni di mafia, ma di non aver mai
infastidito seriamente i mafiosi. E’ tipico dei giornali locali, infatti,
dilungarsi nella descrizione minuta e macabra degli efferati omicidi
di marca mafiosa, nella rievocazione delle imprese dei boss. In
questo modo, sia pure senza volerlo, non si fa che mitizzare i
criminali. I vari “don” trattati alla stregua di personaggi da romanzo
popolare. Altro vizio della stampa locale (che fa da contrappunto a
quello di certa stampa del Nord che non perde occasione per
criminalizzare il Mezzogiorno) è quello di stendere un velo pietoso
su alcune vicende, ritenendo in questo modo di salvaguardare
l’onore e l’integrità morale dei calabresi.
BIOGRAFIA DI GIANNINO LOSARDO
Giannino Losardo (1926-80)
126
Nato a Cetraro nel 1926, da Giuseppe ed Angelina Seta, è
allievo prediletto di Francesco Aita; che lo prepara a sostenere, in
piena guerra, gli esami ginnasiali. Nel 1945, s’iscrive alla Sezione
di Cetraro del Partito Comunista Italiano, diretta dal confinato
milanese Peppino Rigamonti. E nel 1946, conseguita a Vibo
Valentia la maturità classica, s’iscrive alla Facoltà di
Giurisprudenza dell’Università di Napoli. Nel clima di riforma,
inaugurato nel Meridione dai Patti Agrari, partecipa con fervore alla
politica locale; contribuendo all’aumento di consenso del suo
partito. Nel 1950, partecipando ad un concorso per segretario
comunale, pur essendo giunto tra i primi dieci in graduatoria, non
viene mai chiamato ad espletare tale incarico; per via, forse, della
sua militanza comunista. Partecipa allora, nel 1955, a lconcorso
per cancelliere; e superatolo gli viene assegnata la sede di
Verbania-Pallanza, sul lago Maggiore. Dopo pochi anni ottiene il
trasferimento presso la Pretura di Paola; finendo per ricoprire il
ruolo di Segretario Generale della Procura della Repubblica.
Stabilitosi a Fuscaldo, nei primi anni ’70 riallaccia i rapporti politici
col suo paese d’origine; e collabora attivamente alla rivista
Chiarezza diretta da Luigi Gullo. Capolista del PCI nelle
amministrative del1975, diventa Sindaco di Cetraro; iniziando
subito una drastica politica di contrasto al nascente abusivismo
edilizio ed ai primi fermenti d’inquinamento sociale. Ma la sua
esperienza dura solo tre mesi. Rieletto consigliere comunale nel
1979, riveste la carica d’assessore ai lavori pubblici e quindi alla
pubblica istruzione. In tale veste, dopo una seduta di consiglio
comunale, la notte del 21 giugno 1980, mentre fa ritorno alla sua
abitazione di Fuscaldo, cade vittima d’un agguato nei pressi di S.
Maria di Mare. E muore il giorno dopo, all’ospedale civile di Paola.
I suoi funerali hanno risalto nazionale per la venuta a Cetraro del
Segretario Generale del PCI, Enrico Berlinguer. E molte sezioni
comuniste d’Italia portano il suo nome. Cetraro lo ricorda per
avergli intitolato il largo della Porta di Basso, dov’era un tempo la
sua casa; e nel Premio Nazionale ‘Giovanni Losardo’ che si tiene
ormai da molti anni.
http://www.laboratoriolosardo.it/index.php?
option=com_content&view=article&id=86&Itemid=116
127
[1] In“Paese sera”, 3.7.1980.
[2] In“Paese Sera”, 3.7.1980
Lory Viola prof Michele Maduli......questi fatti raccontano la
vita, narrano la reale lotta contro il malaffare, sembrano trame di
film........che
una
volta
apparivano
surreali....e
con
protagonisti.....eroi silenziosi....alla portata di qualsiasi cittadino,
tanto grande era la loro umiltà.....pur nella grandezza,mentre oggi
si corre il rischio di sbiadirli......con il surreale delle propagande
antimafia locali....che commemorano se stessi...invece di restituire
memoria pensante ai valorosi protagonisti di una storia......da non
dimenticare. Grazie....20 giugno 2013 alle ore 21.42 ·
Orfeo Notaristefano Atroce e indimenticabile delitto a
Cetraro. Abbiamo tutto ben presente, come fosse ieri.20 giugno
2013 alle ore 21.49 ·
Giuseppe Macino Era un grande compagno, Cancelliere al
Tribunale di Paola. In Calabria con gli omicidi Valarioti Lo sardo e
Gatto incominciò la strategia a lungo vincente del terrorismo
politico mafioso. La Calabria ha pagato carissimo la difficoltà di
reagire a questa prepotenza.20 giugno 2013 alle ore 23.25 ·
Giovanni Pecora Condivido questo triste ricordo.20 giugno
2013 alle ore 23.5
Michele Garri TI i RINGRAZIO, ANCHE SE HAI TOCCATO
UN TASTO DOLOROSO. MA E' PROPRIO QUELLO CHE CHE CI
ILLUMINA E CI FA ANDARE AVANTI21 giugno 2013 alle ore 12.07
128
18 novembre ·2014
DIAMO A CESARE QUEL CHE E' DI CESARE. COME E PERCHE'
ANCHE LA LOMBARDIA E' TERRA DI MAFIA E DI LOMBARDI
MAFIOSI !
Parliamoci chiaro: le cosche di 'ndrangheta non sono un
distaccamento della Calabria arretrata e mafiosa nella regione
onesta e sana della Lombardia. L'Italia ormai è stata "mescolata"
per bene, sin da quando milioni di meridionali vennero strappati
alle loro radici ed assorbiti nelle imprese industriali del Triangolo e
del Nord Est. Allora una economista inglese, Vera Lutz, giunse
addirittura a teorizzare l'opportunità di trasferire tutto al Centronord
e di lasciare al proprio destino il Sud spopolato e spolpato.
E' chiaro che lo sciame che partiva in quegli anni tristi dal Sud
era formato da tantissime persone per bene ma anche da mafiosi
più o meno inseriti nelle organizzazioni criminali.
Ma è stato così anche a New York, in Canada, in Australia.
Tutte le comunità che si trasferiscono in paesi lontani per fame o
per ragioni politiche, tendono a ricreare le condizioni di vita, i
rapporti sociali e di potere originari dei paesi di provenienza.
Forse che i guerrieri dell'Isis non sono figli dei siriani, degli
africani, degli islamici scappati dai loro paesi di origine?
O bisogna, addirittura, risalire ai trasferimenti forzosi di milioni
di africani rimasti, per secoli in condizioni di schiavitù nelle
americhe?
Quel che voglio dire è che, quando gli Agnelli della Fiat e le
migliaia di piccole e grandi industrie richiamavano al Nord milioni
di braccia, erano certamente consapevoli del fatto che avrebbero
alimentato tensioni, malesseri, problemi di ogni natura.
La classe politica e industriale italiana del tempo, scelse lo
sradicamento di intere popolazioni, piuttosto che la creazione di
fabbriche e di lavoro nei territori centromeridionali.
Fu quella una scelta della classe dirigente che oggi non può
far finta di niente, alimentando, addirittura, l'opinione che i guasti e
i mali del Nord sarebbero da attribuire a quei mafiosi di San Luca,
di Africo, della Jonica reggina e di tutta la Calabria che vanno a
contaminare le sane realtà del Nord (ma dopo il Mose e l'Expo non
129
ci crederebbe più nessuno!)
E, allora, che si abbia il coraggio di guardare in faccia la realtà
e di riconoscere che alla base dello sfascio sociale v'è questa
ferita inferta al Mezzogiorno negli anni '50. Le riunioni delle 'ndrine
lombarde sono il prodotto di questa nuova società che è venuta
fuori dalla commistione di Nord e Sud.
E la smettano i malaccorti commentatori della grande e
piccola stampa, di richiamare sempre il fantasma della malavita
calabrese, visto che ormai i mafiosi che sono dentro agli affari
delle piccole e grandi città del Nord, sono a pieno titolo abitanti del
Nord, milanesi, torinesi, padovani ecc.
Nessuno ormai, nemmeno il Ku Klux Klan, si sognerebbe di
addebitare al Kenia, al Ghana o alle altre nazioni africane la
responsabilità di quel che fanno i neri degli Stati Uniti.
Paradossalmente la città che ha combattuto seriamente la
mafia è la città di Corleone; sono stati i siciliani, i calabresi che
hanno lasciato sul campo migliaia di vittime nella lotta contro il
malaffare mafioso. Sarebbe ora che anche i cittadini del Nord
prendessero atto della esistenza nel loro territorio del malaffare
mafioso e si comportassero di conseguenza.
Commenti
Paolo Calibano Virgili chapeau!19 novembre alle ore 12.31 ·
Pino Prochilo Condiviso al 100%, caro Michele, finalmente
una voce che tenta di mettere le cose al giusto posto.19 novembre
alle ore 13.27 · Peppino Riso Chiunque sia dotato di un minimo
d'intelligenza sa benissimo che _le cause risiedono in un cattivo
sviluppo gestito dall'alto sin dalle origini dell'Italia unita e voluto
principalmente da ciechi economisti del Nord. Fino a poco tempo
fa i vari Moratti...Altro...19 novembre alle ore 14.05 ·
Peppino Riso Chiunque sia dotato di un minimo d'intelligenza
sa benissimo che le cause risiedono in un cattivo sviluppo gestito
dall'alto sin dalle origini dell'Italia unita e voluto principalmente da
ciechi economisti del Nord. Fino a poco tempo fa i vari Moratti
negavano che vi fossero malaffare e associazioni a delinquere al
Nord mentre, invece, molti cosiddetti industrialotti ci guazzavano
come porci. La tua analisi è spietata, ma vera
Antonio Marziale Si, vero analisi spietata, ma vera! 9
130
dicembre alle ore 16.33 ·
Peppino Riso Un'analisi dura, spietata, ma vera.9 dicembre
alle ore 17.27 ·
131
19 dicembre 2014 alle ore 17.38
UNA BATTAGLIA DI DEMOCRAZIA IN ITALIA CONTRO POTERI
CRIMINALI E RAZZISMI.
Relazione tenuta da Michele Maduli all’Assemblea del
circolo “G. Ianni” di San Benedetto del Tronto il 18.12.2014.
Quello che è successo a Roma nelle ultime settimane ha
impressionato notevolmente l’opinione pubblica nazionale, ha
indotto tutti noi a rif lettere seriamente su questi fenomeni che
hanno sollevato ansie tra il popolo della sinistra e che hanno
costretto i nostri organismi dirigenti, ai più alti livelli, a intervenire
pesantemente rimuovendo il responsabile locale e nominando
come commissario la più alta carica del Partito, dopo il segretario.
Inutile dire che le altre forze politiche hanno cercato di
inserirsi nella vicenda chiedendo, addirittura, le dimissioni del
Sindaco e il commissariamento della più grande città italiana, anzi
della capitale dello Stato italiano.
Dirò in seguito qualcosa su questo argomento; per ora mi
preme rif lettere sullo stupore che ha colpito tanti osservatori,
sull’incredulità di tanta parte della classe politica che riteneva
impossibile che la mafia si disvelasse a Roma, così come in altre
città del centro-nord.
Quel che ha colpito l’opinione pubblica nazionale è questo
connubio tra criminalità residua della Banda della Magliana, la
cooperazione basata sul recupero degli ex carcerati, avamposti di
mafie tradizionali, funzionari corrotti disseminati un po’ in tutte le
strutture di potere, politicanti di vario livello (ahimè molti gravitanti
nell’area di sinistra). E poi, il coinvolgimento dei poveri di periferia,
dei migranti e degli zingari sistemati nei loro campi rom, a ridosso
dei quartieri popolari.
Che non ci fosse molta simpatia tra gli zingari e le popolazioni
delle borgate si sapeva da tempo. L’uomo delle cooperative, Buzzi,
non ne era particolarmente preoccupato. Per lui contavano le
risorse erogate a favore dei migranti, dei borgatari e degli stessi
zingari. Su queste, Buzzi e Carminati facevano le creste; sul
132
malessere di queste persone era basata la continua ricerca di
finanziamenti, le mille occasioni per speculare, con il consenso e
l’aiuto di certi funzionari e di certi amministratori.
Curiosamente, quasi negli stessi giorni, scoppiava qui nella
nostra città, il bubbone dell’intolleranza nei confronti degli zingari e
degli immigrati. (1)
D’accordo, si tratta di un episodio limitato ma anche del
segnale di un malessere che cova da molto tempo. Le leggende
metropolitane degli zingari che rapiscono i bambini esistono da
tempi immemorabili; ricordo che le mamme, agitando lo
spauracchio delle zingare rapitrici, cercavano di tenerci legati al
territorio del quartiere.
E’ cosa vecchia e risaputa che i primi a fare le spese nei
periodi difficili sono gli zingari e gli stranieri (specie di colore). Ne
sanno qualcosa in Germania e in Alabama. E’ il vecchio vizio delle
destre reazionarie sempre alla ricerca di deboli da perseguire, in
difesa della razza privilegiata.
Sbaglieremmo, però, se non cogliessimo con attenzione le
ragioni di una certa rabbia che spinge la gente semplice ad
intrupparsi nelle battaglie di retroguardia promosse dalle destre e
dai Leghisti di Salvini.
Noi per primi, laddove amministriamo, dovremmo evitare la
creazione di altri centri rom, specie in prossimità di altri campi,
delle periferie povere e delle residenze degli stranieri. Io non so se
sia possibile evitare o ridurre il nomadismo; so, però, che
dobbiamo fare di tutto perché la paglia stia lontana dal fuoco,
evitando, inoltre, la contrapposizione delle categorie meno
abbienti, di qualsiasi razza o religione; operando affinché si realizzi
l’integrazione tra quanti operano e vivono nel medesimo territorio.
Sarebbe interessante censire con cura (spero che qualcuno lo
abbia già fatto) la presenza e la localizzazione delle varie etnie,
individuarne i bisogni (primi fra tutti il lavoro e la casa, ma anche
l’educazione), favorirne la piena integrazione.
Ma ritorniamo alla questione romana.
Ecco, la prima considerazione da fare, è che la mafia (intesa
come fenomeno criminale che opera a tutti i livelli, per conseguire
illeciti profitti) è ben presente –da lungo tempo, nelle sue varie
articolazioni di origine siciliana, campana e calabrese, nonché
133
autoctone- nel corpo sociale ed economico di Roma e di tante altre
città, grandi e piccole dell’Italia.
Per molto tempo è passata l’opinione secondo la quale
l’attività criminale in Italia fosse riconducibile alle infiltrazioni, in un
tessuto sostanzialmente sano, di organizzazioni criminali
provenienti dalle regioni nelle quali, storicamente si erano
sviluppati i vari ceppi mafiosi.
A suffragio di tale tesi due considerazioni:
1) la mafia si è insediata al Centro e al Nord al seguito delle
grandi migrazioni del dopoguerra;
2) la mafia si è sviluppata, in modo particolare, laddove
hanno operato le famiglie inviate al confino.
Ora, chi ha studiato il fenomeno mafioso sa che esso non è
facilmente assimilabile al problema antropologico che ancora
spopola in terra padana e che ha spinto,”seri studiosi” a ritenere
possibile l’esistenza di ragioni di carattere –come dire- razziale;
teoria che è alla base della decisione di una delle più importanti
istituzioni museali di Torino di tenere in bella mostra, in una teca, il
cranio staccato, ai tempi di Cesare Lombroso, al cosiddetto
brigante Villella il quale altri non era che un povero bracciante
calabrese che, per fame, aveva combattuto gli “invasori”
piemontesi” nella seconda metà dell’Ottocento.
Anche nel film di Tarantino “Django_Unchained” il benestante
impersonato da Leonardo di Caprio esibisce il cranio di un uomo di
colore che, pure, era stato un servitore fedele della propria
famiglia, per suffragare la tesi secondo la quale gli schiavi erano
tali non perché costretti dai negrieri a lasciare l’Africa per lavorare
al servizio dei bianchi, ma perché costituzionalmente diversi,
inferiori.
Ma ritorniamo al tema, partendo dagli sconvolgimenti
economici innestati dal processo di ricostruzione della Nazione
italiana nel secondo dopoguerra.
La scelta compiuta dalle classi dirigenti fu quella di puntare
allo sviluppo della nazione italiana che prevedesse la
localizzazione degli insediamenti industriali al Nord con
l’utilizzazione della forza lavoro dei braccianti e dei contadini
meridionali.
134
Molti dei presenti ricordano questo processo di trasferimento
del capitale umano dal Sud al Nord, certamente superiore a quello
che sin dall’800 aveva visto le popolazioni povere del Sud e del
Nord emigrare oltremare in cerca di fortuna.
Né gli italiani del Nord né quelli del Sud potevano
lontanamente immaginare quello che sarebbe successo con il
cosiddetto “miracolo economico italiano”; pochi erano in grado di
valutare la portata delle operazioni compiute. Ci fu chi, in quegli
anni avvisò gli italiani dei pericoli connessi allo spopolamento di
una parte del territorio e alla crescita selvaggia del resto d’Italia.
L’economista inglese Vera Lutz giunse ad affermare che, al punto
in cui stavano le cose, vista l’impossibilità di modif icare l’assetto
economico-sociale del Sud, era preferibile concentrare al Centro
Nord tutte le risorse.
A questi anni risale, a mio giudizio, la definizione del ruolo
delle forze mafiose, prima al Sud e poi, progressivamente, nel
resto d’Italia.
C’è stato un periodo, abbastanza lungo, in cui si sperò che
l’intervento pubblico nel Mezzogiorno, gli incentivi economici offerti
dal Governo italiano e dalle istituzioni europee potessero
riequilibrare le condizioni di vita e di benessere delle popolazioni
del Sud e di quelle del Nord.
Mi limito a elencare gli interventi di natura industriale realizzati
in una Regione meridionale come la Calabria: trasferimento di
alcune fabbriche dal Nord, industrie tessili di Praia a Mare, quelle
manifatturiere a Lamezia Terme; il nucleo industriale di Crotone, la
realizzazione del Grande porto di GioiaTauro, la promessa del
Quinto Centro siderurgico in Calabria, L’impianto per la produzione
di bioproteine, realizzato e presto abbandonato, di Saline Ioniche,
la Centrale a carbone di Gioia Tauro (per fortuna mai realizzata)
ecc.
In quegli anni (siamo ormai negli anni sessanta) la Comunità
europea incomincia a erogare sostanziose integrazioni per i
produttori di olio e di agrumi. Fiumi di danaro inondano gli uliveti
ma a goderne è la nuova leva dei proprietari terrieri che scalzano
la vecchia classe nobiliare dagli uliveti e incassano le integrazioni
sulla produzione di olio. I contributi non vanno ai produttori ma ai
proprietari, poiché la Comunità rimborsa a ettaro di uliveto e non a
quintale di olio.
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Le integrazioni facili, i lavori per la secolare A3, quelli per la
realizzazione del più grande porto italiano a Gioia Tauro, stimolano
la riorganizzazione e la crescita delle famiglie mafiose della Piana
di Gioia Tauro e dell’intera provincia di Reggio Calabria (quella di
Catanzaro e di Cosenza, al pari delle province della Sicilia
orientale erano ancora “babbe”; sarebbero cresciute a partire dagli
anni ’70-80 del secolo scorso).
Senza entrare nei particolari, la riorganizzazione delle mafie
meridionali è in stretta connessione con il processo di sviluppo
dell’Italia di quegli anni, distorto, disordinato, fonte di enormi
arricchimenti. A partire dagli anni ’70 i mafiosi entrano direttamente
nei consigli comunali e scalzano le vecchie figure dei mediatori
democristiani.
Dall’altra parte, il rientro di molti meridionali al Sud che
aspirano a costruirsi un’abitazione moderna, stimola il mercato
immobiliare e la costruzione di migliaia di alloggi senza regole e
senza il minimo rispetto per l’ambiente e per i piani regolatori.
Queste sono le basi sulle quali si fonda la ‘ndrangheta, su cui
si innestano poi l’industria dei sequestri, il commercio delle droghe
(secondo Saviano la ‘ndrangheta è al primo posto a livello
internazionale, per quanto riguarda il traffico di cocaina), il mercato
immobiliare, il movimento terra ecc.
La storia della mafia siciliana è, ovviamente, più nota e più
rilevante. Gli italiani conoscono, soprattutto, le vicende degli ultimi
trent’anni, la battaglia dello Stato, dei magistrati, delle forze
dell’ordine; si ricordano le terribili vicende di Falcone e Borsellino,
soprattutto i cedimenti dello Stato nei confronti delle organizzazioni
mafiose, l’intreccio tra politica e malaffare.
In quegli anni difficili altri problemi angustiavano la società
italiana. Mi riferisco al terrorismo che non si è limitato a
sconvolgere la vita di alcune generazioni di giovani ma ha inciso in
negativo sull’evoluzione dei processi politici. Forse la platealità dei
gesti delle organizzazioni terroristiche, l’incidenza sui processi
economici e sociali del territorio centrosettentrionale, hanno avuto
la capacità di oscurare i processi di trasformazione direttamente
legati allo sviluppo impetuoso dei poteri mafiosi.
Perché, mentre il terrorismo operava allo scoperto,
intenzionato com’era a scardinare l’assetto politico-istituzionale, le
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mafie, invece, agivano sotterraneamente per imbastire trame e
affari ai danni delle comunità e anche della società nel suo
complesso.
Quando lo Stato italiano, dopo aspre lotte, riuscì a piegare la
violenza delle forze terroristiche, si ritrovò di fronte un altro
avversario, apparentemente meno inquietante, ma ugualmente
pericoloso. Le mafie avevano imparato a mischiarsi con la società
e con le istituzioni, con l’intenzione, non tanto di abbattere il potere
politico e statuale, quanto di condizionarlo, convivendo con esso.
Lo Stato, sostanzialmente, non ebbe la forza di reagire
adeguatamente (anche perché fiaccato dallo scontro con il
terrorismo); una parte della classe politica preferì venire a patti,
non solo negli anni ’80 ai tempi di Andreotti ma anche in seguito,
dopo le stragi dei magistrati e dei poliziotti, nel corso della
seconda repubblica.
Fu un errore imperdonabile perché le mafie ebbero il tempo di
riorganizzarsi e di elaborare nuove strategie (alleanze politiche,
controllo della società a tutti i livelli, espansione in tutto il territorio
italiano oltre che in parti fondamentali dell’Europa).
Quel che colpisce è l’incapacità di pezzi importanti della
società di comprendere le grandi trasformazioni intervenute in
Italia, specie a partire dagli anni ’90. Anzi, v’è di più, poiché molta
parte dell’opinione pubblica di vaste aree del centro-nord ha
sostanzialmente rimosso il problema della criminalità mafiosa,
relegata a fatto regionale o che, comunque, riguarda i crimini
commessi dagli aderenti alla mafia siciliana, alla ‘ndrangheta, alla
camorra ecc. sia nelle regioni di provenienza che nelle città del
centro o del nord.
L’altro giorno m’è capitato di scorrere l’elenco degli
‘ndranghetisti arrestati a Milano. Certo, la maggioranza proviene
dalla Calabria, ma parecchi sono nati fuori della regione o
dall’Italia. Qualche mese fa è stata data notizia dell’indagine
relativa alla costituzione di autonome ‘ndrine, sempre a Milano,
che non rispondono più alle ‘ndrine poste in Calabria, ma sono
autonome, un po’come è avvenuto in America con Cosa Nostra
che all’origine reclutava i picciotti tra i nativi siciliani e, poi,
inevitabilmente, nel corso degli anni, ha assunto una fisionomia
“americana”. La stessa cosa è successa in Canada, in Australia,
nelle nazioni europee, dove le mafie sono presenti con autonome
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e autoctone formazioni.
Oggi nessuno si sognerebbe di imputare alla responsabilità
dei Siciliani o dei Calabresi i crimini avvenuti nella città di New
York o in Colorado o a Melbourne o a Toronto.
La criminalità di natura mafiosa è vista come fenomeno ormai
autoctono, frutto dell’intreccio tra malavita locale o proveniente da
altre realtà e interessi e affari locali. Nel grande affresco sulla
malavita americana che è il film “C’era una volta in America”, i
protagonisti sono quasi tutti di origine ebrea e i pochi siciliani
svolgono un ruolo marginale. Tra l’altro –spiega lo studioso
Federico Varese nel suo libro intitolato “Mafie in movimento: come
il crimine organizzato conquista nuovi territori”, spesso le mafie
venute dall’esterno intervengono a coprire dei vuoti criminali.
Così, ad esempio, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del
Novecento, a New York erano i poliziotti, reclutati con criteri non
ortodossi, a controllare i commerci di varia natura (negozi,
prostituzione, gioco). Fu il sindaco Gaynor, al termine di una forte
azione moralizzatrice, a modif icare questo stato di cose e a
controllare la Polizia in modo che essa non operasse più in difesa
del malaffare. Le organizzazioni criminali d’origine italiana erano
allora dedite a lavori meno lucrosi, come la falsif icazione delle
monete, il furto dei cavalli o l’estorsione pura e semplice (la Mano
nera).
Inseguito alla trasformazione dei corpi di polizia, molte attività
illegali o semilegali (ad es. la prostituzione) rimasero senza
protezione e fu, paradossalmente, l’azione moralistica di Gaynor a
sollecitare la trasformazione della malavita italiana che, poco a
poco venne a riempire i vuoti lasciati dai poliziotti e che, poi, ai
tempi del proibizionismo gestì alla grande il commercio dell’alcool.
A questo punto credo sia matura la domanda sulle ragioni per
cui le mafie si diffondono in alcune realtà italiane e, in particolare,
se questo rischio di penetrazione e di diffusione esiste per le
nostre città e la nostra Regione.
Secondo lo studio già citato “In passato si attribuiva
l’esistenza della criminalità organizzata a un’entità immateriale –la
‘cultura’ del Meridione- e si immaginava che il soggiorno obbligato
sarebbe bastato a redimere i condannati per il solo fatto di andare
a respirare aria di legalità al Nord. La versione accademica di
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questo dibattito consiste nel credere che zone con un alto tasso di
‘civismo’ e di ‘capitale sociale’ siano immuni dal trapianto mafioso”.
“Ora– conclude Federico Varese- in presenza di una
combinazione di fattori economici specif ici, qualunque zona è a
rischio di penetrazione, e in modo particolare certi mercati locali,
come quello del movimento terra…
La mafia si combatte in forme e modi diversi. La repressione
della polizia e l’azione della magistratura sono fondamentali, ma
spesso arrivano tardi, dopo anni di indagine e altri anni sono
ancora necessari perché i processi giungano a conclusione.
L’imposizione di misure ferree di antitrust nei mercati a rischio è un
modo rapido e inflessibile per assicurarsi che le mafie non
penetrino l’economia legale”.
Aggiungo che un punto nodale è quello del riciclaggio e,
ancora, quello della tracciabilità dei pagamenti di tutti i soggetti.
Ma gli sforzi non devono essere concentrati solo nel colpire il
riciclaggio dei profitti della criminalità; lo Stato deve riappropriarsi
del controllo del territorio nelle aree dove le mafie sono già
governo locale.
Quest’ultimo richiamo deve riportarci ai temi affrontati
all’inizio, a proposito della questione romana.
Soprattutto noi democratici che abbiamo governato Roma per
lungo tempo, dobbiamo interrogarci sulle ragioni che hanno
determinato questa grave crisi di democrazia e che hanno spinto il
segretario Renzi a commissariare lo stesso partito della Capitale.
La prima considerazione da fare è che i dirigenti del nostro
stesso Partito non sono stati in grado di prevedere quel che
sarebbe potuto succedere una volta venuta meno la protezione del
“Porto delle nebbie”, come veniva considerata la procura romana.
Chiunque abbia avuto a che fare, negli anni passati, con la
Procura della repubblica della Capitale, sa quanto fosse difficile
pretendere ed ottenere giustizia in tempi decenti.
Roma sarà la città della “Grande bellezza” ma somiglia tanto
alla Villa dei mostri di Bagheria o al Parco dei mostri di Bomarzo.
Abbiamo bisogno di “nuovi architetti e di nuovi urbanisti”.
Dobbiamo
sostenere
lo
sforzo
enorme,
gigantesco,
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provvidenzialmente affidato al Sindaco Marino. Personalmente ho
espresso la mia fiducia e il mio sostegno a Marino in epoca non
sospettabile, quando buona parte del partito romano e anche
nazionale si divertiva a fare le pulci al buon Ignazio, giungendo
anche a commissionare un sondaggio sul suo operato. Adesso
questi veri e propri capibastone sono stati messi da parte. Io spero
che, dopo la potatura, una nuova pianta possa germogliare per
riportare la capitale al suo ruolo di guida della Nazione.
1) Una settimana addietro, al termine di un funerale, qualcuno
ha creduto di assistere al tentativo di rapimento di una bambina da
parte di un gruppetto di zingari. Non era vero niente, come ha
assicurato la forza pubblica al termine delle indagini, solo qualche
attacco istericod a parte di qualcuno. Ma quel che è grave, un
gruppetto di "giustizieri" si è mosso immediatamente alla ricerca
dei presunti rapitori ed ha pestato a sangue il primo ragazzo di
colore incontrato in un bar. Credo fosse del Bangladesh: ogni
giorno portava una rosa al Bar e riceveva in cambio un caffè
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