(1) Scipionum elogia (CIL, I2 7) Cornelius Lucius Scipio Barbatus, Cnaivod patre / prognatus, fortis vir sapiensque, quoius forma virtutei parisuma / fuit, consol censor aidilis quei fuit apud vos, Taurasia Cisauna / Samnio cepit, subigit omnem Loucanam opsidesque abdoucit. Cornelio Lucio Scipione Barbato, generato dal padre Gneo, uomo forte e saggio, la cui bellezza fu pari alla virtù, fu console, censore ed edile presso di voi, prese Taurasia Cisauna, nel Sannio, sottomise l’intera Lucania e prese ostaggi. (2) Polibio, Historiae, VI 53-54 Quando in Roma si celebra il funerale di un cittadino illustre (τις παρ' αὐτοῖς τῶν ἐπιφανῶν ἀνδρῶν), questi è portato nel foro presso i Rostri con grande solennità, il più delle volte in piedi, raramente disteso. Alla presenza di tutto il popolo, un suo figlio maggiorenne, se esiste e si rova in città, altrimenti il suo parente più prossimo, sale sulla tribuna e parla del valore del morto e delle imprese che ha compiuto in vita. Così tutto il popolo ricorda e quasi ha davanti agli occhi le sue imprese. [...] In occasione dei sacrifici pubblici i Romani espongono le immagini degli antenati e le ornano solennemente; quando muore qualche altro personaggio illustre della famiglia, le fanno partecipare alle cerimonie funebri, indossate da persone simili al morto per statura e taglia. [...] L’oratore incaricato dell’elogio funebre, dopo aver parlato del morto, ricorda le imprese e i successi dei suoi antenati cominciando dal più antico: così la fama degli uomini valorosi viene continuamente rinnovata e diventa immortale, e la gloria di chi ha ben meritato nei confronti della patria viene diffusa a tutti e tramandata ai posteri [...] (cfr. Antologia delle fonti, I.1 T15) (3) Siculo Flacco, De condicionibus agrorum, 100, 7-13 Th. Ut vero Romani omnium gentium potiti sunt, agros ex hoste captos in victorem populum partiti sunt. Alios vero agros vendiderunt, ut Sabinorum ager qui dicitur quaestorius, eum limitibus actis diviserunt, et denis [quibusdam] quibusque actibus laterculis quinquagena iugera incluserunt, atque ita per quaestores populi Romani vendiderunt. Quando i Romani ottennero il predominio su tutti i popoli, si spartirono le terre prese al nemico; alcuni terreni li misero in vendita, come avvenne col territorio sabino cosiddetto ‘questorio’: lo divisero tracciando al suolo i confini e delimitarono appezzamenti di cinquanta iugeri, ogni dieci actus, e in questo modo furono venduti dai questori del popolo romano. (cfr. Antologia delle fonti, I.4 T22) (4) Livio, Ab urbe condita, XXXI 13, 4-9 Senatus querentes eos non sustinuit: si in Punicum bellum pecunia data in Macedonicum quoque bellum uti res publica uellet, aliis ex aliis orientibus bellis quid aliud quam publicatam pro beneficio tamquam ob noxiam suam pecuniam fore? cum et priuati aequum postularent nec tamen soluendo aere alieno res publica esset, quod medium inter aequum et utile erat decreuerunt, ut, quoniam magna pars eorum agros uolgo uenales esse diceret et sibimet emptis opus esse, agri publici qui intra quinquagesimum lapidem esset copia iis fieret: consules agrum aestimaturos et in iugera asses uectigal testandi causa publicum agrum esse imposituros, ut si quis, cum soluere posset populus, pecuniam habere quam agrum mallet, restitueret agrum populo. laeti eam condicionem priuati accepere; trientabulumque is ager, quia pro tertia parte pecuniae datus erat, appellatus. Il senato non seppe resistere alle loro proteste: se lo stato voleva impiegare nella guerra macedonica il denaro ottenuto per la guerra punica, poiché le guerre in Oriente si succedevano una dopo l’altra, quale sarebbe stato l’esito se non la confisca dei loro beni come conseguenza di un atto generoso? Dal momento che tali richieste erano legittime, ma tuttavia lo stato non aveva altro modo per ripagare il prestito, si adottò una soluzione intermedia tra ciò che era giusto e cioè che era utile: poiché affermavano che vi fosse molto terreno disponibile in vendita e il denaro serviva loro per comperarlo, si decretò di dar loro terreno pubblico entro il raggio di 50 miglia da Roma. I consoli avevano il compito di vagliare il terreno e imporre una tassa di concessione (vectigal) pari a un asse per iugero, in modo da affermare che si trattava pur sempre di terreno pubblico. Quando poi avessero preferito riavere il denaro invece della terra, se lo stato fosse stato in condizione di pagare, si sarebbe ripreso la terra. I creditori accettarono di buon grado questa soluzione e quel terreno venne chiamato ‘trientabula’, perché era concesso in cambio della terza rata del prestito. (5) Ovidio, Fasti, V 279-294 Cetera luxuriae nondum instrumenta vigebant; /Aut pecus aut latam dives habebat humum / (Hinc etiam locuples, hinc ipsa pecunia dicta est); / Sed iam de vetito quisque parabat opes. / Venerat in morem populi depascere saltus, / Idque diu licuit, poenaque nulla fuit; / Vindice servabat nullo sua publica volgus, / Iamque in privato pascere inertis erat. / 1 Plebis ad aediles perducta licentia talis / Publicios; animus defuit ante viris. / Rem populus recipit, multam subiere nocentes: / Vindicibus laudi publica cura fuit. / Multa data est ex parte mihi, magnoque favore / Victores ludos instituere novos; / Parte locant clivum, qui tunc erat ardua rupes, / Utile nunc iter est, Publiciumque vocant. Gli altri modi di arricchimento non esistevano ancora; ricco era chi aveva greggi e vasti campi (da qui i termini locuples e pecunia), ma già qualcuno si preparava ad arricchirsi illecitamente. Era sorta la pratica di far pascolare il bestiame sulle terre del popolo: ciò fu a lungo possibile senza incorrere in sanzione alcuna. Il popolo non aveva nessuno che difendesse i suoi diritti sui beni pubblici; presto far pascolare sulle terre private divenne cosa da stupidi. Questo abuso fu sottoposto agli edili della plebe, i Publicii: fino a quel momento era mancato il coraggio di farlo. Il popolo ritrova i suoi beni e una multa è inflitta ai colpevoli. I difensori del popolo furono lodati per il loro impegno in favore dei beni pubblici. Una parte dei proventi della multa fu data a me e i vincitori istituirono dei nuovi giochi col favore di tutti. Una parte fu spesa per la sistemazione di una collina che allora era una rupe scoscesa: oggi è una via percorribile, che si chiama ‘Publicia’. (cfr. Antologia delle fonti, I.4 T24) (6) Livio, Ab urbe condita, XXI 63, 3-4 [Flaminius] inuisus etiam patribus ob nouam legem, quam Q. Claudius tribunus plebis aduersus senatum atque uno patrum adiuuante C. Flaminio tulerat, ne quis senator cuiue senator pater fuisset maritimam nauem, quae plus quam trecentarum amphorarum esset, haberet. id satis habitum ad fructus ex agris uectandos; quaestus omnis patribus indecorus uisus. [Flaminio] era odiato dai senatori anche per via di una nuova legge, proposta dal tribuno della plebe contro il senato, ma con l’appoggio di Gaio Flaminio, unico tra i senatori. Tale legge vietava a un senatore o aun figlio di un senatore di possedere una nave capace di portare più di trecento anfore. Tale quantità era ritenuta sufficiente per il trasporto delle derrate dai propri campi, poiché ogni tipo di attività commerciale era ritenuta indecorosa per un senatore. (7) Livio, Ab urbe condita, V 34. De transitu in Italiam Gallorum haec accepimus: Prisco Tarquinio Romae regnante, Celtarum quae pars Galliae tertia est penes Bituriges summa imperii fuit; ii regem Celtico dabant. Ambigatus is fuit, uirtute fortunaque cum sua, tum publica praepollens, quod in imperio eius Gallia adeo frugum hominumque fertilis fuit ut abundans multitudo uix regi uideretur posse. hic magno natu ipse iam exonerare praegrauante turba regnum cupiens, Bellouesum ac Segouesum sororis filios impigros iuuenes missurum se esse in quas di dedissent auguriis sedes ostendit; quantum ipsi uellent numerum hominum excirent ne qua gens arcere aduenientes posset. tum Segoueso sortibus dati Hercynei saltus; Belloueso haud paulo laetiorem in Italiam uiam di dabant.is quod eius ex populis abundabat, Bituriges, Aruernos, Senones, Haeduos, Ambarros, Carnutes, Aulercos exciuit. profectus ingentibus peditum equitumque copiis [...]. Ipsi per Taurinos saltus <saltum>que Duriae Alpes transcenderunt; fusisque acie Tuscis haud procul Ticino flumine, cum in quo consederant agrum Insubrium appellari audissent cognominem Insubribus pago Haeduorum, ibi omen sequentes loci condidere urbem; Mediolanium appellarunt. Le notizie che abbiamo circa la migrazione dei Galli in Italia sono queste. Durante il regno di Tarquinio Prisco a Roma, i Celti - che sono uno dei tre ceppi etnici della Gallia - si trovavano sotto il dominio dei Biturigi i quali fornivano un re al popolo celtico. In quel tempo il re in carica era Ambigato, uomo potentissimo per valore e ricchezza tanto personale quanto dell'intero paese, perché sotto il suo regno la Gallia raggiunse un tale livello di abbondanza agricola e di popolosità da sembrare che una tale massa di individui la si potesse governare a mala pena. E siccome Ambigato era ormai avanti negli anni e desiderava alleviare il proprio regno da quell'eccesso di presenze, annunciò che avrebbe inviato Belloveso e Segoveso, i due intraprendenti figli di sua sorella, a trovare quelle sedi che gli dèi, per mezzo degli augùrii, avrebbero loro indicato come appropriate. Erano autorizzati a convocare tutti gli uomini che ritenevano necessari all'operazione, in maniera tale che nessuna tribù potesse impedir loro di stanziarsi nel luogo prescelto. La sorte assegnò allora a Segoveso la regione della selva Ercinia, mentre a Belloveso gli dèi concedevano un percorso ben più piacevole, e cioè la strada verso l'Italia. Prendendo con sé gli uomini che risultavano in eccesso tra le tribù dei Biturigi, degli Arverni, dei Senoni, degli Edui, degli Ambarri, dei Carnuti e degli Aulerci, Belloveso si mise in marcia con un ingente schieramento di fanti e cavalieri [...]. Attraversarono quindi il territorio dei Taurini e valicarono le Alpi nella zona della Dora. Poi, dopo aver sbaragliato in campo aperto gli Etruschi non lontano dal fiume Ticino, e saputo che il punto in cui si erano accampati si chiamava "territorio degli Insubri" (nome identico a quello del cantone abitato dagli Edui), considerarono questa coincidenza un segno beneaugurale del destino e fondarono in quel luogo una città che chiamarono Mediolano. 2 (1) Polibio, Historiae, VI 57, 5-9 Quando uno stato (πολιτεία), liberatosi da molti e gravi pericoli, raggiunge un potere grande e incontrastato, con tutta evidenza, a causa del benessere diffuso, i suoi cittadini conducono una vita più sontuosa e diventano più ambiziosi di quanto sarebbe opportuno. Procedendo in questo modo, l’avidità di potere e la paura d restare ignorati segneranno l’inizio del declino; seguiranno l’eccessivo splendore e lo sperpero come ulteriori cause di decadenza. Apparentemente la rivolta inizierà dal popolo, che avrà l’impressione di essere oppresso dai concittadini avidi di potere e sarà adulato in ogni modo da chi ambirà alla cariche pubbliche. Perciò, divenuto orgoglioso e cedendo all’impulso della sua tracotanza, il popolo non vorrà più ubbidire e neppure essere alla pari con chi comanda, ma bramerà il potere illimitato. Di conseguenza, la forma di governo assumerà il nome, migliore fra tutti, di libertà e democrazia, ma in realtà sarà del tipo peggiore, cioè l’oclocrazia (ὀχλοκρατία). (cfr. Antologia delle fonti, I.1 T41) (2)Appiano, Bellum civile, I 7, 26-31 I Romani, man mano che conquistavano porzioni dell’Italia, si impadronivano di parte del territorio e vi fondavano città, oppure inviavano i propri coloni in quelle già esistenti: queste colonie erano per loro dei presìdi. Del terreno ottenuto con la guerra, invece, la parte coltivata era subito suddivisa tra i coloni, oppure venduta o affittata. Ma la parte che dopo la guerra rimaneva incolta, ed era la maggior parte, non avevano tempo di assegnarla in lotti, ragion per cui decretavano che nel frattempo la coltivasse chi voleva, dietro pagamento di un canone sui prodotti annui, un decimo per il seminato e un quinto per le colture arboree. Si stabiliva un canone anche per gli allevatori di bestiame sia grosso sia minuto. Agivano così allo scopo di far aumentare la popolazione italica (καὶ τάδε ἔπραττον ἐς πολυανδρίαν τοῦ Ἰταλικοῦ γένους), da loro ritenuta molto robusta: questo serviva ad avere alleati a portata di mano. Ma accadde l’esatto contrario. I ricchi (οἱ πλούσιοι), infatti, dopo aver occupato la maggior parte della terra indivisa e dopo aver ottenuto, col tempo, la sicurezza che nessuno l’avrebbe più tolta loro, compravano con la persuasione o sottraevano con la forza quelle altre proprietà di poveri che erano vicine ai loro possedimenti, così da coltivare estesi latifondi anziché semplici poderi (πεδία μακρὰ ἀντὶ χωρίων ἐγεώργουν). Per i lavori agricoli e per il pascolo si servivano di schiavi, poiché i liberi sarebbero stati distolti da tali occupazioni per via del servizio militare; inoltre questa manodopera offriva loro un grande guadagno, in considerazione della prolificità degli schiavi, i quali aumentavano senza rischio per via della loro esclusione dal servizio militare. In tal modo i ricchi lo erano sempre di più e gli schiavi aumentavano nelle campagne, mentre gli Italici diminuivano e vedevano peggiorare le loro condizioni, essendo rovinati dalla povertà, dai tributi e dal servizio militare (Ἰταλιώτας ὀλιγότης καὶ δυσανδρία κατελάμβανε, τρυχομένους πενίᾳ τε καὶ ἐσφοραῖς καὶ στρατείαις). Se poi trovavano un po’ di respiro da quest’ultimo, finivano per essere disoccupati, poiché la terra era in mano ai ricchi, i quali la facevano coltivare da lavoratori schiavi anziché liberi. (3) Varrone, de re rustica, I 17, 2 Omnes agri coluntur hominibus servis aut liberis aut utrisque: liberis, aut cum ipsi colunt, ut plerique pauperculi cum sua progenie, aut mercennariis, cum conducticiis liberorum operis res maiores, ut vindemias ac faenisicia, administrant, iique quos obaerarios nostri vocitarunt et etiam nunc sunt in Asia atque in Aegypto et in Illyrico complures. De quibus universis hoc dico: gravia loca utilius esse mercennariis colere quam servis, et in salubribus quoque locis opera rustica maiora, ut sunt in condendis fructibus vindemiae aut messis. Generalmente la terra è coltivata da schiavi, da liberi, o da entrambi: da liberi o se si tratta di persone che la coltivano da soli, come fanno perlopiù i poveri (pauperculi) con i propri figli, o se si tratta di salariati (mercennarii), cioè quando si assume manodopera libera per svolgere i lavori maggiori, ad esempio la vendemmia o il taglio del fieno, senza contare quelli che da noi si chiamavano obaerarii e che ora si trovano in gran numero in Asia, Egitto e Illirico. Su tutti costoro la mia opinione è che sia più utile far coltivare i luoghi malsani ai liberi piuttosto che agli schiavi, mentre per i luoghi salubri, ai liberi sia meglio affidare i compiti più pesanti, come lo sono, al momento del raccolto, la vendemmia e la mietitura. (cfr. Antologia delle fonti, I.4 T20) (4) Lapis Pollae (CIL, I2 638) Viam fecei ab Regio ad Capuam et / in ea via ponteis omneis, miliarios / tabelarios poseivei. [...] / Et eidem praetor in / Sicilia fugiteivos Italicorum / conquaeisivei redideique / homines DCCCCXVII. / Eidemque / primus fecei ut de agro poplico / aratoribus cederent paastores. / Forum aedisque poplicas heic fece[i]. Ho costruito la via da Raggio a Capua e su questa ho posto tutti i ponti, i miliari e le indicazioni delle distanze. [...] / E quando ero pretore in Sicilia catturai e riportai 917 schiavi degli Italici che erano fuggiti. / E fui il primo a ottenere che sull’agro pubblico i pastori cedessero spazio ai contadini. / Ho costruito il foro e gli edifici pubblici che si trovano 3 qui. (5) Livio, Periochae, LVI Ad exsolvendum foederis Numantini religione populum Mancinus, cum huius rei auctor fuisset, deditus Numantinis non est receptus. [...] Cum bellum Numantinum vitio ducum non sine pudore publico duraret, delatus est ultro Scipioni Africano a senatu populoque R. consulatus; quem cum illi capere ob legem, quae vetabat quemquam iterum consulem fieri, non liceret, sicut priori consulatu legibus solutus est. [Ostilio] Mancino fu consegnato ai Numantini, affinché il popolo potesse correttamente annullare il trattato da questi stipulato, ma fu rifiutato. [...] Poiché la guerra contro Numanzia si prolungava per colpa dei comandanti, con grande vergogna per lo stato, il senato e il popolo romano offrirono spontaneamente il consolato a Scipione [Emiliano] Africano, ma poiché costui non poteva rivestire la carica a causa della legge che vietava l’iterazione del consolato, fu sollevato dal vincolo della legge, come era già accaduto col primo consolato. (cfr. Antologia delle fonti, I.2 T81) (6) Livio, Periochae, LVIII Tib. Sempronius Gracchus trib. pleb. cum legem agrariam ferret adversus voluntatem senatus et equestris ordinis: nequis ex publico agro plus quam mille iugera possideret, in eum furorem exarsit, ut M. Octavio collegae causam diversae partis defendenti potestatem lege lata abrogaret, seque et <C.> Gracchum fratrem et Appium Claudium socerum triumviros ad dividendum agrum crearet. promulgavit et aliam legem agrariam, qua sibi latius agrum patefaceret, ut idem triumviri iudicarent, qua publicus ager, qua privatus esset. deinde cum minus agri esset quam, quod dividi posset, sine offensa etiam plebis, qu<oni>am eos ad cupiditatem amplum modum sperandi incitaverat, legem se promulgaturum ostendit, ut his, qui Sempronia lege agrum accipere deberent, pecunia, quae regis Attali fuisset, divideretur. Il tribuno della plebe Tiberio Sempronio Gracco propose una legge contro il volere del senato e dell’ordine equestre, secondo la quale nessuno era autorizzato a possedere più di mille iugeri di agro pubblico. La sua follia si spinse talmente oltre che fece togliere per legge le prerogative tribunizie al suo collega Marco Ottavio, il quale sosteneva le ragioni del gruppo politico avversario. Fece eleggere tre uomini preposti all’assegnazione delle terre: se stesso, suo fratello Gaio e suo suocero Appio Claudio [Pulcro]. Per avere più terra da distribuire, fece approvare una seconda legge che conferiva ai triumviri agrari il potere di giudicare quale terreno fosse pubblico e quale privato. In seguito, poiché c’era una quantità di terreno assegnabile inferiore alle aspettative che lui stesso aveva creato nella plebe, affermò l’intenzione di far approvare una legge che distribuisse tra i beneficiari della lex Sempronia il denaro che era appartenuto al re Attalo [di Pergamo]. (7) Plutarco, Tiberius Gracchus, 15 [Tiberio] disse che il tribuno della plebe è sacro e inviolabile perché è consacrato alla plebe e tutela la plebe. Se dunque agisce in maniera diversa e danneggia la plebe, ne limita il potere, le impedisce di votare, allora si toglie da solo la sua carica, poiché non fa quello per cui l’ha ricevuta. Se un tribuno distrugge il Campidoglio e incendia l’arsenale, bisognerà lasciarglielo fare: agendo in questa maniera è un cattivo tribuno; ma se distrugge l’autorità della plebe, allora non è un tribuno! Ma non è illogico che un tribuno possa arrestare un console e la plebe non possa revocare il potere di un tribuno se usato contro chi glielo ha conferito? La figura del re riuniva in sé tutti i poteri ed era sacra agli dèi per via delle massime funzioni religiose che le competevano; eppure la città espulse Tarquinio perché agiva ingiustamente: a causa della tracotanza di uno solo fu eliminata l’istituzione che aveva fondato Roma. E cosa c’è a Roma di così sacro e venerabile quanto le vergini vestali che custodiscono il fuoco eterno? Eppure se una di loro sbaglia viene sepolta viva: quando queste commettono un sacrilegio nei confronti degli dèi, perdono l’inviolabilità che hanno ricevuto dagli dèi. E allora non è neanche giusto che un tribuno della plebe che danneggi la plebe mantenga l’inviolabilità che ha ricevuto per tutelare la plebe: così facendo annulla quel potere su cui si fonda la sua inviolabilità! […] Che la carica di tribuno della plebe non sia inviolabile né irrevocabile lo dimostra il fatto che, in diversi casi, alcuni che l’avevano vi abbiano rinunciato e si siano dimessi spontaneamente. 4
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