Consiglio di Stato - Enti Locali

Numero 00093/2015 e data 19/01/2015
R E P U B B L I C A
I T A L I A N A
Consiglio di Stato
Sezione Prima
Adunanza di Sezione del 16 aprile 2014
NUMERO AFFARE 00455/2014
OGGETTO:
Ministero dell'interno
Quesito in materia di applicazione della legge 23 novembre 2012, n. 215, recante
“Disposizioni per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei
Consigli e nelle Giunte degli enti locali e nei Consigli regionali. Disposizioni in
materia di pari opportunità nella composizione delle commissioni di concorso nelle
pubbliche amministrazioni”.
LA SEZIONE
Vista la relazione trasmessa con nota 21 febbraio 2014 n. 2959, con la quale il
Ministero dell'interno - Dipartimento per gli affari interni e territoriali - ha chiesto il
parere del Consiglio di Stato sul quesito in oggetto;
esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Elio Toscano;
Premesso.
1. Il Ministero dell’interno premette che la legge 23 novembre 2012, n. 215 ha dettato
nuove disposizioni volte a promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere
nei Consigli e nelle Giunte degli enti locali e nei Consigli comunali, regionali, nonché
nella
composizione
delle
Commissioni
di
concorso
nelle
Pubbliche
Amministrazioni.
In particolare, l’art. 1, comma 1, della legge suddetta ha modificato il comma 3.
dell’art. 6 del d.lgs. n. 267 del 2000, prevedendo che gli statuti comunali e provinciali
stabiliscano norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna
ai sensi della legge 10 aprile 1991, n. 125, e per garantire (anziché “promuovere”
espressione utilizzata nella precedente formulazione), la presenza di entrambi i sessi
nelle Giunte e negli organi collegiali non elettivi del Comune e della Provincia,
nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.
Lo stesso articolo 1, al comma 2, stabilisce, inoltre, che gli enti locali, entro sei mesi
dall'entrata in vigore della legge, debbano adeguare i rispettivi statuti e regolamenti
alle novellate disposizioni del comma 3 dell'art. 6 del d.lgs. n. 267 del 2000.
L’Amministrazione richiama, altresì, le ulteriori disposizioni introdotte dalla legge n.
215 del 2012 volte a rendere effettiva la presenza di entrambi i sessi nei Consigli
comunali, sia nella formazione delle liste dei candidati, sia nelle relative consultazioni
elettorali, sia nella formazione delle Giunte comunali e provinciali “nel rispetto del
principio di pari opportunità tra donne e uomini”.
Sottolinea, poi, che il legislatore con la novella in argomento ha inteso specificare
ulteriormente quanto già sancito in materia da fonti nazionali e sovranazionali, quali
l'art. 51 della Costituzione, l'art. l del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari
opportunità) e l'art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.
2. Ciò premesso, il Ministero riferente rappresenta che, relativamente alla legge n.
215 del 2012, sono emerse alcune incertezze applicative, riassumibili nei seguenti
quesiti:
a) quali iniziative possono essere poste in essere nei confronti degli enti locali che
non hanno adeguato gli statuti e i regolamenti comunali alle novellate disposizioni
del comma 3 dell'art. 6 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267;
b) se le delibere di Giunta e Consiglio adottate dagli organi composti da soli uomini,
quindi in violazione della legge n. 215 del 2012, siano legittime;
c) se la legge n. 215 del 2012 si applichi esclusivamente alle Amministrazioni locali
elette dopo l'entrata in vigore della stessa o anche alle Amministrazioni in corso di
consiliatura, elette prima dell'entrata in vigore della suddetta norma;
d) se e quale sia la percentuale necessaria che gli statuti degli enti locali devono
prevedere al fine di garantire il livello minimo costituito dalla rappresentanza di
genere;
e) se vi siano particolari procedure che il sindaco deve attuare per dimostrare che,
nonostante abbia posto in essere ogni utile iniziativa idonea a garantire l'applicazione
del principio di pari opportunità tra uomo e donna, non sia riuscito a raggiungere
tale obiettivo e abbia dovuto nominare tutti assessori di sesso maschile.
Considerato.
3. I quesiti posti al Consiglio di Stato sottendono una questione preliminare di fondo
e cioè che gli interventi del legislatore in materia di riequilibrio delle quote di genere
hanno posto sinora l’accento prevalentemente sull’obiettivo di un maggior
coinvolgimento del genere femminile negli organismi di decisione pubblica, ma sono
stati meno puntuali nell’indicare gli strumenti che devono garantire l’effettività delle
specifiche disposizioni normative. Da qui l’esigenza di trarre dall’ordinamento
vigente gli strumenti integrativi necessari per dare concreta attuazione alle norme
sulla parità di genere e sopperire a eventuali ritardi applicativi.
Tale riflessione è indotta innanzitutto dal primo quesito con il quale si chiede quali
iniziative possano essere prese nei confronti degli enti locali che non hanno adeguato
gli statuti e i regolamenti comunali alla novellate disposizioni entro i sei mesi fissati
dal legislatore.
A norma dell’art. 120 della Costituzione, nel testo formalmente riscritto dalla legge
costituzionale n. 3 del 2001, i poteri sostitutivi possono essere esercitati dal Governo
nei confronti delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni
nel caso di “…mancato rispetto … della normativa comunitaria … ovvero quando lo richiedono
… la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo
dai confini territoriali dei governi locali”.
Orbene, l’osservanza della parità di genere attiene senza dubbio alla “tutela dei livelli
essenziali delle prestazioni riguardanti i diritti civili e sociali”.
Al riguardo, basti considerare che l’eguaglianza tra i sessi nell’accesso agli uffici
pubblici e alle cariche elettive, affermata dall’art. 51, primo comma, della Carta
costituzionale è una specificazione del principio di uguaglianza (Corte cost. n.
166/1973), già espresso dall’art. 3 Cost., ed esclude, quindi, che possano esserci
discriminazioni attinenti al sesso.
Il principio della parità tra uomo e donna in tutti campi, compreso in materia di
occupazione, di lavoro e di retribuzione, è affermato, altresì, dall’articolo 23 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sicché si caratterizza anche come
cardine del diritto comunitario.
Va ancora considerato che il testo originario dell’art. 51 Cost. si limitava a sancire il
principio delle pari opportunità tra i sessi, mentre l’integrazione introdotta al comma
1 dell’art. 51 dalla legge costituzionale n. 1 del 2003 “A tal fine la Repubblica
promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini” sta
a significare che la promozione delle pari opportunità non è demandata soltanto al
legislatore, ma coinvolge tutti i pubblici poteri.
Pertanto, da un lato le misure legislative devono essere “volte a promuovere i punti
di partenza e a realizzare la pari dignità sociale di tutti i cittadini” (Corte cost. n. 422
del 1995), dall’altro tutti i pubblici poteri sono tenuti a osservare il principio
dell’eguaglianza tra i sessi, anche nell’adozione dei provvedimenti amministrativi
(obbligo ampiamente esplorato e sancito dalla giurisprudenza amministrativa).
Ed è proprio nel contesto delle misure legislative volte ad adempiere i precetti
costituzionali appena richiamati che si inseriscono sia il novellato comma 3 dell’art.
6 del d.lgs. n. 267 del 2000, che dispone che “gli statuti comunali e provinciali stabiliscono
norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna ai sensi della legge 10 aprile
1991, n. 125 e per garantire la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali
non elettivi del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti”,
sia la correlata disposizione che prevede che l’adeguamento degli statuti e dei
regolamenti comunali debba aver luogo entro sei mesi dall'entrata in vigore della
legge n. 215 del 2012 (art. 1, comma 2).
A fronte di un intervento legislativo volto a dare attuazione a una specificazione del
principio di eguaglianza tra uomo e donna nell’accesso alle cariche elettive, sarebbe
fuorviante concludere che il termine di sei mesi non ha alcun rilievo, in quanto per
la sua inosservanza il legislatore non ha previsto una specifica sanzione. Infatti,
vertendosi in materia di riconoscimento di diritti costituzionali fondamentali, il
superamento del termine di sei mesi senza che si sia proceduto all’adeguamento dello
statuto (le stesse considerazioni valgono per i regolamenti degli enti locali)
rappresenta una violazione di principi costituzionali che qualificano la stessa
struttura democratica dello Stato e che non possono, pertanto, essere decurtati,
attenuati o violati.
Si deve, invece, ritenere, per le ragioni di ordine costituzionale e legislativo sopra
esposte, che lo statuto, in quanto atto normativo fondamentale che disciplina
l’organizzazione e il funzionamento dell’ente locale, debba contenere le norme volte
ad assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna e che l’omesso
adeguamento entro il termine di sei mesi fissato dal legislatore, determini una
situazione di grave antigiuridicità che legittima il ricorso a poteri sostitutivi, anche se
non fa venir meno il potere degli enti locali di adeguare gli statuti e i regolamenti.
Si tratta, peraltro, di una scelta obbligata, costituzionalmente corretta e non rinviabile
se si vuol garantire il rispetto di un principio fondamentale dell’ordinamento
giuridico. Del resto la giurisprudenza amministrativa, ancor prima delle modifiche
introdotte dalla legge n. 215 del 2012, aveva affermato che l’omesso tempestivo
adeguamento dello statuto alle norme sul riequilibrio di genere consente l'esercizio
del potere sostitutivo da parte dell'organo di controllo, in quanto rientra nei casi in
cui l'ente locale ha l'obbligo di emanare un atto previsto da una fonte normativa e
non lo emani o lo ritardi (Cons. St. sez. V, 8 settembre 2008, n. 4284).
Quanto agli strumenti per l’esercizio dei poteri sostitutivi e di annullamento, essi
sono previsti e disciplinati dagli artt. 136, 137 e 138 del Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali approvato con il decreto legislativo 18 agosto 2000,
n. 267.
I menzionati articoli demandano in primo luogo e in via generale l’esercizio del
potere sostitutivo alle Regioni, nell’ambito della vigilanza che le stesse esercitano
sugli atti delle Province e dei Comuni, e contemplano solo successivamente
l’intervento statale in caso di inadempienza delle autonomie territoriali.
In particolare, l’art. 136 (poteri sostitutivi per omissione o ritardo di atti obbligatori)
subordina l’esercizio del potere sostitutivo, demandato ad un commissario ad acta
nominato dal Comitato regionale di controllo, all’inottemperanza dell’ente locale
all’invito della Regione ad adempiere all’obbligo di legge entro un termine
ragionevole all’uopo indicato.
A sua volta l’art. 137 (“[p]oteri sostitutivi del Governo”) prevede che il Presidente
del Consiglio dei ministri, in caso di accertata inattività che comporti inadempimento
agli obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione europea, su proposta del
Ministro competente, assegna all’ente inadempiente un congruo termine per
provvedere e, decorso inutilmente tale termine, il Consiglio dei Ministri nomina un
commissario ad acta.
Infine, l’art. 138 (annullamento straordinario) prevede che, in applicazione
dell'articolo 2, comma 3, lettera p), della legge 23 agosto 1988, n. 400, il Governo, a
tutela dell'unità dell'ordinamento, con decreto del Presidente della Repubblica,
previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell'interno,
possa, in qualunque tempo, annullare, d'ufficio o su denunzia, sentito il Consiglio di
Stato, gli atti degli enti locali viziati da illegittimità. Quest’ultima possibilità di
intervento appare attagliarsi meglio alle ipotesi di ottemperanza soltanto formale
all’obbligo di adeguamento dello statuto.
Le disposizioni del T.U. sull’ordinamento degli enti locali appena richiamate,
secondo quanto evidenziato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 43 del
2004, riguardano l’esercizio del potere sostitutivo “ordinario” e lasciano
impregiudicata l’ammissibilità e la disciplina di altri casi di interventi sostitutivi,
configurabili dalla legislazione regionale di settore. Sul punto va pure considerato
che l’art. 117, settimo comma, della Costituzione, nel testo introdotto dalla legge
costituzionale n. 3 del 2001, ripropone il principio di eguaglianza anche per la legge
regionale, che deve rimuovere ogni ostacolo che impedisce la parità di genere nella
vita sociale, culturale ed economica e promuovere la parità di accesso alle cariche
elettive. La disposizione costituzionale ha pertanto una portata precettiva, che
obbliga la Regione all’adozione di misure antidiscriminatorie, non soltanto sul piano
legislativo, ma anche nell’esercizio dei poteri di vigilanza sugli enti locali.
A questo punto, pur considerando che il ricorso ai poteri sostitutivi è un rimedio
che va esercitato entro i limiti fissati dal rispetto dei principi costituzionali di
sussidiarietà e di leale collaborazione, si può affermare che l’omesso adeguamento
dello statuto entro il termine di sei mesi previsto dalla legge n. 215 del 2012
costituisce il presupposto per l’esercizio dei poteri sostitutivi, secondo un
procedimento i cui lineamenti si traggono dagli artt. 136, 137 e 138 del T.U.
sull’ordinamento degli enti locali.
Per le ragioni di ordine costituzionale e di coerenza ordinamentale sin qui espresse,
sarebbe auspicabile un intervento di sensibilizzazione delle autonomie locali da parte
del Governo sulla specifica materia nelle forme ritenute più opportune,
coinvolgendo anche la Conferenza Unificata Stato-Regioni e Stato-Città di cui al
d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281.
In ogni caso, compete innanzitutto alle Regioni diffidare i Comuni, che non hanno
ancora adeguato i rispettivi statuti e regolamenti, a provvedere entro un termine
ragionevole (90 giorni sembrerebbero sufficienti nella generalità dei casi) e, nel caso
di inadempienze, nominare un commissario ad acta perché proceda all’adeguamento
dello statuto per gli enti rimasti insensibili alla diffida.
Nell’ipotesi che taluna delle Regioni, benché sollecitate dal Governo, non
provvedesse nel senso sopra indicato, i poteri sostituitivi saranno esercitati dal
Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta dei Ministri dell’interno e degli
affari regionali e autonomie, nelle forme previste dagli artt. 137 e 138 del d.lgs. n.
267 del 2000.
Peraltro, come sopra evidenziato, la facoltà del Governo di far uso del potere
sostitutivo nei confronti delle autonomie territoriali è stata ribadita e ampliata
dall’art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento
dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), in
presenza di violazioni in grado di incidere sensibilmente sui livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali o di compromettere l’unitarietà
dell’ordinamento.
4. Passando al secondo quesito, con il quale ci si interroga sulla validità delle
deliberazioni di Giunta e di Consiglio adottate dagli organi composti da soli uomini,
in violazione della legge n. 215 del 2012, vanno considerate due ipotesi.
La prima si riferisce al caso in cui l’atto deliberativo sia stato adottato, mentre è
pendente ricorso giurisdizionale avverso l’irregolare composizione dell’organo.
Come ricordato dalla stessa Amministrazione richiedente, la questione è stata risolta
dalla giurisprudenza amministrativa, che si è espressa nel senso che l’organo in carica
si presume validamente costituito sino al deposito della sentenza che ne accerta
l’illegittima composizione (T.A.R. Lombardia - Brescia, Sez. II, 13 gennaio 2012, n.
1). Fino a quel momento la Giunta o il Consiglio dispongono dei pieni poteri e i
relativi atti beneficiano del principio della continuità degli organi amministrativi.
Tale orientamento è condiviso dalla Sezione.
La seconda ipotesi prende in esame il caso in cui l’atto deliberativo sia stato adottato
da un organo la cui irregolare composizione non sia stata impugnata. Anche in
questa situazione non ci sono riflessi diretti sulla validità dell’atto. L’atto, se non
impugnato nei termini, è divenuto inoppugnabile, esso ha acquistato stabilità.
A chiarimento si considera che il potere amministrativo è conferito dalla legge per
la cura di interessi che non sono propri del soggetto che lo esercita e che richiedono
una situazione di supremazia nell’ordinamento giuridico (principio di legalità). A
detto principio si aggiungono il principio di necessità, cioè il dovere del soggetto
investito del potere di perseguire l’interesse pubblico sino a quando perduri la
situazione che ha originato il potere e l’esigenza di curare gli interessi per cui è
esercitato.
Ne consegue che la stabilità dell’azione amministrativa è premessa e sintesi dei
principi generali ai quali deve ispirarsi l’esercizio del potere pubblico: economicità,
efficacia e non aggravamento, pubblicità e trasparenza, ragionevolezza e
proporzionalità, buona fede e legittimo affidamento.
Resta salvo l’esercizio del potere di autotutela della Amministrazione (annullamento
ordinario o straordinario) ove ne ricorrano i presupposti.
5. Relativamente al terzo quesito va condiviso l’avviso dell’Amministrazione che
ritiene che le disposizioni delle legge n. 215 del 2012 debbano applicarsi soltanto
all’atto del rinnovo della consiliatura o nel caso di dimissioni o di surrogazione di un
membro della giunta.
Siffatta interpretazione, oltre a conformarsi ai principi di ragionevolezza e di buona
amministrazione, è rispettosa dell’intendimento del legislatore come emerge dagli
atti parlamentari, nei quali si legge che l’iniziativa legislativa “nasce dall'esigenza,
finora elusa, di incentivare una maggiore presenza femminile nelle istituzioni ad ogni
livello, con la gradualità necessaria a garantire le pari opportunità per ambedue i
sessi, in modo da evitare sia interventi di sola facciata sia forzature dall'alto che
condizionano già in partenza la piena autonomia delle elette” (Atto Camera n. 4415XVI legislatura).
6. Con il quarto quesito l’Amministrazione chiede quale debba essere la ripartizione
percentuale minima tra i due sessi che gli statuti devono prevedere a garanzia della
rappresentanza di genere.
La questione, nei suoi lineamenti generali, è stata più volte esaminata dalla Corte
costituzionale, che anche in tempi recenti si è pronunciata nel senso che “gli spazi
della discrezionalità politica, in quanto tali sottratti al sindacato del giudice, trovano
i loro limiti nei principi di natura giuridica posti dall'ordinamento, sia a livello
costituzionale, sia a livello legislativo; pertanto, quando il legislatore predetermina
canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali
principi dello Stato di diritto, con la conseguenza che: a) l'ambito di estensione del
potere discrezionale, incluso quello amplissimo connotante l'azione di governo, è
circoscritto dai vincoli segnati dalle norme giuridiche, che ne tracciano i confini o ne
indirizzano l'esercizio; b) il rispetto di detti vincoli costituisce, allora e pur sempre,
requisito di validità dell'atto, sindacabile nelle sedi appropriate” (Corte cost., n.
81/2012).
Orbene, per quanto di interesse, il legislatore non ha indicato una percentuale precisa
per riequilibrare il rapporto numerico tra i due sessi, sicché con riferimento alla
composizione delle giunte (ciò che qui rileva) il vincolo non è stato precisato nelle
dimensioni applicative. Sul punto, pertanto, sussistono ampi spazi di discrezionalità
che conseguono all’autonomia ordinamentale e devono essere compatibili con le
dimensioni della realtà amministrativa considerata.
In ogni caso, equilibrio di genere non significa parità di presenze maschili e
femminili, quanto piuttosto evitare l’irragionevole preponderanza di un sesso
rispetto all’altro, secondo un criterio già ampiamente espresso dalla giurisprudenza
amministrativa citata dalla stessa Amministrazione. Soluzioni tassative al riguardo
sono di competenza del legislatore, che tuttavia sia nel decreto legislativo 11 aprile
2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna a norma dell’art. 7
della legge 28 novembre 2005, n. 2469), sia nella legge n. 215 del 2012, è sembrato
privilegiare soluzioni ispirate a ragionevolezza e progressività.
7. Per ultimo, il Ministero pone il quesito se vi siano particolari procedure che il
sindaco debba attuare per dimostrare che, nonostante abbia posto in essere ogni
utile iniziativa idonea a garantire l'applicazione del principio di pari opportunità tra
uomo e donna, non è riuscito a raggiungere tale obiettivo e ha dovuto nominare
soltanto assessori di sesso maschile.
Sul punto la Sezione condivide l’orientamento della più recente giurisprudenza
amministrativa (T.A.R. Lazio, Sez. II, 20 gennaio 2012, n. 679), che si è espressa nel
senso che, affinché un decreto di nomina della Giunta sia legittimo e rispetti la
portata precettiva dell’art. 51 Cost., occorre che contenga i seguenti elementi
giustificativi:
-la dimostrazione di una preventiva e necessaria attività istruttoria, volta ad acquisire
la disponibilità allo svolgimento dell’attività assessorile da parte di persone di
entrambi i sessi;
- un’adeguata motivazione della mancata applicazione del principio di pari
opportunità.
Le stesse motivazioni assumono rilievo nel caso di Comuni con popolazione
inferiore ai 15.000 abitanti, sebbene per questi ultimi, a differenza dei Comuni con
una popolazione superiore alle 15.000 unità, l’art. 47, comma 4, del T.U. degli enti
locali preveda la facoltà e non l’obbligo di nominare assessori esterni.
Dovendosi, infatti, escludere che l’art. 1, comma 2, della legge n. 215 del 2012 abbia
tacitamente abrogato l’art. 47, comma 1, del T.U. degli enti locali, sul quale è
intervenuto con modifiche specifiche, rimane soltanto da affermare che il Sindaco
dovrà motivare il provvedimento di nomina della Giunta, nel caso sia stato
impossibile pervenire a una composizione rispettosa dell’equilibrio di genere.
P.Q.M.
nei termini su esposti è il parere richiesto.
L'ESTENSORE
Elio Toscano
IL PRESIDENTE
Giuseppe Barbagallo
IL SEGRETARIO
Gabriella Allegrini