TLS Newsletter (12 marzo 2015)

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TLS Newsletter
N°3 Anno 9
12 marzo 2015
PwC Tax and Legal Services
(TLS)
Mensile di aggiornamento in materia legale e fiscale
Pubblicato e distribuito gratuitamente
Registrazione presso il Tribunale di Milano n. 760 in data 11 dicembre 2006
Legal and Tax monthly newsletter
Published and distributed free of charge
Registration before the Court of Milan n. 760 dated December 11, 2006
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TLS Newsletter n° 3 Anno 2015
2
Indice - Index
1.
Pag
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si esprimono circa il profilo rimediale della nullità
di protezione in materia bancaria
The Joint Chambers of the Italian Supreme Court have ruled on the invalidity of Unfair Terms
in Consumer Banking Contracts and its effect on the entire agreement
(Court of Cassation, 12/12/2014, no. 26242)
(Giulio Zampini - Mario Zanin)
4
2.
Sentenza n. 4906 del 2 febbraio 2015 della Corte di Cassazione – Riflessioni in materia di raddoppio
dei termini di accertamento ai fini IRAP
Comment on the Decision n. 4906 of February 2, 2015 of the Supreme Tax Court - Consideration
about the duplication of the terms of the assessment relevant to Irap
(Mia Pasini – Alessandro Anti )
3. “Jobs Act” – Primi decreti attuativi
Jobs Act - News
(Gianluigi Baroni – Davide Neirotti – Ivan Arrotta) 4.
L’Investment Compact amplia la platea per il Patent Box
New law broadens the scope of the Patent Box
(Paolo F. Tripoli – Lorenzo Ferrari) 6
8
11
5.
Strasburgo conferma il principio del ne bis in idem in materia tributaria
The European Court of Strasbourg confirms the application of the ne bis in idem rule in tax matters
(Carlo Romano – Rubina Fagioli) 13
6. La qualificazione di holding industriale ai fini della disciplina IRAP
Industrial holding qualification for IRAP purposes
(Serena Scalabrini - Edoardo Brami) 7. Rating di legalità: nel 2014 più che duplicate le domande
Legality rating: 2014 requests increased more than double
(Barbara Ferri) 17
8.
Legge di stabilità 2015 – Scissione dei pagamenti
Split Payment
(Alessia Angela Zanatto – Simone Latella) 14
18
9.
L’illegittimità costituzionale della “Robin Hood Tax”: scenari
The unconstitutionality of the Robin Hood Tax: scenarios
(Ivan Paviglianiti - Fabrizio Pascucci) 22
TLS Newsletter n° 3 Anno 2015
3
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si esprimono circa il profilo
rimediale della nullità di protezione in materia bancaria
(Giulio Zampini - Mario Zanin)
The Joint Chambers of the Italian Supreme Court have ruled on the invalidity of Unfair Terms in Consumer Banking Contracts
and its effect on the entire agreement (Court of Cassation, 12/12/2014, no. 26242)
Several provisions of the Italian Consolidated Banking Act (Legislative decree n. 385/1993) provide for the invalidity of unfair
terms in consumer banking contracts, with the effect, under certain circumstances, to invalidate the whole agreement in which
the unfair terms are contained. The matter faced by the Supreme Court in the judgment at stake concerns the apparent contrast
between the power of the Judge to detect the invalidity of the whole contract deriving from the unfairness of some terms and
conditions, without an express request of the client, and the relevant provision of the Banking Regulation according to which the
invalidity regime may be taken into consideration only in favour of the client. The Supreme Court confirmed the power of the
Judge to detect directly the invalidity of the agreement, assuming that claim did not imply the maintenance of the contract, with
no regards of which Party claimed for the invalidity.
Numerose previsioni del Titolo VI del D. Lgs. n. 385/1993
(“Testo Unico Bancario”; “TUB”) sono presidiate dalla
sanzione della nullità che colpisce, talvolta, l’intero
contratto bancario o finanziario. Il regime di queste
nullità si è progressivamente evoluto, sulla spinta della
legislazione europea di stampo consumeristico, verso
il modello della “nullità di protezione” che meglio si
attaglierebbe all’esigenza di tutela del cliente bancario.
In estrema sintesi, poiché in base al principio generale di
cui all’art. 1421 c.c. la nullità può essere fatta valere da
chiunque vi abbia interesse, per evitare che la parte “forte”
del rapporto contrattuale, ossia la banca o l’intermediario
finanziario, potesse trarre vantaggio da un vizio che essa
stessa aveva contribuito a determinare, liberandosi così
da un contratto nel frattempo divenuto, per potenziali
svariate motivazioni, non più conveniente, l’originaria
versione (in vigore sino alle modifiche apportate dal
D. Lgs. n. 141/2010, di cui infra) dell’art. 127, comma
2, TUB, aveva previsto che le nullità contemplate dal
Titolo VI dello stesso TUB potessero essere fatte valere
esclusivamente dal cliente. La dottrina intervenuta in
materia aveva, quindi, classificato tale tipologia di nullità
come “relativa”, inquadrandola tra le ipotesi di nullità in
cui la legittimazione ad agire è eccezionalmente limitata,
per espressa previsione legislativa, soltanto ad alcuni
dei soggetti potenzialmente interessati. Di conseguenza,
secondo l’opinione prevalente, le nullità dei contratti
bancari e finanziari potevano essere rilevate soltanto
dal cliente, ma non dalla banca o dall’intermediario
finanziario e neppure dal giudice d’ufficio. Un avverso
orientamento sosteneva, invece, la rilevabilità ope iudicis
della nullità di cui all’art. 127, comma 2, TUB, anche in
assenza di espressa previsione legislativa in tal senso; in
ambito giurisprudenziale, consterebbe un solo precedente
in quest’ultimo senso (cfr. Pret. Bologna 4 gennaio 1999).
Nel vigore della originaria formulazione dell’art. 127,
TLS Newsletter n° 3 Anno 2015
comma 2, TUB, infatti, si era evidenziato, per argomentare
contro la rilevabilità d’ufficio, che sono ipoteticamente
possibili anche situazioni in cui la declaratoria di nullità
di un contratto bancario o finanziario abbia conseguenze
pregiudizievoli, o quanto meno anche conseguenze
pregiudizievoli, per il cliente. Esempi possono essere
rappresentati da un contratto di deposito a risparmio,
nullo per mancanza della forma scritta, che tuttavia
preveda una remunerazione ad un tasso superiore a
quello di mercato, che si applicherebbe automaticamente
in favore del cliente in caso di declaratoria di nullità per
effetto delle diverse ipotesi di cui all’art. 117, TUB; ancora,
da un contratto di finanziamento nullo per difetto della
forma scritta, nullità da cui deriva l’obbligo di immediata
restituzione delle somme erogate. In tali ipotesi, si era
osservato, una generale rilevabilità d’ufficio priverebbe di fatto il cliente della possibilità di valutare se eccepire
o meno la nullità del contratto in base ad una personale
convenienza e/o opportunità economica.
Nel tempo sono intervenute numerose pronunce della
Corte di Giustizia Europea che, con riferimento al tema
delle clausole abusive nei contratti con i consumatori,
hanno riconosciuto al giudice nazionale la facoltà di
valutare d’ufficio l’illiceità delle clausole del contratto,
nell’ottica di una tutela effettiva del consumatore.
L’evoluzione legislativa
Sulla scorta di tale intervento interpretativo comunitario,
il legislatore italiano ha ripensato lo statuto delle nullità
previste dal Titolo VI del TUB, modellando il relativo
regime sulla falsariga della “nullità di protezione” già
prevista a livello nazionale dall’art. 36, comma 3, D. Lgs.
n. 206/2005 (c.d. “Codice del Consumo”).
Il nuovo comma 2 dell’art. 127 TUB – come modificato
dall’art. 4, comma 3, del sopra richiamato D. Lgs. n.
4
141/2010 – prevede pertanto che le nullità contemplate
nel Titolo VI, che riguardino sia le materie di diretta
matrice comunitaria, come il credito ai consumatori
ed i servizi di pagamento, sia la diversa materia della
trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e
finanziari, siano rilevabili d’ufficio da parte del giudice.
In buona sostanza, la sentenza delle Sezioni Unite segna il
definitivo distacco delle nullità “di protezione” da forme
di annullabilità “rinforzata”, facendole confluire a pieno
titolo nella categoria della nullità contrattuale.
L’intervento delle Sezioni Unite in merito alla
norma dell’art. 127, comma 2, TUB, nella vecchia
formulazione
Alla luce dell’interpretazione fornita dalla pronuncia
in commento, è possibile ritenere che dalla sostanziale
equiparazione delle nullità di protezione alle nullità
civilistiche discendano due ordini di conseguenze,
certamente foriere di un rilevante impatto sul contenzioso
bancario vertente sulla vecchia formulazione dell’art. 127,
comma 2, TUB (si pensi a tutto il contenzioso inerente
rapporti bancari instaurati negli anni novanta e duemila).
Circa la questione di come possa coniugarsi il potere di
rilevazione delle nullità ex officio iudicis con la previsione
per cui l’invalidità opera soltanto a vantaggio del cliente,
la recentissima sentenza delle Sezioni Unite della Corte
di Cassazione del 12 dicembre 2014, n. 26242 (peraltro,
con medesime argomentazioni versate nella “gemella”
decisione n. 26243/2014), in un corposo obiter dictum ha
preso posizione in merito al potere / dovere del giudice
di rilevare d’ufficio le nullità c.d. “di protezione” nel
vigore della vecchia formulazione della norma dell’art.
127, comma 2, TUB. La pronuncia in questione, operando
un revirement rispetto al precedente orientamento
espresso dalle stesse Sezioni Unite (cfr. sentenza del 4
settembre 2012, n. 14828, sempre sotto forma di obiter),
ha affermato che l’indagine intorno alla sussistenza di un
profilo di nullità rientra nell’attività officiosa dell’organo
giudiziale, anche qualora si versi in un caso di nullità
“protettiva”.
In sintesi, le Sezioni Unite hanno affermato il principio
secondo il quale il giudice, innanzi cui sia stata proposta
una qualsiasi impugnativa negoziale, sempreché non
rigetti la pretesa in base ad una diversa ragione, ha
l’obbligo di rilevare – e, correlativamente, di indicare alle
parti – l’esistenza di una causa di nullità negoziale, pure
se di natura speciale o “di protezione”; di conseguenza,
ove le parti non ne abbiano chiesto l’accertamento in
via principale od incidentale in esito all’indicazione del
giudice, lo stesso giudice ha la facoltà di dichiarare, in
motivazione, la nullità del negozio.
Pertanto, l’organo giudicante sarà tenuto a rilevare
la nullità a meno che il cliente, secondo l’ordinario
principio dispositivo, non formuli una domanda od una
eccezione tendente alla conservazione del contratto o
della clausola invalida. Inoltre, il potere di intervento
officioso del giudice sarebbe particolarmente rilevante
laddove il cliente non abbia ancora assunto le vesti di
parte processuale, come nell’ipotesi del procedimento
monitorio, dovendo in questo caso escludersi che il
giudice possa emettere il decreto ingiuntivo richiesto
dalla banca o dall’intermediario finanziario per il
pagamento di somme che si fondano su un contratto o su
una clausola nulla.
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Conclusioni
In primo luogo, all’argomentazione delle Sezioni Unite
secondo cui “la riconduzione ad unità funzionale delle
diverse fattispecie di nullità – lungi dal risultare uno sterile
esercizio teorico – consente di riaffermare a più forte
ragione l’esigenza di conferire rilievo d’ufficio obbligatorio
il carattere della irrinunciabile garanzia della effettività
della tutela di valori fondamentali della organizzazione
sociale”. pare conseguire l’inapplicabilità a tali tipologie dell’istituto della convalida del contratto ex art. 1444 c.c.;
infatti, l’interesse dell’ordinamento alla negazione degli
effetti dell’atto invalido prevale su quello dei contraenti,
assurgendo ad ”irrinunciabile garanzia della effettività
della tutela di valori fondamentali dell’organizzazione
sociale”.
In secondo luogo, trovando piena applicazione l’art.
1421 c.c., secondo cui la nullità può essere fatta valere
da chiunque vi abbia interesse e può essere rilevata
dal giudice, viene superata la problematica della
legittimazione, e resta invece da dirimere da parte degli
interpreti la questione circa il contemperamento tra la
più ampia rilevabilità del vizio e l’esigenza di evitare ogni
pregiudizio al soggetto protetto. Ebbene, in concreto, le
banche e gli intermediari finanziari convenuti in giudizio
per violazione delle disposizioni del Titolo VI del TUB
dovranno valutare con ancora più attenzione le proprie
strategie difensive, in quanto potrebbero risultare molto
deboli e addirittura controproducenti le “classiche”
eccezioni in rito afferenti la legittimazione.
5
Sentenza n. 4906 del 2 febbraio 2015 della Corte di Cassazione –
Riflessioni in materia di raddoppio dei termini di accertamento ai fini
IRAP
(Mia Pasini – Alessandro Anti )
Comment on the Decision n. 4906 of February 2, 2015 of the Supreme Tax Court - Consideration about the duplication of the
terms of the assessment relevant to Irap
The Supreme Tax Court, with the decision n. 4906/2015, stated that Italian Regional Tax (“IRAP”) is not subject to the tax
criminal procedure according to Legislative Decree n. 74/2000. The decision of the Supreme Tax Court implies a comment on the
application of the provision of article 43, paragraph 3, of the Presidential Decree n. 600/1973, to Italian Regional Tax.
L’evasione dell’IRAP non è penalmente rilevante, con
la conseguenza che per il superamento della soglia di
punibilità del reato di dichiarazione infedele occorre
escludere il debito relativo al tributo regionale. Così si è
espressa la Corte di Cassazione, quarta sezione penale,
con la sentenza n. 4906 depositata il 2 febbraio 2015.
La questione in esame trae origine da un procedimento
penale avviato dal Tribunale di Bari nei confronti di un
imprenditore indagato, tra gli altri, per il reato di omessa
presentazione della dichiarazione.
A seguito di un primo sequestro preventivo per
equivalente su alcuni beni facenti capo all’indagato, la
Corte di Cassazione annullava l’ordinanza in esame,
rimettendo la questione al medesimo giudice.
Il Tribunale del riesame di Bari, riqualificando il reato di
omessa dichiarazione in reato di dichiarazione infedele,
ha confermato il provvedimento di sequestro per
equivalente dei beni dell’indagato provvedendo, tuttavia,
a ridimensionarne l’importo.
Avverso detta ordinanza, l’imprenditore ha proposto
ricorso per Cassazione, adducendo, tra l’altro, come
motivazione, “l’erroneità dell’avvenuta considerazione,
da parte del giudice a quo, ai fini della quantificazione
dell’imposta evasa, dell’eventuale evasione dell’IRAP
siccome non rientrante nel campo di applicazione del D.lgs.
n. 74/2010”.
La Corte di Cassazione, preso atto delle motivazioni
addotte dal contribuente, ha sancito che “nella
fattispecie in esame il Tribunale, per la quantificazione
del profitto da reato erroneamente ha tenuto conto anche
dell’asserito mancato pagamento dell’IRAP, laddove la
legge non conferisce rilevanza penale all’eventuale evasione
dell’imposta regionale sulle attività produttive (non
trattandosi di un’imposta sui redditi in senso tecnico) e
le dichiarazioni costituenti l’oggetto materiale del reato
di cui all’art. 4 del D.lgs n.74/2000 sono solamente le
dichiarazioni dei redditi e le dichiarazioni annuali IVA”.
TLS Newsletter n° 3 Anno 2015
Gli Ermellini quindi, confermando la tesi difensiva del
contribuente, hanno correttamente sostenuto che, al fine
di quantificare l’imposta evasa e quindi, di conseguenza,
verificare il superamento della soglia di punibilità
penale, l’IRAP, non essendo un’imposta sui redditi in
senso tecnico, non deve essere considerata, dovendosi
considerare esclusivamente le imposte sui redditi e
l’imposta sul valore aggiunto.
Infatti, le disposizioni di cui al D.Lgs. n. 74/2000, che
disciplina le fattispecie fiscali penalmente rilevanti, sono
circoscritte esclusivamente alle violazioni in materia di
imposte sui redditi e sull’IVA, come peraltro emerge dal
titolo stesso del decreto “nuova disciplina dei reati in
materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto”.
Inoltre, tale orientamento è coerente con quanto espresso
dall’Amministrazione finanziaria che, con la circolare
n. 154/E del 2000, con riferimento alle ipotesi di reato
da dichiarazione fraudolenta di cui agli articoli 2 e 3
del D.lgs n. 74/2000, ha chiarito che: “le dichiarazioni
costituenti l'oggetto materiale del reato sono solamente
le dichiarazioni dei redditi e dichiarazioni annuali IVA;
di conseguenza, sono ad esempio escluse dalla fattispecie
criminosa le dichiarazioni prodotte ai fini dell’IRAP,
le dichiarazioni periodiche IVA e le dichiarazioni di
successione. A tal proposito, si osserva che, anche se la
dichiarazione presentata in forma unificata a norma
dell’articolo 3 del D.p.r. 22 luglio 1998, n. 322 accoglie più
dichiarazioni prodotte ai fini delle imposte dirette, dell’IVA e
dell’IRAP, acquistano rilievo solo le violazioni in materia di
imposte dirette e di IVA”.
La pronuncia in esame appare molto interessante in
quanto, non solo richiama il principio dell’irrilevanza
penale delle violazioni in materia IRAP, ma anche perché
consente di svolgere alcune considerazioni in merito
all’applicabilità ai fini IRAP del raddoppio dei termini di
decadenza dell’accertamento di cui all’art. 43, comma 3,
del D.p.r. 600/1973.
6
Di sovente, infatti, l’Amministrazione finanziaria intende
beneficiare di tale istituto non solo per le imposte sui
redditi e l’IVA ma anche per l’IRAP.
In tal senso, si è espressa la Commissione Tributaria
Regionale della Lombardia con la sentenza n. 255,
depositata il 21 gennaio 2014.
In queste occasioni, l’Agenzia delle Entrate, richiamando
quanto disposto dall’articolo 25 del D.lgs 446/1997, in
forza del quale “per le attività di controllo, di accertamento,
di riscossione e contenzioso in materia IRAP si applicano
le disposizioni in materia di imposte sui redditi”, ritiene
implicitamente applicabile anche al tributo regionale
quanto previsto dall’articolo 43, comma 3, del D.p.r
600/1973, in ragione del quale “in caso di violazione
dell’obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice
di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto
legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi
precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo di
imposta in cui è stata commessa la violazione”.
I giudici di secondo grado, contrastando l’orientamento
dell’Ufficio che riteneva applicabile l’istituto del
raddoppio dei termini anche in ambito IRAP in forza del
rimando di cui al D.lgs 446/1997, hanno infatti affermato
il principio dell’inoperatività ai fini del tributo regionale
del disposto di cui all’articolo 43, comma 3, del D.p.r
600/1973, in ragione del fatto che la violazione di tale
imposta non è penalmente sanzionata.
Parte della giurisprudenza di merito, negli ultimi anni, ha
condiviso tale comportamento dell’Agenzia delle Entrate.
In tal senso, la Commissione Tributaria Provinciale di
Massa Carrara, con la sentenza n. 74 del 17 febbraio 2011,
si è espressa sul tema, affermando il principio secondo
cui il raddoppio dei termini di decadenza del potere di
accertamento opera anche con riferimento all’IRAP, posto
che il D.lgs n. 446/1997 rende applicabili i termini di cui
all’articolo 43 del D.p.r. 600/1973.
A favore di tale interpretazione, si è espressa recentemente
anche la Commissione Tributaria Regionale del Lazio,
con la sentenza n. 1224, del giorno 27 febbraio 2014.
I giudici di merito, in tal caso, dichiarando infondato il
motivo di ricorso del contribuente che aveva lamentato la
non applicabilità del raddoppio del termine quadriennale
per l’accertamento all’IRAP, hanno sostenuto che
il disposto di cui all’art. 43, comma 3, deve essere
applicato anche in materia IRAP, in quanto altrimenti
si verificherebbe “l’incongruenza che per uno stesso anno
d’imposta, una posizione fiscale (IRAP) sarebbe preclusa
dall’attività accertativa, mentre l’attività di accertamento
ai fini IRES ed IVA, sarebbe suscettibile di controllo”.
Tuttavia, il fatto che il disposto di cui al citato articolo 43,
comma 3, del D.p.r. 600/1973, preveda espressamente
che il raddoppio dei termini di accertamento sia possibile
solo in caso di violazioni che comportano l’obbligo
di denuncia per uno dei reati previsti dal decreto
legislativo 10 marzo 2000, n. 74, ha portato parte della
giurisprudenza di merito e della dottrina a propendere
per una tesi contraria a quella sopra riportata.
Anche la Commissione Tributaria Provinciale di Milano,
con la sentenza n. 6464 del 2 luglio 2014, è intervenuta
sul tema.
I giudici milanesi, confermando l’orientamento espresso
dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia
nella sentenza 255/2014, hanno sancito che “con specifico
riferimento ai rilievi IRAP, si evidenzia che la L. n. 74 del
2000 non conferisce rilevanza penale, né per analogia può
essere applicato il già citato raddoppio dei termini a tale
imposta; di conseguenza il raddoppio dei termini applicato
ai fini IRAP risulta illegittimo non rientrando la fattispecie
criminosa sulla previsione del D.lgs. n. 74 del 2000”.
Alla luce delle considerazioni sopra riportate, a parere
di chi scrive, stante il tenore letterale del disposto di
cui all’articolo 43, comma 3, del D.p.r 600/1973, e
considerato che le violazioni in materia di IRAP non sono
penalmente rilevanti, sembrerebbe corretto propendere
per la tesi dell’irrilevanza ai fini IRAP dell’istituto del
raddoppio dei termini di decadenza dell’accertamento.
Tuttavia, si ricorda che tale orientamento, seppur
prevalente in dottrina e in giurisprudenza, non è univoco,
motivo per cui spesso il contribuente potrà vedersi
notificare dagli Uffici dell’Agenzia delle Entrate avvisi di
accertamento contenenti rilievi IRAP anche oltre i termini
ordinari di accertamento.
In attesa di una precisa pronuncia sul tema da parte
dei Giudici di legittimità, tuttavia, il contribuente che
deciderà di ricorrere avverso tali avvisi potrà motivare
il proprio ricorso adducendo, tra le varie motivazioni,
l’illegittimità dell’utilizzo da parte dell’Ufficio dell’istituto
del raddoppio dei termini di decadenza dell’accertamento
con riferimento ai rilievi emersi in ambito IRAP.
Infatti, coerentemente con quanto affermato dalla Corte
di Cassazione con la sentenza n. 4906 del 2 febbraio 2015,
il fatto che non sia configurabile alcun reato tributario
per l’imposta regionale sulle attività produttive, dovrebbe
escludere, sulla base di una interpretazione letterale
del disposto di cui all’articolo 43, comma 3, del D.p.r.
600/1973, la legittimità del raddoppio dei termini di
decadenza dell’accertamento per tale tributo.
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“Jobs Act” – Primi decreti attuativi
(Gianluigi Baroni – Davide Neirotti – Ivan Arrotta)
Jobs Act - News
On March 7th 2015, the Legislative Decrees No. 22/15 and No. 23/15 are definitively entered in force, as partial execution of the
Enabling Law No. 183/14 (the “Jobs Act”). These decrees provide significant changes concerning the dismissal regulation scheme
and social security system.
Il 7 marzo 2015, sono ufficialmente entrati in vigore, a
seguito di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, i primi
due Decreti legislativi (nn. 22/15 e 23/15) attuativi della
Legge Delega n. 183/14 (“Jobs Act”), aventi ad oggetto
rispettivamente le disposizioni sul contratto di lavoro a
tutele crescenti e la riforma degli ammortizzatori sociali.
Le disposizioni in materia di contratto di lavoro a
tempo indeterminato a “tutele crescenti” (D.lgs
n. 23/15)
La novità più interessante disposta dal Governo è
quella relativa all’introduzione del contratto di lavoro
subordinato a tempo indeterminato c.d. “a tutele
crescenti” che troverà principalmente applicazione
nei confronti delle imprese che occupano più di 15
dipendenti.
La nuova disciplina è destinata ai lavoratori che rivestono
la qualifica di operai, impiegati o quadri (quindi, non ai
“Dirigenti”), assunti a tempo indeterminato a decorrere
dall’entrata in vigore del decreto. Tali disposizioni si
applicheranno anche ai contratti a tempo determinato e
di apprendistato convertiti in rapporto di lavoro a tempo
indeterminato successivamente all’entrata in vigore
del decreto. Inoltre, nel caso in cui il datore di lavoro in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato
avvenute successivamente all’entrata in vigore del decreto
- integri il requisito occupazionale di 15 dipendenti di cui
all’articolo 18 della L. n. 300/70, il licenziamento dei
lavoratori, anche se assunti precedentemente a tale data,
sarà disciplinato dalle disposizioni del decreto di cui si
tratta.
Secondo la nuova normativa, nelle ipotesi di licenziamento
dichiarato illegittimo sono previste diverse forme di
tutela sulla base di un “coefficiente” di illegittimità del
licenziamento stesso.
Nel dettaglio, per i licenziamenti discriminatori, per
quelli intimati in forma orale ovvero in concomitanza
di matrimonio o per ragioni di maternità o altri casi
di nullità (ivi incluso per difetto di giustificazione per
motivo consistente nella disabilità fisica e/o psichica
del lavoratore) è stata mantenuta la sanzione della
reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro
indipendentemente dal motivo formale addotto,
TLS Newsletter n° 3 Anno 2015
unitamente alla condanna del datore di lavoro al
risarcimento del danno derivante dal licenziamento (dal
giorno di quest’ultimo sino all’effettiva reintegra) che
non potrà, in ogni caso, essere inferiore a 5 mensilità
dell’ultima retribuzione globale di fatto, nonché al
versamento di tutti gli oneri contributivi o assistenziali
dovuti. E’ fatto salvo, in ogni caso, il diritto del lavoratore
di optare per l’indennità sostitutiva della reintegra sempre
stabilita nella misura di 15 mensilità (entro 30 giorni
dalla comunicazione di deposito della pronuncia ovvero
dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio).
La tutela reintegratoria è altresì prevista nelle ipotesi
in cui, in caso di licenziamento intimato per giusta
causa o giustificato motivo soggettivo, sia direttamente
dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale
contestato dal lavoratore a prescindere da ogni eventuale
valutazione sulla gravità del fatto.
Per quanto concerne, invece, le ipotesi in cui dovesse
risultare l’insussistenza degli estremi del licenziamento
per giustificato motivo oggettivo o per giustificato
motivo soggettivo o giusta causa, non è prevista la
reintegra e il rapporto viene dichiarato estinto alla
data del licenziamento. In tali casi, il lavoratore avrà
esclusivamente diritto al pagamento da parte del datore
di lavoro di un’indennità risarcitoria (non assoggetta a
contribuzione) pari a 2 mensilità per ogni anno di servizio
(l’indennità non potrà, in ogni caso, essere inferiore a 4 e
superiore a 24 mensilità.
Nelle ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con
violazione del requisito motivazionale (art. 2, comma 2,
L. n. 604/66) o della procedura prevista dalla legge (art.
7, L. n. 300/70), il rapporto di lavoro viene dichiarato
estinto a far data dal licenziamento ed il dipendente avrà
diritto a ricevere esclusivamente un’indennità risarcitoria
(non assoggetta a contribuzione) pari ad 1 mensilità per
ogni anno di servizio. In ogni caso tale indennità non
potrà essere inferiore a 2 e superiore a 12 mensilità.
Al fine di incentivare la conciliazione delle controversie
tra le parti, è stata prevista la possibilità per il datore
di lavoro, ferma restando l’opportunità di addivenire
a qualsiasi altra modalità conciliativa, di offrire al
lavoratore entro il termine di impugnazione stragiudiziale
8
del licenziamento un importo pari ad 1 mensilità per
ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore
a 2 e non superiore a 18 mensilità da versare mediante
assegno circolare (anche in questo caso tale indennità
non costituisce reddito imponibile e non è assoggettata a
contribuzione previdenziale).
precedente assicurazione sociale per l’impiego (di seguito
“ASpI”) e sono stati previsti, inoltre, per la prima volta,
in via sperimentale, alcuni strumenti di tutela del reddito
estesi anche ai lavoratori con rapporto di collaborazione
(Co.Co.Co.), nonché alcuni strumenti di politica attiva di
incentivo al lavoro.
Quanto all’istituto della revoca del licenziamento, è
stato sostanzialmente confermato quanto già introdotto
con la Riforma Fornero: pertanto la revoca dovrà essere
effettuata dal datore di lavoro entro 15 giorni dalla
comunicazione al medesimo dell’impugnazione del
licenziamento da parte del lavoratore. Il rapporto di
lavoro viene ripristinato senza soluzione di continuità,
con il diritto del lavoratore di percepire la retribuzione
maturata medio tempore.
Nel dettaglio, il trattamento NASpI consiste in
un’indennità di disoccupazione corrisposta su base
mensile destinata a tutti i lavoratori subordinati
che abbiano perduto involontariamente la propria
disoccupazione. Occorre precisare che sono destinatari
dei trattamenti della NASpI anche coloro i quali abbiano
rassegnato le proprie dimissioni per giusta causa e nei
casi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro
nell’ambito della procedura di licenziamento per GMO.
Per quanto concerne le conseguenze derivanti da
eventuali patologie dei provvedimenti di licenziamento
collettivo, è stato previsto che per i provvedimenti
intimati senza l’osservanza della forma scritta, troverà
applicazione la tutela c.d. “reintegratoria piena” (vale a
dire reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e
pagamento di un risarcimento del danno pari a tutte le
mensilità che avrebbe dovuto percepire dalla data del
licenziamento fino a quella dell’effettivo reintegro, oltre
contributi previdenziali e assistenziali). Diversamente,
nelle ipotesi di violazione delle procedure o dei criteri di
scelta nell’ambito della procedura di legge, si applicherà
un regime di tutela crescente per un numero di indennità
non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità della
retribuzione globale di fatto, da parametrarsi sulla base
degli anni di effettivo servizio.
I requisiti per ottenere il trattamento previsto dalla
NASpI sono lo stato di disoccupazione involontaria,
l’aver versato, nei 4 anni precedenti l’inizio del periodo
di disoccupazione, almeno 13 settimane di contribuzione
oppure l’aver lavorato per almeno 30 giorni nell’anno
precedente al periodo di disoccupazione.
Per le imprese che non raggiungono il requisito
dimensionale di cui all’art. 18, L. n. 300/70, è previsto
un dimezzamento delle indennità risarcitorie in caso di
licenziamento illegittimo e, comunque, un massimale
non superiore alle 6 mensilità. Per tali aziende, è
espressamente esclusa l’applicabilità dell’art. 3,
comma 2 del decreto legislativo n. 23/15, vale a dire la
reintegrazione (con i relativi effetti) per insussistenza del
fatto materiale contestato.
Sotto un profilo strettamente procedurale, occorre
evidenziare che per i licenziamenti disciplinati nell’ambito
di tale decreto legislativo non troverà applicazione il c.d.
“Rito Fornero” (art. 1, commi 48 e ss., L. n. 92/12).
Il riordino della normativa in materia di
ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione
involontaria e di ricollocazione dei lavoratori
disoccupati (D.lgs. n. 22/15)
Altra grande novità introdotta dal Governo concerne
il riordino della normativa in tema di ammortizzatori
sociali.
E’ stata introdotta la nuova assicurazione sociale per
l’impiego (di seguito “NASpI”) in sostituzione della
TLS Newsletter n° 3 Anno 2015
L’ammontare del trattamento della NASpI è pari al 75%
della “retribuzione mensile”.
Nell’ipotesi di retribuzione mensile superiore ad € 1.195
è prevista un’indennità pari al 75% del predetto importo
aumentata di una somma pari al 25% della differenza
tra la retribuzione mensile e il predetto importo. In
ogni caso, il trattamento della NASpI non potrà essere
superiore ad € 1.300 al mese. È stabilita una riduzione
del 3% del trattamento a decorrere dal primo giorno del
quarto mese di fruizione.
La durata della Naspi è prevista per un numero di
settimane pari alla metà delle settimane di contribuzione
degli ultimi 4 anni. Da tale periodo sono esclusi i tempi in
cui il lavoratore abbia già fruito delle prestazioni previste
dall’ASpI. A partire dal 1° gennaio 2017 è stabilito un
limite massimo di 78 settimane.
E’ importante sottolineare che il trattamento della NASpI
è subordinato alla regolare partecipazione ad iniziative
finalizzate al reimpiego e/o a percorsi di qualificazione
professionale proposti dai servizi competenti.
In aggiunta a quanto sopra, il decreto legislativo n. 22/15,
in via sperimentale, istituisce “l’indennità di disoccupazione
per i lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata”
(c.d. “Dis–Coll”).
La Dis-Coll è destinata ai collaboratori coordinati e
continuativi, anche a progetto, iscritti in via esclusiva
alla Gestione Separata INPS, che hanno perduto
involontariamente la propria occupazione (purché non
rivestano la carica di sindaci o amministratori e non siano
pensionati e/o titolari di partita IVA).
9
I requisiti per fruire del trattamento Dis-Coll consistono
nello stato di disoccupazione involontaria, oltre all’aver
versato almeno tre mesi di contribuzione nel periodo
compreso tra il 1° gennaio dell’anno solare precedente
l’evento di cessazione dal lavoro sino al predetto evento,
oppure, nell’anno solare in cui si verifica l’interruzione
del lavoro, nell’ aver almeno versato almeno un mese di
contribuzione o, in alternativa, prestato effettivamente il
proprio lavoro per un mese.
L’ultima novità prevista dal decreto legislativo relativo
agli ammortizzatori sociali è data dal contratto di
ricollocazione, in forza del quale, al lavoratore licenziato
illegittimamente per giustificato motivo oggettivo individualmente o nell’ambito di un licenziamento
collettivo - spetta il diritto di ricevere, dai servizi per
il lavoro pubblici o dai soggetti privati accreditati,
l’assistenza intensiva nella ricerca del lavoro attraverso la
stipulazione del contratto di ricollocazione. La Dis-Coll è rapportata al reddito imponibile ai fini
previdenziali risultante dai versamenti contributivi
effettuati, derivanti dai rapporti di collaborazione, con i
medesimi limiti previsti per la NASpI.
Per poter accedere ai trattamenti previsti dal contratto
di ricollocazione occorre che il lavoratore effettui
la procedura di definizione del profilo personale di
occupabilità. A seguito di tale procedura, al lavoratore è
riconosciuta una somma denominata “dote individuale di
ricollocazione” spendibile presso i soggetti accreditati che
dovranno aiutar il lavoratore a ricollocarsi nel mercato
del lavoro italiano.
Trattandosi di una misura sperimentale, la Dis-Coll è
prevista solo per l’anno 2015.
Un ulteriore strumento di sostegno del reddito disposto
in via sperimentale e per il solo anno 2015, è l’Assegno di
disoccupazione (c.d. “Asdi”) avente la funzione di fornire
una tutela di sostegno al reddito ai lavoratori beneficiari
della NASpI che ne abbiano esaurito la fruibilità e siano
privi di occupazione, trovandosi quindi in una condizione
economica di bisogno.
Il trattamento dell’Asdi è previsto per un periodo massimo
di sei mesi ed il suo ammontare corrisponde al 75% del
trattamento di NASpI precedentemente fruito.
TLS Newsletter n° 3 Anno 2015
Considerate le novità normative, le considerazioni sui
temi in oggetto sono necessariamente preliminari e
soggette, in ogni caso, ad ulteriori approfondimenti e
commenti, soprattutto relativamente ai profili applicativi
ed interpretativi che verranno evidenziati in sede di
attuazione concreta delle previsioni di riferimento.
10
L'Investment Compact amplia la platea per il Patent Box
(Paolo F. Tripoli – Lorenzo Ferrari)
New law broadens the scope of the Patent Box
Italy has introduced a Patent Box regime based on the OECD “nexus approach”. Less than a month after the approval of the
Patent Box regime, the Government has extended its scope through a Law Decree “Investment Compact”. The Investment
Compact extends benefits of the Patent Box to trademarks, removing the stipulation that they have to be “functionally equivalent
to patents”. It reduces the number of instances in which it is necessary to obtain an APA (making optional to enter into an APA for
intercompany royalties and also for intra-group transfers of ownership) in order to take advantage of the regime. In addition,
it extends the circumstances in which Italian taxpayers that do not perform R&D themselves or through universities are able to
benefit from the exemption. These factors make the regime more attractive, although it is still necessary to await the Regulations
and the interpretation of total qualifying expenditure to understand exactly how the provisions will apply. The regime entered
into force on 1 January 2015 and grants an exemption for Corporate and Regional Tax purposes in respect of income sourced
from specified intangible assets. It is being phased in during 2015 and 2016, reaching the final target exemption percentage of
50% by 2017.
La Legge di Stabilità 2015 - Legge n. 190 del 23
dicembre 2014, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.
300 supplemento ordinario n.99 del 29 dicembre 2014
– ha introdotto, tra le diverse disposizioni, un regime
opzionale di tassazione agevolata per i redditi derivanti
dall’utilizzazione di alcune tipologie di beni immateriali,
il cosiddetto “Patent Box”. Come evidenziato nella
relazione illustrativa “[l]’introduzione del predetto regime
opzionale renderebbe il mercato italiano maggiormente
attrattivo per gli investimenti nazionali ed esteri di lungo
termine, tutelando la base imponibile italiana”.
Di fatto l’Italia con l’introduzione del Patent Box si è
allineata a quanto già previsto in molteplici Stati europei
nei quali era stato introdotto un regime fiscale agevolativo
per il reddito derivante dall’utilizzazione dei beni
immateriali. Il Patent Box italiano si basa sullo schema
del “Nexus Approach” dell’OCSE, così come previsto nel
capitolo 4 dell’Action 5: 2014 Deliverable “Countering
Harmful Tax Practices More Effectively, Taking into Account
Transparency and Substance”.
A meno di un mese di distanza dall’approvazione da
parte del Parlamento della norma de qua, il Governo è
intervenuto ampliandone l’ambito applicativo attraverso
l’articolo 5 del Decreto Legge n.3 (“DL Investment
Compact”) pubblicato in Gazzetta Ufficiale del 24 gennaio
2015. Tale intervento, come peraltro evidenziato negli
Atti Parlamentari relativi alla discussione della Legge
di conversione, “è finalizzato a rendere maggiormente
attrattiva la misura della tassazione agevolata dei redditi
derivanti dall’utilizzazione e cessione dei beni immateriali”.
Conseguentemente, tali modifiche hanno agevolato
la procedura per accedere al regime agevolativo e, nel
contempo, hanno ampliato la platea dei soggetti che
potranno beneficiare del Patent Box.
TLS Newsletter n° 3 Anno 2015
Il Patent Box
Come specificato nell’articolo “<Patent Box>: arriva in
Italia il regime di tassazione agevolata di marchi e brevetti”,
pubblicato nella TLS Newsletter n.12 del mese di dicembre
2014, il regime Patent Box è applicabile ai titolari di
reddito d’impresa sia italiani che stranieri. I contribuenti
stranieri potranno accedere a tale regime solamente
se il loro business in Italia sia svolto tramite una stabile
organizzazione e qualora risiedano in Paesi con i quali è
in vigore un accordo per evitare la doppia imposizione e
con i quali lo scambio di informazioni sia effettivo.
Come stabilito dalla Legge di Stabilità 2015 l’accesso
al regime avviene tramite l’esercizio di un’apposita
opzione, irrevocabile e di durata quinquennale. Il regime
di tassazione agevolata entrerà in vigore a partire dal
periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31
dicembre 2014; pertanto tale regime risulta essere già
in vigore per i contribuenti aventi il periodo d’imposta
coincidente con l’anno solare.
Il Patent Box concede la parziale esclusione dalla base
imponibile delle imposte sui redditi nonché dal valore
della produzione netta ai fini IRAP del reddito derivante
da determinate immobilizzazioni immateriali. Tale
regime è introdotto in modo graduale prevedendo che
la percentuale di esclusione sarà pari al 30% e al 40%
rispettivamente per i periodi d’imposta 2015 e 2016; a
regime, vale a dire a partire dall’esercizio fiscale 2017, la
percentuale di esclusione sarà pari al 50%.
11
Beni immateriali e tipologie di reddito per cui è
possibile applicare l’esclusione
Le immobilizzazioni immateriali a cui si applica il beneficio
sono opere dell’ingegno, brevetti industriali, marchi
d’impresa, nonché processi, formule e informazioni
relativi ad esperienze acquisite nel campo industriale,
commerciale o scientifico giuridicamente tutelabili. La
Legge di Stabilità 2015 imponeva, per poter beneficiare del
regime, che i marchi fossero funzionalmente equivalenti
ai brevetti. Il DL Investment Compact è intervenuto in tal
senso estendendo l’ambito applicativo a tutte le tipologie
di marchi e specificando che sono ricompresi anche
disegni e modelli.
I redditi che potranno beneficiare dell’esclusione concessa
dal Patent Box sono:
• le royalties ricevute in relazione allo sfruttamento
delle immobilizzazioni immateriali di cui sopra;
• la quota parte di reddito riferita allo sfruttamento
delle immobilizzazioni immateriali impiegate per la
produzione di beni o la prestazione di servizi;
• le plusvalenze derivanti dalla cessione di tali beni, le
quali sono interamente esentabili a condizione che
almeno il 90% del relativo corrispettivo sia reinvestito
in immobilizzazioni assimilabili. Probabilmente,
nonostante si attendano delucidazioni in quanto
la norma non è del tutto chiara a tal riguardo,
l’esclusione del 50% si applica ai proventi realizzati
dalla cessione della proprietà intellettuale qualora il
requisito del reinvestimento non sia soddisfatto.
Advance Pricing Agreement (“APA”)
L’accesso a tale regime è subordinato ad un preventivo
accordo con l’Agenzia delle Entrate (“APA”) in caso di
utilizzo diretto dei beni immateriali. La procedura di APA
sarà finalizzata a determinare la quota parte di reddito
imponibile attribuibile allo sfruttamento delle proprietà
intellettuali.
L’APA sarà facoltativa nel caso di royalty infragruppo e
per quanto riguarda il trasferimento dei beni immateriali
inter-company. A differenza di quanto disposto dalla
Legge di Stabilità 2015 che imponeva l’obbligo della
procedura di APA in tali casi, il DL Investment Compact è
intervenuto rendendola facoltativa.
L’APA non sarà mai richiesta, né in via obbligatoria né
in via facoltativa, nel caso in cui i redditi agevolabili
derivino da terzi, vale a dire nel caso in cui soggetti terzi
corrispondano canoni a fronte della concessione in uso
delle attività immateriali agevolabili sviluppate.
In particolare, non sono stati previsti cambiamenti alla
clausola generale secondo cui il reddito agevolabile
deve essere determinato in base al rapporto tra le spese
ammissibili e i costi complessivi sostenuti per sviluppare
le immobilizzazioni.
La Legge di Stabilità ha definito, quali spese ammissibili,
le spese in attività di R&S relative al bene immateriale
sostenute dal contribuente o dalle università. In base
al DL Investment Compact, possono essere ugualmente
incluse le attività di R&S commissionate a terzi.
In aggiunta, il DL Investment Compact ha stabilito che
al numeratore del rapporto precedentemente illustrato
potranno essere aggiunti, nel limite del 30% delle spese
di attività di ricerca e sviluppo svolte dalla società
stessa ovvero tramite soggetti esterni non appartenenti
al gruppo, i costi sostenuti per l’acquisizione del bene
immateriale o per contratti di ricerca, relativi allo stesso
bene, stipulati con società del gruppo.
Inoltre, è prevista l’emanazione di un decreto di
natura non regolamentare del Ministero dello sviluppo
economico, di concerto con il Ministero dell'economia e
delle finanze, volto a definire in dettaglio gli elementi del
rapporto di cui sopra.
Ulteriori considerazioni
Le modifiche apportate al Patent Box dal DL Investment
Compact rendono il regime di tassazione agevolata
ancora più attraente. In ogni caso, per poter comprendere
appieno la portata applicativa della norma, occorrerà
attendere che i Decreti Ministeriali attuativi di natura non
regolamentare siano emanati.
Inoltre, appare opportuno ricordare che i benefici
introdotti dal Patent Box non impediscono l’accesso ad
altri regimi agevolativi vigenti in Italia (quale a titolo
esemplificativo l’ACE ovvero l’accesso al credito d’imposta
per attività di Ricerca e Sviluppo di cui all’articolo 3 del DL
145 del 2013 come modificato dal comma 35 dell’articolo
1 della Legge di Stabilità 2015).
Infine, per quanto concerne i termini di conversione in
legge del Decreto in esame, datato 24 gennaio 2015, gli
stessi dovrebbero scadere il 25 marzo 2015: a oggi non
risultano specifiche proposte di modifica dell’attuale
testo normativo dell’articolo 5, ancorché non possano
essere escluse nella fase di conversione del Decreto.
“Nexus Approach” e variazioni nella formula
delle spese ammissibili
In base a quanto previsto dall’Action 5 dell’OCSE affinché
i regimi di Patent Box non siano considerati pratiche
fiscali dannose, dovrà essere previsto un collegamento
tra l’agevolazione e l’effettuazione di attività di ricerca e
sviluppo da parte del contribuente.
TLS Newsletter n° 3 Anno 2015
12
Strasburgo conferma il principio del ne bis in idem in materia tributaria
(Carlo Romano – Rubina Fagioli)
The European Court of Strasbourg confirms the application of the ne bis in idem rule in tax matters
In the recent Rinas v. Finland (application no. 17039/13), decided on January 27 2015, the European Court of Human Rights
(“ECHR”) delivered its judgment on a case concerning the violation of the ne bis in idem rule set out in Article 4 of Protocol 7 to
the European Convention of Human Rights. This rule
In the specific, the applicant was subject to two parallel sets of proceedings (i.e. a taxation and a criminal proceeding), which led
respectively to the application of tax surcharges and the conviction for aggravated tax fraud.
After analyzing the following four issues, i.e. whether (i) the proceedings were criminal in nature, (ii) the offences for which the
applicant was prosecuted were the same (idem); (iii) there was a final decision; and (iv) there was a duplication of proceedings
(bis), the ECHR ruled in favor of the applicant and, based on violation of the ne bis in idem rule, condemned Finland to pay a
monetary compensation to the applicant.
Lo scorso 27 gennaio la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
(nel prosieguo “Corte EDU”) si è pronunciata sul caso
“Rinas c. Finlandia” (causa n. 17039/13, nel prosieguo
“caso Rinas”) avente ad oggetto la violazione del principio
del ne bis in idem. Tale principio, che trova fondamento
nell’articolo 4 del Protocollo n.7 della Convenzione Europea
per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà
Fondamentali (di seguito “CEDU”), sancisce il diritto a non
essere giudicati o condannati due volte per lo stesso reato. In dettaglio, la causa Rinas trae origine dal ricorso di
un cittadino russo residente in Finlandia (“Ricorrente”)
avverso il rifiuto da parte delle autorità fiscali finlandesi
di annullare il provvedimento con il quale lo stesso aveva
ricevuto l’irrogazione di sovrattasse oltre che la condanna
per il reato di frode fiscale aggravata in conseguenza
dell’omessa dichiarazione di redditi derivanti da società
possedute all’estero.
La Corte EDU ha ravvisato nel caso di specie una violazione
del ne bis in idem al termine dello svolgimento di un
quadruplice test, volto ad affrontare le seguenti questioni: (i)
la natura penale o meno dei procedimenti e delle sanzioni;
(ii) l’identicità delle offese che hanno portato all’avvio dei
procedimenti; (iii) la definitività della decisione; (iv) la
duplicazione dei procedimenti.
Preliminarmente, l’esame della Corte EDU si è incentrato
sulla valutazione circa l’effettiva natura penale dei
procedimenti e delle sanzioni che hanno coinvolto il
Ricorrente. A tale fine, la Corte EDU ha richiamato la
propria consolidata giurisprudenza (su tutti Engel ed
altri c. Paesi Bassi, cause nn. 5100/71, 5101/71, 5102/71,
5354/72 e 5370/72; Grande Stevens e altri c. Italia,
cause nn. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 e
18698/10; Nykänen c. Finlandia, causa n. 11828/11) e, in
particolare, i tre metodi interpretativi da essa osservati.
Tali metodi, meglio noti come “criteri di Engel”, sono:
1) la qualificazione (formale o sostanziale) alla luce
TLS Newsletter n° 3 Anno 2015
dell’ordinamento nazionale; 2) la natura dell’infrazione
e 3) la severità della pena. Nonostante il secondo ed il
terzo criterio siano necessariamente alternativi, non ne è
stato, tuttavia, escluso un approccio in senso cumulativo
qualora dall’analisi disgiunta dei predetti criteri non sia
stato possibile addivenire ad una chiara caratterizzazione
del reato penale (un precedente conforme è costituito dal
caso Jussila c. Finlandia, causa n. 73053/01).
In proposito, la Corte EDU ha fornito il proprio parere
sulla natura penale delle sovrattasse nel caso Jussila sopra
citato, rilevando che esse sono ricomprese nel regime
fiscale e hanno la caratteristica di essere previste da
disposizioni legislative generali, applicabili alla globalità
dei contribuenti. Inoltre, in conformità alla normativa
finlandese, le sovrattasse hanno natura dissuasiva e
repressiva, non essendo state concepite come un mero
risarcimento pecuniario. Alla luce di tale ragionamento,
la Corte EDU ha concluso sostenendo che le sanzioni
amministrative hanno un carattere penale. In relazione alla seconda questione, i giudici della Corte
EDU, richiamando i princìpi già espressi nella causa
Sergey Zolotukin c. Russia (causa n. 14939/03), hanno
rilevato che entrambi i procedimenti che hanno coinvolto
il Ricorrente si erano generati dai medesimi fatti (idem),
ossia dalla mancata dichiarazione ai fini fiscali dei
redditi. Più nello specifico, il giudizio si è focalizzato sugli
accadimenti concreti che hanno coinvolto il Ricorrente
e che sono risultati essere fra di loro strettamente
interconnessi, concludendosi con l’affermazione circa la
sostanziale assimilabilità delle condotte concretamente
perseguite sul piano amministrativo e sul piano penale.
La Corte EDU, in merito alla terza questione, ha deciso di
ritenere sussistente una decisione definitiva (i.e. “finale”)
sull’oggetto del giudizio. L’analisi ha preso come punto
di partenza l’assunto che la regola del ne bis in idem
estende il proprio raggio applicativo fino al divieto di
13
instaurazione di un procedimento qualora esso si sia già
chiuso con una sentenza che ha acquisito il valore di res
iudicata. Tali sono i casi in cui non sono più ammessi i
mezzi di impugnazione disponibili ovvero le parti non li
abbiano esperiti nei termini di legge.
Alla luce di tale precisa analisi, la Corte EDU ha dichiarato
che nel caso concreto vi sarebbe stata una violazione
dell’articolo 4 del Protocollo n. 7 della CEDU e, pertanto,
ha condannato lo Stato finlandese al risarcimento del
danno in favore del Ricorrente.
In ultima analisi, l’esame dei giudici della Corte EDU ha
riguardato la questione dell’avvenuta duplicazione dei
procedimenti (bis). Nel caso di specie, la Corte EDU non
ha ravvisato alcuna interconnessione tra il procedimento
amministrativo e quello penale, posto che il diritto
finlandese ne prevede il separato e distinto svolgimento
senza legami dal punto di vista sostanziale o temporale.
Nello stesso senso, la Corte ha altresì rilevato che, al
tempo in cui il procedimento relativo al reato di frode
fiscale aggravata era divenuto definitivo, il ricorso del
Ricorrente contro il provvedimento di irrogazione delle
sovrattasse era ancora pendente dinnanzi alla Corte
Amministrativa Suprema. Data la mancata sospensione
di tale ultimo procedimento, il risultato è stato la duplice
condanna del Ricorrente per lo stesso fatto in due serie di
procedimenti distinti terminati con sentenza definitiva. Il caso Rinas si inserisce nel solco di una oramai consolidata prassi giurisprudenziale della Corte EDU,
che estende l’applicabilità del principio del ne bis in idem
anche alla sfera tributaria (si vedano in ultima analisi
anche le recenti cause Kiiveri c. Finlandia, n. 53753/12,
e Österlund c. Finlandia, n. 53197/13). Tale orientamento
del giudice europeo sembra, tuttavia, distante dalla
posizione assunta dalla giurisprudenza della Suprema
Corte di Cassazione italiana la quale in passato non ha
mancato di escludere senza alcun dubbio di legittimità
che il concorso delle sanzioni amministrative e penali
non violi il principio di cui all’articolo 4 del Protocollo n.7
della CEDU. La qualificazione di holding industriale ai fini della disciplina IRAP
(Serena Scalabrini - Edoardo Brami)
Industrial holding qualification for IRAP purposes
Italian tax authorities, through the instructions of the regional tax (IRAP) return for FY 2014, have confirmed which are
the requirements to be qualified as industrial holding for IRAP purposes. The same conditions were already contained in the
instructions of IRAP return for FY 2013. This qualification for IRAP purposes influences both the rules to calculate the taxable
base and the applicable tax rate. According to this requirement, a company is qualified as industrial holding for IRAP purposes
if, in the FY, its total assets are composed for more than 50% of shares of controlled company and other assets connected to the
activity of holding, such as financial credits with the subsidiaries. The requirement was already stated by Italian tax authority
in the Circular Letter n. 37 of 2009, however IRAP instructions adopted it only starting from FY 2013. More clarifications are
expected by Italian tax authorities with reference to the “transition” period between Circular Letter n. 39/2009 and regional tax
return instructions for FY 2013 and the assets that have to be considered to verify the limit of 50%.
Con il Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle
Entrate del 30 gennaio 2015 è stato approvato il modello
per la Dichiarazione IRAP 2015 (periodo di imposta
2014) e le relative istruzioni ministeriali. Nella sezione
relativa al quadro IC, dedicato al calcolo della base
imponibile per le società di capitali, l’Amministrazione
Finanziaria ha confermato la novità introdotta dalle
istruzioni del modello IRAP 2014 (periodo di imposta
2013) in merito alle modalità di determinazione della
base imponibile IRAP per le “holding industriali”, ovvero
quelle società che svolgono attività industriale oltre a
quella di assunzione di partecipazioni in società non
finanziarie. Si propone di seguito un approfondimento
sulla qualificazione di holding industriale, alla luce di
quanto sia la prassi che la dottrina hanno finora espresso
in merito. La tematica riveste particolare importanza sia
ai fini della determinazione della base imponibile, che
TLS Newsletter n° 3 Anno 2015
dell’aliquota da applicare, in quanto le holding industriali
sono soggette all’aliquota IRAP maggiorata per le società
finanziarie.
Determinazione della base imponibile IRAP per
le holding industriali
Il trattamento ai fini della determinazione della base
imponibile IRAP per le holding industriali è contenuto
nell’art. 6, comma 9, del D.Lgs. 446/1997 (Decreto IRAP)
che prevede che “Per le società la cui attività consiste, in via
esclusiva o prevalente, nella assunzione di partecipazioni
in società esercenti attività diversa da quella creditizia o
finanziaria, per le quali sussista l'obbligo dell'iscrizione,
ai sensi dell'articolo 113 del testo unico delle leggi in
materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo
1 settembre 1993, n. 385, dell'apposita sezione dell'elenco
14
generale dei soggetti operanti nel settore finanziario, la
base imponibile è determinata aggiungendo al risultato
derivante dall'applicazione dell'articolo 5 la differenza
tra gli interessi attivi e proventi assimilati e gli interessi
passivi e oneri assimilati. Gli interessi passivi concorrono
alla formazione del valore della produzione nella misura
del 96 per cento del loro ammontare”. Tuttavia, dopo la
cancellazione del suddetto elenco avvenuta con il D.Lgs.
141/2010, non è stato eliminato tale riferimento nel testo
del decreto IRAP, occorre pertanto individuare.
Con il Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle
Entrate del 30 gennaio 2015 è stato approvato il modello
per la Dichiarazione IRAP 2015 (periodo di imposta
2014) e le relative istruzioni ministeriali. Nella sezione
relativa al quadro IC, dedicato al calcolo della base
imponibile per le società di capitali, l’Amministrazione
Finanziaria ha confermato la novità introdotta dalle
istruzioni del modello IRAP 2014 (periodo di imposta
2013) in merito alle modalità di determinazione della
base imponibile IRAP per le “holding industriali”, ovvero
quelle società che svolgono attività industriale oltre a
quella di assunzione di partecipazioni in società non
finanziarie. Si propone di seguito un approfondimento
sulla qualificazione di holding industriale, alla luce di
quanto sia la prassi che la dottrina hanno finora espresso
in merito. La tematica riveste particolare importanza sia
ai fini della determinazione della base imponibile, che
dell’aliquota da applicare, in quanto le holding industriali
sono soggette all’aliquota IRAP maggiorata per le società
finanziarie.
Determinazione della base imponibile IRAP per
le holding industriali
Il trattamento ai fini della determinazione della base
imponibile IRAP per le holding industriali è contenuto
nell’art. 6, comma 9, del D.Lgs. 446/1997 (Decreto IRAP)
che prevede che “Per le società la cui attività consiste, in via
esclusiva o prevalente, nella assunzione di partecipazioni
in società esercenti attività diversa da quella creditizia o
finanziaria, per le quali sussista l’obbligo dell’iscrizione,
ai sensi dell’articolo 113 del testo unico delle leggi in
materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo
1 settembre 1993, n. 385, dell’apposita sezione dell’elenco
generale dei soggetti operanti nel settore finanziario, la
base imponibile è determinata aggiungendo al risultato
derivante dall’applicazione dell’articolo 5 la differenza
tra gli interessi attivi e proventi assimilati e gli interessi
passivi e oneri assimilati. Gli interessi passivi concorrono
alla formazione del valore della produzione nella misura
del 96 per cento del loro ammontare”. Tuttavia, dopo
la cancellazione del suddetto elenco avvenuta con il
D.Lgs. 141/2010, non è stato eliminato tale riferimento
nel testo del decreto IRAP, occorre pertanto individuare
quali siano i requisiti necessari perché una società sia
considerata quale soggetto che svolge in via prevalente
l’attività di assunzione di partecipazioni e si qualifichi,
di conseguenza, come holding industriale ai fini della
normativa IRAP.
TLS Newsletter n° 3 Anno 2015
La qualificazione di holding industriale fino al
modello IRAP 2013
Fino al modello IRAP 2013 (periodo di imposta 2012),
le istruzioni ministeriali prevedevano che, nel caso in
cui l’attività di holding non fosse svolta in via esclusiva,
l’obbligo di iscrizione al sopracitato elenco (sebbene
l’elenco fosse in realtà stato abolito) e la conseguente
applicazione dell’art. 6 comma 9 ricorrevano qualora per
il soggetto interessato sussistessero i requisiti previsti dal
decreto del Ministro del Tesoro del 6 luglio 1994.
In base all’art. 2 di tale decreto, l’esercizio in via prevalente
sussiste quando, sulla base dei bilanci approvati degli
ultimi due esercizi chiusi, ricorrono entrambi i seguenti
requisiti:
• l’ammontare complessivo degli elementi dell’attivo di
natura finanziaria di cui all’attività di assunzione di
partecipazioni in imprese “industriali” sia superiore
al 50% del totale dell’attivo patrimoniale (requisito
patrimoniale);
• l’ammontare complessivo dei proventi prodotti
dagli elementi dell’attivo connessi all’assunzione di
partecipazioni in imprese “industriali” sia superiore al
50% dei proventi complessivi (requisito economico).
Fino al periodo di imposta 2012, perché una società
assumesse la qualifica di “holding industriale”, dovevano
essere rispettati entrambi i requisiti per un periodo di due
esercizi.
La nuova qualificazione di holding industriale
nei modelli IRAP 2014 e 2015
La situazione è mutata con l’approvazione delle istruzioni
per la dichiarazione IRAP 2014 (periodo di imposta
2013). Nella sezione dedicata al quadro IC, le istruzioni
ministeriali hanno infatti previsto che l’esercizio
prevalente dell’attività di assunzione di partecipazioni
in società industriali è ora verificato qualora il valore
contabile delle partecipazioni in società industriali
risultante dal bilancio di esercizio ecceda il 50% del totale
dell’attivo patrimoniale, specificando che non si deve
considerare solo il valore di bilancio delle partecipazioni,
ma anche degli altri elementi patrimoniali relativi ai
rapporti intercorrenti tra la società holding e le società
industriali quali, ad esempio, i crediti da finanziamento.
Le istruzioni del modello IRAP 2015, di recente
approvazione, riprendono in toto la formulazione di
quelle precedenti, appena descritta.
In sostanza, i due requisiti precedenti vengono sostituiti
da un unico requisito patrimoniale; viene inoltre
modificato il periodo temporale di riferimento: non
vengono più considerati i due bilanci precedenti ma il
bilancio di esercizio.
Le istruzioni dei modelli IRAP 2014 e 2015 richiamano
due Circolari emanate dall’Agenzie delle Entrate (i nn.
19/E e 37/E del 2009) che tuttavia non forniscono risposte
15
univoche che permettano di individuare quando una
società si qualifichi come holding industriale ai fini della
normativa IRAP. La Circolare n. 19/E del 2009, infatti,
dapprima stabilisce che l’esercizio prevalente dell’attività
di assunzione di partecipazioni in società non finanziarie
è verificato con il solo requisito patrimoniale, tuttavia
specifica che, qualora la holding eserciti anche altra
attività (finanziaria o industriale), l’attività prevalente è
da accertarsi sulla base dei criteri contenuti nel decreto
del Ministro del tesoro del 6 luglio 1994 (requisiti
patrimoniale ed economico). Non era inoltre chiaro se
tale precisazione si applicasse anche ai fini IRAP, dato che
la Circolare si focalizzava sul tema della deducibilità degli
interessi passivi dal reddito d’impresa.
L’Amministrazione Finanziaria è successivamente
intervenuta con la Circolare n. 37/E del 2009 (anch’essa
citata nelle istruzioni ministeriali), specificando che, ai fini
dell’individuazione dell’attività prevalente di assunzione
di partecipazioni, l’unico requisito da verificare è quello
patrimoniale, ossia una società è una holding industriale
“quando il valore contabile delle partecipazioni in società
industriali risultante dal bilancio di esercizio ecceda il
50 per cento del totale dell’attivo patrimoniale”. Tale
Circolare contiene inoltre due importanti precisazioni. La
prima riguarda gli elementi iscritti in stato patrimoniale
che concorrono a verificare il requisito patrimoniale.
Vengono infatti inclusi tutti gli altri elementi patrimoniali
relativi ai rapporti intercorrenti con le medesime società
(a titolo di esempio, il documento cita solo i crediti da
finanziamento). Una specificazione che viene ripresa
in toto dalle “nuove” istruzioni del modello IRAP. Una
seconda importante precisazione riguarda l’applicabilità
del predetto criterio (patrimoniale) per la qualificazione
di holding industriale ai fini dell’applicazione della
disciplina IRAP di cui all’art. 6, comma 9 del D. Lgs.
446/1997.
In sostanza, nella seconda Circolare citata, veniva data
un’interpretazione di quale fosse il criterio per qualificare
ai fini IRAP una società come holding industriale, tuttavia
occorre sottolineare che le istruzioni ministeriali hanno
recepito tale indicazione solo a partire dalle istruzioni per
il modello IRAP 2014. Non risulta pertanto chiaro quale
sarebbe dovuto essere il comportamento dei contribuenti
per questo “periodo di transizione” dato che, in molti, si
sono affidati alle istruzioni ministeriali tralasciando il
contenuto della Circolare n. 37/E del 2009.
TLS Newsletter n° 3 Anno 2015
Così come sostenuto anche da Assonime (si veda la
circolare n. 32/2014), si auspica che i contribuenti
che per gli esercizi antecedenti al periodo di imposta
2013 (modello IRAP 2014) non abbiano tenuto un
comportamento in linea con quanto indicato nella
Circolare n. 37/E del 2009 e nelle “nuove” istruzioni del
modello IRAP 2014 non siano soggetti a sanzioni.
Un ulteriore aspetto da considerare riguarda quali siano
gli elementi rilevanti ai fini della verifica del requisito
patrimoniale; una tematica che, per quanto riguarda le
holding industriali, ha un notevole impatto. Si pensi ad
esempio ai crediti per dividendi non ancora erogati che
costituiscono spesso un elemento considerevole nello
stato patrimoniale di queste società.
Conclusioni
La qualificazione di holding industriale ai fini della
normativa IRAP è una tematica di notevole importanza,
poiché impatta direttamente sia sulle modalità di calcolo
della base imponibile, sia sull’aliquota d’imposta da
applicare. Dalla lettura combinata dei documenti citati,
emerge che per la qualificazione di holding industriale
ai fini IRAP occorre verificare, per un esercizio, solo
il requisito patrimoniale, vale a dire il 50% dell’attivo
della società deve essere costituito da attività connesse
al possesso di partecipazioni in imprese industriali,
considerando non solo le partecipazioni ma anche
altri elementi attivi, quali i crediti da finanziamento.
Tuttavia al momento non sembrano esservi chiare
indicazioni riguardo al comportamento che i contribuenti
avrebbero dovuto tenere nel “periodo di transizione”
tra l’abrogazione dell’elenco dei soggetti operanti
nel settore finanziario e l’emanazione delle “nuove”
istruzioni ministeriali relative al modello IRAP 2014
(periodo di imposta 2013). Sarebbe pertanto auspicabile
un chiarimento da parte dell’Agenzia delle Entrate
sia in riferimento ai comportamenti pregressi, sia in
riferimento ad alcune tematiche applicative per la verifica
del requisito patrimoniale ai fini della qualificazione di
holding industriale. Relativamente a tale ultimo aspetto,
sarebbe opportuno che l’Amministrazione Finanziaria si
esprimesse in modo chiaro circa gli elementi patrimoniali
da considerare.
16
Rating di legalità: nel 2014 più che duplicate le domande
(Barbara Ferri)
Legality rating: 2014 requests increased more than double
According to the latest figures released by AGCM, that is to say the Italian antitrust authority (Autorità Garante della
Concorrenza e del Mercato), during 2014 the requests for obtaining the legality rating increased more than double if compared
to those submitted in 2013.
The trend has also demonstrated to remain positive during the current year (with the assignation of no. 362 rating scores out of
no. 760 requests submitted till February 2015). These encouraging results are mainly due to the coming into force of Decree no.
57 of February 20, 2014, concerning the selection of the criteria regulating the granting of financing to the companies.
According to AGCM’s report, the majority of requests have been submitted by medium/large size Italian companies having their
registered office in five regions especially, mainly located in northern Italy (with Sicily as particular exception).
However, despite such remarkable increase, the data provided by the AGCM should be taken into account with due caution:
indeed, requests for obtaining a legality rating date back only to 2013 and, therefore, at the date hereof any final conclusion on
this matter is premature.
L’Autorità Garante della Concorrenza del Mercato
(“AGCM”) ha reso disponibili i dati relativi alle richieste
volte all’ottenimento del rating di legalità. Nel corso del
2014 n° 402 imprese hanno presentato tale domanda.
Confrontando questo dato con il numero delle analoghe
richieste registrate nel 2013, pari a n° 142, risulta evidente
un’“impennata” di domande da parte delle imprese
italiane, trend che l’AGCM ha recentemente confermato
anche relativamente ai primi mesi del 2015. Infatti, nel
corso di gennaio e febbraio dell'anno corrente le richieste
ricevute dall’AGCM sono state rispettivamente n° 83
(+14% rispetto a dicembre 2014) e n° 133 (+60%).
Senza dubbio, un significativo impulso nella crescita del
numero delle domande è da addebitare all’entrata in
vigore del Decreto 20 febbraio 2014, n° 57 che disciplina
le modalità con cui le pubbliche amministrazioni devono
tenere in considerazione il rating di legalità delle imprese
in sede di concessione di finanziamenti così come le
banche in sede di accesso al credito.
A quest’ultimo proposito vale, infatti, la pena ricordare
che ai sensi dell’articolo 6 del citato decreto l’omessa
considerazione del rating di legalità da parte delle banche
comporta per queste ultime l’invio entro il 30 aprile di
ogni anno alla Banca d’Italia di “una dettagliata relazione
sui casi in cui il rating di legalità non ha influito sui tempi
e sui costi dell’istruttoria o sulle condizioni economiche di
erogazione (…) illustrandone le ragioni sottostanti”.
Sempre sulla base dei dati resi disponibili dall’AGCM
al 3 marzo 2015, a fronte delle complessive domande
ricevute sino a febbraio 2015, pari a n° 760, sono stati
attribuiti n° 362 rating. Molte pratiche sono ancora
all’esame dell’AGCM e circa un centinaio di richieste non
sono state valutate in assenza dei requisiti necessari per
l’ottenimento del rating (ad esempio, avere un fatturato
annuo superiore alla soglia di Euro 2.000.000). In 18
casi l’AGCM ha negato all’impresa richiedente il rating
richiesto.
TLS Newsletter n° 3 Anno 2015
Sulla localizzazione geografica dell’impresa richiedente
emergono dati interessanti: se da un lato non stupisce
che la maggioranza delle domande provenga dal Nord
Italia (43,3%), così come che il 62% delle stesse sia
concentrato in cinque regioni, appare significativo che
tra queste ultime sia la Sicilia, con una percentuale pari
al 14%, a risultare la regione con gli imprenditori più
attivi nell’ottenimento del rating di legalità (seguita da
Lombardia, Veneto, Lazio ed Emilia Romagna).
Il 25% delle richieste del rating provengono da
imprese operanti in settori che l’AGCM definisce come
“notoriamente più sensibili” e, in particolare, l’edilizia, le
costruzioni, il trasporto merci e persone e lo smaltimento
dei rifiuti.
Sempre sulla base dei dati forniti dall’AGCM, i richiedenti
sono per la maggioranza piccole/medie imprese, con un
numero di dipendenti inferiori a 100, in linea, peraltro,
con quella che è la realtà industriale italiana.
I dati forniti dall’AGCM sono senza dubbio interessanti.
Tuttavia il rating di legalità rimane, in ogni caso, uno
strumento “giovane”: le prime richieste volte al suo
ottenimento sono solo del 2013.
Di conseguenza, nonostante l’incremento nella domanda,
è inevitabile considerare questi primi anni ancora come
una fase di “start up”, risultando, quindi, impossibile e
prematuro fare un concreto bilancio dell’importanza
del rating di legalità e del vantaggio competitivo delle
imprese che se ne sono dotate rispetto al mercato.
17
Legge di stabilità 2015 - Scissione dei pagamenti
(Alessia Angela Zanatto – Simone Latella)
Split Payment
On December 29, 2014 the Stability Law (Law no. 190 dated 23 December 2014) was published on the Official Gazette. Through
the law at hand, the so called “split payment” were introduced in the Italian VAT set of rules, whereby VAT charged on supply of
goods and services carried out towards the Public Administration is paid directly by the latter.
Come noto, in data 29 dicembre 2014 è stata pubblicata
sulla Gazzetta Ufficiale la Legge di Stabilità 2015, recante
le “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale
e pluriennale dello Stato” (Legge 23 dicembre 2014, n.
190).
Il comma 629, lett. b), della norma citata ha introdotto
nel d.P.R. 633/1972 il nuovo art. 17-ter, il quale dispone
che per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi
effettuate nei confronti dello Stato, degli organi dello
Stato ancorché dotati di personalità giuridica, degli enti
pubblici territoriali e dei consorzi tra essi costituiti, delle
camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura,
degli istituiti universitari, delle aziende sanitarie locali,
degli enti ospedalieri, degli enti pubblici di ricovero e cura
aventi prevalente carattere scientifico, degli enti pubblici
di assistenza e beneficienza e di quelli di previdenza,
l’imposta sul valore aggiunto venga in ogni caso versata
dai medesimi soggetti pubblici secondo modalità e termini fissati con decreto del Ministro dell'economia e
delle finanze.
In sostanza, i fornitori di beni e servizi delle pubbliche
amministrazioni elencate nel citato art. 17-ter
continueranno ad addebitare in via di rivalsa l’IVA in
fattura ai sensi dell’art. 18 del d.P.R. n. 633/1972 ma
riceveranno l’importo del corrispettivo al netto dell’IVA;
l’imposta verrà accreditata in un apposito conto dagli
enti della pubblica amministrazione coinvolti per essere
acquisita direttamente dall’erario, oppure, come si
preciserà nel prosieguo, verrà assolta nella liquidazione
periodica da parte di quegli enti pubblici che acquistano
beni e servizi nello svolgimento di un’attività commerciale.
Ambito soggettivo di applicazione della norma
Attraverso il proprio comunicato stampa n. 7 del 9
gennaio 2015, il MEF, anticipando il decreto di attuazione
menzionato dall’art. 17-ter sopra citato, ha chiarito che la
nuova disposizione si applica anche alle operazioni per le
quali gli enti pubblici elencati dalla norma in questione,
acquirenti di beni e servizi, non abbiano lo status di
soggetto passivo IVA.
Ai sensi dell’art. 4, comma 5 del d.P.R. 633/1972, infatti,
lo Stato, gli enti locali e gli altri enti di diritto pubblico
non hanno natura di soggetti passivi ai fini IVA nell’ambito
delle operazioni rese e/o ricevute “nell’ambito di attività
di pubblica autorità”, mentre acquisiscono lo status di
TLS Newsletter n° 3 Anno 2015
soggetti passivi ai fini IVA nel caso svolgano attività di
natura commerciale.
Alla luce di tale chiarimento, ribadito anche dalla
circolare n. 1/E emanata dall’Agenzia delle Entrate in
data 9 febbraio 2015, risulta indubbio che la disciplina
della scissione dei pagamenti riguarda tutti gli acquisti
effettuati dalle pubbliche amministrazioni individuate
dalla norma, sia quelli effettuati in ambito non
commerciale, ossia nella veste istituzionale, che quelli
effettuati nell’esercizio di attività di impresa.
Rimangono escluse, così come chiarito dalla predetta
circolare, le operazioni certificate dal fornitore mediante
rilascio della ricevuta fiscale o dello scontrino, ovvero altre
modalità semplificate di certificazione specificatamente
previste.
Inoltre, come confermato dalla circolare n. 6/E del 19
febbraio 2015, il meccanismo dello “split payment” non
si applica:
• ai compensi per prestazioni di servizi assoggettati a
ritenute alla fonte a titolo di imposta sul reddito, ai
sensi del comma 2 dell’art. 17-ter del d.P.R. 633/1972.
Le prestazioni artistiche e professionali, assoggettate
a ritenuta d’acconto, quindi, sono escluse dalla nuova
disciplina;
• qualora i soggetti pubblici cessionari o committenti
risultino debitori dell’imposta ai sensi delle
disposizioni in materia di IVA, ai sensi del comma
1 del menzionato art. 17-ter. Le operazioni per
cui è prevista l’applicazione del meccanismo
dell’inversione contabile, quindi, sono escluse.
Uno dei profili di maggiore criticità della disciplina in
commento rimane, in ogni caso, la corretta identificazione
dei soggetti pubblici a cui essa risulta applicabile.
Nella circolare n. 1/E sopra richiamata, l’Agenzia delle
Entrate, dopo avere rilevato che l’elencazione dei soggetti
destinatari della nuova disposizione è identica a quella
contenuta nell’art. 6, comma 5 del d.P.R. 633/1972
avente ad oggetto la possibilità di differire l’esigibilità
dell’IVA relativa alle operazioni poste in essere con i
soggetti ivi indicati all’atto dell’effettivo pagamento dei
corrispettivi, sottolinea che mentre il suddetto art. 6,
comma 5 è qualificabile come norma “speciale avente
carattere agevolativo e natura derogatoria rispetto ai
18
principi ordinari dell’IVA”, la disciplina della scissione
dei pagamenti “persegue la finalità di arginare l’evasione
da riscossione dell’IVA […] trasferendo il pagamento
del debito IVA dal relativo fornitore in capo alle
amministrazioni stesse”.
Alla luce di tali considerazioni, l’Agenzia delle Entrate
conclude che, nell’applicare l’art. 17-ter del d.P.R.
633/1972, occorre sicuramente fare riferimento
ai soggetti destinatari del citato art. 6, comma 5,
“effettuando, comunque, un’interpretazione del dettato
normativo della disposizione in commento basata su
valutazioni sostanziali di ordine più generale che tengano
conto della differente ratio che ha ispirato il legislatore
nell’adozione di tale norma rispetto all’art. 6, quinto
comma”.
Dopo tale premessa, l’Agenzia ha proseguito fornendo un
elenco non esaustivo degli enti individuati dalla norma in
esame, specificando che, in ogni caso, la natura pubblica
è il requisito imprescindibile per l’applicazione del nuovo
art. 17-ter.
Al fine di rendere più agevole l’individuazione dei
soggetti pubblici destinatari della disciplina in
commento, l’Agenzia, sempre nella circolare n. 1/E già
citata, suggerisce di avvalersi dell’ausilio dell’Indice delle
Pubbliche Amministrazioni (cd. IPA), consultabile alla
pagina http://indicepa.gov.it/documentale/ricerca.php.
Infine, siccome anche l’elenco contenuto nella riportata
pagina web non può ritenersi esaustivo e qualora
dovessero permanere dubbi sull’applicabilità del
meccanismo della scissione dei pagamenti, il fornitore
potrà presentare apposita istanza di interpello ai sensi
dell’art. 11 della Legge 212/2000.
Entrata in vigore
Al fine di risolvere fin da subito uno dei profili critici della
nuova disciplina rilevato da parte della dottrina, la quale
aveva sottolineato che la decorrenza della disposizione in
commento “non si riferisce al momento di effettuazione
dell’operazione ma a quello di esigibilità dell’imposta,
con la conseguenza che potrebbe riguardare anche
operazioni effettuate anteriormente il 1 gennaio 2015
ma la cui esigibilità si manifesta successivamente a tale
data” (cfr. circolare Confindustria del 23 dicembre 2014;
si ricorda che le operazioni nei confronti della pubblica
amministrazione erano caratterizzate dal meccanismo
di esigibilità differita dell’IVA, ai sensi dell’art. 6, comma
5, d.P.R. n. 633/1972), il comunicato stampa citato in
precedenza ha anticipato che nello schema di decreto
sarebbe stato precisato che “il meccanismo della scissione
dei pagamenti si applica alle operazioni fatturate a
partire dal 1° gennaio 2015, per le quali l’esigibilità
dell’imposta si verifichi successivamente alla stessa data.
In merito all’esigibilità dell’imposta, si prevede altresì
che, per le operazioni soggette al meccanismo della
scissione dei pagamenti, l’imposta divenga esigibile al
momento del pagamento della fattura ovvero, su opzione
TLS Newsletter n° 3 Anno 2015
dell’amministrazione acquirente, al momento della
ricezione della fattura”.
La richiamata circolare n. 1/E dell’Agenzia delle Entrate
ha ulteriormente ribadito che il meccanismo della
scissione dei pagamenti non è applicabile alle operazioni
per le quali è stata emessa fattura entro il 31 dicembre
2014, ma solo per le operazioni fatturate dopo tale data.
Infine, si ricorda che, in merito all’entrata in vigore della
disposizione in esame, la stessa sembrava subordinata,
da una prima versione della legge, al benestare del
Consiglio dell’Unione europea, in applicazione del già
menzionato art. 395 della Direttiva 2006/112/CE.
Successivamente, il Senato ha svincolato l’efficacia dello
“split payment” dall’autorizzazione UE, prevedendone,
così, l’applicazione per le operazioni per le quali l’IVA è
esigibile a partire dal primo gennaio 2015.
Qualora, però, il Consiglio dell’Unione europea non
dovesse rilasciare la misura di deroga sopra descritta –
non consentendo, quindi, l’applicazione del meccanismo
dello “split payment” – con provvedimento del Direttore
dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli da adottarsi
entro il 30 giugno 2015, la conseguente mancanza di
gettito verrà recuperata attraverso un incremento delle
aliquote dell’accisa sulla benzina, sulla benzina con
piombo e sul gasolio usato come carburante, nella misura
tale da determinare maggiori entrate nette non inferiori a
1.716 milioni di euro a decorrere dal 2015.
Assolvimento e versamento dell’imposta
Il MEF, con il decreto di attuazione previsto dalla
nuova disposizione che qui si commenta, ha proceduto
a regolamentare non solo le modalità e i termini di
versamento dell’IVA da parte degli enti pubblici interessati
dalla norma in esame, così come previsto dal rinvio
contenuto nell’art. 17-ter ma ha provveduto a chiarire
anche alcuni aspetti non desumibili dal tenore letterale
del nuovo articolo introdotto nel d.P.R. 633/1972.
Il Decreto 23 gennaio 2015, reso disponibile sul sito del
Ministero il 30 gennaio 2015 e pubblicato in Gazzetta
Ufficiale il 3 febbraio scorso, ha, infatti, confermato
quanto anticipato dal menzionato comunicato stampa
n. 7 del 9 gennaio con riferimento all’entrata in vigore
della disposizione qui in commento e all’irrilevanza della
qualifica di soggetto passivo IVA rivestita dall’ente pubblico
coinvolto. Inoltre, all’art. 2 rubricato “effetti sui soggetti
passivi fornitori”, il Ministero ha specificato che le fatture
emesse dai soggetti passivi IVA che effettuano cessioni di
beni e prestazioni di servizi nei confronti delle pubbliche
amministrazioni contemplate nella nuova disposizione,
sulle quali deve essere regolarmente addebitata l’imposta
in via di rivalsa ai sensi dell’art. 18 del d.P.R. n. 633/1972
e riportata l’annotazione “scissione dei pagamenti”,
devono essere registrate ai sensi degli artt. 23 e 24 del
d.P.R. 633/1972 “senza computare l’imposta ivi indicata
nella liquidazione periodica”.
19
L’opzione per anticipare l’esigibilità dell’IVA sugli
acquisti in regime di split payment al momento di
ricezione della fattura anziché al pagamento della stessa,
concessa dall’art. 3 del decreto di attuazione, semplifica
notevolmente gli adempimenti degli enti pubblici che
esercitano attività commerciali che effettuano acquisti
di beni e servizi nell’esercizio di cattività commerciali ed
hanno diritto alla detrazione dell’IVA: ai sensi dell’art. 5
del decreto, infatti, tali amministrazioni contabilizzano
le fatture ricevute dai propri fornitori nel registro IVA
vendite di cui agli artt. 23 e 24 del d.P.R. 633/1972
entro il 15 del mese successivo a quello in cui l’imposta
è divenuta esigibile, con riferimento al mese precedente;
conseguentemente, in caso l’amministrazione opti
per l’esigibilità dell’imposta anticipata al momento di
ricezione della fattura, l’operazione sarà registrata in via
definitiva al ricevimento della fattura, senza necessità di
intervenire nuovamente al momento del pagamento della
stessa.
in questione possono decidere di accantonare le somme
occorrenti per il successivo versamento dell’imposta, da
effettuarsi entro il 16 aprile 2015.
Se l’ente ha diritto alla detrazione ai sensi dell’art. 19
del d.P.R. 633/1972, ai fini dell’esercizio di tale diritto le
fatture dovranno essere annotate anche nel registro IVA
acquisti di cui all’art. 25 del d.P.R. 633/1972, cosicché
nella liquidazione periodica l’imposta dovuta e quella
detratta si compensano, qualora il diritto alla detrazione
spetti integralmente.
Rimborsi IVA prioritari
Alla luce di quanto detto, l’esercizio dell’opzione per
l’esigibilità anticipata dell’IVA risulta vantaggioso
perché evita la più laboriosa gestione nella contabilità
IVA e nell’esposizione nella dichiarazione annuale delle
transazioni per le quali l’esigibilità sorge all’atto del
pagamento dei corrispettivi.
Nel caso in cui, invece, le pubbliche amministrazioni
effettuino gli acquisti nello svolgimento della loro attività
istituzionale, l’art. 4 del DM 23 gennaio 2015 stabilisce
le modalità con cui l’IVA deve essere versata all’erario da
parte degli enti pubblici.
In particolare, il versamento dell’imposta deve essere
effettuato entro il 16 del mese successivo a quello in
cui l’imposta diviene esigibile (ai sensi del precedente
art. 3 del medesimo decreto), senza possibilità di
compensazione, oppure, sempre entro tale scadenza,
possono procedere a distinti versamenti dell’Iva dovuta
così come segue:
• in ciascun giorno del mese, relativamente al
complesso di fatture per le quali l’imposta è divenuta
esigibile in tale giorno;
• relativamente a ciascuna fattura la cui imposta è
divenuta esigibile.
In ogni caso, all’art. 9 del DM 23 gennaio 2015 il MEF
ha stabilito che, fino all’adeguamento dei processi e dei
sistemi informativi relativi alla gestione amministrativocontabile ma comunque non oltre il 31 marzo 2015, le
pubbliche amministrazioni individuate dall’art. 17-ter
TLS Newsletter n° 3 Anno 2015
Se quanto affermato nel decreto ministeriale in commento
chiarisce le modalità di contabilizzazione delle fatture
relative a transazioni soggette allo split payment nella
contabilità IVA, nulla viene detto in merito al loro
trattamento ai fini della loro registrazione in contabilità
generale.
A tale proposito, una recente nota operativa della
fondazione nazionale dottori commercialisti, pubblicata
il 13 gennaio 2015, ha rilevato che l’imposta indicata
dal fornitore in fattura dovrà essere regolarmente
registrata nella sua contabilità generale e andrà stornata
o contestualmente alla registrazione della fattura stessa o
con un’apposita scrittura dal totale del credito iscritto nei
confronti dell’ente pubblico.
Per evitare potenziali effetti finanziari negativi dello
“split payment” (i.e. posizione creditoria IVA dei soggetti
che operano in maniera consistente con la pubblica
amministrazione), la Legge di Stabilità ha esteso il diritto
al rimborso dell’eccedenza detraibile con periodicità
annuale e trimestrale anche a coloro che svolgono
prevalentemente attività verso i soggetti pubblici elencati
in precedenza, introducendo alla lett. a) del terzo comma
dell’art. 30 del d.P.R. n. 633/1972, le parole “nonché a
norma dell’art. 17-ter”.
Con l’art. 8 del DM 23 gennaio 2015, il Ministero
dell’economia e delle finanze ha previsto l’erogazione
in via prioritaria dell’eccedenza di imposta detraibile a
coloro i quali hanno effettuato operazioni nei confronti
delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 17-ter del
d.P.R. 633/1972.
Tali rimborsi sono erogati in via prioritaria entro il limite
dell’ammontare complessivo dell’imposta applicata
alle operazioni soggette alla disciplina della scissione
dei pagamenti effettuate nel periodo in cui è venuto ad
esistenza il credito IVA.
Al fine di rendere più agevole il rimborso dell’IVA ai
fornitori delle pubbliche amministrazioni nei confronti
dei quali si applica lo split payment, il MEF è intervenuto
nuovamente con il DM 20 febbraio 2015, con il quale ha
provveduto ad abrogare all’art. 8, comma 1 del DM 23
gennaio 2015, le parole “fermo restando quanto previsto
dall’art. 2 del decreto del Ministero dell’economia e delle
finanze del 22 marzo 2007, pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale n. 76 del 31 marzo 2007”. Per effetto di tale
modifica, i rimborsi prioritari nei confronti dei soggetti
passivi IVA fornitori della pubblica amministrazione
verranno concessi senza più la necessaria osservanza dei
criteri c.d. “generici” disposti dalla disposizione non più
richiamata dall’art. 8 oggetto di modifica.
20
Conseguentemente, i rimborsi in via prioritaria non
saranno più limitati solamente ai soggetti:
• che esercitano l’attività di impresa da almeno tre
anni;
• che abbiano un’eccedenza detraibile richiesta a
rimborso di importo pari o superiore a 10.000 Euro
in caso di rimborso annuale e 3.000 Euro in caso di
rimborso trimestrale;
• per i quali l’eccedenza detraibile chiesta a rimborso
sia di importo pari o superiore al 10% dell’importo
complessivo dell’imposta assolta sugli acquisti e sulle
importazioni effettuate nell’anno o nel trimestre a cui
si riferisce il rimborso richiesto.
Sarà necessario, comunque, rispettare il requisito di
cui alla lett. a) del terzo comma dell’art. 30 del d.P.R,
633/1972 (i.e. esercizio prevalente o esclusivo di attività
che comportano l’effettuazione di operazioni soggette
ad imposta con aliquote inferiori a quelle relative agli
acquisti, tra cui vanno conteggiate anche le operazioni
effettuate ai sensi dell’art. 17-ter).
In merito all’entrata in vigore, l’art. 2 del DM 20 febbraio
2015 ha precisato che le nuove regole si applicano a partire
dalle richieste di rimborso relative al primo trimestre
2015 (il cui termine è fissato per il 30 aprile 2015). TLS Newsletter n° 3 Anno 2015
Sanzioni
Nella Legge di Stabilità, viene, inoltre, stabilito che, nei
confronti degli enti pubblici cessionari o committenti che
omettono o ritardano il versamento dell’IVA, si rendono
applicabili le sanzioni amministrative per omessi o tardivi
versamenti e le relative somme sono riscosse attraverso
atto di recupero motivato.
L’Agenzia delle Entrate ha chiarito nella propria circolare
n. 1/E più volte richiamata che, a causa dell’incertezza
della materia e in ossequio ai principi dello Statuto del
contribuente, non saranno applicate sanzioni per le
violazioni relative alle modalità di versamento dell’IVA
afferente alle operazioni in questione, eventualmente
commesse
anteriormente
all’emanazione
della
menzionata circolare.
Nella Circolare n. 6/E l’Agenzia ha inoltre precisato
che, nell’ipotesi in cui “le pubbliche amministrazioni
ricevano una fattura indicante l’IVA in misura inferiore
a quella dovuta, per acquisti di beni e servizi effettuati
nell’esercizio di un’attività commerciale, le stesse
dovranno fare ricorso alle procedure di regolarizzazione
di cui all’art. 6, comma 8, D. lgs. N. 471/97”.
21
L’illegittimità costituzionale della “Robin Hood Tax”: scenari
(Ivan Paviglianiti - Fabrizio Pascucci)
The unconstitutionality of the Robin Hood Tax: scenarios
The Constitutional Court has declared the unconstitutionality of the so-called “Robin Hood tax”. Such declaration is likely to
give rise to a lengthy debate because the Court has also stated that the unconstitutionality will not apply retroactively in this
particular case.
L’articolo 81 del D.L. n. 112 risalente al 25 giugno 2008,
convertito, con modificazioni, dalla Legge 6 agosto 2008,
n. 133, come noto, ha sancito l’introduzione di una
addizionale (la cui percentuale è mutata nel corso delle
modifiche, da ultimo 6,5 punti percentuale) per coloro
che operano in specifici comparti merceologici, ascrivibili
– per rilevanza – al settore petrolifero ed elettrico, nonché
a quello delle energie rinnovabili.
Alla luce di quanto appena ricordato, emerge il
primario connotato della c.d. Robin Hood Tax, poiché –
diversamente dalle addizionali che si sono ripetute nella
tradizione fiscale italiana, spesso riferite alla generalità
dei soggetti – essa si rivolge soltanto a categorie circoscritte
di operatori. Da tale restrizione applicativa dovrebbe,
quindi, risultare più agevole l’individuazione delle
motivazioni che hanno indotto il legislatore tributario ad
introdurre la maggiorazione e, per adiacente logica, della
ratio legis, ovvero l’aumento del carico fiscale per coloro
che beneficiano di extra-profitti. Tuttavia, si osserva che
tali motivazioni non si dimostrano idonee a giustificare
l’applicabilità della addizionale al settore delle energie
rinnovabili, per mancanza del richiamato presupposto.
Orbene, secondo quanto ex littera legis, i natali della
“Robin” sembrerebbero dovuti alle faste condizioni
riferibili a tali comparti merceologici ed il presupposto
del tributo dovrebbe rinvenirsi nella straordinarietà di tali
circostanze: quanto premesso giustificherebbe, altresì,
l’utilizzo del decreto legge (già autorevole dottrina ha
nutrito a suo tempo il sospetto di illegittimità, a causa
dell’inadeguatezza di tale strumento legislativo di fronte
a circostanze che de facto non si sono rivelate transitorie
e, quindi, tali da giustificare il ricorso al decreto legge).
Rebus sic stantibus, quello che preme in questa sede non è
ispezionare nel merito il tributo, prima, e la pronuncia, poi,
bensì indagare circa gli effetti – spiccatamente “temporali”
– della recente Sentenza della Corte Costituzionale n. 10
del 2015 (depositata in data 11 febbraio scorso), con la
quale è stata dichiarata l’illegittimità dell’addizionale.
In principio, infatti, l’interpretazione letterale
dell’articolo 136 della Costituzione, ove precisa che la
norma dichiarata illegittima “cessa di avere efficacia dal
giorno successivo alla pubblicazione della decisione”, aveva
portato autorevolissima dottrina – tra cui il Calamandrei
TLS Newsletter n° 3 Anno 2015
– a ritenere che l’accoglimento comportasse l’abrogazione
della norma e, quindi, che la medesima pronuncia
assumesse efficacia ex nunc.
D’altra parte, però, la stessa dottrina (segnatamente,
Azzariti, Guarino, Barile e Pierandrei) si accorse ben
presto che le sentenze di accoglimento della Consulta
non potessero non dispiegare i suoi effetti verso il passato
(rectius, ex tunc), ciò soprattutto in considerazione
della proponibilità ad opera del giudice ordinario della
questione di legittimità costituzionale, in relazione alla
sorte giuridica di una lite sospesa in vista della decisione
della Corte e, quindi – per definizione – riferita al passato;
nondimeno, in considerazione del fatto che la portata
della decisione non sia limitata al singolo rapporto – in
relazione al quale il giudice ha sollevato la questione di
legittimità – ma sia destinata ad incidere su tutti i rapporti
riconducibili alla medesima fattispecie (in tal senso, si
tratta di efficacia erga omnes).
Sebbene il dato letterale dell’articolo 30 della Legge
n. 87, risalente all’11 marzo 1953 e recante il titolo di
“Norme sulla Costituzione e sul funzionamento della Corte
Costituzionale”, disponga chiaramente che “le norme
dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione
dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”,
lo stesso articolo – forse fin troppo sbrigativo – non
adopera alcuna differenziazione tra i rapporti pregressi
e non. Orbene, è risultato possibile adoperare una tale
distinzione in via interpretativa, desumendola dai principi
generali dell’ordinamento in relazione al concetto di
“esaurimento dei rapporti giuridici”, il quale, a sua volta,
deriva in massima parte dal concetto di “res iudicata”.
La retroattività delle pronunce della Consulta, infatti, non
viene considerata incondizionatamente, bensì è ritenuta
ammissibile nei limiti in cui dispieghi i propri effetti
costitutivi nei confronti dei c.d. rapporti pendenti, ovvero
nei confronti di quei rapporti suscettibili di essere rimessi
in discussione innanzi all’autorità giurisdizionale. In altri
termini, ciò significa che l’accoglimento ad opera della
Corte Costituzionale possa incidere su tutti quei rapporti
in relazione ai quali non si sia ancora formato il giudicato
(oppure non siano intervenute cause di decadenza o di
prescrizione).
22
In relazione all’esaminanda fattispecie, appare
condivisibile ritenere che i rapporti di cui trattasi possano
essere intesi come “pendenti”, in quanto – con specifico
riferimento al caso in cui il contribuente abbia presentato
istanza di rimborso dopo aver proceduto al versamento
degli importi dovuti in applicazione della Robin Hood Tax
– il rapporto possa dirsi tutt’altro che esaurito.
Di più, essendo il contribuente doppiamente virtuoso
– poiché, sebbene abbia “smascherato” ante tempore
l’illegittimità dell’addizionale, ha comunque versato gli
importi dovuti nel pieno rispetto della legge applicabile
ratione temporis – risulta quantomeno irragionevole,
in termini di principio, ritenere che allo stesso sia
precluso l’ottenimento del rimborso, adducendo come
giustificazione il rischio di determinare uno “scompenso”
nell’equilibrio di bilancio dello stato di cui all’articolo 81
della Costituzione.
La Consulta, infatti, nella recente pronuncia ha precisato
che l’efficacia è limitata al futuro, chiarendo che “in
ordine al potere della Corte di regolare gli effetti delle
proprie decisioni e ai relativi limiti, deve osservarsi che,
nella specie, l’applicazione retroattiva della presente
declaratoria di illegittimità costituzionale determinerebbe
anzitutto una grave violazione dell’equilibro di bilancio
ai sensi dell’art. 81 Cost. Come questa Corte ha affermato
già con la sentenza n. 260 del 1990, tale principio esige
una gradualità nell’attuazione dei valori costituzionali che
imponga rilevanti oneri a carico del bilancio statale. Ciò vale
a fortiori dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale
20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del pareggio
di bilancio nella Carta costituzionale), che ha riaffermato il
necessario rispetto dei principi di equilibrio del bilancio e di
sostenibilità del debito pubblico (sentenza n. 88 del 2014).
L’impatto macroeconomico delle restituzioni dei versamenti
tributari connesse alla dichiarazione di illegittimità
costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18, del d.l. n.
112 del 2008, e successive modificazioni, determinerebbe,
infatti, uno squilibrio del bilancio dello Stato di entità
tale da implicare la necessità di una manovra finanziaria
aggiuntiva, anche per non venire meno al rispetto dei
parametri cui l’Italia si è obbligata in sede di Unione europea
e internazionale (artt. 11 e 117, primo comma, Cost.) e, in
particolare, delle previsioni annuali e pluriennali indicate
nelle leggi di stabilità in cui tale entrata è stata considerata
a regime.”
TLS Newsletter n° 3 Anno 2015
Orbene, considerando i chiarimenti che la stessa Corte
si è preoccupata di fornire, sembrerebbe possibile
assumere che il principio di “equilibrio di bilancio”
risulti gerarchicamente sovraordinato al principio della
capacità contributiva. Si nota, pertanto, che tramite tale
assunto – sebbene la Corte se ne sia servita al fine di non
recare pregiudizio ai contribuenti “più deboli” e, quindi,
nel nome del richiamato principio di cui all’articolo 53
della Costituzione – si finirebbe per “offrire il destro”
all’istituzione di tributi altrimenti non giustificabili, in
quanto non correlati alla dimostrazione di una maggiore
capacità del contribuente, bensì legati ad esigenze di
“pareggio del bilancio”, le quali – “nel migliore dei mondi
possibile” – dovrebbero essere raggiunte attraverso ben
altre modalità di attuazione.
Ulteriormente, la pronuncia risulta non esaustiva
laddove è motivata la portata temporale di efficacia
dell’accoglimento, in quanto non si tiene conto in
alcun modo della differente situazione giuridica dei
contribuenti che si sono adoperati presentando apposita
istanza di rimborso.
Infatti, se da un lato la Corte Costituzionale – come
anticipato – si preoccupa di ribadire le facoltà che gli
pertengono circa la modulazione dell’efficacia temporale
della pronuncia medesima, dall’altro non specifica, il che
sarebbe doveroso, che tale modulazione debba riferirsi a
precisi presupposti, per mezzo di un esplicito riferimento
a quei contribuenti che “si sono attivati” per tempo, stante
la diversità delle situazioni possibili in relazione al caso di
specie.
Così facendo, tra l’altro, si potrebbero ottenere risultati
soddisfacenti anche sotto il menzionato profilo
dell’equilibrio di bilancio, in quanto l’accesso al rimborso
sarebbe garantito ad una cerchia ben più limitata
di contribuenti (peraltro, virtuosi) e lo “squilibrio”
circoscritto ad un errore dello Stato, che in alcun modo
dovrebbe ripercuotersi sui contribuenti.
Come è evidente, l’odierna questione presenta molteplici
commistioni con scelte di politica economica, che rendono
lo scenario altamente incerto, pertanto non rimane che
appellarsi alle teorie generalmente condivise ed al buon
senso che dovrebbe guidare nell’interpretazione dei
principi che regolano l’ordinamento costituzionale e
tributario.
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