incontri di lettura antonio alberto clemente napòlide legge di erri de luca INIZIATIVA DEI RICERCATORI DELLA SEZIONE ARCHITETTURA E URBANISTICA coordinamento operativo a cura di Antonio Alberto Clemente UNIVERSITÀ DEGLI STUDI “G. D’ANNUNZIO” - DIPARTIMENTO DI ARCHITETTURA VIALE PINDARO 42 65127 PESCARA - ITALIA www.dda.unich.it [email protected] Grafica Massimo Padrone, Raffaella Massacesi incontri di lettura letteral’mente: introduce Matteo Di Venosa legge Antonio Alberto Clemente Erri De Luca, Napòlide, Dante e Descartes, Napoli 2006 incontro02.2014 4 Si staccano così le foglie, i capelli, le gocce, le pagine. Me ne andai di casa nell’anno 1968, mio diciottesimo, dopo un’infanzia smaltita come una quarantena. Scelsi il treno, l’orario, non mi affidai al caso di un passaggio: volevo governare la partenza. Presi posto al finestrino e restai fisso a guardare fuori la processione del mio addio. Mentre mi staccavo, la città mi finiva sotto pelle come quegli ami da pesca che, entrati dalle ferite, viaggiano nel corpo, inestirpabili. Nel chiasso delle molte porte sbattute, la mia, la chiusi piano. Mio padre piangeva con singhiozzi regolari il cui ritmo, conficcato a chiodo nelle orecchie, ho ripetuto sul cantiere quando, battendo col martello sullo scalpello, mi è rintoccato tra le mani. Mi lasciò andare senza una bestemmia. I suoi resti stanno in collina vicino a una ferrovia locale, con vista sopra un lago. Se il verbo tornare ha per me un senso e un indirizzo, se anch’io ho un posto dove tornare, è quella collina. Tornare per me è verbo di bisbigli, non di geografia. 6 A Napoli quando scendo gli scalini del treno, non mi sento tornato. Invece mi sento solo, con un diritto più intimo di quello che provo altrove. Sono d’accordo con lei, con la città: chi non c’era, chi è mancato, ora non c’è, è decaduto il suo diritto di cittadinanza. Ora è uno dei tanti passanti che essa accoglie, senza opporre resistenza, lo straniero imbambolato che nessuno scaccia, sbirciato come me merce da raggiro. Ho rispetto del diritto di rigurgito che la città applica a chi se ne allontana. Se rispondo di me presso di lei è perché porto i panni dell’ospite, non del cittadino. E se non ho il diritto di definirmi apolide, posso dirmi napòlide, uno che si è raschiato dal corpo l’origine, per consegnarsi al mondo. Mai più ho attecchito altrove. 7 Se Napoli è barocca, la mia vita e il corpo no, si sono arredati in altro stile: però il naso del ritorno, che fiuta materiali inerti, di officine spente, il naso che presiede ai ricordi, quello è barocco. Cerca il cascame, il tanfo, lo smalto del consunto, la barca affondata ogni primavera per inzupparne bene il legno prima di riusarla. Il naso sa un solo amore e comanda agli occhi. Non si lacrima di cipolle perché irritano gli occhi, ma perché attaccano il naso: se non si respira, non si piange. Anche se il mio è spezzato da una caduta in montagna e ci sente poco, è una mucosa barocca e mi fa lacrimare quando respiro il taglio. 8 Mi fermo a questo, non vado e non vedo oltre la superficie, il tatto, tactus in latino: quello che ci ha toccato, che poi è molto di quello che ci è toccato. La pelle d’oca è una reazione di superficie. Napoli è una città di contropelo, di quelle che sfregano unghie sulla lavagna e lama di coltello sul marmo. Ai suoi inquilini suscita sfoghi cutanei. Chiunque scende a Napoli lo sa da prima: gli capiterà di essere toccato molte volte. Le città che smettono sul mare digradano volentieri verso le onde attraverso passaggi angusti. Forse per difesa, perché il nemico si addentri scomodamente in esse per imbuti, strozzature, gole. 9 Da Napoli è stato bandito l’agio di muoversi. Il passante si inoltra nel labirinto cieco del tocco e del ritocco, dell’invadenza del prossimo suo presso se stesso. Struscio, scansamento, rinculo e percussione sono tecniche primarie del procedere. È invece vana la simulazione della fretta, pantomima altrove efficace a farsi largo. La fretta qui è considerata la manifestazione di un disturbo nervoso. Si è parte di una vischiosità generale che non si può aggirare, in cui si districa meglio chi più sguscia sfruttando la spinta dei corpi altrui, anziché esercitarne una propria. Si è immersi per strada in una dinamica dei fluidi. Non è stata estratta una formula che illustri questo fenomeno: che le strade di Napoli sono flussi regolati da una crisi. Al punto di massimo intralcio si determina una fluidità che sospende in parte la gravità dei corpi, dotandoli di leggerezza e di oleodinamicità. È l’effetto che si manifesta nella vasca dei capitoni. 10 È solo in questa seconda parte di secolo, per la prima volta nella loro storia, che gli agiati della città si sono allontanati dalla densità abitativa del centro. In comprensori relativamente più spaziosi riescono a somigliare agli agiati di altre città e i loro figli condividono l’incerto onore di essere scambiati con la gioventù benallevata di Roma o di Milano. Un tempo si era popolo fitto. Tutto lo smaniare di mosse sotto le parole serviva a spingere la voce in mezzo agli altri, a farle spazio e ascolto. I gesti salivano dal termitaio, dovevano dar forza al dialetto, alla stenografia degli insulti, affari, avvisi, esclamazioni, guai. Ma dove Napoli conserva ancora la sua densità, la mescola preziosa della promiscuità la salva da assomigliare ad altro che a se stessa. Toccare, parlare, mai lasciare inerte il corpo: è la terapia per i casi di coma. A Napoli è premura che i cittadini gratuitamente si dispensano l’un l’altro. 11 Mi ha fatto del bene, non morale ma sanitario, l’infanzia trascorsa in una città di rianimazione. C’era tanta di quella vita impestata, invincibile, nella città d’infanzia da far diventare buono a ogni mestiere un ragazzo cresciuto in una botte di libri. Mi ha addestrato i sensi, così ho potuto tenere il mio posto nell’intruglio acustico di un’officina, nella polvere perpetua dei cantieri. Lo strozzamento dei pori appreso in fresca età mi ha procurato l’indifferenza ai topi che mi ballavano tra i piedi in certi lavori di cantine e di solai, la resistenza al vomito nello sturo di fogne, ai pipistrelli delle sere d’Africa fitti più delle zanzare. 12 Quando ero dei suoi, i cittadini avevano chiuso il mercato delle esperienze: le possedevano già. Detenevano tutti i comportamenti, un repertorio di riflessi automatici, la cui perfezione ho rivisto solo nelle specie animali. I bambini per strada sapevano tutto quello che c’era da fare, campare, giocare, scansare, prendere schiaffi, colpi al volo. Erano grandi incassatori, come si dice di alcuni pugili. Tutti erano esperti, niente li poteva sorprendere, «nisciuno» era fesso né per ingenuità né per difetto. I fessi erano morti da piccoli. Nella città c’era un albero della conoscenza del bene e del male, più grande il fogliame del male, esposto a sud. Era un albero locale e non era stato proibito, perciò tutti ne avevano mangiato. Tutti sapevano cosa fare e come. 13 Napoli mi ha addestrato agli altri. Ho potuto vivere per più di un anno in due stanze di Catania con altri cinque operai, sei brande e tre turni di lavoro mischiati tra noi notte e giorno. Ognuno di noi dormiva cucinava, lavava i panni, scriveva a casa in orari diversi. Se ho esempio della parola civiltà, sono i nostri passi in punta di piedi tornando all’alba dal turno di notte, mentre fuori era già baccano, e lo spogliarci nell’ingresso per non svegliare gli altri nelle stanze. In seguito ho scritto in luoghi stretti in poco agio, condizione adatta alle storie. Chi scrive non deve occupare troppo spazio e neanche troppo silenzio intorno. Ho scritto da luoghi stretti, di poco agio perché vengo da un fitto di umanità di una città stracolma: né uscio né finestra sbarrata salvava dalla zuppa sonora di liti, pranzi, sciacquoni, feste, lutti e insonnie altrui. Non ci si poteva opporre, tapparsi gli organi: la densità tracimava consumava l’aria. Il dialetto era lingua da asfissiati, breve per consumare meno aria. 14 Il dialetto è come lo sport: deve essere appreso in prima età. Contiene destrezze muscolari abilità, passi e scorciatoie inammissibili fuori del campo. Lo uso per consuetudine con mia madre e questo è uso di molte comunità. Gli ebrei dell’Europa orientale chiamano lo yiddish mamelòshn, lingua di mamma […] Chi ha smesso di usare il dialetto è uno che ha rinunciato a un grado di intimità col proprio mondo e ha stabilito distanze. Ne ho marcate molte anch’io, ma conservo per mia salvezza un resto di quegli affondi bruschi di senso e di contatto che sono possibili solo in mamelòshn, il napoletano per me. 15 Napoli viene da oriente, il Tirreno fu solco di vele dall’Egeo. I marinai del grecale vennero a fondare una polis tutta nea e le dettero un nome di ragazza: da allora per chi c’è nato, Napoli è una costola. Chi perde questo luogo è per forza disorientato. Mi è capitato di vedere Napoli sotto altre città. Sotto Gerusalemme, non la geografica, ma la scritta nelle storie sacre, la città in cima alle salite: la lingua ebraica, quando non la maledice, la nomina con un affetto parallelo, anche se superiore, a quello delle canzoni napoletane dedicate al luogo. 16 C’è in quella lingua sacra una particella d’incoraggiamento che si aggiunge di solito a un verbo e va intesa come un «dài», «per piacere», a scopo di smussare un imperativo. Questa particella è na. La più terribile richiesta di Iod/Dio, quella ad Abramo di sacrificare il figlio, è accompagnata da un na che trasforma un ordine in una richiesta, in una preghiera dall’alto verso il basso, contromano rispetto al senso unico di marcia delle suppliche. Mi piace che sia na: anche da noi gli ordini si stemperano in richieste. La vera differenza tra tedeschi e napoletani sta proprio nel maneggiare gli ordini. I tedeschi sono abituati a mettere molta invettiva e molto zelo nel tradurre in pratica ordini a volte generici. I napoletani applicano l’intelligenza a inceppare, ad aggirare ordini meticolosi e procedure. Da noi un comando va somministrato con l’apparato della discrezione e dell’invito; solo così suscita un sentimento di collaborazione e ottiene una risposta. Se anche la divinità chiedendo mette un na di esortazione, siamo autorizzati a considerare gli ordini come inviti. 17 Ho dirottato su Napoli una frase di Ezechiele profeta su Gerusalemme assediata: «Lei [la città] è la pentola e noi siamo la carne». Sono stato bambino in una città pentola, ma ho dovuto leggere l’Antico Testamento per saperlo. Perciò Napoli è diventata sotto lettura una controfigura di Gerusalemme. […] 18 Ho letto Napoli sotto Gerusalemme e l’ho vista a Mostar tra le case martellate, sulle facce magnifiche, miserabili dei musulmani slavi della sponda est, signori d’altra epoca in mezzo a macerie insanabili e morti sepolti nei giardini. Negli sciami di bambini ho rivisto i miei d’infanzia. I bambini napoletani di Mostar est uscivano per le vie sotto l’incerta tregua del maggio 1994 incontro ai nostri furgoni. Sgambettavano al sole di guerra che li aveva costretti a stare tanti mesi al buio delle cantine assiderate. […] 19 Si vuole che la città appartenga al Sud, anche se si trova al centro del Mediterraneo, che è il continente e contenitore della penisola. Siamo d’Europa solo per la cresta di gallo delle Alpi, siamo di mare per tutto il resto del corpo. Per chi è nato qui, in questo esatto centro, dirsi del Sud è un errore geografico recente, dovuto all’unità d’Italia. Se tracci una linea da Marsiglia a Beirut, da Trieste a Tripoli, dal delta del Nilo a quello del Rodano, dalla Voiussa all’Ebro, trovi lì la città, bisettrice del mare che rende Africa e oriente, slavi, arabi e latini, popoli di un’unica riviera, tutta gente di costa. Quel mare è la stanza su cui si aprono le nostre porte, comprese le acque del Mar Nero e la città di Odessa, carica di vigne e di fichi, di pagine meridionali scritte dal suo Isaak Babel’. 20 Napoli è stata questo corpo lavorato dai popoli, dal sottosuolo, provato e riprovato e scoperto più grande dalla prova. La sua pazienza è frutto di un vulcano che è lì per sprofondarla di ceneri. Pacienza: è parola locale che mette insieme la voce «patire» con quella del darsi pace; virtù del sistema nervoso capace di reggere vite impossibili. Non è una rassegnazione, ma il più alto stato civile dell’esperienza, una santità di marinai in terra che sanno dormire nelle tempeste. Pacienza a occhi asciutti «comm’ all’esca, come l’esca: che era un calamaro, un totano che si tagliava a pezzetti e s’asciugava sul legno della barca mentre si pescava. Pacienza di vivere accussì che non è solo «così», ma un andarci incontro e addosso al «così», di vivere «al così», per attaccamento al luogo. Chi parte o muore ha perso la pacienza e l’accussì. 21 Dopo diciotto, uno: tornai nell’inverno tellurico del 1980. Cominciava con sgomberi, macerie e polvere un decennio di stanze vuote per uomini dispersi. Molti dei miei abitavano in prigione, io fuori. Mio domicilio allora era un avverbio di luogo: fuori. Napoli era città stremata e tremata, ancora brividi e sciami si scaricavano sulle zolle di tufo. […] Ero di nuovo lì ma non aggiungevo un anno a quei primi diciotto. Quelli erano intera pianta, questo, invece, era un bastone caduto da quel legno. Non per soccorso, non per richiamo della patria crollata, per nessuna di queste intenzioni ero di nuovo lì, ma per amore, voce del caso che si traveste di necessità. Mi ero innamorato in una sera d’inverno, in una pizzeria di Fuorigrotta, di una ragazza che mi sedeva accanto. Sarei mai partito se l’avessi conosciuta? […] Quando l’anno finì mi chiese di non toccarla più. […] 22 Era tardi. Non la ragazza mi chiedeva di non toccarla, ma la città: perché le città coincidono con un amore, si è cittadini per virtù di abbracci e io lo sono stato per un anno. E dopo nient’altro da toccare. Mio padre non mi rimpiangeva più, i suoi occhi asciutti guardavano volentieri dal balcone, ma non riuscivano a vedere lo slargo smagliante dell’azzurro. Non distingueva il cielo dal mare. Così Napoli si chiuse dietro di me, tenda su tenda a ritirare luce, come nella retina stracciata del mio cieco affacciato. Antonio Alberto Clemente (1963) è Ricercatore presso il Dipartimento di Architettura dell’Università “G. D’Annunzio” Chieti- Pescara. Insegna Urbanistica nel Corso di Laurea di Ingegneria delle Costruzioni Ha svolto numerose ricerche nel settore urbanistico, è autore di alcune voci per l’Enciclopedia di Architettura dell’UTET. Ha scritto: Riletture. Città e teorie dell’urbanistica (2012), Il termine città, nella rivista Urbanistica (2010), Contesto e cura del territorio, nella rivista Piano Progetto Città (2010), Città con fine in Apocalisse. Modernità e fine del mondo da Liguori (2008), La città inumana in L’età dell’inumano (2005) e Ritrovarsi smarriti in Finisterrae (2007) da Carocci, Letture dimenticate in A partire da Giancarlo De Carlo da Gangemi (2007). 1. Al centro del dibattito c’è il testo, i temi, i problemi e le considerazioni che propone 2. Il relatore presenta il testo commentandolo con l’obiettivo di mettere il pubblico in grado di discuterne 3. È compito del relatore formulare temi e problemi che vorrebbe affrontare durante la discussione 4. Gli interventi non devono superare i 3 minuti 5. Ognuno deve poter finire il proprio discorso senza essere interrotto 6. Un intervento non deve contenere attacchi personali 7. Il moderatore deve salvaguardare queste regole e, se necessario, interrompere chi interviene a sproposito LE REGOLE DI
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