Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza DIRITTO E SCIENZA Rivista giuridica telematica Anno 2014 Settembre N. 9 Diritto e scienza 2014/9 Pag. 1 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza La giurisprudenza normativa a cura di Marco Betzu e Francesca Delogu Revisione e coordinamento Francesco Bellomo Diritto e scienza 2014/9 Pag. 2 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza PRESENTAZIONE DEL NUMERO Keating: Grazie mille, Pitts. ‘Cogli la rosa quando è il momento’ in latino, invece, si dice ‘Carpe diem’. Chi lo sa che cosa significa? Maeks alza il dito e risponde: ‘Carpe diem’, cioè cogli l’attimo. Keating: Molto bene, signor? Maeks: Maeks. Keating: Maeks, mi ricorderò il suo nome. Cogli l’attimo, cogli la rosa quando è il momento. Perché il poeta usa questi versi? Charlie: Perché va di fretta! Keating: No, diing! Grazie per aver partecipato al nostro gioco. Perché siamo cibo per i vermi, ragazzi! Ognuno di noi, un giorno smetterà di respirare, diventerà freddo e morirà. Adesso, avvicinatevi tutti e guardate questi visi del passato – indica le foto di classe del passato esposte insieme ai trofei e alle coppe nella vetreria dell’Accademia – Lì avete visti mille volte, ma non credo che li abbiate mai guardati, non sono molto diversi da voi: stesso taglio di capelli, pieni di ormoni come voi, invincibili come vi sentite voi. Il mondo è la loro ostrica, pensano di essere destinati a grandi cose, come molti di voi, i loro occhi, pieni di speranza, proprio come i vostri. Avranno atteso finché non è stato troppo tardi per realizzare almeno un briciolo del loro potenziale? Perché vedete, questi ragazzi, ora, sono concime per i fiori, ma se ascoltate con attenzione, li sentirete bisbigliare il loro monito. Coraggio, accostatevi, sentite? ‘Carpe diem, carpe diem ...’ cogliete l’attimo, ragazzi, rendete straordinaria la vostra vita. Se il monito del prof. Keating entusiama gli individui non meno di quanto essi stessi lo disattendano, è per la sua intrinseca debolezza gnoseologica. Al contrario, la teoria dell’agente superiore illustra scientificamente i passi da compiere per realizzare l’ideale umanistico sotteso al verso oraziano. A leggere le sentenze dei nostri giudici – categoria che massimamente a quella teoria dovrebbe ispirarsi – si ha però la sensazione che ‘carpe diem’ resti, in effetti, un’incitazione poetica. Così, al rigore logico del matematico, troppo spesso esse sostituiscono la creatività dell’artista e la debolezza dell’uomo. Questa, ad essere semplici, è la giurisprudenza normativa. Francesco Bellomo Diritto e scienza 2014/9 Pag. 3 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza DIRITTO CIVILE SOMMARIO: 1. Il ruolo del giudice negli ordinamenti di civil law. – 2. Il valore del precedente giudiziario. – 3. L’overruling. – 4. La giurisprudenza normativa su delega legislativa: le clausole generali. 1. Il ruolo del giudice negli ordinamenti di civil law In un importante saggio degli anni Sessanta, Luigi Lombardi proponeva di distinguere tra una giurisprudenza rispetto alla quale i testi normativi mantengono una funzione di fondamento e verifica, da una diversa giurisprudenza «contro cui la pura logica interpretativa è impotente»1, descrivendo la prima con l’espressione ‘momento giurisprudenziale del diritto’ e la seconda con la formula ‘diritto giurisprudenziale’. Oggi, il nodo gordiano sotteso all’interrogativo se anche nei sistemi di civil law abbia cittadinanza un ‘diritto giurisprudenziale’, inteso nel senso accennato, e quale sia il suo legittimo campo d’azione è ancor lungi dall’essere sciolto. La questione è antica, forse anche oziosa2, ma ha recentemente ripreso vigore in ragione di un rinnovato protagonismo della giurisprudenza, sia civile che amministrativa la quale sempre più finisce per esercitare una funzione nomopoietica. Significative, in tal senso, una serie di vicende. La prima concerne la vexata quaestio dell’ammissibilità dell’azione atipica di accertamento nel giudizio amministrativo. La giurisprudenza era in prevalenza ostile, ma ha modificato il proprio orientamento dopo l’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo (D.Lgs. n. 104 del 2010). La svolta è risalente a una pronuncia del Consiglio di Stato nella massima composizione3, secondo la quale, nell’ambito di un quadro normativo sensibile all’esigenza costituzionale di una piena protezione dell’interesse legittimo come posizione sostanziale correlata ad un bene della vita, la mancata previsione nel testo finale del Codice del processo dell’azione generale di accertamento non precluderebbe la praticabilità di una tale tecnica di tutela. Essa, infatti, oltre che ammessa dai principali ordinamenti europei, troverebbe fondamento nelle norme immediatamente precettive dettate dalla Costituzione al fine di garantire la piena e completa protezione dell’interesse legittimo dinnanzi a esigenze di tutela non suscettibili di essere soddisfatte in modo adeguato dalle azioni tipizzate. Sulla base di principi generalissimi i giudici amministrativi hanno, dunque, riconosciuto un’azione processuale generale di cui non 1 L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1967, spec. p. 506 ss., ove il termine diritto giurisprudenziale, tuttavia, è più ampio del diritto giurisdizionale, comprendendo l’attività dei giuristi generalmente intesi, siano essi i giudici, la dottrina o gli operatori qualificati. 2 R. BIN – G. PITRUZZELLA, Le fonti del diritto, Torino, 2009, p. 23. 3 Cons. Stato, Ad. Pl. n. 15 del 2011. Diritto e scienza 2014/9 Pag. 4 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza c’è traccia nel Codice, «invertendo il rapporto di causa ed effetto: l’atipicità della tutela viene affermata sulla base dell’atipicità della norma, per cui se la norma c’è, la tutela è tipica (annullamento, condanna); se la norma non c’è, la tutela è atipica (accertamento)»4. La seconda riguarda una recente decisione5 con la quale la terza sezione civile della Corte di Cassazione, operando un significativo overrulling, ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, oltre che in capo ai genitori, anche in favore del bambino che sia nato affetto da malformazioni non diagnosticate nel corso della gravidanza. Come è noto, la giurisprudenza ha sempre negato l’esistenza di un ‘diritto a non nascere se non sano’, perché ipotizzare il diritto del concepito malformato di non nascere significa concepire un diritto che solo se viene violato ha un titolare, ma se violazione non vi è (e quindi non si fa nascere il malformato per rispettare il suo diritto di non nascere), non vi è mai un titolare6. La Cassazione, invece, per riconoscere di fatto la risarcibilità del medesimo interesse, arriva a sostenere che «una corretta e coerente attuazione dei principi cardine della giurisprudenza degli interessi […] sembra condurre alla conclusione che tutte le norme, costituzionali e ordinarie, volte a disciplinare il delicato territorio del concepimento considerino il concepito come un oggetto di tutela necessaria»7, qualificando il concepito «come oggetto di tutela e non anche come soggetto di diritto»8 e attribuendogli, infine, il risarcimento del danno da lesione della salute, originatasi al momento del concepimento. Così opinando viene inventato un nuovo diritto, «quello del nascituro (una volta in vita), oggetto di tutela da parte dell’ordinamento, alla procreazione cosciente e responsabile»9, di cui non v’è traccia nella legge n. 194 del 1978, e si viola palesemente il dettato costituzionale, nel quale invece il diritto alla vita è riconosciuto a tutti dall’art. 2 Cost., anche al feto malformato, con buona pace della Cassazione10. Le premesse teoriche di un simile argomentare sono state poste proprio dal precedente che la sentenza richiamata ha cercato di confutare. Il riferimento è a un’importante decisione della medesima sezione («tot capita, tot sententiae»11), resa tre 4 F. BELLOMO, Nuovo Sistema del diritto amministrativo, vol. III, Bari, 2013, p. 429. Cass. civ., sez. III, n. 16754 del 2012. 6 Cass. civ., sez. III, n. 14488 del 2004; Cass. civ., sez. III, n. 10741 del 2009, in Foro it., 2010, I, p. 141, con nota critica di DI CIOMMO, ‘Giurisprudenza-normativa’ e ruolo del giudice nell’ordinamento italiano. 7 Cass. civ., sez. III, n. 16754 del 2012, cit. 8 Ibidem. 9 Ibidem. 10 Critiche analoghe in M. GERBI, Dalla vis expansiva dell’azione di wrongful birth al superamento delle ultime barriere per il risarcimento al figlio non voluto: lo ‘stato funzionale di infermità’ come lasciapassare per l’esplicito accoglimento dell’azione di wrongful life, in Riv. It. di Medicina Legale, n. 2 del 2013, p. 1022 ss., secondo cui «Per questa via, il giudice di legittimità, lungi dal correre il pericolo, che è proprio dei cc.dd. ‘sistemi chiusi’, del mancato adeguamento ai continui mutamenti sociali, rischia di scivolare piuttosto sull’opposto crinale di un’indiscriminata arbitrarietà giudiziaria nell’attualizzazione del diritto, quella tipica dei cc.dd. ‘sistemi aperti’, i quali rimettono al giudice la creazione delle norme, sulla base di parametri anche socio-giuridici la cui valutazione può diventare davvero incontrollata». 11 F. D. BUSNELLI, La liquidazione della danno alla persona nella RCA tra legge, giurisprudenza e tabelle valutative, in www.personaedanno.it, 2012, secondo cui proprio la terza sezione appare «una 5 Diritto e scienza 2014/9 Pag. 5 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza anni prima, la quale, per riconoscere a fini risarcitori la soggettività giuridica del nascituro, aveva sostenuto che nell’incipiente sistema multilivello delle fonti (Costituzione, legislazione, normativa comunitaria e internazionale) «la giurisprudenza di legittimità assume sempre più rilievo», e il nostro ordinamento tende a configurarsi come semi-aperto, in quanto fondato «su indicazioni di ‘valori’ ordinamentali, espressi con formule generiche (buona fede, solidarietà, funzione sociale della proprietà, utile sociale dell’impresa, centralità della persona) che scientemente il legislatore trasmette all’interprete per consentirgli, nell’ambito di una più ampia discrezionalità, di ‘attualizzare’ il diritto, anche mediante l’individuazione (là dove consentito, come nel caso dei diritti personali, non tassativi) di nuove aree di protezione di interessi»12. Le conclusioni sanciscono il ruolo e i limiti della giurisprudenza normativa «In tal modo, con evidente applicazione del modello ermeneutico tipico della interessenjurisprudenz (c.d. giurisprudenza degli interessi, in contrapposizione alla begriffsjurisprudenz o giurisprudenza dei concetti quale espressione di un esasperato positivismo giuridico) si evita sia il rischio, insito nel c.d. sistema chiuso (del tutto codificato e basato sul solo dato testuale delle disposizioni legislative senza alcun spazio di autonomia per l’interprete), del mancato, immediato adeguamento all’evolversi dei tempi, sia il rischio che comporta il cd. sistema aperto, che rimette la creazione dette norme al giudice sulla base anche di parametri socio-giuridici (ordine etico, coscienza sociale etc.) la cui valutazione può diventare arbitraria ed incontrollata. La funzione interpretativa del giudice, i suoi limiti, la sua vis expansiva sono, dunque, funzionalmente collegati all’assetto costituzionale del nostro ordinamento quale Stato di diritto anch’esso caratterizzato dal Rule of law (vale a dire dal principio di legalità), assetto in cui il primato della legge passa necessariamente attraverso l’attività ermeneutica del giudice». La conseguenza è duplice: crisi della legge, che «non riesce a regolare la complessità del reale; non riesce a tener dietro alla vertiginosa accelerazione dei processi sociali»13, da cui deriverebbe, a cascata, la «trasformazione del ruolo partecipativo della giurisprudenza alla formazione della norma»14. Essa non potrebbe essere espunta dal novero delle fonti del diritto, perché l’attività giurisdizionale non sarebbe riducibile all’individuazione dei significati racchiusi nei testi giuridici, «ma, legandosi indissolubilmente alla vita, configura un’impresa ben più ampia legata alla ragionevolezza pratica e volta ad amministrare l’uso del diritto nelle società pluralistiche del nostro tempo»15. Come rilevabile dalle vicende sommariamente richiamate, non v’è dubbio che simili considerazioni fotografino con buona approssimazione la realtà attuale, che vede palestra di sentenze che veicolano dottrine agevolmente ricollegabili alla diversa personalità scientifica dei relatori». 12 Cass. civ., sez. III, n. 10741 del 2009, cit. 13 Intervento del Procuratore generale della Corte di Cassazione all’Assemblea Generale della Corte sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2008, 30 gennaio 2009. 14 Ibidem. 15 G. ZACCARIA, La storicità recuperata: l’insegnamento di Paolo Grossi, in Riv. dir. civ., 2013, 1, p. 171 ss. Diritto e scienza 2014/9 Pag. 6 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza operare, accanto al iussum positivo, uno ius giurisprudenziale sempre più pervasivo. Compito dello studioso, allora, non è soltanto quello di accertare l’esistente, ma anche e soprattutto quello di misurare il grado di conformità dell’essere al dover essere del diritto. Così ragionando, l’espressione ‘giurisprudenza normativa’, frequentemente utilizzata negli obiter dicta delle sentenze in un senso affatto diverso dall’originaria concezione kelseniana16, appare dotata di un’intrinseca valenza ossimorica, non essendo idonea a svelare la compatibilità tra applicazione e produzione normativa in un ordinamento di civil law nel quale legislatio e iurisdictio sono funzioni che la Costituzione attribuisce a poteri diversi. Non utili in chiave epistemologica si mostrano le rappresentazioni oggi alla moda che, attraverso suggestive aggettivazioni, tendono ad affidare alle corti l’individuazione dei diritti o la rilevazioni degli interessi di volta in volta meritevoli di tutela17. Non si vuol con questo riproporre l’antica teoria oggettivistica delle interpretazioni meccanicistiche del diritto18, in quanto qualsiasi giurista avvertito ben sa che ogni testo normativo non può essere del tutto compreso nell’insieme delle sue potenzialità espressive se non in relazione a un caso da decidere19. Si vuole, al contrario, sottolineare come la concezione che acriticamente qualifica il ‘diritto giurisprudenziale’ come fonte di produzione normativa sia ipostatizzante, perché in nome della lotta al ‘giacobinismo giuridico’20 arriva a legittimare il ‘giacobinismo giudiziario’, enfatizzando «oltre misura la libertà dell’interpretazione giurisprudenziale fino alla svalorizzazione del testo»21. La ‘giurisprudenza normativa’, per come intesa dagli Autori citati, è palesemente in contrasto con l’art. 101, comma 2, della Costituzione, secondo cui ‘I giudici sono soggetti soltanto alla legge’. È singolare che negli studi e nei dibattiti sul ruolo del giudice nell’interpretazione della legge questa disposizione costituzionale sia assai poco considerata, se non addirittura pretermessa. La dottrina ne ha spesso fornito interpretazioni riduttive, limitandosi a ritenere che essa coinciderebbe con il principio di indipendenza del giudice22 o, più recentemente, con l’impossibilità per il giudice di disapplicare la legge23. Altri l’hanno esplicitamente 16 H. KELSEN, General theory of law and State (1945), Teoria generale del diritto e dello Stato, tr. it., a cura di S. Cotta e G. Treves, Milano, 1952, p. 165 ss., ove l’A. distingue la giurisprudenza sociologica, che si interessa delle scelte effettivamente operate dagli interpreti, dalla giurisprudenza normativa, che attiene alle norme generali, delle quali mette in luce i diversi possibili significati. 17 Così L. CARLASSARE, Fonti del diritto (dir. cost.), in Enc. dir., Annali II-2, Milano, 2008, p. 544. 18 Concezione che, utilizzando le categorie di N. BOBBIO, Il positivismo giuridico, Torino, 1996, p. 250, suole definirsi giuspositivistica in senso stretto. 19 E quindi, per dirla con L. MENGONI, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano, 1996, p. 82, «attraverso un processo che non è soltanto di esplicazione del linguaggio della disposizione, ma anche di trasformazione del suo contenuto in una regola concreta di decisione». 20 P. GROSSI, Le molte vite del giacobinismo giuridico (ovvero: la carta di Nizza, il progetto di ‘Costituzione europea’ e le insoddisfazioni di uno storico del diritto), in Jus, 2003, n. 3, p. 405 ss. 21 L. CARLASSARE, Fonti del diritto (dir. cost.), cit., p. 544. 22 Cfr. C. GIANNATTASIO, La Magistratura, in P. CALAMANDREI – A. LEVI, Commentario sistematico alla Costituzione italiana, vol. II, Firenze, 1950, p 174. 23 Cfr. N. ZANON – F. BIONDI, Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna, 2014, p. 85: «essa coincide con l’impossibilità di disapplicazione della legge». Diritto e scienza 2014/9 Pag. 7 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza declassata a ‘retaggio’ di un momento storico superato, «in cui la positività del diritto poteva, tutto sommato, apparire come un dato quasi matematico del sistema che, come tale, precostituiva i modelli di operatività del giurista»24. Vero è che, invece, la soggezione del giudice alla legge esprime, al più alto livello, il principio della dipendenza del giudice alla legge stessa e soltanto ad essa, come incisivamente sottolineato da Piero Calamandrei nei lavori della Commissione per la Costituzione, in contrapposizione «a quegli ordinamenti giudiziari in cui il giudice non è vincolato dalla legge, ma decide soltanto caso per caso»25. Sostenere che la disposizione imponga il divieto per il giudice di disapplicare la legge, per quanto corretto, significa, invece, ricostruire la norma in negativo, indicando non già quello che deve essere fatto, ma quello che il giudice non può fare. Traducendo in positivo il disposto costituzionale, può meglio apprezzarsene la portata prescrittiva: in termini condizionalistici, è come se l’art. 101, comma 2, Cost. disponesse che ‘se un individuo esercita la funzione di giudice, allora è soggetto alla legge’, ove ad essere soggetto alla legge è chiaramente non tanto il giudice quale individuo (ipotesi che ricade nell’art. 54, comma 1, Cost.), ma l’esercizio della funzione giudicante, che deve essere svolta in conformità al diritto positivo26. Conformità altro non significa che tendenziale deducibilità: l’esercizio della funzione giurisdizionale è conforme alla legge in quanto il suo prodotto sia non semplicemente compatibile, ma «logicamente deducibile da norme di legge»27. La discrezionalità del giudice nell’interpretazione delle disposizioni di legge non è pura discrezionalità28, ossia individuazione della norma che il giudice ritiene più idonea a soddisfare l’interesse materiale che reputa prevalente, ma discrezionalità tecnica, individuazione della norma hic et nunc corretta entro la cornice di significati potenzialmente espressi dalla disposizione legale29. La ‘giurisprudenza normativa’ si pone, dunque, in diretto contrasto con la norma costituzionale, perché pretende di ricavare regole di condotta al di là della fonte di 24 A. GUSMAI, Il valore normativo dell’attività interpretativo-applicativa del giudice nello stato (inter)costituzionale di diritto, in Rivista AIC, n. 3/2014, p. 30. 25 Commissione per la Costituzione, Seconda Sottocommissione (Seconda Sezione), seduta del 13 dicembre 1946, in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea costituente, vol. VIII, p. 1918. 26 Così C. LAVAGNA, Istituzioni di diritto pubblico, Torino, 1985, p. 913, che tuttavia aggiunge, non condivisibilmente, il rispetto della «legge morale». 27 R. GUASTINI, Art. 101, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca – A. Pizzorusso, Bologna-Roma, 1994, p. 185, che si richiama a C. EISENMANN, Le droit administratif et le principe de légalité, in Etudes et documents du Conseil d’Etat, n. 11, 1957, p. 25 ss. 28 Del resto, per dirla con M. DOGLIANI, Il ruolo del giudice nell’interpretazione della legge, in Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari, Quaderno n. 17, Torino, 2007, p. 65, «l’interpretazione giudiziaria non è – solo – un’attività intellettuale libera. È un’attività istituzionalizzata e controllata, attraverso il sistema dei gradi di giurisdizione; è una funzione pubblica». 29 Per uno spunto in tal senso, nell’ottica di separare l’interpretazione dalla pura discrezionalità, si v. E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (1949), Milano, 1971, p. 161 ss.: «i caratteri che contraddistinguono l’interpretazione anche in funzione integrativa e ne fanno risaltare l’antitesi con la discrezionalità, sono: l’univocità, che conduce a riconoscere esatta, almeno teoricamente, una sola soluzione (in quel dato momento storico e in quella data situazione di fatto); quindi la prevedibilità e la rigorosa controllabilità del risultato, assicurate, almeno in teoria, dal fatto che in essa sono escluse valutazioni di mera opportunità con la possibilità di usare due pesi e due misure». L’immagine della ‘cornice’ risale, come è noto, a H. KELSEN, Dottrina pura del diritto (1960), Torino, 1966, spec. cap. VIII. Diritto e scienza 2014/9 Pag. 8 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza produzione legislativa30, ricavandole da valori o interessi che pretenderebbero soddisfazione e che il giudice sarebbe chiamato a tutelare. Una siffatta concezione, proposta in termini assoluti, propugna la centralità della vita spirituale e culturale della comunità di riferimento nell’attività di interpretazione della legge e in tal modo legittima un’invasione del potere giudiziario nel campo di attribuzioni del potere legislativo. Essa conduce a interpretazioni svalutative dei testi normativi, visti come entità «che galleggiano impassibili al di sopra del divenire storico»31, perché ne relativizza il significato, mediandolo sulla base delle idee di valore proprie dell’interprete (o, comunque, prevalenti nella società)32. Soggezione alla legge significa, in definitiva, negare il ‘diritto giurisprudenziale’ e ammettere il solo ‘momento giurisprudenziale’ del diritto. 2. Il valore del precedente giudiziario Alla luce di quanto osservato, la possibilità per il giudice di ‘creare diritto’ è accreditabile solo in un senso limitato e ben diverso da quello che la concezione della ‘giurisprudenza normativa’ vuole far intendere. Le pronunce giurisdizionali, infatti, pongono regole giuridiche soggettivamente relative e prive di efficacia erga omnes, come chiaramente desumibile dall’art. 2909 c.c., secondo cui ‘L’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa’. Ciò, del resto, non molto diversamente dai contratti, i quali, pur derivando dall’accordo dei privati, pongono regole di condotta che hanno sempre ‘forza di legge tra le parti’ (art. 1372, comma 1, c.c.) e, talvolta, effetti anche ‘rispetto ai terzi’ (art. 1372, comma 2, c.c.), ma non per questo sono mai stati annoverati tra le fonti del diritto. L’impossibilità di configurare la giurisprudenza come fonte del diritto non impedisce, peraltro, di riconoscere alla stessa un ruolo nel ragionamento giuridico, in virtù della più o meno forte efficacia persuasiva che le pronunce giurisdizionali, in quanto provenienti soprattutto dalle Corti di rango superiore, possono mostrare. I precedenti giudiziari non sono giuridicamente vincolanti in un sistema di civil law, non esprimono lo stare decisis et non quieta movere, ma possiedono comunque una carica persuasiva, in ragione dell’impianto argomentativo contenuto nella motivazione che li esprime33. Assumono, in questo senso, una valenza assimilabile alla soft law, 30 Ossia creando una norma individuale che non è deducibile dalla norma legislativa generale: si v. R. GUASTINI, Interpretare e argomentare, in Trattato di diritto civile e commerciale Cicu - Messineo, Milano, 2011, p. 332, nota 28, secondo cui in tal caso la decisione sarebbe arbitraria. 31 P. GROSSI, Un recupero per il diritto: oltre il soggettivismo moderno, in Paolo Grossi, a cura di G. Alpa, Bari, 2011, p. 165. 32 Si v., amplius, M. BETZU, Regolare Internet. Le libertà di informazione e di comunicazione nell’era digitale, Torino, 2012, p. 49 ss. 33 Ufficio del Massimario – Corte Suprema di Cassazione, Rassegna della giurisprudenza di legittimità. Gli orientamenti delle sezioni civili, anno 2013, p. XXI: «I ‘principî di diritto’ e le massime di giurisprudenza, in quanto esterni al sistema delle fonti del diritto, non sono vincolanti come si desume in modo inequivocabile dal precetto costituzionale dell’art. 101, secondo comma, Cost. che vuole i giudici essere soggetti soltanto alla legge. Il principio dello stare decisis tipico degli ordinamenti di common law, nella misura in cui predica l’efficacia vincolante del precedente sulla base di una differenziazione Diritto e scienza 2014/9 Pag. 9 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza neologismo utilizzato originariamente nel diritto internazionale e successivamente esteso a indicare, nell’ambito di «un percorso di crescente difficoltà che incontra la fonte legislativa a funzionare come era stata pensata in epoca illuminista»34, tutti quegli atti «qualificabili come ‘quasi-fonti’ cui corrisponde una sorta di zona-cuscinetto tra ciò che deve essere considerato a pieno titolo come diritto e ciò che invece può non esserlo»35, la cui osservanza deriva da persuasione e pressione dei soggetti coinvolti36. La caratteristica che consente di accostare i precedenti giudiziali alla soft law è l’essere utilizzabili quali indicazioni di principio nell’interpretazione del diritto legale37; come quella, anche i precedenti non sono fonti del diritto, ma entrano nel ragionamento giuridico e nell’argomentazione dell’atto che ne è il prodotto38. La contraria opinione, un tempo assolutamente minoritaria, ha ricevuto via via crescenti adesioni. L’assunto di fondo è che sulla base dell’art. 65, comma 1, ord. giud. (r.d. n.12 del 1942), che attribuisce alla Corte di Cassazione la funzione di assicurare ‘l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale’, esista un vero e proprio dovere giuridico di non distaccarsi dai precedenti giudiziali della Cassazione stessa, se non motivando e allegando gravi ragioni39. Dovere – si è aggiunto – che si estenderebbe a tutte le giurisdizioni e che prescinderebbe dalla formazione di una giurisprudenza costante della Cassazione nelle materie in cui essa non può intervenire: dinnanzi a una communis opinio giurisprudenziale, il singolo giudice non se ne potrebbe discostare se non adeguatamente motivando40. Tale è il diritto vivente; la Corte costituzionale, cui si deve la teorizzazione della dottrina del diritto vivente, tende a dichiarare inammissibili o manifestamente inammissibili le questioni sollevate dal giudice rimettente su un presupposto interpretativo contrastante con il diritto vivente. In sostanza come è priva di oggetto la questione di costituzionalità posta su un principio di diritto piuttosto che su una norma di legge, parimenti è priva di oggetto la questione posta su una norma di legge interpretata in modo difforme dal diritto vivente. gerarchica delle pronunce dei giudici, trova una preclusione nel suddetto parametro costituzionale. Il principio di diritto ha invece una valenza persuasiva, in ragione dell’impianto argomentativo contenuto nella motivazione che lo esprime». 34 M.R. FERRARESE, Soft law: funzioni e definizioni, in A. SOMMA, Soft law e hard law nelle società postmoderne, Torino, Giappichelli, 2009, p. 73. 35 A. PIZZORUSSO, Fonti del diritto, in Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, Disposizioni sulla legge in generale, Bologna-Roma, 2011, p. 151. 36 L. THIO, Soft Constitutional Law in Nonliberal Asian Constitutional Democracies, in Int. J. Const. Law (ICon), 2010, 8, p. 770. 37 Cfr. A. PIZZORUSSO, Fonti del diritto, cit., p. 55 s. 38 Contra, tra gli altri, B. PASTORE, Soft law, gradi di normatività, teoria delle fonti, in Lavoro e diritto, n. 1, 2003, p. 12 ss., secondo cui, posto che ‘fonte’ «è termine che rimanda all’insieme dei fattori che influiscono sulla produzione delle norme e questa influenza può variare: vi sono fonti che forniscono all’operatore giuridico immediatamente una norma valida e fonti che offrono soltanto idee, ispirazioni, orientamenti, effetti d’indirizzo, dai quali gli operatori devono trarre le norme», allora la soft law «fa parte del corpus normativo ed entra nel processo di positivizzazione. È, pertanto, una fonte del diritto, nel senso che è ritenuto capace di generare in qualche modo regole giuridiche». 39 G. GORLA, L’uniforme interpretazione della legge e i Tribunali Supremi, in Foro it., V, 1976, p. 127. 40 G. GORLA, Precedente giudiziale, in Enc. giur., Roma, 1991, p. 4 ss. Diritto e scienza 2014/9 Pag. 10 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza Alla produzione di quest’ultimo è deputata specificamente la Corte di cassazione che, da un lato, nel curare l’«esatta osservanza» della legge e nello svolgere quindi il sindacato di legittimità, opera sulla fattispecie concreta, ad iniziativa delle parti, e decide la causa (jus litigatoris); dall’altro lato, proprio mentre cura l’osservanza della legge nei singoli casi concreti, può, ciò facendo, produrre principî di diritto per la fattispecie astratta al fine di assicurare «l’uniforme interpretazione della legge» e «l’unità del diritto nazionale», così assolvendo alla funzione di nomofilachia (jus costitutionis). Funzione questa che da tempo è stata riconosciuta dalla Corte costituzionale che ha più volte affermato che è alla Corte di cassazione che ‘compete il magistero della nomofilachia’. Un rafforzamento di questa funzione nomofilattica rappresenta sul piano dei principî costituzionali da una parte una più piena realizzazione del principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.) e d’altra parte indirettamente favorisce anche la ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.) perché è proprio la certezza del diritto e l’affidamento sulla tendenziale stabilità dei principî di diritto a rappresentare un forte argine deflativo del contenzioso. Ulteriori spie normative vengono individuate nell’art. 363 c.p.c., che attribuisce alla Corte di Cassazione il potere di enunciare nell’interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi, e nell’art. 384 c.p.c., che impone alla medesima di enunciare il principio di diritto ‘quando decide il ricorso proposto a norma dell’articolo 360, primo comma, n. 3), e in ogni altro caso in cui, decidendo su altri motivi del ricorso, risolve una questione di diritto di particolare importanza’, nonché il potere di correggere la motivazione delle sentenze erroneamente motivate in diritto, quando il dispositivo sia conforme al diritto. Al di là delle disposizioni citate, i valori di fondo che la vincolatività del precedente sarebbe idonea a soddisfare sarebbero soprattutto la certezza del diritto e l’eguaglianza nel trattamento di casi analoghi. Soprattutto la certezza del diritto «diverrebbe davvero un mito, se il compito di attuarla fosse lasciato esclusivamente alla legge»41. D’altronde – si è aggiunto – costituirebbe una «indubitabile realtà»42 che il precedente giudiziale sia dotato in Italia di un’autorità di fatto, posto che «avvocati e giudici italiani lavorano soprattutto adoperando (e citando) la giurisprudenza, più che la legge»43. Considerazioni di analogo tenore sono state recentemente sviluppate nella già citata Rassegna della giurisprudenza di legittimità dell’anno 2013 dell’Ufficio del Massimario, ove si è sostenuto che il principio della soggezione del giudice ‘soltanto’ alla legge debba essere bilanciato con «un’altra esigenza che pure ha rilievo costituzionale: quella della certezza del diritto quale proiezione del principio di eguaglianza»44. 41 M. BIN, Funzione uniformatrice della Cassazione e valore del precedente giudiziario, in Contratto e impresa, 1985, p. 547. 42 M. BIN, Il precedente giudiziario. Valore e interpretazione, Padova, 1995, p. 61. 43 Ibidem. 44 Ufficio del Massimario – Corte Suprema di Cassazione, Rassegna della giurisprudenza di legittimità. Gli orientamenti delle sezioni civili, anno 2013, cit., p. XXV. Diritto e scienza 2014/9 Pag. 11 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza Tale bilanciamento sarebbe stato, infine, operato dal legislatore attraverso la normativa processuale più recente sul giudizio civile di Cassazione (d.lgs. n. 40 del 2006 e l. n. 69 del 2009), con la quale sono stati introdotti nel cod. proc. civ. strumenti diretti a rafforzare l’uniforme interpretazione della legge, in particolare l’art. 374 e l’art. 420 bis cod. proc. civ. dall’altro. Gli artt. 374 e 420 bis cod. proc. civ.) afferiscono direttamente all’attività interpretativa del giudice, rispettivamente della sezione semplice della Corte di cassazione rispetto a quella delle sezioni unite e dei giudici di merito rispetto a quella della Corte di cassazione. Non si tratta di un vincolo interpretativo, ma c’è un vincolo processuale che tocca l’attività interpretativa. Un’ulteriore disposizione (art. 360 bis cod. proc. civ.45) assegna un particolare rilievo – in termini di ammissibilità del ricorso (il c.d. ‘filtro’) – ai principi di diritto affermati dalla Corte di cassazione. Infine, è stato osservato come la nuova formulazione dell’art. 118 disp. att. c.p.c., secondo cui la motivazione ‘consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi’, avrebbe introdotto «una vera e propria ‘efficacia formale’ del precedente»46. Nessuna delle argomentazioni proposte appare, tuttavia, decisiva. Quella fondata sull’art. 65 ord. giud. pretende di istituire un nesso di derivazione necessaria tra la funzione nomofilattica attribuita alla Cassazione e la forza vincolante dei suoi precedenti, mentre di esso non v’è traccia nella disposizione, che non pone un vincolo alle giurisdizioni inferiori, ma impone a quella superiore il compito di sanzionare la ‘violazione o falsa applicazione di norme di diritto’ (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.), vincolando il solo giudice di rinvio nella decisione della medesima controversia47. Né, d’altronde, sembra accettabile interpretare in chiave svalutativa una disposizione costituzionale (art. 101, comma 2) alla luce di una disposizione legislativa precedente alla sua entrata in vigore. Parimenti è a dirsi per le restanti disposizioni processuali citate, tutte compatibili con l’efficacia solo inter partes del decisum della Cassazione, alcune banalmente spiegabili con l’esigenza di una razionalizzazione dei tempi e delle procedure, anche nell’ottica di una diminuzione del contenzioso. Del tutto inaccettabili, in un sistema di diritto positivo, sono – poi – le considerazioni fondate sulla forza del fattuale: il peso della giurisprudenza e il suo utilizzo costante da parte degli avvocati e dei giudici non valgono di per sé ad attribuirle una forza normativa che non le è riconosciuta dall’ordinamento. Essa elabora principi di diritto, rationes decidendi, ma persiste irriducibile sul piano ontologico la distinzione tra il precetto da interpretare e le massime di decisione: «massime, che non potranno ‘Il ricorso è inammissibile: 1) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa; 2) quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei princìpi regolatori del giusto processo’. 46 Ufficio del Massimario – Corte Suprema di Cassazione, L’overruling giurisprudenziale in materia di processo civile, Relazione n. 31, 2011. 47 Cfr. F. MODUGNO, Interpretazione giuridica, Padova, 2012, p. 265 s.; S. SATTA – C. PUNZI, Diritto processuale civile, Padova, 1992, p. 563. 45 Diritto e scienza 2014/9 Pag. 12 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza assorgere a norme giuridiche se non in virtù di una fonte di diritto, che ne operi la recezione o, comunque, l’assorbimento nel ius conditum»48. Il limite posto dall’art. 101, comma 2, Cost. è, dunque, insuperabile. Nessun giudice ha l’obbligo di uniformarsi ai principi di diritto elaborati in altre controversie, pur se formulati dalla Corte Suprema di Cassazione49, così come la Cassazione non ha l’obbligo di conformarsi alle interpretazioni con le quali la Corte costituzionale motiva le sentenze interpretative di rigetto. Non si vede d’altronde come, dinnanzi al medesimo principio di indipendenza funzionale del giudice50, i precedenti del giudice di legittimità debbano possedere una forza legale che non è invece riconosciuta alle decisioni interpretative del giudice di legittimità costituzionale, la cui forza è esclusivamente di fatto51, «derivante dalla capacità persuasiva che i suoi argomenti riescono a suscitare»52. È certamente vero che «la mutevolezza ed imprevedibilità della giurisprudenza creano situazioni di diseguaglianza e ingenerano incertezza nei rapporti giuridici»53, ma queste non sono l’esito del rispetto della disposizione costituzionale, quanto dell’insufficiente self restraint dei giudici comuni, tale da rendere sempre attuale la risposta di Calamandrei a un cliente soccombente, il quale non comprendeva come fosse possibile che nello stesso giorno due sezioni della Corte di Cassazione avessero giudicato in senso opposto la stessa questione di diritto: «Stia tranquillo, non ho sbagliato difesa, ho solo sbagliato porta»54. 3. L’overruling Accertato che i precedenti giudiziari non hanno efficacia vincolante nell’ordinamento italiano, nondimeno il formarsi di un orientamento consolidato crea un legittimo affidamento in capo ai consociati, collegato alla prevedibilità degli effetti delle decisioni sulla propria sfera individuale. Il bilanciamento tra la libertà interpretativa del giudice e i valori della certezza del diritto e dell’eguaglianza si attua, allora, attraverso la forza persuasiva del precedente, che da un lato «manifesta l’opinione della Corte sulla questione decisa»55, dall’altro pone l’obbligo – non già di seguire ma – di «prendere in considerazione il precedente stesso»56 per motivare razionalmente la decisione. 48 E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 144. Cfr. R. GUASTINI, L’interpretazione dei documenti normativi, in Trattato di diritto civile e commerciale Cicu - Messineo, Milano, 2004, p. 86: «nessun giudice ha l’obbligo di conformarsi alle scelte interpretative di alcun altro giudice, foss’anche la suprema Corte di cassazione». 50 Sul quale si v. F. BIONDI, La decisione delle Sezioni Unite della Cassazione ha lo stesso ‘valore’ della fonte del diritto scritto? Quando l’interpretazione conforme alla Cedu pone dei dubbi di costituzionalità, in Osservatorio sulle fonti, fasc. 3/2010. 51 Salvo, si intende, che per il giudice a quo, assimilabile in parte qua al giudice di rinvio. 52 G. ZAGREBELSKY – V. MARCENÒ, Giustizia costituzionale, Bologna, 2012, p. 384. 53 Ufficio del Massimario – Corte Suprema di Cassazione, Rassegna della giurisprudenza di legittimità. Gli orientamenti delle sezioni civili, anno 2013, cit., p. XXIII. 54 P. CALAMANDREI, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Firenze, 1935, p. 115. 55 M. TARUFFO, Una riforma della Cassazione civile?, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, p. 766. 56 D. BIFULCO, Il giudice è soggetto soltanto al ‘diritto’. Contributo allo studio dell’articolo 101, comma 2, della Costituzione italiana, Napoli, 2008, p. 114. 49 Diritto e scienza 2014/9 Pag. 13 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza L’onere motivazionale, così inteso, contribuisce ad attenuare la distanza tra i sistemi di common law e quelli di civil law, quanto meno in riferimento non tanto al diritto inglese, ove in talune ipotesi il vincolo ha astrattamente valore assoluto (binding)57, ma rispetto al diritto statunitense, nel quale il precedente ha effetto puramente persuasivo58. Merito della più recente dottrina è stato quello di svelare come i giuristi di civil law siano rimasti eccessivamente suggestionati dalla regola dello stare decisis, sovraenfatizzandone la portata: «In Inghilterra, non meno che in America e da noi, le vie aperte al giudice che voglia superare il precedente sono diverse ed agevoli»59. Nel diritto statunitense l’autorità del precedente viene meno in determinati casi, nei quali si parla di overruling. L’ipotesi principale è quella in cui la decisione sia palesemente errata, perché in contrasto con i principi generali dell’ordinamento. In tali casi il giudice successivo è libero di non seguirla, in quanto una decisione sbagliata ‘non è diritto’60. Diversa è l’ipotesi in cui la decisione precedente non sia palesemente errata, ma dia luogo a conseguenze ingiuste agli occhi del giudice successivo. La dottrina classica gli negava la possibilità di disapplicare il precedente inadeguato alla controversia successiva, «perché se le Corti dovessero permettersi di deviare dalla regola della stretta aderenza al precedente allevierebbero l’individuo, ma danneggerebbero il corpus del diritto»61. La dottrina moderna ha approntato un complesso strumentario idoneo ad attentare alla vincolatività del precedente: dapprima esso viene fatto oggetto di dubbio (questioned), poi di critica esplicita (criticized), quindi limitato nel suo campo di applicazione (limited) e, infine, «sarà destinato a incontrare la scure dell’overruling»62. Riconosciuto alle Corti il power of overrule, la regola del precedente vincolante viene relativizzata e i principi della certezza del diritto e dell’eguaglianza, invocati da chi teorizza l’affermazione nel diritto italiano dello stare decisis, finiscono per sottostare a un destino non molto diverso da quello prodotto dalle incertezze applicative del civil law. La garanzia dei diritti quesiti e delle aspettative consolidate vantate da coloro i quali abbiamo fatto affidamento sul precedente è però assicurata, nel diritto statunitense, attraverso due tecniche: l’anticipatory overruling e il prospective overruling. L’anticipatory overruling deroga lo stare decisis in senso verticale, riconoscendo a una Corte inferiore il potere di non seguire un precedente della Corte Suprema allorquando, sulla base di pronunce giudiziarie dei componenti di questa, appaia ragionevolmente certo che la stessa Corte Suprema non seguirà più quel precedente63. 57 Si tratta dei principi di diritto posti dalla House of Lords, che vincolano tutti i giudici, e dalla Court of Appeal, che vincolano i giudici diversi dalla House of Lords, sebbene anche questa forza assoluta stia, nel tempo, venendo meno: sul punto si v. R. CROSS, Precedent in English Law, Oxford, 1961, p. 103 ss. 58 Cfr. A. PIZZORUSSO, Fonti del diritto, cit., p. 715. 59 U. MATTEI, Precedente giudiziario e stare decisis, in Dig. disc. priv., XIV, Torino, 1992, p. 166 s. 60 W. BLACKSTONE, Commentaries on the Laws of England, I, Chicago, 1979, p. 70 s. 61 H. C. BLACK, Law of Judicial Precedent, St. Paul, 1912, p. 212, citato da U. MATTEI, Il modello di common law, Torino, 2010, p. 153. 62 U. MATTEI, Il modello di common law, cit., p. 157. 63 La formulazione risale a D. C. BRATZ, Stare Decisis in Lower Courts: Predicting the Demise of Supreme Court Precedent, 60 Wash. L. Rev. 87, 1984, p. 97. Diritto e scienza 2014/9 Pag. 14 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza Il prospective overruling viene usato, invece, per derogare allo stare decisis in senso orizzontale: il giudice è libero di non seguire i suoi precedenti pro futuro, decidendo però il caso sottoposto alla sua cognizione in base alla regola superata. La violazione del principio di non contraddizione è scongiurata, nell’ottica del common lawyer statunitense, nel riconoscere al prospective overruling valore di statuizione di una regola di diritto contenente in sé un’eccezione per la causa presente, eccezione causalmente giustificata dall’esigenza di evitare il travolgimento dell’affidamento dei consociati64. Di queste tecniche argomentative ha fatto uso, di recente, anche la Corte di Cassazione, non certo per giustificare il superamento di un inesistente precedente vincolante, ma proprio per salvaguardare l’affidamento della parte che, per aver seguito un orientamento giurisprudenziale in via di superamento, sia incorsa in una decadenza o in una preclusione processuale, rese imprevedibili dal carattere consolidato nel tempo del pregresso indirizzo e quindi tendenzialmente in contrasto con il principio costituzionale del giusto processo (art. 111). Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno così statuito che «se è pur vero che una interpretazione giurisprudenziale reiterata nel tempo che sia poi riconosciuta errata, e quindi contra legem, non può, per la contraddizione che non lo consente, essere considerata la lex temporis, vero è però anche che, sul piano fattuale, quella giurisprudenza ha comunque creato l’apparenza di una regola»65. Ne consegue che, ove venga in rilievo un problema di tempestività dell’atto, «il valore del giusto processo può trovare diretta attuazione attraverso l’esclusa operatività, come detto, della preclusione derivante dall’overruling nei confronti della parte che abbia confidato nella consolidata precedente interpretazione della regola stessa»66. Una successiva pronuncia ha cristallizzato i presupposti di applicabilità del prospective overruling all’italiana: «che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del precedente indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto ‘overruling’ comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte»67. La giurisprudenza successiva si è uniformata, ribadendo il carattere formalmente dichiarativo degli enunciati giurisprudenziali – che quindi non sono riconosciuti, dalla stessa giurisprudenza, quali fonti del diritto – ed espressamente circoscrivendo la pratica 64 Sul punto, oltre a U. MATTEI, Il modello di common law, cit., p. 161 ss., si v. almeno B. H. LEVY, Realist Jurisprudence and Prospective Overruling, in 109 U. Pa. L. Rev., 1960, p. 7 ss. 65 Cass. civ., S.U., n. 15144 del 2011. 66 Ibidem. 67 Cass. civ., sez. I, n. 6801 del 2012, secondo cui la prima e la terza condizione non ricorrono nel caso di mutamento della giurisprudenza in ordine alle garanzie procedimentali di cui all’art. 7, secondo e terzo comma, della legge n. 300 del 1970, non equiparabili a regole processuali perché finalizzate non già all’esercizio di un diritto di azione o di difesa del datore di lavoro, ma alla possibilità di far valere all’interno del rapporto sostanziale una giusta causa o un giustificato motivo di recesso. Diritto e scienza 2014/9 Pag. 15 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza del prospective overruling alla materia processuale68, nonostante gli auspici di una parte della dottrina69. 4. La giurisprudenza normativa su delega legislativa: le clausole generali Una delle principali obiezioni mosse contro il carattere formalmente dichiarativo della funzione giurisdizionale si fonda sulla possibile coesistenza polisemica, in una stessa parola o sintagma, di significati diversi, da cui si inferisce che «il risultato finale dell’interpretazione giuridica non è mai inequivocabilmente e meccanicamente predeterminato»70. È immediatamente evidente come ricavare da una determinata percentuale di casi una regola assoluta significhi cadere nell’equivoco di confondere il tutto con la parte. Tanto vale, portando queste premesse alle loro estreme conseguenze logiche, sostenere che l’interpretazione del diritto non avrebbe bisogno di alcun fondamento: essa sarebbe soltanto un’affabulazione «ipocrita e raffinata»71, perché «la dichiarazione legislativa in senso stretto non può constare di altro, che di carta sporcata di inchiostro»72. Lo storico equivoco si fonda sulla mancata considerazione della natura delle disposizioni normative, che, essendo dirette a fissare le regole della realtà, ancor prima devono essere in grado di rappresentarla, sicché l’attività di interpretazione vale a colmare lo spazio esistente tra il concreto e l’astratto, ossia tra la realtà e la rappresentazione che ne fa la disposizione. Il discrimine, dunque, è dato dalla differente legge che governa fenomeni del tipo di quelli contemplati dalla disposizione73. Allorquando la realtà regolata è descritta attraverso il rinvio alle scienze esatte (principalmente le scienze naturali) non vi è spazio per interpretazioni confliggenti con le leggi scientifiche. Si pensi, ad esempio, ai concetti propri della fisica (spazio, tempo) o della biologia (morte, lesioni). 68 Si v., ad esempio, Cass. civ., sez. trib., n. 16342 del 2014, secondo cui il richiamo alla giurisprudenza delle Sezioni Unite sull’overruling riguarda solo la materia processuale, non sussistendo l’esigenza di tutela dell’affidamento sulle questioni di diritto sostanziale. 69 Come, ad esempio, E. VINCENTI, Note minime sul mutamento di giurisprudenza (overruling) come (possibile?) paradigma di un istituto giuridico di carattere generale, in Cass. pen., n. 12 del 2011, p. 4126 ss., secondo cui «Sebbene la richiamata decisione delle Sezioni unite del 2011 rivolga la propria attenzione al sistema processuale civile, l’impostazione dalla quale muove e su cui poi si snoda il percorso motivazionale può anche assurgere a prologo di una ricostruzione teorica che fornisca le chiavi per studiare il fenomeno in esame in guisa di istituto giuridico di carattere più generale. Difatti, come è immediatamente percepibile, il mutamento di giurisprudenza nell’interpretazione del diritto non è fenomeno riducibile ad un determinato settore dell’esperienza giuridica, giacché esso è in grado di investire lo spettro complessivo dell’ordinamento»; E. CALZOLAIO, Mutamento giurisprudenziale e overruling, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., n. 3 del 2013, p. 899 ss. 70 M. CAPPELLETTI, Giudici legislatori?, Milano, 1984, p. 15. 71 P. G. MONATERI, «Correct our Watches by the Public Clocks». L’assenza di fondamento dell’interpretazione del diritto, in Diritto, giustizia e interpretazione, a cura di J. Derrida – G. Vattimo, Roma-Bari, 1998, p. 204 ss. 72 R. SACCO, Il concetto di interpretazione del diritto, Torino, 1947, p. 59. 73 Il rinvio obbligato è a F. STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 1975, p. 100 ss. che nella dottrina ialiana è stato il primo a impiegare il concetto di leggi di copertura. Il significato però è più ampio, riferendosi alle leggi di funzionamento della porzione di mondo oggetto della norma, non solo alle leggi causali. Diritto e scienza 2014/9 Pag. 16 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza Laddove la disposizione sia costruita attraverso elementi normativi, che rinviano per la loro determinazione alle scienze sociali (ad esempio giuridiche o economiche), è inevitabile che il loro significato possa variare in rapporto al mutare della legge sociale e che, ove non vi sia accordo nell’individuazione di quella, possa darsi luogo a diverse interpretazioni, tutte allo stesso tempo potenziali. Infine, se le disposizioni sono costruite attraverso concetti elastici, desunti da sistemi valore (come ad esempio il buon costume), è ad esse connaturata un’eccedenza di contenuto assiologico74, appartenente alla morale, al costume, allo standard di una comunità. In questo caso il risultato interpretativo non può mai essere individuato a priori con certezza: «l’indeterminazione è una situazione costante e oggettiva che accompagna l’interpretazione e il giudizio quando si esaminano le dimensioni infinitamente piccole o infinitamente grandi – gli hard cases»75. Ma in nessuna di queste ipotesi76 l’interpretazione esce dal circuito della discrezionalità tecnica, poiché vi è sempre un sapere precostituito a cui fare riferimento, che, nell’ipotesi di norme elastiche, è dato dalle scienze morali. Gli spazi effettivi per la ‘giurisprudenza normativa’ vanno, forse, rintracciati altrove, ossia nelle cd. clausole generali, la cui distinzione dai concetti giuridici indeterminati non è però agevole77. La classificazione più rigorosa appare quella che poggia su dati strutturali78: i concetti indeterminati sono forme logiche del fatto, formulazioni sintetiche che rinviano a qualificazioni e valutazioni già effettuate altrove, sicchè l’interpretazione rimane un’attività di conoscenza, per quanto ampiamente discrezionale; le clausole generali sono forme logiche della norma, un modo di essere del precetto, che si presenta generico o incompleto e la cui ricostruzione non può che avvenire attraverso la mediazione ermeneutica del giudice, che può essere diversa da caso a caso I concetti giuridici indeterminati possono essere normativi o elastici e caratterizzano una frammento di fattispecie. Le disposizioni che contengono concetti giuridici indeterminati, infatti, presentano un nucleo concettuale determinato cui si accompagnano termini ulteriori dal contenuto indeterminato: soltanto questi ultimi necessitano di concretizzazione79. Concetto indeterminato di tipo normativo è quello di mercato rilevante di cui all’art. 2 della l. n. 287 del 1990, secondo cui ‘sono vietate le intese tra imprese che 74 P. RESCIGNO, Appunti sulle clausole generali, in Riv. dir. comm., 1998, p. 1 ss. R. BIN, A discrezione del giudice. Ordine e disordine una prospettiva ‘quantistica’, Milano, 2013, p. 31. 76 Anche A. BARAK, Judicial Discretion, Yale, 1987, trad. it. La discrezionalità del giudice, Milano, 1995, p. 40 ss., ha proposto una simile tripartizione ma, non prendendo in considerazione il rapporto tra la disposizione e la realtà e concentrando l’analisi più sulla premessa minore che sulla premessa maggiore dell’inferenza normativa, ha ritenuto «impossibile specificare con esattezza quale sia la frontiera» fra le tre ipotesi. 77 Il dibattito è stato esaurientemente esposto, da ultimo, in E. FABIANI, Clausola generale, in Enc. dir., Annali V, Milano, 2012, p. 183 ss., nonché in V. VELLUZZI, Le clausole generali. Semantica e politica del diritto, Milano, 2010. 78 Cfr. Diritto e Scienza, n. 7 del 2013. 79 Cfr. R. WEBER, Einige Gedanken zur Konkretisierung von Generalklauseln durch Fallgruppen, in AcP 192, 1992, p. 516 ss. 75 Diritto e scienza 2014/9 Pag. 17 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante’ e al successivo art. 3 della stessa legge. che vieta l’abuso di posizione dominante ‘all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante’. La nozione di mercato rilevante non assorbe il precetto, ma costituisce un elemento della fattispecie per la cui esatta individuazione e ricostruzione risulta indispensabile attingere alle metodologie e ai saperi propri della scienza economica. È con riguardo ai concetti elastici, invece, che non è agevole la distinzione con le clausole generali, poiché in entrambi i casi il legislatore delega al giudice una scelta assiologica. Si pensi, ad esempio, al concetto di buon costume, che parte della dottrina inscrive tra i concetti giuridici indeterminati, ma che per appare una vera e propria clausola generale, essendo impiegata in chiave integrativa del precetto. Si rifletta sull’art. 5 c.c.: ‘Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume’. Si avverte nella formulazione come il richiamo al buon costume valga a colmare vuoti di regolamentazione, rimettendo al giudice il potere di integrare la disciplina di legge sulla base di scelte non meramente tecniche. La funzione di integrazione valutativa che la giurisprudenza è chiamata a svolgere in materia di buon costume è paradigmatica della valenza assiologica delle clausole generali. Non a caso, anche gli Autori più critici nei confronti del ruolo creativo svolto dalla giurisprudenza ammettono che mediante il richiamo al buon costume il legislatore non intende riferirsi alla prassi o alla consuetudine sociale, ma a uno specifico criterio deontologico, frutto di una valutazione morale, che consente all’ordinamento di «respirare in termini umani»80. Ancora più significativa del diverso ruolo svolto dalla giurisprudenza, quando si trovi a maneggiare clausole generali, appare la clausola di buona fede di cui all’art. 1375 c.c.: ‘Il contratto deve essere eseguito secondo buona fede’. La buona fede impone un impegno od obbligo di solidarietà tale da imporre a ciascuna parte comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali, ed a prescindere altresì dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, siano idonei a preservare gli interessi dell’altra parte. Dalla formulazione del precetto risulta palese come la concreta regola di condotta non è esclusivamente costruita dal legislatore, ma da esso intenzionalmente rimessa alla valutazione del giudice alla luce della realtà concreta, perché l’obbligo «non si presta ad essere predeterminato nel suo contenuto in quanto esso richiede comportamenti diversi in relazione alle concrete circostanze»81. Lo scarto tra l’astratto regolante e il concreto regolato viene colmato, in tal caso, non attraverso elementi normativi della fattispecie, ma sulla base di un intervento del giudice: «quando ricorre una clausola generale il 80 Per usare un’espressione utilizzata, a tutt’altri fini, da G. BETTIOL, Diritto penale, Padova, 1982, p. 589 ss. 81 C. M. BIANCA, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, in Riv. dir. civ., 1983, I, p. 205 ss. Diritto e scienza 2014/9 Pag. 18 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza giudice concorre a formulare la norma, mentre nel caso di concetti indeterminati si limita a riscontrare il ricorrere nel fatto concreto dell’elemento (elastico) indicato nella fattispecie»82. Si realizza, in tal modo, una contaminazione tra il modello di civil law e quello anglosassone di common law. Il case law, infatti, consente di ricondurre alla singola clausola generale determinate regole applicative che costituiscono il prodotto dell’opera di concretizzazione della giurisprudenza. Il singolo giudice, chiamato a risolvere il caso, fa riferimento alla disposizione che prevede la clausola generale, ma in realtà applica la regola di formazione giurisprudenziale che governa il gruppo di casi nel quale viene sussunto quello sottoposto al suo esame. Questa regola, essendo dotata di forza meramente persuasiva, non cancella l’elasticità della clausola, perché rimane ferma la possibilità di adattarla alle esigenze del nuovo caso o di elaborarne una nuova83. Resta da spiegare la compatibilità di una tale funzione di integrazione con la regola costituzionale in base alla quale ‘I giudici sono soggetti soltanto alla legge’ (art. 101, comma 2, Cost.). Sulla base della disposizione costituzionale, non sembra possibile accedere all’opinione di quanti, in presenza di clausole generali, riconoscono «l’esistenza in capo al giudice di un potere di creare norme, che per quanto circoscritto e variamente condizionato [...] non è dissimile da quello del legislatore ordinario»84. Vero è che nelle materie, come quella civile, tradizionalmente non coperte da una riserva assoluta di legge, ben può la legge affidare alla giurisprudenza, in taluni particolarissimi casi, l’integrazione dei precetti normativi, e quindi un’attività che non è più soltanto di interpretazione, ma anche di integrazione della norma adatta al caso concreto. In queste ipotesi il legislatore impartisce al giudice «una misura, una direttiva per la ricerca della norma di decisione»85, la quale ultima non è comunque assimilabile alla regola legale, non vincolando altri giudici nella decisione di casi analoghi. Nemmeno può ritenersi, conseguentemente, che il ragionamento decisorio di concretizzazione delle clausole generali sfugga a un controllo di legittimità. Facendo proprio un importante contributo dottrinale86, la Corte di Cassazione ha inaugurato negli anni Novanta87 un orientamento restrittivo, in forza del quale nel giudizio valutativo di applicazione delle clausole generali il giudice deve sempre conformarsi, «oltre che ai principi dell’ordinamento, individuati dal giudice di legittimità, anche ad una serie di 82 C. CASTRONOVO, Problema e sistema, cit., p. 107 s. nota. 60; ID., L’avventura delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1986, p. 24, nota 14, secondo il quale «questa diversa dimensione funzionale appare l’unica in grado di giustificarsi. Essa mette in luce una diversità di potere, non una diversità di operazione ermeneutica». 83 Così S. PATTI, L’interpretazione delle clausole generali, in Riv. dir. civ., 2013, II, p. 263 ss. 84 A. BELVEDERE, Le clausole generali tra interpretazione e produzione di norme, in Pol. dir., 1988, p. 634 ss. 85 L. MENGONI, Spunti per una teoria delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1986, p. 10, secondo cui, conseguentemente, le clausole generali sono «una tecnica di formazione giudiziale della regola da applicare al caso concreto, senza un modello di decisione precostituito da una fattispecie normativa astratta». 86 F. ROSELLI, Il controllo della Cassazione civile sull’uso delle clausole generali, Napoli, 1983, p. 187. 87 Cass. civ., sez. lav., n. 10514 del 1998 e n. 434 del 1999. Diritto e scienza 2014/9 Pag. 19 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza standards valutativi esistenti nella realtà sociale»88. Ne consegue che, a prescindere dalla più o meno ampia libertà di valutazione affidata all’interprete, la concretizzazione delle clausole generali è pur sempre un’operazione soggetta al controllo di legittimità, «al pari di ogni altro giudizio fondato su qualsiasi norma di legge»89, nell’ottica di accertare se sia stata o meno rispettata la direttiva posta dal legislatore, cui sempre il giudice è sottoposto. 88 Cass. civ., sez. lav., n. 434 del 1999. Ibidem, nel richiamare testualmente F. ROSELLI, Il controllo della Cassazione civile sull’uso delle clausole generali, cit., p. 187. 89 Diritto e scienza 2014/9 Pag. 20 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza DIRITTO PENALE Francesca Delogu SOMMARIO: 1. Il ruolo del giudice nell’ordinamento penale - 2. Il principio di legalità materiale - 3. Esempi di giurisprudenza normativa - 4. Conclusioni. 1. Il ruolo del giudice nell’ordinamento penale Il ‘diritto vivente’ è oggi una direttiva di sviluppo anche nel diritto penale, che pure è presidiato a livello costituzionale dal principio di legalità, come fondamento dell’ordine superiore delle relazioni umane90 e come limite al potere di incriminazione dello Stato. Per comprendere il fenomeno della giurisprudenza normativa in materia penale, dunque, occorre muovere dall’inquadramento del principio di legalità, che nell’ordinamento penale non è semplicemente espressione del primato della legge tra le fonti del diritto, ma è un modo d’essere dell’intera materia. Il principio di legalità è la struttura su cui si fondano i sistemi penali moderni91. Storicamente tale principio nasce nel periodo illuministico, come espressione della teoria della separazione dei poteri92 e con la finalità di tutelare la libertà del cittadino. Esso, in particolare, ha rappresentato uno sbarramento agli abusi del potere giudiziario93, limitando alla radice la discrezionalità ermeneutica del giudice. Nel tempo le molteplici funzioni di garanzia del principio di legalità si sono condensate nella definizione di una duplice dimensione, formale e sostanzale. La legalità formale (nullum crimen sine lege penalis), che ha come corollario la riserva di legge e il principio d’irretroattività, riguarda il rapporto tra la norma e la fattispecie, sotto il profilo della natura e del rango della fonte normativa. La legalità sostanziale (nullum crimen sine stricta lege poenalis), invece, detta i vincoli nella descrizione della fattispecie normativa, ed ha come corollari la determinatezza, la tassatività e la tipicità. In materia penale il principio di legalità si aggiunge al disposto di cui all’art. 101, comma 2 Cost. per il quale ‘I giudici sono soggetti soltanto alla legge’, al quale si collega l’art. 12 delle preleggi, secondo cui ‘ Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro significato che quello fatto palese dal significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore’. 90 «Tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale.» G.W.F.HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, Bompiani, Milano 2006, p. 59. Sul nesso tra procedimento di formazione della legge giuridica e procedimento di formazione delle leggi scientifiche, cfr. Diritto e scienza, n. 5/2013.. 91 Per un quadro storico, G.VASSALLI, Nullum crimen sine lege, in Dig. Pen. VIII, 1994, p.278. 92 MONTESQIEU, Lo spirito delle leggi 93 G.MARINUCCI-E.DOLCINI, Manuale di diritto penale, Giuffrè, 2007, p. 67 Diritto e scienza 2014/9 Pag. 21 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza In accoglimento della storica concezione degli ordinamenti liberali, tali prescrizioni dovrebbero fare del giudice ‘la bocca della legge’94. Tale concezione è stata messa in forte discussione nell’epoca contemporanea, ma dovrebbe persistere in materia penale, in ragione dell’art. 25, comma 2, Cost. e, in particolare, del principio di determinatezza dl reato. Quanto più la fattispecie è determinata, tanto più la regola legale (la premessa maggiore del sillogismo normativo) appare dotata di valenza universale e, dunque, giustifica il passaggio dalla premessa minore (il fatto) alla conclusione (la sanzione). Norme a contenuto determinato rendono il sillogismo normativo perfetto, conferendo il massimo grado di certezza al diritto penale e, per converso, limitando gli abusi del potere giudiziario e gli errori di orientamento del cittadino. Il principio di determinatezza opera a due livelli: legislativo e giurisdizionale. In primo luogo è un obbligo per il legislatore, la cui violazione implica l’illegittimità costituzionale della norma incriminatrice. In secondo luogo costituisce un criterio dell’interpretazione giudiziale, orientando l’esegesi testuale e portando a privilegiare interpretazioni dichiarative (dixit quam voluit) della disposizione di legge. All’obiettivo di rendere determinata la norma si perviene attraverso due vincoli nella costruzione della fattispecie: precisione e determinatezza in senso empirico. In materia penale il linguaggio richiede estrema accuratezza, per le seguenti ragioni: - la discrezionalità del giudice è legata all’interpretazione del testo, poiché i il linguaggio normativo non ha un codice di decifrazione matematico, e spetta al legislatore utilizzare i termini più idonei e dettagliati rispetto al significato perseguito e metterli in relazione tra di loro, evitando o riducendo le ambiguità; - la libertà di autodeterminazione del singolo e la protezione dei suoi diritti sono direttamente proporzionali alla chiarezza e specificità degli obblighi di comportamento, sicché spetta legislatore di assicurarli attraverso una puntuale descrizione del fatto incriminato; - la colpevolezza per il fatto di reato è subordinata alla comprensione del precetto penale, cioè all’accorciamento della distanza che corre tra disposizione e norma; - la funzione di orientamento e di prevenzione della sanzione penale può efficacemente realizzarsi solo quando il destinatario riconosca i presupposti per l’erogazione della pena fissati dalla norma, il che implica la puntuale descrizione del fatto incriminato; - l’esercizio del diritto di difesa dell’imputato da un lato, e il corretto svolgimento dell’attività di accertamento e repressione dei reati da parte dello Stato dall’altro, esigono che i soggetti privati e pubblici coinvolti nell’applicazione della norma penale siano a conoscenza del suo esatto significato. Il principio di precisione implica parametri che guidino il legislatore nella descrizione lessicale e sintattica del fatto tipico, privilegiando elementi descrittivi o normativi determinati, su quelli elastici, e vietando l’impiego di clausole generali. 94 MONTESQIEU, Lo spirito delle leggi, trad. it., milano, 1996, I, p. 317 (libro XI, Cap. 6). Diritto e scienza 2014/9 Pag. 22 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza Il principio di determinatezza è un vincolo perché l’ordinamento penale rispecchi la realtà, conseguendone l’obbligo per il legislatore non solo di utilizzare termini precisi, ma anche idonei a rappresentare fatti suscettibili di accadimento. Sotto questa angolazione non rileva più la tecnica di descrizione del fatto, quanto il fatto descritto, che deve essere chiaramente individuabile in rerum natura: è il cd. principio di determinatezza in senso empirico o di effettività. Mentre ai fini del rispetto del principio di precisione il ricorso a leggi scientifiche è opportuno, ma non necessario e, talvolta, impossibile, ai fini del rispetto del principio di determinatezza in senso empirico l’impiego di leggi scientifiche è indispensabile, nel senso che il fatto tipico, definito attraverso leggi di natura, leggi giuridiche, leggi sociali, deve essere scrutinabile come realtà sensibile, cioè empiricamente riscontrabile, il che può avvenire solo in base a leggi scientifiche95. L’ordinamento penale deve sanzionare fatti, accadimenti storici; l’elemento normativo non deve essere tale da consentire al giudice di manipolare la realtà, in modo da costituire una fattispecie legale che non sia strettamente la trasposizione nell’ordinamento giuridico del mondo sensibile; allora non è tanto un problema di precisione del testo, quanto di simmetria tra norma e realtà. Il giudice non può, per nessuna ragione, scardinare questa simmetria e quando lo fa la Corte costituzionale deve intervenire, con sentenze interpretative di rigetto, oppure, se ciò non è possibile, dichiarando l’illegittimità costituzionale della norma, come avvenuto per il delitto di plagio. Nonostante la portata granitica dei riferimenti costituzionali, di recente la rigidità del principio di legalità è stata messa in discussione dall’atteggiamento «creativo» della giurisprudenza, che si è attribuita – persino esplicitamente – un ruolo normativo, teso a fornire un’interpretazione consolidata in forza del diritto vivente, che integrerebbe il precetto ai fini del soddisfacimento della legalità sostanziale, intesa in via alternativa e non complementare alla legalità formale. Ciò financo nei rapporti con la giustizia costiruzionale: desta impressione – non certo positiva – una recente sentenza della suprema Corte, secondo cui principi fissati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 265 del 2010, con la quale è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo il comma 3 dell’articolo 275 del Cpp nella parte in cui, nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 600-bis, comma 1, 609-bis e 609-quater del Cp, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, sono in toto applicabili anche 95 Esemplificando: l’abuso d’ufficio è regolato ai fini del rispetto del principio di precisione da elementi normativi giuridici, ai fini del rispetto del principio di determinatezza in senso empirico dalle leggi scientifiche che identificano nel mondo fenomenico la condotta del pubblico ufficiale volta a formare un atto illegittimo. Il delitto di atti osceni è regolato ai fini del rispetto del principio di precisione da elementi normativi extragiuridici, ai fini del rispetto del principio di determinatezza in senso empirico dalle leggi scientifiche che identificano nel mondo fenomenico la condotta di chi commette atti definibili come osceni. Diritto e scienza 2014/9 Pag. 23 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza all’ipotesi di reato di cui all’articolo 609-octies del Cp, che presenta caratteristiche essenziali non difformi da quelle che la Corte costituzionale ha individuato per i reati sessuali sottoposti al suo giudizio in relazione alla disciplina ex articolo 275, comma 3 del codice di procedura penale96. In sostanza, il giudice di legittimità, invece di sollevare questione di legittimità costituzionale della disposizione che fissa la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo, l’ha disapplicata, ritenendone l’illegittimità costituzionale alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale La legittimazione dell’idea in base alla quale la riserva di legge in materia penale sarebbe soddisfatta anche dal diritto di formazione giurisprudenziale ha trovato un referente normativo nell’art. 7, comma 1, della CEDU, come interpretato dalla Corte Edu. 2. Il principio di legalità materiale L’art. 7, comma 1 CEDU stabilisce: ‘Nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso’. La Corte Edu ha progressivamente ampliato la portata della disposizione, giungendo a ricostruirne il significato sistematico in una pronuncia recente97, che va riportata nei suoi passaggi essenziali. La garanzia sancita dall’articolo 7, elemento sostanziale della preminenza del diritto, occupa un posto fondamentale nel sistema di tutela della Convenzione, come dimostra il fatto che l’articolo 15 non prevede alcuna deroga ad essa in tempo di guerra o di altro pericolo pubblico. Come deriva dal suo oggetto e dal suo scopo, essa deve essere interpretata e applicata in modo da garantire una protezione effettiva contro le azioni penali, le condanne e le sanzioni 96 Cass. III sez., n. 4377/11. Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia. I fatti di cui era accusato Scoppola erano stati commessi nel 1999, e dunque al momento in cui in base all’art. 442 c.p.p. nella versione allora vigente, non era consentito che gli imputati puniti con l’ergastolo fossero ammessi al rito abbreviato. Il 2 gennaio del 2000 entrava in vigore la c.d. legge Carotti (legge n. 479/1999) che, modificando il testo dell’art. 442 c.p.p. consentiva anche agli imputati punibili con l’ergastolo di chiedere il rito abbreviato e , in caso di condanna, la sostituzione della pena dell’ergastolo con quella di trent’anni di reclusione. Sulla scorta di tale legge, Scoppola aveva chiesto di essere giudicato con rito abbreviato. Nelle more del processo, in data 24 novembre del 2000, entrava in vigore il d.l. 341/2000 che all’art. 7, comma 1 stabiliva che il riferimento alla ‘pena dell’ergastolo’ di cui all’art. 442 c.p.p dovesse intendersi limitato all’ergastolo con isolamento diurno; e al comma secondo della medesima disposizione citata, la sostituzione della pena comportasse l’applicazione dell’ergastolo senza isolamento diurno, in caso di rito abbreviato. Scoppola fu condannato alla pena dell’ergastolo senza isolamento diurno, ma la Corte di Strasburgo accolse il suo ricorso, stabilendo che l’art. 442 c.p.p. sia da ritenersi una norma di diritto penale sostanziale, che incide immediatamente sul quantum e sulla species della sanzione applicabile. Mediante overruling la grande Camera stabilì per la prima volta il diritto dell’imputato, non solo all’irretroattiva applicazione della legge penale più sfavorevole, ma altresì l’esplicito e parimenti garantito diritto dell’imputato all’applicazione retroattiva della legge penale più favorevole ad esso. 97 Diritto e scienza 2014/9 Pag. 24 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza arbitrarie (S.W. e C.R. c. Regno Unito, 22 novembre 1995, § 34 e § 32 rispettivamente, serie A nn. 335-B e 335-C, e Kafkaris, già cit., § 137). L’articolo 7 § 1 della Convenzione non si limita a vietare l’applicazione retroattiva del diritto penale a svantaggio dell’imputato. Esso sancisce anche, più in generale, il principio della legalità dei delitti e delle pene (nullum crimen, nulla poena sine lege). Se, in particolare, è vietato estendere il campo di applicazione dei reati esistenti a fatti che, precedentemente, non costituivano dei reati, esso impone inoltre di non applicare la legge penale in maniera estensiva a svantaggio dell’imputato, ad esempio per analogia (v., tra le altre, Coëme e altri c. Belgio, nn. 32492/96, 32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96, § 145, CEDU 2000 VII). Ne consegue che la legge deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono. Questa condizione è soddisfatta quando la persona sottoposta a giudizio può sapere, a partire dal testo della disposizione pertinente e, se necessario, con l’aiuto dell’interpretazione che ne viene data dai tribunali, quali atti e omissioni implicano la sua responsabilità penale (Kokkinakis c. Grecia, 25 maggio 1993, § 52, serie A n. 260-A, Achour, già cit., § 41, e Sud Fondi Srl e altri c. Italia, n. 75909/01, § 107, 20 gennaio 2009). La Corte ha dunque il compito di assicurarsi che, nel momento in cui un imputato ha commesso l’atto che ha dato luogo all’azione penale e alla condanna, esisteva una disposizione legale che rendeva l’atto punibile, e che la pena imposta non ha superato i limiti fissati da tale disposizione (Coëme e altri, già cit., § 145, e Achour, già cit., § 43). Individuato nell’art. 7 il fondamento del principio di legalità, la Corte ne fissa un significato in parte divergente da quello adottato in Italia, coniandone una concezione definita in dottrina «materiale», sulla premessa che il perimetro di applicazione della CEDU abbraccia sia gli Stati membri strutturati sui sistemi aperti di common law, sia gli quelli che, invece, si basano sui c.d. sistemi semi-chiusi di civil law. Nei primi la giurisprudenza svolge un ruolo creativo e concorrente alla fonte legislativa mediante i cases.98 La nozione di «diritto» («law») utilizzata nell’articolo 7 corrisponde a quella di «legge» che compare in altri articoli della Convenzione; essa comprende il diritto di origine sia legislativa che giurisprudenziale ed implica delle condizioni qualitative, tra cui quella dell’accessibilità e della prevedibilità (Kokkinakis, già cit., §§ 40-41, Cantoni c. Francia, 15 novembre 1996, § 29, Recueil 1996 V, Coëme e altri, già cit., § 145, e E.K. c. Turchia, n. 28496/95, § 51, 7 febbraio 2002). Anche a causa del carattere generale delle leggi, il testo di queste ultime non può presentare una precisione assoluta. Una delle tecniche-tipo di regolamentazione consiste nel ricorrere a categorie generali piuttosto che a liste esaustive. Molte leggi si servono anche, per forza di cose, di formule più o meno vaghe la cui interpretazione e applicazione dipendono dalla pratica (Cantoni, già cit., § 31, e Kokkinakis, già cit., § 40). Pertanto, in qualsiasi ordinamento giuridico, per quanto chiaro possa essere il testo di una disposizione di legge, ivi compresa una disposizione di diritto penale, esiste inevitabilmente un elemento di interpretazione giudiziaria. Bisognerà sempre chiarire i punti oscuri e adattarsi ai cambiamenti di situazione. Inoltre, la certezza, benché fortemente auspicabile, è spesso accompagnata da un’eccessiva rigidità; il diritto deve invece sapersi adattare ai cambiamenti di situazione. La funzione decisionale affidata alle giurisdizioni serve precisamente a dissipare i dubbi che potrebbero sussistere per quanto riguarda l’interpretazione delle norme (Kafkaris, già cit., § 98 M. CHIAVARIO, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel sistema delle fonti normative in materia penale, Milano, 1969, p. 87 s. Diritto e scienza 2014/9 Pag. 25 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza 141). Del resto è solidamente stabilito nella tradizione giuridica degli Stati parte alla Convenzione che la giurisprudenza, in quanto fonte di diritto, contribuisce necessariamente all’evoluzione progressiva del diritto penale (Kruslin c. Francia, 24 aprile 1990, § 29, serie A n. 176 A). Non si può interpretare l’articolo 7 della Convenzione nel senso che esso vieta la graduale chiarificazione delle norme in materia di responsabilità penale mediante l’interpretazione giudiziaria da una causa all’altra, a condizione che il risultato sia coerente con la sostanza del reato e ragionevolmente prevedibile (Streletz, Kessler e Krenz c. Germania [GC], n. 34044/96, 35532/97 e 44801/98, § 50, CEDU 2001 II). La portata della nozione di prevedibilità dipende in larga misura dal contenuto del testo in questione, dall’ambito che esso ricopre e dalla qualità dei suoi destinatari. La prevedibilità di una legge non si oppone a che la persona interessata sia portata a ricorrere a consigli illuminati per valutare, a un livello ragionevole nelle circostanze della causa, le conseguenze che possono derivare da un atto determinato (Achour, già cit., § 54). La Corte di Cassazione99 ha utilizzato questa pronuncia in particolare, e la giurisprudenza della Corte Edu in generale, per affermare il ruolo normativo della giurisprudenza di legittimità. Riassuntivamente deve, quindi, affermarsi che, secondo l’orientamento della Corte di Strasburgo, il processo di conoscenza di una norma presuppone, per cosi dire, ‘una relazione di tipo concorrenziale’ tra potere legislativo e potere giudiziario, nel senso che il reale significato della norma, in un determinato contesto socio-culturale, non emerge unicamente dalla mera analisi del dato positivo, ma da un più complesso unicum, che coniughi tale dato con l’atteggiarsi della relativa prassi applicativa. Il giudice riveste un ruolo fondamentale nella precisazione dell’esatta portata della norma, che, nella sua dinamica operativa, vive attraverso l’interpretazione che ne viene data. La struttura necessariamente generica della norma è integrata e riempita di contenuti dall’attività ‘concretizzatrice’ della giurisprudenza. In definitiva, il sistema convenzionale, por dando grande risalto al principio di legalità, ‘non ne assolutizza l’ambito valoriale, con la conseguente prevalenza del dato formale su quello propriamente giurisprudenziale’, ma, nella prospettiva di salvaguardare la specificità delle tradizioni costituzionali all’interno di un sistema di diritto comune tendenziale, ritiene complementari i due dati, che si integrano tra loro, con la conseguenza che gli elementi qualitativi dell’accessibilità e della prevedibilità di cui parla la Corte si riferiscono non tanto all’astratta previsione legale quanto alla norma ‘vivente’, risultante dall’applicazione e dall’interpretazione dei giudici. In sintesi, il ruolo d’integrazione e di concretizzazione svolto dalla giurisprudenza, con la nuova effige impressa dalla Corte Edu, si pone in un binario concorrente alla fonte legislativa, adattando il contenuto del testo normativo ai mutamenti socio-culturali e alle tradizioni costituzionali collocati entro l’humus del sistema di diritto comune, dando linfa vitale al diritto vivente, che traduce nella prassi applicativa l’astratto nucleo della previsione legale. Il giudice svolge pertanto un ruolo fondamentale di ‘concertizzazione’ della norma, precisandone i limiti e la portata. Si comprende in tale senso come la posizione delle sezioni penali sia diversa rispetto a quelle civili: non c’è un riferimento al giudizio di valore interno della fattispecie normativa, bensì il riferimento è ai limiti intrinseci della 99 Cass. sez. un., n. 18288 del 2010 Diritto e scienza 2014/9 Pag. 26 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza normazione, dove l’intervento chiarificatore della giurisprudenza sopperisce ai limiti d’imprecisione del testo normativo. Tuttavia, non si può trascurare di segnalare la diversa posizione assunta dalla Corte Costituzionale in tempi recenti, che si è espressa sui limiti della nozione CEDU all’interno dell’ordinamento nazionale.100 In particolare, la Corte Costituzionale ha affermato che il fenomeno della successione delle leggi penali nel tempo non è assimilabile alla successione delle diverse interpretazioni giurisprudenziali, stante il limite invalicabile rappresentato dall’intangibilità del giudicato. Si oppongono, fra l’altro, a tale difetto di vincolatività delle pronunce giurisprudenziali succedutesi nel tempo – seppure delle Sezioni Unite – il principio della separazione dei poteri e la riserva di legge in materia penale, che vogliono il giudice soggetto solo alla legge. La questione investe pertanto il dibattuto tema dello statuto del precedente giurisprudenziale, in un ordinamento di civil law, quale quello italiano, oltre che la questione dello statuto del giudicato penale, il principio di retroattività della lex mitior, nonché il più generale tema della natura ed estensione dei vincoli della CEDU all’interno del nostro ordinamento. Il fenomeno, che minaccia gli equilibri del sistema penale e si pone in tensione col principio di legalità (e i suoi corollari della riserva di legge, irretroattività, determinatezza), è quello del contrasto giurisprudenziale. Se, per un verso, il contrasto di tipo sincronico (due o più interpretazioni difformi della medesima norma coesistono nel medesimo intervallo di tempo) compromette gli obiettivi del principio di determinatezza, impedendo ai cittadini di valutare e ponderare con certezza le conseguenze giuridico-penali della propria condotta, non meno serio è il contrasto di tipo diacronico (overruling: una linea interpretativa statuita in un determinato lasso di tempo viene smentita da una pronuncia successiva, che origina da una svolta giurisprudenziale)101. In presenza di un mutamento giurisprudenziale in bonam partem, come nel caso deciso dalla Corte Costituzionale, ogniqualvolta sia sconfessato un orientamento seguito in precedenza che attribuiva rilievo penale a determinati comportamenti, poi sconfessato dal revirement giurisprudenziale, ad entrare in crisi nel sistema penale è il senso comune di ‘giustizia’, nel caso in cui taluno venisse condannato e punito per un comportamento ritenuto, poi, dalla giurisprudenza nomofilattica, penalmente lecito102. 100 Corte Cost. n. 230 del 2012: la questione involgeva la legittimità costituzionale dell’art. 673 c.p.p. nella parte in cui non prevede l’ipotesi di revoca della sentenza di condanna (o decreto penale di condanna, o sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti) in caso di mutamento giurisprudenziale, intervenuto con decisione delle Sezioni Unite di Cassazione, in base al quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge come reato. Con riferimento alla norma convenzionale interposta (art. 117, comma 1, Cost.) di cui il rimettente asseriva la violazione, la Corte Edu non risultava avere mai, sino a quel momento, affermato che in base all’art. 7 CEDU, par. 1, un mutamento della giurisprudenza in senso favorevole al reo imponesse la rimozione delle sentenze di condanna passate in giudicato contrastanti con il nuovo indirizzo affermato dalla pronuncia delle S.U. 101 Diritto Penale Contemporaneo, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, V.NAPOLEONI, p. 165. 102 Diritto Penale Contemporaneo, Mutamento di giurisprudenza cit., p. 166. Diritto e scienza 2014/9 Pag. 27 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza 3. Esempi di giurisprudenza normativa A leggere attentamente le decisioni della suprema Corte penale negli ultimi anni si nota, però, che l’erosione del principio di legalità più spesso è stata realizzata non in via diretta, ma piegando ad obiettivi di asserita giustizia sostanziale i comuni criteri dell’interpretazione. Un caso emblematico in cui è possibile affermare che la norma non sia sufficientemente determinata, bensì essa trovi applicazione mediante lo strumento del diritto vivente è senz’altro quello che riguarda il reato di atti sessuali violenti di cui all’art. 609-bis c.p. A tal ultimo riguardo, un recente orientamento non si limita ad assegnare al concetto di ‘atti sessuali’ una valenza sociale, oltre che anatomica, ma lo dilatata fino a comprendervi comportamenti che, proprio nella sensibilità collettiva, sono normalmente considerati privi di apprezzabile significato sessuale, in nome di una tutela della libertà della vittima fondata più sulla sua percezione, che sul dato oggettivo. Si è infatti affermato che configura il reato di violenza sessuale, anche l’atto sessuale concretatosi in un bacio o in un abbraccio, purché sintomatico di una compromissione della libera determinazione sessuale del soggetto passivo. Non essendo possibile classificare aprioristicamente come atti sessuali tutti quelli che, in quanto non direttamente indirizzati a zone chiaramente individuabili come erogene, possono essere rivolti ai soggetto passivo con finalità diverse, come nel caso del bacio o dell’abbraccio, la loro valutazione deve essere attuata mediante accertamento in fatto da parte dei giudice dei merito, evitando improprie dilatazioni dell’ambito di operatività della fattispecie penale contrarie alle attuali condizioni di sviluppo sociale e culturale ma valorizzando ogni altro elemento fattuale significativo, tenendo conto della condotta nel suo complesso, del contesto in cui l’azione si è svolta, dei rapporti intercorrenti tra le persone coinvolte e ogni altro elemento eventualmente sintomatico di una indebita compromissione della libera determinazione della sessualità del soggetto passivo103. Ancor più creativa è la giurisprudenza in materia di stalking, reato ‘biosognoso’ di una rigorosa interpretazione proprio per colmare la genericità e la vacuità della norma incriminatrice, che invece viene interpretato con generosità dalla suprema Corte104, la quale ha affermato che per l’integrazione del reato bastano due sole condotte in successione tra loro, pur se intervallate nel tempo, e che non si richiede l’accertamento di uno stato patologico ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’articolo 612-bis del Cp non costituisce una duplicazione del reato di lesioni . Esegesi, questa, che acuisce la carente determinatezza empirica del reato e la sua irragionevolezza, a suo tempo evidenziate105. 103 Cass. sez. III, n. 10248 del 2014. Cassazione sez. V, 45648/2013. 105 Diritto e scienza, n. 2 del 2012, p. 11. 104 Diritto e scienza 2014/9 Pag. 28 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza Altro esempio degno di nota, ai fini dell’argomento trattato, riguarda la configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, interpretato estensivamente, ancor prima della riforma riguardante la famiglia di fatto e del conseguente espresso allargamento del reato ai soggetti conviventi106. Così, per la suprema Corte ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, non assume alcun rilievo la circostanza che l’azione delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente more uxorio, atteso che il richiamo contenuto nell’articolo 572 del Cp alla «famiglia» deve intendersi riferito a ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo107. Il caso più eclatante, però, è dato da un intervento a Sezioni Unite108, al fine di risolvere un contrasto circa l’esatta individuazione della ricorrenza nei casi concreti della circostanza aggravante dell’ingente quantità prevista dall’art. 80, comma 2, del Testo unico in materia di sostanze stupefacenti, secondo cui ‘Se il fatto riguarda quantità ingenti di sostanze stupefacenti o psicotrope, le pene sono aumentate dalla metà a due terzi; la pena è di trenta anni di reclusione quando i fatti previsti dai commi 1, 2 e 3 dell’art. 73 riguardano quantità ingenti di sostanze stupefacenti o psicotrope e ricorre l’aggravante di cui alla lettera e) del comma 1’. La dottrina aveva dubitato della compatibilità della disposizione con il principio di legalità, non risolta in sede interpretativa, posto che la giurisprudenza oscillava tra interpretazioni ripetitive del testo, ed altre palesemente creative109. Si metteva perciò in evidenza l’eccessiva discrezionalità lasciata all’interprete nell’individuare il confine tra ciò che integra l’aggravante e ciò che non la integra, in spregio alle esigenze garantiste sottese alla riserva assoluta di legge. La Corte sfodera una decisione emblematica dell’ingerenza nei compiti del legislatore. Premesso che «compito della giurisprudenza è (anche) quello di rendere concrete, calandole nella realtà fenomenica, previsioni legislative, non solo astratte, ma 106 La legge 219/2012 e il d.lgs. 154/2013 hanno riscritto il corpus iuris dedicato dal codice civile al diritto di famiglia: in tema di dichiarazione giudiziale di maternità/paternità, in materia di riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio, con riferimento al concetto di residenza abituale, con riguardo alle controversie tra genitori non uniti da matrimonio, etc. In tal modo si sono assottigliate le differenze derivanti dalla maggiore dignità assegnata dal nostro ordinamento alla famiglia c.d. legittima (tutelata dall’art. 29 Cost. in modo peculiare) rispetto alla c.d. famiglia di fatto (tutelata in via generale quale ‘formazione sociale’ dall’art. 2 Cost.). 107 Cassazione, sez. VI, 20647/2008. 108 Cass. sez. un. pen., 20 settembre 2012, n. 36258. Cfr. da una parte Cass. sez. un. 21 giugno 2000, Primavera, secondo cui perché possa parlarsi di quantità ‘ingente’ di stupefacente, è necessario che «la quantità di sostanza tossica, oggetto della specifica indagine nel dato procedimento, superi notevolmente, con accento di eccezionalità, la quantità usualmente trattata in transazioni del genere, nell’ambito territoriale nel quale il giudice del fatto opera»; dall’altra Cass. sez. VI, 19 maggio 2011, n. 31351, che invece si spinge addirittura a individuare un dato ponderale non presente nella disposizione: «il carattere ingente del quantitativo, e cioè la sua eccezionale dimensione rispetto alle usuali transazioni, può certamente essere suscettibile di essere, di volta in volta, confrontato dal giudice di merito con la corrente realtà del mercato; ma, stando a dati di comune esperienza, apprezzabili a maggior ragione dalla Corte di cassazione, sede privilegiata, in quanto terminale di confluenza di una rappresentazione casistica generale, deve ritenersi che non possono, di regola, definirsi ingenti quantitativi di droghe leggere [...] oramai parificate dal punto di vista sanzionatorio alle così dette droghe pesanti, che, presentando una percentuale di principio attivo corrispondente ai valori medi propri di tale sostanza, siano inferiori ai cinquanta chilogrammi». 109 Diritto e scienza 2014/9 Pag. 29 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza apparentemente indeterminate e ciò va fatto attraverso il richiamo al diritto vivente, che si manifesta nella interpretazione giurisprudenziale», conclude che avendo come riferimento il valore-soglia previsto dalle tabelle ministeriali, frutto di nozioni tossicologiche ed empiriche, rapportabile al singolo cliente-consumatore, «è conseguente stabilire, sulla base della fenomenologia relativa al traffico di sostanze stupefacenti, come risultante a questa Corte di legittimità in relazione ai casi sottoposti al suo esame (‘casi’ riferibili all’intero territorio nazionale), una soglia, ponderalmente determinata, al di sotto della quale non possa di regola parlarsi di quantità ‘ingente’». Ne conseguirebbe che, «sulla base dei dati affluiti a questa Corte, si può affermare che, avendo riferimento alle singole sostanze indicate nella tabella allegata al D.M. 11 aprile 2006, non può certo ritenersi ‘ingente’, un quantitativo di sostanza stupefacente che non superi di 2000 volte il predetto valore-soglia (espresso in mg nella tabella)». La sostituzione del giudice al legislatore, in palese contrasto con la disposizione costituzionale che vincola il giudice alla legge (art. 101, comma 2, Cost.), è in tal caso lampante. Né, ad onta delle ragioni pratiche richiamate, può essere messa in discussione. Così, l’avvertimento delle Sezioni Unite, le quali negano «di usurpare una funzione normativa, che ovviamente compete al solo legislatore», ma affermano «di compiere una operazione puramente ricognitiva (…) sulla base dei dati concretamente disponibili e avendo, appunto, quale metro e riferimento i dati tabellari», piuttosto che essere convincente, appare come un omaggio puramente formale al vincolo costituzionale. 4. Conclusioni Il problema non è se le ricostruzioni ermeneutiche dei giudici, che si spingano al di là del testo, siano conformi o meno ai valori attualmente correnti, ma se il giudice possa assumere simili compiti. Premesso che il nostro è un ordinamento di civil law, non si capisce come l’esperienza maturata in altri sistemi possa comportare la forzatura di principi fondamentali, al di fuori dell’ipotesi in cui sussistano obblighi provenienti dall’Unione europea, che però riposano su una parziale cessione di sovranità. Il cd. diritto vivente, quindi, può solo rappresentare un indice della determinatezza della norma, non certo vale a costituirla, attraverso impropri meccanismi integrativi. Occorre inoltre considerare che uno sbarramento al ruolo normativo della giurisprudenza nel diritto penale proviene anche dall’art. 27 Cost., nell’interpretazione che ne ha dato la giurisprudenza costituzionale, prescivendo quale condizione preliminare di applicabilità delle norme incriminatrici l’assolvimento da parte dello Stato dei doveri di informazione, tesi a rendere concretamente conoscibile e intellegibile la disposizione. È evidente che se il contenuto precettivo della stessa fosse fatto dipendere in misura significativa dall’apporto della giurisprudenza, questa condizione non potrebbe realizzarsi in una molteplicità di casi, non essendo ipotizzabile addossare al cittadino l’onere di conoscere i repertori giurisprudenziali, per sapere ciò che è vietato e ciò che è lecito. Diritto e scienza 2014/9 Pag. 30 Anno 2014 n. 9 Diritto e Scienza È ben vero che interventi legislativi imperfetti consentono alla giurisprudenza interpretazioni creative. In questo senso proprio i principi costituzionali rappresentano il principale baluardo, perché è nello scollamento tra la norma giuridica e la realtà, che quei principi sono diretti a evitare, che si aprono gli spazi per la prepotenza del diritto giurisprudenziale. La chiave di lettura del sistema, per chiarire l’ambito del principio di legalità e i limiti della giurisprudenza, rimane quella della classificazione delle norme sulla base del sapere scientifico di riferimento: - scienze naturali > norme del primo tipo e reati naturalistici; - scienze sociali > norme del secondo tipo e reati tecnici; - scienze morali > norme del terzo tipo e reati culturali. In un ordinamento, come quello penale, in cui le norme del terzo tipo sono la netta minoranza, il principio di legalità, con particolare riguardo alla determinatezza della fattispecie penale, non dovrebbe essere compromesso, e fungere da criterio ermeneutico primario, nel senso che il giudice, tra più significati possibili, è tenuto a preferire quello più vicino al dettato testuale secondo l’accezione che si ricava dalla scienza – naturale o sociale – che governa il suo oggetto. Non valgono, infatti, per l’ordinamento penale le considerazioni sviluppate in sede civile, per sostenere la rilevanza che la giurisprudenza di legittimità assume sempre più rilievo nel sistema delle fonti. Né la presenza, complessivamente marginale, di fattispecie incentrate su elementi elastici può modificare questa conclusione, poiché anche questi elementi sono scrutinabili in base a sistemi di conoscenza. Diritto e scienza 2014/9 Pag. 31
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