Una conversazione sull`inquadratura Pierpaolo Loffreda La prima

Una conversazione sull’inquadratura
Pierpaolo Loffreda
La prima domanda che possiamo porci quando decidiamo di occuparci di cinema è: “Che cosa è mai un
film?”. La risposta che solitamente ci viene data da chi si occupa istituzionalmente di cinema (in televisione
come sui giornali, in cattedra così come all’uscita dalle sale cinematografiche) è: “Il tal film è la storia di
Tizio e Caio che compiono questa e quest’altra impresa…”. Ma riflettiamo su un’esperienza che sicuramente
ciascuno di noi ha già fatto: se proviamo a raccontare a qualcuno la storia narrata in un film che ci ha
particolarmente emozionato (cioè divertito o commosso, appassionato o terrorizzato), noi non riusciamo a
trasmettere al nostro interlocutore (a patto che non abbia già visto anche lui il film in questione) nessuna
delle emozioni che abbiamo sperimentato direttamente assistendo a quello specifico spettacolo
cinematografico, ma al limite suscitiamo solo in lui noia o malcelato disappunto. Perché avviene ciò?
Verifichiamo quanto dice a questo proposito un maestro del cinema del passato come Alfred Hitchcock,
tanto attento alla specificità del linguaggio cinematografico quanto agli effetti da suscitare nel pubblico (è
stato spesso anche produttore dei suoi film): «Quando un pittore dipinge una natura morta, mettiamo un
piatto di mele, non ci chiediamo se quelle mele sono dolci, aspre, mature o acerbe: guardiamo solo come
sono fatte. Così in un film non importa la storia, importa lo stile»1. Quindi, forse, non è tanto importante la
storia quanto il come la si racconta! Vediamo anche cosa dice, da questo punto di vista, un altro grande
regista, questa volta statunitense e a noi contemporaneo, Robert Altman (del quale ricordiamo, almeno:
M.A.S.H. (M*A*S*H*,1970), Il lungo addio (The Long Goodbye, 1973), California Poker (California Split,
1974), Gang (Thieves Like Us, 1974), Nashville (id., 1975), I protagonisti (The Player, 1992), America oggi
(Short Cuts, 1993) : «Non c’è un solo film che si possa raccontare, quando la vicenda non si ispiri,
pedissequamente, a un romanzo o a una commedia. Per fare un esempio, i film di Antonioni o di Fellini non
si possono raccontare, perché rifiutano la parola per servirsi solo di immagini, e le immagini non si
raccontano. Si può raccontare un dipinto di Giotto? O di Raffaello? O Il Giudizio Universale di
Michelangelo? Non si racconta il cinema». Ecco perché, forse, non riusciamo a trasmettere nessuna delle
emozioni che noi abbiamo sperimentato, se raccontiamo a qualcuno la storia narrata in un film che ci ha
colpito: perché non si può raccontare un film, visto che un film è composto prevalentemente di immagini!
Torniamo ad Alfred Hitchcock e alle sue considerazioni: spesso diamo molta importanza ai dialoghi, quando
guardiamo un film (tanto che molti spettatori rumoreggiano e si distraggono mentre in un film si assiste a
sequenze prive di dialoghi, per poi accorgersi di non riuscire a capire più nulla): «Il dialogo – dice Hitchcock
– deve essere un rumore in mezzo agli altri, un rumore che esce dalla bocca di personaggi le cui azioni e i
cui sguardi raccontano una storia costruita attraverso le immagini». Quindi, forse, sono proprio le immagini
(le quali, come sostiene Altman, non si prestano ad essere raccontate) che in un film raccontano una storia, e
questa storia è basata sulle azioni e sugli sguardi dei personaggi. Ricorriamo a questo punto al contributo di
un regista italiano, Vittorio Taviani, che insieme al fratello Paolo ha firmato numerosi film, alcuni dei quali
molto interessanti, come Sovversivi (1967), Allonsanfan (1974), San Michele aveva un gallo (1976): «Nella
pittura rinascimentale – e la pittura resta l’arte più vicina al cinema – i soggetti erano sempre identici. Che il
racconto, il soggetto venga da te o da altri è la stessa cosa, se nel risultato finale c’è una piccola nota che non
era ancora stata cantata. L’originalità non sta nella partenza, nella trama, ma nell’opera conclusa: è quella
che può aprire nuove dimensioni del pensiero e dare emozioni nuove. L’importante non è il cosa, è il come».
È senz’altro vero: se pensiamo alla pittura rinascimentale ci accorgiamo che i soggetti sono sempre gli stessi:
natività, adorazione dei pastori, dei magi o dei santi, crocifissione, deposizione e pietà, resurrezione. Ma
nessuno equivocherebbe mai fra lo stile, mettiamo, di Michelangelo e quello di Botticelli, o fra quello di
Leonardo e quello di Mantegna, o fra Tiziano e Piero della Francesca! Siamo allo stesso esempio della
natura morta di Hitchcock: non ci importa nulla della natura dell’oggetto rappresentato; come spettatori ci
interessa, ci emoziona il modo, il come della rappresentazione. E sono proprio le emozioni, come sottolinea
Taviani, ad avere la massima rilevanza nel nostro avvicinarci ad un’opera, sia essa pittorica che
cinematografica, lo sa bene chi è entrato almeno una volta nella Cappella Sistina in Vaticano o nella
Cappella degli Scrovegni di Padova, oppure chi ha avuto la fortuna di vedere al cinema, sul grande schermo,
film come Apocalypse Now (id.,1979) di Francis Coppola o 2001:Odissea nello Spazio (2001:A Space
1
La dichiarazione, come le altre del regista inglese, è qui riportata dal volume: F. TRUFFAUT, Il cinema secondo
Hitchcock, Pratiche Editrice, Parma 1985.
1
Odyssey, 1968) di Stanley Kubrick, I giorni del cielo (Days of Heven, 1978) di Terrence Malick o anche lo
splendido Titanic (id.,1997) di James Cameron, del quale sicuramente ci saranno rimaste in mente alcune
immagini-chiave (come quella dei due giovani amanti che si sporgono dalla prua della nave) e non
sicuramente i dialoghi! Howard Hawks, personalità-chiave, insieme a John Ford e altri grandi maestri, del
cinema classico americano, e autore, fra l’altro, di capolavori di tutti i generi come Scarface (Scarface,The
Shame of a Nation, 1932), Susanna (Bringing Up Baby, 1938), Acque del Sud (To Have and Have Not,
1944), Il grande sonno (The Big Sleep, 1946), Il grande cielo (The Big Sky, 1952), Gli uomini preferiscono
le bionde (Gentlemen Prefer Blondes, 1953), Un dollaro d’onore (Rio Bravo, 1959), dice: «Ci sono in tutto
una trentina di trame per il dramma, e sono state ideate tutte da persone molto in gamba. Se sei in grado di
pensare a un nuovo modo di raccontarle, sei piuttosto bravo». Hawks ha senz’altro ragione! Da trentamila
anni circa a questa parte, da quando cioè noi Homo Sapiens (una volta risolto a nostro vantaggio il conflitto
che per i settantamila anni precedenti, circa, ci aveva visto scontrarci per la sopravvivenza e il predominio
nel mondo col nostro mortale nemico, Neanderthal) abbiamo iniziato a lasciare tracce evidenti – ed
esteticamente rilevanti – di narrazione attraverso le immagini sulle pareti delle caverne nelle quali vivevamo
(e che ancora adesso possono essere, in buona parte, interpretate, perché, appunto, basate sulla
comunicazione attraverso le immagini e non le parole), fin da allora, dicevamo, abbiamo ideato un gruppo
limitato di storie, di trame. Tutte queste storie – archetipi fondamentali di ogni narrazione – hanno a che fare
direttamente e in modo profondo con i due elementi che da sempre più ci intrigano, ci affascinano, ci
interessano: l’amore e la morte, cioè (anche e soprattutto) il sesso e la violenza, e tutte le storie che
conosciamo rispondono a due diverse strutture: quella basata sul luogo circoscritto e quella in cui domina il
viaggio. Esistono anche megacontenitori di storie, come la Bibbia, i due poemi omerici, Iliade e Odissea,
l’Eneide di Virgilio (per rimanere in Occidente) oppure il Mahabharata e il Ramayana in India, o il ciclo di
Gilgamesh nell’area mesopotamica, ma il repertorio delle storie elaborate dall’umanità rimane comunque
circoscritto. Ce ne rendiamo conto, per quanto riguarda il cinema, anche solo facendo mente locale a film
che tutti conosciamo come Pretty Woman (id.,1990) di Garry Marshall, Flashdance (id.,1994) di Adrian
Lyne e Sabrina (id.,1954) di Billy Wilder (o al suo remake di Sydney Pollack): il loro comune modello
(letterario) è senza ombra di dubbio la Cenerentola dei fratelli Grimm. Oppure pensiamo alle oltre 300
“versioni” cinematografiche del Dracula di Bram Stoker, modello chiave della fascinazione perturbante (non
solo in Occidente, viste le diverse letture del mito operate anche dal cinema indiano), e romanzo
cinematografico per eccellenza, vista la sua natura eterogenea, polifonica, e vista la coincidenza fra la sua
data d’uscita – il 1897 – e la data di nascita del cinema (oltre a quella della genesi della teoria analitica di
Freud).
Torniamo ancora una volta al nostro Hitchcock: «Nella maggior parte dei film c’è poco cinema e molto di
quella che chiamo “fotografia di gente che parla”. Quando si racconta una storia al cinema, non si dovrebbe
ricorrere al dialogo se non quando è impossibile fare altrimenti. Mi sforzo sempre di cercare per prima cosa
il modo cinematografico di raccontare una storia per mezzo della successione delle inquadrature e delle
sequenze». Compaiono così, nel nostro discorso, due termini e concetti chiave dell’espressione
cinematografica: le “inquadrature” e le “sequenze”. È proprio attraverso la composizione delle inquadrature
e la loro articolazione – attraverso il montaggio – in sequenze che si elabora quello che Hitchcock chiama il
“modo cinematografico” di narrare una storia, cioè il linguaggio specifico del cinema. Prosegue il grande
regista di Psyco (Psycho, 1960) – film in buona parte privo di dialoghi – e di altri capolavori: «Con
l’avvento del sonoro il cinema si è bruscamente irrigidito in una forma teatrale. La mobilità della macchina
da presa non cambia affatto questo stato di cose: anche se la macchina da presa si sposta lungo un
marciapiede, è sempre teatro. Il risultato è la perdita dello stile cinematografico e anche la perdita completa
della fantasia. Quando si scrive un film è indispensabile tenere nettamente distinti gli elementi di dialogo e
gli elementi visivi e, ogni volta che è possibile, dare la preferenza ai secondi sui primi. Qualunque sia la
scelta finale in rapporto allo sviluppo dell’azione, deve essere quella che con maggior sicurezza tiene il
pubblico in sospeso. Concludendo, si può dire che il rettangolo dello schermo deve essere caricato di
emozione». Così il cerchio si chiude: dalle emozioni siamo partiti, visto che, al di là di ogni sciocca ipocrisia
e di ogni visione quaresimale dell’arte, ciò che ci spinge ad avvicinarci ad un’opera (un romanzo come un
film, un fumetto come un dipinto, una pièce teatrale come un brano musicale) è la nostra inesauribile fame
d’emozioni, e abbiamo scoperto che anche per chi elabora i racconti (nel nostro caso cinematografici)
suscitare l’emozione è l’obiettivo primario. Come può essere conseguito tale scopo nel cinema? Proprio
attraverso quel “modo cinematografico” di cui parla Hitchcock!
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Ogni film (ogni film degno di nota, naturalmente) si esprime direttamente attraverso la riproduzione e
reinvenzione per immagini della realtà, tende cioè a costruire una realtà immaginaria attraverso la
combinazione articolata e stratificata d’immagini. Il film vuole comunicare qualcosa allo spettatore. Ma per
capire pienamente ciò che ci viene comunicato, è utile conoscere il linguaggio che permette tale
comunicazione: un linguaggio ben codificato (come quello del calcio, della boxe, anche della seduzione, al
limite!), ma in continuo divenire.
Lo studio e l’analisi del linguaggio cinematografico sono stati, fin dagli anni ‘20 del Novecento, al centro
della ricerca testuale, che ha permesso alla critica – sia pur fra mille resistenze e ostacoli, prevalentemente
derivati, almeno in Italia, dalla prevalenza della cultura idealista – di uscire dalle secche di un approccio
impressionistico o – quel che è peggio – meramente contenutistico al testo cinematografico. La difficoltà
maggiore (ma anche l’attrattiva principale: la scommessa, la sfida) che si può incontrare nel far proprio il
metodo dell’analisi testuale del film è data dalla constatazione di trovarsi di fronte ad una ricerca non ancora
conclusa (e forse mai definibile per sempre, in maniera esaustiva), ad un cammino tuttora in corso, nel quale
mutamenti di rotta e assestamenti sono sempre possibili. Una delle fondamentali specificità del linguaggio
cinematografico è la sua proprietà di raccontare mostrando (trasmettere cioè informazioni combinando
immagini in movimento e suoni). Elementi portanti del testo filmico (come di qualsiasi testo narrativo) sono
personaggi, azione, ambiente. Ogni brano di film può informarci contemporaneamente su tutti e tre questi
elementi, ma tali informazioni non ci vengono trasmesse separatamente: l’articolazione del racconto filmico
deriva dal diverso distribuirsi sincronico di informazioni relative ai tre elementi. Come dice Jacques Rivette
(grande regista francese che, prima di iniziare a girare film geniali come L’amour fou (1969), L’amore in
pezzi (L’amour par terre, 1983), La bella scontrosa (La belle noiseuse, 1991), Chi lo sa? (Va savoir, 2001),
si era esercitato a lungo nella critica, come i suoi compagni di strada della Nouvelle Vague: Godard,
Truffaut, Chabrol, Rohmer): «Fare un film è mostrare determinate cose e, allo stesso tempo e attraverso la
stessa operazione, mostrarle da una certa angolazione: questi due atti sono rigorosamente inscindibili»2. Il
“modo”, il “come” determinano il senso! In un film non importa tanto capire e analizzare che cosa succede a
chi (il sapore delle mele dipinte in una natura morta, come diceva Hitchcock), bensì capire il nesso profondo
che viene stabilito dall’autore fra il che cosa e il chi. Il livello linguistico di analisi s’interroga sul “come”,
cioè su quel modo di esprimere il senso. Ma il senso di che cosa? Ricorriamo anche qui alle suggestioni
evocate dalla riflessione di un grande autore, Robert Bresson – suoi grandi film come Pickpocket (id.,1959),
Au hasard Balthazar (id.,1966), Mouchette-Tutta la vita in una notte (Mouchette, 1967), Così bella così
dolce (Une femme douce, 1969), Il diavolo probabilmente (Le diable probablement, 1978), L’argent
(id.,1983) –, anche lui francese, ma non riconducibile a nessuna scuola o generazione, un maestro senza
tempo, un po’ come Lubitsch o Frank Capra, Dreyer o Rossellini, Welles o Robert Powell, Cassavetes o
Renoir: «Per quanto possa sembrare paradossale in un’arte tutta visiva, è l’interiorità che detta legge, nel
cinema. Solo i nodi che si intrecciano e si sciolgono nel cuore dei personaggi danno al film il suo vero
movimento […]. L’immagine è come la parola all’interno di una frase. La scelta delle parole è spesso
volontariamente poco brillante. Ed è la parola più comune che, messa al posto giusto, acquista d’un tratto un
senso straordinario […]. Un’immagine può essere neutra, ma, messa accanto ad un’altra immagine, vibra e
fa entrare la vita: non la vita della storia, dei personaggi, ma la vita del film». Dice ancora Bresson: «Ciò che
più mi interessa in un film è l’emozione interiore, la meccanica dell’incastro perfetto delle inquadrature: non
ci devono essere vuoti né cadute di tensione. La poesia è nelle giunture, nel rapporto fra immagini (non
belle, ma necessarie) e suoni. I suoni hanno un enorme potere evocativo. Un pittore si esprime con dei
rapporti di colori; allo stesso modo un cineasta si esprime con dei rapporti di immagini (fra loro) e di suoni,
captati dalla realtà; immagini e suoni sono come le luci e le ombre della pittura, dalla loro combinazione o
choc scatta una dimensione nuova (io do una enorme importanza al montaggio). Con la cinepresa e il
magnetofono bisogna captare i movimenti interni, il mistero dell’anima e delle cose. La storia, la psicologia
sono roba da romanzieri, non da cineasti. Il cinema non è spettacolo (bisogna suggerire, non mostrare), non è
teatro filmato: è suggestione ed invenzione. È un’arte, insomma, e senza trasformazione non c’è arte»3. Un
concetto analogo viene espresso anche dal più lucido, spietato, corrosivo fra gli autori italiani, Marco Ferreri,
(del quale nessuno può dimenticare almeno El cochecito (id.,1960), L’ape regina (1963), La donna scimmia
(1964), Dillinger è morto (1969), La grande abbuffata (La grande bouffe, 1973), L’ultima donna (1976): «Il
cinema non è romanzo, non è commedia, non è sketch, non è polaroid: è raccontare per immagini, con le
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3
«Cahiers du Cinéma», 120 (juin 1961).
«La Repubblica», 15/9/89, intervista a cura di Aldo Tassone.
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immagini, attraverso le immagini e i suoni. Non si fa vivere il cinema ripetendo “l’importante è la storia, la
sceneggiatura è importante”: cretinate. In un mondo che mangia ed espelle, divora e sputa soltanto
immagini? Non è che io voglia offendere, e naturalmente ognuno fa quello che crede, ma così l’interesse per
il cinema si sta spegnendo. Prima gran parte del pubblico era ignorante e il cinema era intelligente. Adesso
anche il cinema è ignorante […]. Era emozionante l’immagine di Antonioni: le facce, il mare, il modo di
girare intorno della macchina da presa. E Wim Wenders nei primi film, con quelle inquadrature sospese. Il
cinema lo ritrovo anche in Terminator di James Cameron: una autentica, fantastica, ammaliante scuola
dell’immagine, dei suoi significati e simbolismi. Il cinema sta tutto nell’immagine, è narrazione per
immagini: se questo viene a mancare il cinema manca, muore»4.
Abbiamo citato le inquadrature e le sequenze come basi fondative della significazione cinematografica5. Per
inquadratura intendiamo la prima e fondamentale unità semantica del linguaggio cinematografico: è il modo
di comporre l’immagine attraverso un processo intenzionale ed esteticamente consapevole ideato dall’autore,
il modo cioè in cui l’autore ritaglia e organizza gli elementi del reale, precedentemente determinati, che si
presentano davanti all’obiettivo. L’inquadratura costruisce e trasmette senso a partire da un doppio e
contestuale criterio selettivo: la selezione del tempo (la durata dell’inquadratura) e la selezione dello spazio
(compreso all’interno dell’inquadratura stessa). La selezione è innanzitutto esclusione: appena lo sguardo
della macchina da presa inquadra qualcosa, sorge immediatamente il problema non solo di ciò che esso vede,
ma anche di ciò che scarta dalla sua visuale. La selezione dello spazio nell’inquadratura (processo di base
del linguaggio cinematografico) agisce così su due campi complementari: ciò che è in campo e ciò che viene
lasciato fuori campo. Inquadrando qualcosa si può, cioè, lasciare qualcosa fuori dal quadro e farne percepire
la presenza attraverso gli atteggiamenti del volto di un personaggio, oppure concentrare l’attenzione su un
dettaglio, o ancora introdurre elementi di forte valenza simbolica in modo da provocare un piccolo choc
visivo, come, ad esempio, nell’evocazione della Pietà michelangiolesca (archetipo ben impresso nel nostro
immaginario) nell’inquadratura della scena madre di Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini, nel
finale di Germania anno zero (1948), sempre di Rossellini, o in quello di Al di là della vita (Bringing Out
the Dead, 2000) di Martin Scorsese. La macchina da presa inventa così diversi modi di inquadrare lo spazio
in riferimento all'ambiente (i campi) e alla persona umana (i piani). Di grande rilievo, nella determinazione
dello spazio, sono sia la posizione della macchina da presa rispetto a ciò che viene inquadrato sia la
lunghezza focale dell’obiettivo. Lo spazio del film viene stabilito e quindi offerto alla percezione dello
spettatore dall’autore: si presenta come il frutto della selezione di una realtà costruita appositamente per
essere ripresa. A sua volta il tempo dell’inquadratura (anche questo determinato dall’autore) può essere
rallentato, rarefatto, oppure concentrato, ridotto al minimo essenziale, per farci percepire la subitaneità
drammatica di un’azione. Lo spazio e il tempo cinematografici sono comunque spazio e tempo
convenzionali (arbitrari, fittizi: ideati dall’autore del film all’unico scopo di suscitare la nostra attenzione e
di stimolare in noi emozioni), diversi da come noi solitamente li concepiamo e percepiamo secondo i nostri
sensi (il nostro punto di vista in un ambiente) e attraverso i nostri strumenti culturali (la concezione del
tempo che ci siamo dati o che abbiamo accettato). Nel raccontare una storia con il cinema, il primo problema
sta nel definirla visivamente attraverso frammenti di spazio dotati di una loro durata significativa e
combinati fra loro grazie al montaggio: così si costruire une realtà nuova, originale, che sfugge ad una
definizione scontata. Sta a noi, spettatori attenti e critici, ma soprattutto appassionati, cercare di svelare
quanto il film può comunicarci, per intensificare – e non castigare miseramente, come alcuni vorrebbero
indurci a fare – le emozioni che possiamo provare, vedendo un film, sulla nostra pelle, fino a gustare
profondamente il piacere della visione.
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«La Stampa», 3/2/92, intervista a cura di Lietta Tornabuoni.
Per uno sguardo d’insieme: AA. VV., Attraverso il cinema: semiologia, lessico, lettura del film, Longanesi, Milano
1978; L. ALLORI, Guida al linguaggio del cinema, Editori Riuniti, Roma 1986; J. AUMONT, A. BERGALA, M.
MARIE, M. VERNET, Estetica del film, Lindau, Torino 1995; A. BAZIN, Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano
1973; M. CHION, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino 1997; G. CREMONINI, Cinema e
racconto: l’autore, il narratore, lo spettatore, Loescher, Torino 1988; S. DANEY, Lo sguardo ostinato. Riflessioni di
un cinefilo, Il Castoro, Milano 1995; G. DE VINCENTI, Il concetto di modernità nel cinema, Pratiche Editrice, Parma
1993; B. FORNARA, Geografia del cinema. Viaggi nella messinscena, Rizzoli, Milano 2001; J.-L. GODARD, Il
cinema è il cinema, Garzanti, Milano 1981; F. LA POLLA, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood,
Laterza, Bari 1987; C. METZ, Semiologia del cinema, Garzanti, Milano 1972; G. RONDOLINO, Storia del cinema,
Utet, Torino 1977; G. RONDOLINO, D. TOMASI, Manuale del film, Utet, Torino 1995; P. SORLIN, Sociologia del
cinema, Garzanti, Milano 1979; F. TRUFFAUT, Il cinema secondo Hitchcock, Pratiche Editrice, Parma 1985.
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