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Francesco Scopelliti
La via dell'Agave
ANTEPRIMA GRATUITA
«Vertigini»
Collana di narrativa
a cura di Vera Bonaccini
Questa è un'anteprima gratuita de
La via dell'Agave
© 2015 Francesco Scopelliti
© 2015 Matisklo Edizioni
Prima edizione, aprile 2015
ISBN: 978-88-98572-52-6
Copertina di Opiemme
Matisklo Edizioni S.N.C.
di Oddera Cesare & Vico Francesco
Via Eremita 14
17045 Mallare (SV)
[email protected]
www.matiskloedizioni.com
INDICE
Prefazione
di Geraldina Colotti
L’AGAVE
LA PERETTA
IL BAGNINO
LO STATO DI FONDO
VACANZE ROMANE
LA NOTTE DI SAN LORENZO
ALTRI STATI DI FONDO
MONTE MONGIOIE
GUERRE
LA GUERRA È UNA PARTITA DI CALCIO
BEPPE GRILLU
BANKITALIA
LO STATO IDEALE
SÌ (VIAGGIARE)
A PENSARCI BENE, NON RICORDO
ULTIMO STATO DI FONDO, IN FONDO
G. (STORIA DA RICORDARE)
Come il sole, là, a Ponente - A Ponente del nulla - Il disagio a Ponente
di Opiemme
PREFAZIONE
DI GERALDINA COLOTTI
Acquerelli di bosco e di frontiera, piccoli tocchi in punta di
penna: come quelle ferite minuscole che però poi non smettono
di sanguinare. I racconti di Francesco Scopelliti sanno di «fumo,
motorino e stelle» e «cani stregati dalle rocce», di confidenze
sussurrate tra la pineta e le onde nei colori smaglianti del
Ponente ligure. E sono fili di memoria. E son grovigli e patemi di
un ragazzo del posto, un seme di agave gettato nel mondo. E
sono «nocche spezzate in solitudine», riflessioni per immagini
di un giovane attivista, che ha fatto la sua parte nella modesta
temperie «di questo tempo postmoderno che non sarà neppure
ricordato come un periodo buio».
L’Agave, primo racconto della raccolta, introduce il
quadro e l’universo letterario di Francesco, diventa il simbolo
della sua terra «di arsure e miraggi», ma anche la forza quieta,
orrida e spinosa protesa nell’orizzonte di quei luoghi che non
danno pace. L’agave è il fiore effimero dell’esistenza, è il fiore
infranto della rivolta, che sempre però rinasce lungo la
scarpata. E così scrive Scopelliti:
Esausti, ci siamo accorti solo dopo che il fiore
tanto desiderato non veniva su. Che ci avevano
fregati, che ci eravamo fregati. Che non c’era
nemmeno più il posto fisso ad attendere il nostro
ritorno. Che non c’era manco più una casa, quattro
muri, un cesso. Mentre spendevamo inutili energie in
questo malizioso, vizioso circolo, i potatori avevano
rasato la scarpata e in cambio avevano lasciato qua e
là solo qualche milligrammo di Xanax, diluito in fiale.
Racconti pervasi da un’ironia dolce-amara o da una
spiccata vena comica come nella partenza per le ferie [Sì
(viaggiare)], o nel secondo acquerello, La Peretta: ove si descrivono
le disavventure infantili di un bambino sottoposto a una pratica
assai consueta nelle famiglie povere di origine contadina, quella
del clistere. «Il cordone ombelicale tra gli anziani prebellici e la
loro medicina fatta in casa, popolare e autodidatta, e il consumismo, unita alla possibilità di reperire molti oggetti, avevano
prodotto questa aberrazione», scrive l’autore.
Un mondo contadino che si affaccia nelle parole della
nonna e che Francesco ritrova e riscopre nella precarietà del
suo lavoro di stagionale e giardiniere, tra le spine dell’agave e
quelle della letteratura. Tra campagna e spiaggia, tra ricordo e
presente, emerge la fatica dei migranti e e il grido muto degli
esclusi, le manifestazioni non autorizzate e le incursioni degli
attivisti nel giardino degli «uomini-banconote», all’occorrenza
quello di Bankitalia.
C’è la storia celebrata (la Liguria della lotta partigiana) e
quella rimossa e dannata (gli anni ’70 e la lotta armata), l’aspro
cammino di chi non si è pentito che si affaccia nel racconto
Monte Mongioie. A tu per tu con la montagna «dura, antica e
potente», quando il corpo sta per cedere, spunta la croce della
vetta.
«Gli ultimi trenta metri andavano fatti in cresta, dopo
aver scavalcato un piccolo grumo di roccia, con il vuoto da un
lato e dall’altro». E all’improvviso «il cielo si carica di nuvole
pesanti, agganciate alla faccia». Il vecchio e il giovane si buttano
giù dalla strada appena percorsa, mentre chicchi di ghiaccio
colpiscono i polpacci facendoli «saltare come sotto il tiro di una
Colt».
La montagna che sfida e semplifica le cose. La scrittura
che sfida, complica e trasfigura le cose, unendo il sogno della
vetta con quello più profondo del mare.
Francesco Scopelliti
La via dell'Agave
L’AGAVE
7 APRILE 2013
L’agave. Una pianta orrida, spinosa, con petali grassi ed enormi.
L’agave è tignosa il giusto; recidendola rilascia una gelatina
urticante in grado di perseguitare per ore l’improvvisato
giardiniere.
Nel Messico la lavorano per ottenere la Tequila: un liquore poco nobile, apprezzato da bandidos con la fronte madida
di sudore, che lo usano per sveltire la lama del coltello e rovesciare le budella sul pavimento.
Perché l’agave? Innanzitutto, perché la terra dove sono
cresciuto, la Liguria, ne è piena. Terra di marinai e pescatori, ma
anche terra secca, più arida di quella del Messico. L’agave la
troverete ogni volta che la terra si butta a mare, in modo un po'
disordinato; con romantica tenacia, con spirito di adattamento,
con colori sobri. Una forza quieta, con spine necessarie e legittime, in mezzo all’arsura e ai miraggi. Tra il tramonto e l’alba, la
bufera e la pioggia. Sopra e sotto la ferrovia, lei è lì, statica e
forte. Paradigma di tutti quei luoghi in cui l’orizzonte non dà
pace, ma agita gli animi di chi prova con ostinazione a guardare
oltre.
Tutto qui? No, il motivo più importante è chiaramente
un altro. L’agave ha una caratteristica particolare: può restare
piccola come un cucciolo o diventare grande come un'auto;
crescere in un giardino signorile, in mezzo a un prato inglese,
stare arrampicata su una scarpata.
L’agave persegue un solo obbiettivo: il suo fiore. Un
enorme obelisco vegetale, a volte alto anche dieci metri, dal cui
tronco si aprono braccia grandi come padelle, con al di sopra
centinaia di beccucci di un giallo vivido. Il fiore dell’agave vive
un mese, due, nella migliore delle ipotesi, poi inizia a seccare.
Nessuno è in grado di dire quando riuscirà a sbocciare. Quando
fare esplodere il suo alberello, l’agave lo decide da sola. Una vita
intera passata a progettarlo, ad aspettare il momento propizio.
La cosa sconvolgente, però, è un’altra: quando l’agave gioisce
nel suo più alto ed espressivo grido di vita – il suo fiore, appunto
– muore.
Così, in questo infame tempo postmoderno, dove non importa
quanta terra è stata scavata attorno a sé e come si sono
posizionate le radici; dove non interessa quanto si è solidi se
arriveranno la pioggia e il fango, omologati in una distesa
informe, a testa bassa, si è intrapresa la via dell’agave. Si
impiega la vita nella stesura di un fiore, per emergere. Ma il
nostro ego non è un vegetale, non ha la memoria chimica che
non conosce il tempo e non capisce la differenza tra il suo sé e il
resto. Non ha neanche la forza delicata della gelatina che si
sostituisce al sangue e al cuore frenetico.
Non si è capito che quello dell’agave non è un gesto
individuale, ma una semplice affermazione di volontà. Volontà
senza secondi fini. Volontà che si muove oltre vita e morte.
Volontà che non vuole interpretare la trasformazione, ma
essere la trasformazione.
Persi a inseguire Talent Show, soldi facili, accaniti nella
sopraffazione del prossimo, la via dell’agave ci ha portato in un
campo minato. Svanite le piccole cose, il concetto di moltitudine, la forza delle dita che si uniscono nel pugno, ci siamo
spezzati le nocche in solitudine. Abbiamo scagliato le nostre
spine tra di noi.
Esausti, ci siamo accorti solo dopo che il fiore tanto
desiderato non veniva su. Che ci avevano fregato, che ci
eravamo fregati. Che non c’era nemmeno più il posto fisso ad
attendere il nostro ritorno. Che non c’era manco più una casa,
quattro muri e un tetto, un cesso. Mentre spendevano inutili
energie in questo malizioso, vizioso circolo, i potatori avevano
rasato la scarpata e in cambio avevano lasciato qua e là solo
qualche milligrammo di Xanax, diluito in fiale.
In questo tempo postmoderno, che non sarà neppure ricordato
come un periodo buio; con la dignità di un medioevo ridimensionato, che non conosce sovrani al di fuori delle
banconote, ci resta da recuperare solamente qualche ricordo.
Tanti racconti che non insegnano nulla, se non la loro stessa
memoria.
Questa è un'anteprima gratuita de “La via dell'Agave” di Francesco
Scopelliti.
Per scaricare l'eBook integrale:
www.matiskloedizioni.com/laviadellagave
COME IL SOLE, LÀ, A PONENTE
A PONENTE DEL NULLA
IL DISAGIO A PONENTE
DI OPIEMME
Come il sole, là, a Ponente
C’è qualcosa nel vento di questa Regione. Qualcosa che continua
a scompigliarmi i pensieri, mentre guardo il sole che illumina il
Ponente ligure.
Da anni, mi chiedo che sia. È un disagio che accomuna
una terra. Scorbutica, scontrosa, inospitale, precaria. Una terra
simulacro di attualità inattuale: umana, troppo umana.
Siamo, qui. Arroccati e soli sul mare, con la sensazione
costante di cadere. Con un solo orizzonte per orientarsi.
Diffidenti, scontrosi e soli. Soli e «mugugnosi».
Onde si infrangono, nel nostro continuo mugugno.
Soli e sole, all’alba e al tramonto. Soli e la bellezza infinita di
questa costa. Dove le colline si tuffano e affondano le proprie
radici in fondo al mare. Dove i turisti fotografano terra e mare
dalle colline e conoscono gli abitanti per la poca ospitalità. Dove
il turismo non decolla, e i prezzi non scendono. Dove si vive al
sole d’inverno, con le nuvole in testa.
A Ponente del nulla
La Liguria dei vacanzieri pensionati, dove feste, eventi e musica
estiva sono un disturbo, o un’occasione per lagnarsi di un presunto «degrado».
Al confine, ma isolati dalla Francia e dall’Europa, come
se vi fosse una barriera. A Ponente, soli fra Alpi e mare. Al Sud
del Nord.
Isolati da una linea ferroviaria che non sembra aver
raggiunto le porte della Costa Azzurra, ma piuttosto il nulla. Un
treno che non sa unire commercialmente i porti di Genova e
Marsiglia. Un treno che macina verso Savona alla velocità di un
«Ciao». 40 all’ora.
Provincia senza metropoli, schiacciata fra acqua e monti. Senza
sfogo, affogati. Gente di mare e gente di campagna. Porti turistici,
staccionate e stabilimenti balneari. Colline ordinate da muri a
secco e dall’argento delle foglie degli ulivi.
Il disagio a Ponente
Un freddo, umido nulla, spinto dal vento, che entra dentro,
nelle case, nelle ossa. Ti aspetta nelle sere di Novembre, il
freddo, quando attraversi la città deserta chiedendoti se sia
notte fonda. Immobilità.
Immobilità riflessa nel carattere, nell’umore, sovente uggioso,
dei suoi abitanti. Al fondo dell’arco ligure, il sole cala.
La musicalità del dialetto genovese è persa, resta una
lagna che ben si sposa col mugugno.
***
Mi chiedo se sia questa solitudine interiore, questo disagio, a far
giocare coi pensieri e le parole i suoi abitanti fino a diventare
stelle nelle quiete notti liguri: Montale, Calvino, De Amicis,
Sbarbaro, Novaro.
Mi chiedo se quest’attitudine cambierà. Se vi sarà un
giorno in cui le persone vorranno fare per questa terra, fare per
la propria terra, come collettività. Se si diffonderanno cortesia e
sorrisi verso i turisti. Se salutare non apparirà una fatica. E a
piccoli numeri, forse, l’economia utilizzerà qualcuna delle
potenzialità, delle risorse più grandi che la nostra nazione
mette a disposizione: la bellezza e la storia dei suoi luoghi, la
particolarità culinaria, i magnifici prodotti cotti al sole. Non
solo olio d’oliva fatto con l’oro.
***
La scena dei racconti di Francesco Scopelliti è questa. Anche lui
ha giocato con le parole, in quelle notti quiete. Episodi
frammentati che creano un romanzo di formazione, sullo
sfondo della terra in cui è cresciuto.
La via dell’Agave, con questa metafora che potrebbe divenire una
descrizione della nostra contemporaneità, apre il libro. C’è
ricerca di etica, di insieme, e questo mi piace.
La metafora si mischia ai ricordi dell’infanzia e al caos
dell’adolescenza, alla confusione della protesta, magmatica e
spaccata, così come il nostro tessuto sociale, sempre eterogeneo, seppure omologato. Incapace di connettersi, di raggrupparsi dietro un valore e chiedere un cambiamento, con una
prospettiva. Chiedere un diritto, che non sia solo il vendere/comprare un frigo nuovo.
Il Ponente ligure è il piccolo punto prospettico da cui guardare
una società in declino. Nessuno sembra disposto a considerare
rinunce e sacrifici. La fioritura dell’ego, non solo manca di
critica della ragion pratica, ma anche di giudizio di gusto.
La via dell’Agave è proprio questo: un moderno desiderio di fiorire per una sola volta, calpestando tutto e tutti, per
se stessi. Il risultato è misero. Espresso in quegli Stati di fondo,
che spezzano il racconto/ricordo di Francesco: restiamo sempre
più soli. Tiepidi, a cuocere nel silenzio dell’entroterra, spezzato
da motoseghe e decespugliatori, guardando il mare aprirsi in
mezzo alle valli, come da una terrazza, che ai turisti non
vogliamo far conoscere, solo vendere a caro prezzo, mai per
intero.
A volte, il riconoscimento può essere un primo passo verso un
cambiamento.
Trovo le emozioni che mi «scompigliano i pensieri» nella poesia
di Eugenio Montale.
Così il pensiero va ad un titolo che per analogia mi
sovviene leggendo l’apertura di Francesco. Il titolo è L’agave
sullo scoglio e in un certo qual modo i rimandi sono molti:
[...] ora sono io
l’agave che s’abbarbica al crepaccio
dello scoglio
[...] E nel fermento
d’ogni essenza, coi miei racchiusi bocci
che non sanno più esplodere oggi sento
la mia immobilità come tormento.