Leggi tutto Il cardine della salvezza di Demetrio Paolin (pdf)

IL CARDINE DELLA SALVEZZA
Nel mio paese tutti bestemmiavano allo stesso modo, tutti i maschi
dico. Il vecchio che andava alla vigna, l’operaio alla catena di
montaggio, il verduriere che metteva la frutta nelle ceste o il macellaio
quando portava la bestia a morte. Che ci fosse il sole lungo i prati del
paese o cadesse una pioggia fastidiosa ciò non cambiava si
bestemmiava
dicendo
le
stesse
due
parole;
anche
i
nonni
bestemmiavano e i bimbi che stavano con loro imparavano subito dopo
mamma, papà, acqua le due parole come una litania. Mio padre
bestemmiava, quando lavorava o quando doveva fare una commissione
senza voglia, lui s’alzava e a ogni passo puntuali le due parole.
Io ho bestemmiato a 9 anni la prima volta e quando l’ho fatto mia
madre mi ha dato uno schiaffo. Così sono andato da don Anselmo e mi
sono confessato e lui mi ha portato in Chiesa tra i banchi della navata
laterale, e mi ha detto: Ci confessiamo qui. Così io gli ho detto quello
che ho fatto. Lui ha sorriso, poi io gli ho detto che non mi sembrava
una cosa malvagia, che io a dio gli volevo bene, che mi veniva da dirgli
ciao quando entravo in Chiesa e non di fare il segno della croce perché
lo sentivo come uno che mi sta vicino e quindi se mi sta vicino io gli
dico ciao. Mentre parlo, don Anselmo fa sì con la testa e dice che
questo è una cosa buona, che è una cosa giusta. Io continuo che è vero
certe volte con gli amici mi arrabbio e forse li prendo a male parole ma
non vuol dire che non voglio loro bene.
Lui allora fa una cosa semplice mi volta la testa verso la navata
centrale: ci sono quattro donne che pregano, sperse in 4 banchi diversi,
guardano il santissimo che è esposto. Ci sono presone, mi dice don
Anselmo, pregano così: chiedono, vengono davanti al santissimo e gli
fanno un mucchio di richieste per sé, per le loro figlie o figli, per i loro
sposi, perché hanno problemi. Chiedono, hanno bisogno… Poi ci sono
persone che sono diverse: s’arrabbiano, se hanno un problema viene
loro più facile tirare un pugno, dare un calcio al sasso, piuttosto che
chiedere. Sai, mi dice, c’è nella Bibbia un libro che si intitola le
Lamentazioni. In quel libro l’uomo si lamenta con dio, perché quello
che ha fatto non è mica sempre buono e giusto, che anzi ci sono cose
brutte che accadono, e quindi si lamenta. Insomma l’uomo questiona
con dio, ci vuole parlare a tu per tu, e dirgli come certe cose che ha
fatto non vanno bene. Alcuni si accontentano che se va bene la giornata
o se la figlia trova il marito, qualcun altro no e quindi si lamenta e
bestemmia. S’arrabbia. Poi don Anselmo prende fiato: io non ti posso
dire che bestemmiare è giusto, ho la tonaca, ma ti posso dire che
lamentarti è giusto, quindi se ti esce una bestemmia fai che sia per
qualcosa che valga la pena. Sii arrabbiato con dio se devi esserlo. Poi
mi sorrise e se ne andò.
Così è finita che sono diventato uno che va in giro a parlare della
Bibbia, l’ho studiata, ho scritto dei libri e vado nelle parrocchie e nelle
librerie. Certe volte, dopo l’incontro, qualche ragazza si ferma, io me
ne accorgo perché tentenna guardando i volumi negli scaffali della
biblioteca o della libreria … Io mi diverto a perdere tempo, mi allungo
nei convenevoli finali con chi mi ha ospitato, torturo la persona che mi
aspetta. Poi quando faccio per andarmene, la ragazza o la signora
s’avvicina e mi dice: È stata una bellissima conferenza, interessante e
se lei ha tempo vorrei invitarla a prendere un caffè o mangiare qualcosa
per finire la discussione.
Io faccio sempre la stessa cosa. Io so benissimo cosa è bene e cosa è
male, però non riesco a non fare il male. Nessuno sa quale è il mio
dolore più intimo, il mio rovello e la mia sterilità; mi citano il Cantico
dei Cantici, o Osea, o Isaia… E io penso a don Anselmo, che aveva
ragione, che le persone hanno in bocca dio solo per comodità o
desiderio.
La donna davanti a me ora, ha più o meno 40 anni; le riconosco una
bellezza matura e un sorriso sottile come le sue labbra. Mi avvicina e
mi dice che l’ha colpita molto il mio passaggio sul rito e la noia.
Mentre me lo dice, la sua mano sfiora la mia: io non sento niente, il
mio corpo da tempo si è abituato alla rinuncia. La gente pensa che la
carne, il suo primato, la sua centralità nella vita siano dati dal sesso; il
sesso è ciò che rende la carne qualcosa di misterioso. Se fosse così, la
carne sarebbe invece misera cosa, come è misero il desiderare di
possedere l’altro, di farlo proprio; come è triste continuare a generare
esseri umani, farli nascere, farli crescere in questo mondo insensato.
La donna comunque toccandomi il braccio dice: Mi ha colpito molto
il passaggio sul rito e la noia….
Perché?, dico io.
Perché è una visione diversa…
Lei va a messa?
Sì
Tutte le domeniche?
Sì
E come fa?
Scusi?
Io la guardo, lei non capisce, ma si è fatta più vicino; vuole entrare
nel mio campo di intimità, si fa avanti. Io continuo e racconto questa
cosa. Molti anni orsono andai a una messa, era una messa pasquale, con
il mio maestro di teologia. Quando arrivammo alle letture, in quel caso
avrebbero letto Giovanni, lui candidamente mi disse: io schiaccio un
pisolino, svegliami quando è finito tutto, tanto so come va a finire.
Che significa…, dice la donna.
Il rito a cui lei e altre persone prendete parte è noioso, perché
neppure vi rendete più conto delle cose che pronuncia il sacerdote, le
ripetete a macchinetta, tanto che sei io incominciassi qui a recitare parti
del salterio lei me le direbbe a memoria… E invece se uno ci credesse
realmente, non potrebbe più vivere come vive. Non potrebbe più,
conclusa la funzione, andare a mangiare il pranzo domenicale, non
potrebbe più scopare – e questo lo dico guardandola negli occhi – con
suo marito o con altre persone come se nulla fosse accaduto. Invece
usciti dalla chiesa cosa fate? pranzate con i vostri figli, mettete in
ordine la casa, vi obbligate ai doveri coniugali e sognate qualcosa di
esotico e nuovo… Mentre dovreste pensare al fatto che dio si è fatto
carne e che voi ne avete appena mangiato un resto…
La donna mi guarda, io guardo lei. Non desidero umiliarla. Sento in
me un fastidio, una spina nella schiena. Immediato si disfa qualcosa nel
mio sentire come se una coltre calasse su di me. Il pensiero che faccio è
lucido come una lama che slabbra appena la pelle: non la desidero. Il
suo corpo nudo non è la carne in cui io spero.
La donna sta per dirmi qualcosa, quando Luigi, don Luigi, il mio
amico caro, arriva in mio aiuto.
Se c’è un capannello di persone, dice, tu sei qui.
Dove due o tre sono riuniti nel mio nome…, io faccio.
E lui mi abbraccia e sorride: Sei blasfemo.
Lo stringo a me, Luigi mi è amico da sempre. Anche lui viene dal
mio paese, dal paese da cui sono fuggito e da cui lui si è allontanato per
obbedienza al suo ordine. Il suo abbraccio mi ricorda i pomeriggi al
campo da calcio; niente è bello come quei ricordi nella mia mente,
nulla rivive come quei momenti luminosi dell’adolescenza. Mi ricordo
ancora il turbamento che avevo quando il corpo dell’avversario si
appoggiava al mio. La mia schiena si appoggiava sul petto del mio
marcatore, le mani si incrociavano cercando di trattenersi e liberarsi, i
corpi si strusciavano. Poi avveniva qualcosa, io mi liberavo dalla
marcatura, mettevo uno spazio minimo tra me e il giocatore di fronte a
me, in quello spazio riacquistavo la mia libertà. In quel momento
vedevo chiaramente la luce – breve – della porta, lo spazio dove
infilare il pallone e segnare. Era il mio talento, io vedevo la porta anche
se ero di spalle, poi mi giravo fermavo la palla e tiravo. Di solito
davanti a me quando cercavo la luce nello specchio dei pali trovavo
Luigi. Lì, in quelle lunghe giornate afose d’estate e fredde d’inverno,
abbiamo segnato i nostri destini; l’ho visto cambiare davanti ai miei
occhi, ogni volta che facevo il movimento per girarmi lui era nuovo;
l’ho visto crescere e venire a casa mia per dirmi che si faceva frate. Mi
vedo abbracciarlo, come in una marcatura stretta, mentre mi dice che
finalmente è felice.
L’ultima volta che sono stato felice è stato quando sono andato a
vedere dei bambini nuotare in piscina. C’è qualcosa nei corpi dei bimbi
che mi attrae, come mi attraggono i corpi degli animali. Sono corpi
lontani dalla caduta, lontani dalla mestizia delle nostre continue
abitudini; sono corpi assolti dalla vita, legati al bisogno e a una
condizione paradisiaca che noi abbiamo perduto. Così quando posso
vado a vedere i bambini che fanno sport.
All’inizio andavo a vedere i ragazzini giocare al calcio, ma con il
tempo qualcosa li ha sviliti: si credono adulti, credono già di giocare
per guadagnare soldi per diventare famosi. I loro corpi sono diventati
corpi di potere, corpi per il potere e non per la bellezza o la salvezza.
Così un giorno girando sono entrato in piscina e ho visto i bimbi
tuffarsi e nuotare. Mi è parso nell’ovatta amniotica del cloro che la loro
carne risplendesse. L’ultima volta che sono stato felice è quando al via
della gara una bimba è entrata in acqua perfettamente. I piedi e la
braccia hanno dato la giusta spinta. Ha fatto i primi cinque metri senza
bracciate, tenendo le mani a cuneo sopra la testa, poi ha iniziato a
muovere le braccia, a dorso. Il braccio era teso e diritto, il palmo volto
verso l'esterno. Non si muoveva in modo sgraziato, ma anzi con la
dovuta calma. Era diritta perfettamente nel mezzo, immaginario, della
corsia. Non faceva spruzzi, era in linea con le altre che mulinavano di
più, ma avevano uno stile più raffazzonato. È stata perfetta fino ai 23
metri dei 25 da correre, poi si è tirata su. Ha smesso, ha fatto questo
gesto normalmente, aspettando che arrivino gli altri. Questa cosa mi ha
fatto tenerezza, mi ha ricordato quando gli allenatori mi dicevano che a
me mancava la cattiveria: quindi invece di finalizzare, sprecavo un
passaggio, provando a fare un dribbling azzardato; o buttavo via un
contropiede, volendo fare un gol da posizione impensabile. Il traguardo
non mi è mai interessato come a questa bimba, perché pensavo e penso
di aver fatto tutto quello che dovevo, che gli altri vincano pure. Così ho
cercato di definire questo atteggiamento e penso che la differenza sia
tra devozione e integralismo. Io e questa bimba siamo devoti perché ci
piace fare una cosa e ci piace farla bene senza che questo diventi un
peso. La bimba, fermandosi, non si è arresa alla fatica, ma ha compiuto
una rinuncia, sacrificando la vittoria per altro. E ciò la rende pura, la
sua carne sarà salva e la sua bellezza intatta…
Quando Luigi mi lascia dall’abbraccio, la donna non c’è più. Io mi
guardo intorno e sorrido, lui pure. Che facciamo?, mi dice, ti fermi
questa sera o torni a casa. No, dico, debbo tornare e il problema è che
devo prendere un aereo. Ti porto io, fa Luigi. Son un centinaio di
chilometri, riprendo io. E lui mi prende sottobraccio e andiamo verso la
sua macchina.
Quando usciamo il cielo è ancora chiaro e limpido, è una perfetta
giornata d’estate, ma non caldissima. Si sta bene fuori con la maniche
corte e io cammino con Luigi, mentre lui passa il suo braccio intorno al
mio.
Non credevo saresti potuto venire, gli dico.
Beh quando mi hai mandato l’invito ho dovuto organizzarmi, ma
non avrei perduto l’occasione di vederti.
Sei caro, ma tu come stai?
La vita va al solito, alti e bassi, mi occupo di formazione, dirigo il
seminario…
Formi le milizie?, gli dico…
Sono armatissimi, ma sono pochi… la crisi delle vocazioni,
insomma le sai ste cose… e tu?
Io vado in giro faccio qualche conferenza, vorrei scrivere un libro
nuovo…
Su cosa?
Su una frase di Tertulliano, quella che dice che la carne è il cardine
della salvezza….
La via centrale è piena di gente che si muove avanti e indietro. Tutti
hanno qualcosa da fare, si fermano davanti alla vetrina, chiacchierano
con il compagno di passeggiata, osservano gli altri. C’è una frenesia;
eppure io ho la netta impressione che guardino me e Luigi; noi, che
andando in direzione opposta al grosso della gente, continuando a
parlarci fitti e senza che niente ci disturbi.
Caro salutis est cardo, dice l’amico. La sua voce e quella piccola
“erre” leggermente moscia danno alle parole un suono di dolcezza, una
nenia. Solo dicendola a voce alta e in latino si può apprezzare la frase.
Si può comprendere la sua bellezza sintattica, la sua forza è già tutta
nella disposizione degli elementi.
Sì, dico io, proprio quella è la frase…
È cosa vorresti dire nel tuo libro?
Non è ancora chiaro, per questo vado in giro e ne parlo, così mi aiuta
a fare mente locale…
Mentre dico questo da una via laterale sbuca velocissimo un cane,
inseguito da due persone con dei bastoni. La vista della accaduto è
strana, quasi irreale. Sembra di essere a una comica, anche se poco
dopo, sento un guaito venire dal vicolo che aveva imboccato il cane.
Sento le voci forti dei due inseguitori che picchiano il cane con bastoni.
Sono arrivati fin qui, fa Luigi.
Chi?
I cani, mi dice lui, tu non sai quanti cani ci sono nella campagne
circostanti la città. È una cosa che mi ha colpito quando sono arrivato.
C’erano branchi di cani randagi un po’ dappertutto, all’inizio stavano
nelle campagne e attaccavano il bestiame o chi andava per boschi, ora
forse per la fame sono arrivati fino al centro cittadino… Sono cani
violenti, abituati alla battaglia; cani che vengono usati per i
combattimenti clandestini e a un certo punto, quando sono deboli
vengono abbandonati…
Poi mentre lui mi parla vedo i due uscire dal vicolo. Il cane è legato,
ben strette le zampe e il muso. Si divincola sull’asfalto mente loro lo
trascinano. Nessuno pare badare a questo gesto come se quello fosse il
giusto castigo.
Dove li portano?
Di solito al canile comunale, dove vengono abbattuti perché violenti.
Il corpo del cane sparisce così come era venuto, nella mia mente si
figura il numero di cani che ora cingono d’assedio la città, rabbiosi e
bavosi pronti al martirio per prendere possesso di questi luoghi. Quanti
potranno mai essere questi cani lividi e cattivi? La gente li teme e ha
paura. L’ho notato, osservando i passanti che indifferenti a ogni altra
cosa si sono fermati al passaggio del cane legato, come se fosse una
reliquia spaventosa. È mancato niente che si toccassero e si segnassero
tipo le processioni dei santi. Eppure sono solo cani, affamati cani che
dai loro un tozzo di pane e se ne vanno scodinzolando.
Non è solo un cane, mi dice Luigi, leggendo il mio sguardo che ha
seguito la bestia fino dove ha potuto. Questo è un problema più serio,
c’è qualcosa di oscuro e minaccioso in essi, tutti qui lo percepiamo…
Sono un segno, dico io, come le piaghe.
Tu ci scherzi, ma io a forza di viverci penso a qualcosa del genere.
Il primo pezzo del viaggio in macchina avviene in silenzio. Dai
finestrini della macchina tutto pare riacquistare un senso noto e
normale. La città smette di essere un luogo posto sotto assedio da
cerberi infestati e diabolici e ritorna a essere un piccolo centro di
provincia dotato di alcuni confort. Anche Luigi sembra essere tornato
di buon umore: Ti volevo chiedere una cosa rispetto a quello che hai
detto oggi alla conferenza.
Dimmi.
Tu credi in dio?
Perché mi chiedi questo?
Tu rispondi alla mia domanda.
No. Io spero in dio, spero che dio esista, io spero che si sia fatto
carne e sia morto.
E risorto?, mi dice Luigi, e la resurrezione?
Quella mi sfugge, dico, non è per me, non è cosa di questo mondo.
Non è di questo mondo tornare in vita. È di questo mondo il morire, io
spero che dio sia morto, che la sua carne sia morta come morirà la mia
e quella dei miei cari. Spero che la carne di dio sia diventata terra, che
quando ne tengo in mano una manciata un po’ di dio sia ancora confuso
nell’argilla. Certe volte penso a Gesù che muore e a Giuda che muore,
e poi penso ai loro corpi a pochi metri uno dall’altro, solitari, disfatti
dai vermi e che poi si confondono: il corpo di dio e il corpo
dell’abominio… sono una cosa sola
Tu speri, dice Luigi, che dio sia morto?
Sì, se è morto vuol dire che è stato, che è più di quanto possiamo
immaginare. Pensa che enormità se dio si è incarnato realmente, la
salvezza è nella carne, ecco, è nella carne di dio che diventa reale. Dio
così reale così vicino a noi che rinuncia a tutto se stesso, rinuncia si
svuota e si fa mortale. Tu, Luigi, ti ricordi il piccolo Giuseppe? Quello
che viveva in piazza al paese.
Sì.
Ti ricordi come è morto?
Investito e cosa c’entra con Cristo?
Chi era il piccolo Giuseppe prima di morire in quel modo atroce
lungo la statale? Uno dei tanti pargoli del paese, neppure tra i più belli
era. Te lo ricordi? Quel viso leggermente paffuto lo strabismo degli
occhi. Poi la sera, l’incidente, la sua morte e di colpo è diventato altro,
è diventato Qualcos’Altro, che tutti ci siamo trovati in chiesa per lui.
Noi pensiamo i bambini onnipotenti, hanno davanti una vita così
ampia, un futuro così luminoso che tu pensi eterno, pensi che siano dio,
e poi la morte arriva, la morte prende la sua carne. Ecco la violenza del
gesto non può che spingerci a sperare… Così il dio morto ha un senso,
vuol dire che dio c’è stato, che dio ha rinunciato a sé… Io vorrei
credere in questo, io chiedo un segno di questa sua avvenuta morte, di
questa sua fine abissale e per sempre.
Mentre parliamo vedo che abbiamo lasciato le strade piccole della
città e siamo su una superstrada. Il sole ancora se ne sta a mezzo cielo
lungo quasi a lambire le colline. Sembrerebbe casa, sembrerebbe la mia
terra, se non fosse che qui la pianura è più ampia e larga. Mi prende
una nostalgia forte: è tutto il giorno che penso al mio paese, al luogo
che ho lasciato giovane per studiare, per capire e per comprendere.
Tutto mi riporta al quel tempo della mia infanzia. Torno al paese dove
tutti bestemmiano, dove io bestemmiavo, dove la bestemmia non era
un’ingiuria ma un lamento, una critica accorata. Un paese dove dio è
silenzioso, come nel resto della terra, ma dove il suo nome risuona
spesso nelle voci di chi abita quella terra.
Mentre viaggio e guardo fuori dal finestrino sono colpito da una
cosa. All’inizio lo tengo per me, come se fosse qualcosa di irreale o
come fosse una proiezione della mia mente. Lungo il ciglio della
superstrada che collega la cittadina all’aeroporto, ci sono carcasse di
cani. Lungo la corsia di emergenza, negli slarghi delle piazzole,
accanto ai muretti che separano le due corsie di marcia vedo cani morti.
Vedo i loro corpi abbandonati. Nessuno di essi porta visibile il segno
d’essere stato investito. Sono composti come se dormissero e qualcuno
li avesse giustiziati.
Luigi non guida ad alta velocità, io guardo l’orologio e noto che ogni
cinque minuti la scena si ripete. Ora è alle mia destra, ora alla mia
sinistra: il cadavere di un cane incorona l’asfalto che la macchina
consuma. Li guardo bene, li osservo e molte delle bestie non sono
randagie, ma di razza. I cani sembrano ben tenuti, non sono scheletrici
e pare che anche il loro pelo sia stato spazzolato. Tutti, però, giacciono
morti.
Luigi ma hai visto?
Cosa?
I cani? I cani morti abbandonati lungo la strada…
Sì, lo so, all’inizio fa impressione, ma ci si abitua poi. È il problema
che ti dicevo. Ci sono troppi cani abbandonati e randagi. Alla fine le
macchine li investono, creando anche non pochi problemi di traffico.
Luigi, a me non sembrano investiti. È come se una mano li avesse
disposti, quasi ci fosse un... – prendo fiato - … disegno più ampio, una
armonia legata a una composizione. Sono messi nei posti giusti, così
che chiunque li possa o li debba vedere.
Luigi mi guarda e poi torna a guidare. Io continuo a vedere i cani che
affollano la strada, loro vogliono dirmi qualcosa, vogliono parlami. La
loro morte scandalosa e normale, che lascia indifferenti come un busta
di plastica che porta il vento, è per me parola.
Alla fine arriviamo all’aeroporto. Parliamo ma io sono distratto: il
sangue dei cani grida a me. Mi grida qualcosa che io non riesco a
percepire. È un suono basso, che non odo se non come uno sgomento
della carne e della pancia. Luigi lo capisce, Luigi mi ama, è stato il mio
avversario, solo chi ci è ostile ci ama veramente.
Non essere turbato per i cani.
Non riesco a togliermi dalla vista la loro morte.
Allora, mi dice e sorride, potrebbe essere un segno.
Poi mi abbraccia forte, mi benedice nel nome del padre e del figlio e
dello spirito santo e mi bacia. Io mi incammino verso l’aereo e mi
imbarco.
Quando sono in volo e guardo allontanarsi quella terra di sangue e
luce, nell’azzurro ormai cinereo della sera che arriva, io mi addormento
e vedo il mio paese e la piazza deserta; è l’ora meridiana dove l’ombra
non ha luogo. Mio padre compare dalla porta del negozio di alimentari.
Ha due borse, che dal suo sforzo mi sembrano pesanti, mi dice: Vieni.
Io lo seguo e vedo che torniamo verso casa. Casa mia è poco
discosta dal resto del paese, dopo di essa iniziano i boschi e le colline.
Entriamo nel cortile e mio padre è sostituito da una luce accecante,
quella del sole riflessa sul cemento e sulla ghiaia. Entro e cammino, e
mi dirigo verso la cuccia del mio cane, una specie di grande capanno di
legna in cui lui dorme e sosta quando è freddo. Scosto la piccola tenda
e lo vedo riverso nel suo sangue.
Urlo e grido e dico no e poi urlo e chiamo il suo nome e poi infine,
torno piccolo, come quando il mio cane morì e dico Dio cane! Urlo la
mia disperazione per il cane morto, per il mio cane ucciso, per la carne
del mio cane sparsa … e mi sveglio.
Fuori è buio, l’aero vola a migliaia di metri sopra quei cani morti che
sono il mio cane morto. Tutti i cani morti sono il segno della mia
lamentazione. Dio ha voluto darmi un segno della sua presenza e della
sua morte. Dio ha ascoltato la voce del suo umile servo, ha ascoltato la
mia preghiera, ha porto l’orecchio al lamento, si è fatto ciò che il suo
servo gli ha urlato.
Io ho urlato che dio è cane e lui nel suo amore infinito, nel suo
perpetuo morire, si è fatto cane, è morto in mezzo a noi: egli non ha
considerato un tesoro geloso la sua esistenza ma l’ha consumata fino
alla morte e alla morte lungo le carreggiate della superstrada.
È nella carne morente del cane, del mio cane e di tutti cani, che dio
ha trovato casa e riparo; lì dimorerà fino alla fine dei tempi, quando
dalla carne di tutti i cani sorgerà la salvezza.