Thackeray William Makepeace La Fiera delle Vanità DAVANTI AL SIPARIO Il Regista che siede sul palcoscenico davanti al sipario a contemplare la Fiera, si sente pervadere dal sentimento di profonda malinconia che gli ispira quel luogo brulicante di folla. Non si fa che mangiare e bere, amoreggiare e piantarsi, ridere e piangere; non si fa che fumare, imbrogliare il prossimo, altercare, ballare e strimpellare. Ci sono smargiassi che si aprono un varco a spintoni, bellimbusti che fanno l'occhio dolce alle donne, ladruncoli pronti a svuotar le tasche, poliziotti all'erta, imbonitori (altri imbonitori, che il diavolo se li porti!) che strepitano davanti ai loro baracconi, zotici col naso all'aria a guardare i ballerini in vesti multicolori, i poveri acrobati dal viso impiastricciato di belletto, mentre individui dalle dita agili e leggere armeggiano con le loro tasche posteriori. Sì, questa è la FIERA DELLA VANITÀ: non è certo un luogo morale, e nemmeno allegro, ad onta di tanto chiasso. Guardate la faccia degli attori e dei pagliacci quando fanno ritorno tra le quinte: Tom il Tonto che si lava le guance spalmate di trucco prima di sedere a cena dietro il fondale di tela insieme con la moglie e col piccolo Jack Budino. Tra qualche istante si alzerà il sipario, e lui sarà lì a saltare e a sgambettare strillando: «Buongiorno a tutti!» Camminando in mezzo a una siffatta compagine umana, una persona incline alla riflessione non si sentirà oppressa, ritengo, dalla propria o dall'altrui ilarità. Una scenetta amena o gentile può saltuariamente commuoverla o divertirla: un grazioso bimbetto che sosti davanti a un banco di pan pepato; una bella ragazza che arrossisce mentre il suo innamorato le parla e le compra un regaluccio. Tov il Tonto, poveraccio che se ne sta laggiù dietro il carro a rosicchiare le sue ossa insieme con la famiglia che sbarca il lunario con le capriole. Ma l'impressione generale tende alla malinconia più che all'allegrezza. Tornati a casa, vi ponete a sedere indugiando a uno stato d'animo pacato, contemplativo, non esente da spirito di carità, e vi dedicate ai vostri libri o ai vostri affari. Non vedo, al di fuori di questa, altra morale applicabile alla presente storia della Fiera della vanità. C'è chi giudica le fiere affatto immorali, e le evita, come le evitano i suoi domestici e i suoi familiari. Molto probabilmente costoro hanno ragione. Ma le persone che la pensano altrimenti, e sono indolenti benevole o portate al sarcasmo, possono forse compiacersi di trascorrervi una mezz'ora e dare un'occhiata agli spettacoli. Ce ne sono per tutti i gusti; accanite contese, nobili e solenni cavalcate, scene di vita aristocratica, altre di vita decisamente meschina; un certo sentimentalismo e qua e là qualche sprazzo di comicità. Il tutto fruisce di uno scenario acconcio illuminato a giorno dalle candele fornite dallo stesso Autore. Che altro può aggiungere il Regista? Dare atto della lusinghiera accoglienza che hanno salutato lo spettacolo in tutte le principali città dell'Inghilterra in cui è stato presentato, e dove è stato valutato positivamente dai rappresentanti della pubblica Stampa e del pari dalle persone ragguardevoli per censo e per ceto. È fiero di constatare che le sue marionette hanno incontrato i gusti della miglior società dell'Impero. La vezzosa, piccola marionetta di nome Becky è stata giudicata straordinariamente flessibile nelle giunture e agilissima sotto i fili. A sua volta la bambola Amelia, sebbene abbia avuto una cerchia più esigua di estimatori, è stata scolpita e vestita dall'artista con la massima cura. Dobbin, sebbene goffo nella figura, balla peraltro in modo molto spontaneo e naturale. Qualcuno ha mostrato di apprezzare la Danza dei Bambini. Si prega infine di osservare attentamente il personaggio fastosamente abbigliato del Perfido Nobiluomo, per il quale non si è badato a spese, e che Belzebù si porterà via al termine di questa singolare rappresentazione. Ciò detto, e non senza un profondo inchino ai suoi sovvenzionatori, il Regista s'inchina e il sipario si alza. Londra, 28 giugno 1848. I • CHISWICK MALL In una splendida mattina di giugno, nel secondo decennio del nostro secolo, davanti al grande cancello di ferro dell'educandato femminile di Miss Pinkerton, a Chiswick Mall, si fermò una vistosa carrozza padronale trainata da due floridi cavalli dai finimenti lucentissimi e guidata alla velocità di quattro miglia all'ora da un grasso cocchiere in parrucca e tricorno. Un servitore negro, che sedeva in serpa accanto al cocchiere, scese stirandosi le gambe storte non appena il cocchio si fu arrestato davanti alla lucida targa di ottone dell'educandato. Non appena ebbe dato uno strattone al campanello, una ventina almeno di testoline fece capolino dalle strette finestre che si aprivano in quel vecchio, maestoso edificio di mattoni. Ma non è tutto: un attento osservatore avrebbe potuto scorgere, al di sopra dei vasi di geranio che adornavano la finestra del salottino, anche il nasetto rosso della buona Miss Jemima Pinkerton. «È la carrozza di Mrs. Sedley, sorella,» disse Miss Jemima. «Sambo, il servo negro, ha suonato or ora il campanello. Il cocchiere ha un panciotto rosso, nuovo di zecca.» «Hai terminato i preparativi necessari in vista della partenza di Miss Sedley?» chiese l'imponente signora, ossia Miss Pinkerton in persona la Semiramide di Hammersmith, l'amica del dottor Johnson nonché corrispondente dell'eccelsa Mrs. Chapone. «Stamattina le ragazze si sono alzate alle quattro per prepararle i bagagli, sorella,» rispose Miss Jemima. «E le abbiamo fatto anche un mazzo di fiori.» «Di' "bouquet", Jemima. È più distinto.» «E va bene: le abbia fatto un bocché grosso quasi come un covone di fieno. Nella valigia di Mrs. Sedley ho messo anche due boccette di essenza di violacciocca e la ricetta per fabbricarla.» «Voglio sperare, Jemima, che tu abbia provveduto a preparare anche una copia del conto di Miss Sedley. È questo, vero? Benissimo: novantatré sterline e quattro scellini. Abbi la cortesia di indirizzarlo a Mr. Sedley e di sigillare questo biglietto che ho scritto a sua moglie.» Agli occhi di Miss Jemima una lettera di pugno di sua sorella costituiva un oggetto degno della più profonda venerazione, come se fosse stato vergato da una sovrana. Solo quando le allieve prendevano congedo dall'istituto, o quando si accingevano a sposarsi, Miss Pinkerton scriveva di persona ai genitori, ma lo aveva fatto anche quando la povera Mrs. Birch era morta di scarlattina. Per parte sua Miss Jemima era convinta che, se mai qualcosa al mondo aveva esercitato poteri consolatori su Mrs. Birch in occasione della perdita di sua figlia, si era trattato certamente dell'eloquente nonché edificante scritto col quale Miss Pinkerton le aveva dato la ferale notizia. In questo caso, peraltro, il billet di Miss Pinkerton era formulato nei seguenti termini: The Mall, Chiswick, 15 giugno 18... Signora, Dopo sei anni di permanenza al Mall ho l'onore e il piacere di presentare ai suoi genitori Miss Amelia Sedley nella sua qualità di giovinetta ormai degna di occupare il posto che le compete nel mondo raffinato ed elegante. Le virtù che caratterizzano le gentildonne inglesi, quei tratti particolari che loro derivano dalla nascita e dal ceto sociale, non fanno certo difetto in Miss Sedley, la cui docile e laboriosa diligenza è valsa a procacciarle l'affetto dei suoi insegnanti e la cui dolcezza di carattere ha conquistato tutte le sue compagne, dalle più giovani alle più anziane. Nella musica, nelle danza, nell'ortografia, nei lavori di ricamo e di cucito ella non è venuta meno alle trepide attese di chi le vuole bene. Nondimeno in geografia lascia ancora alquanto a desiderare, mentre si raccomanda caldamente l'uso costante della tavoletta dorsale durante quattro ore giornaliere per i prossimi tre anni onde Miss Sedley acquisti quel portamento dignitoso che si addice alle giovinette della buona società. Quanto ai principi religiosi e morali Miss Sedley è in tutta degna di un istituto che è stato onorato dalla presenza del "Grande Lessicografo" e del patronato della illustre Mrs. Chapone. Lasciando il Mall, Miss Amelia porta seco il cuore delle sue compagne e gli affettuosi saluti della sua insegnante che ha l'onore di firmarsi, della signoria vostra devotissima serva Barbara Pinkerton. P.S. Miss Sharp accompagna Miss Sedley. Si raccomanda caldamente che la permanenza di Miss Sharp in Russell Square non superi i dieci giorni. La famiglia d'alto bordo dalla quale verrà assunta desidera fruire al più presto dei suoi servigi. Quando ebbe terminata la lettera, Miss Pinkerton vergò il proprio nome e quello di Miss Sedley sul frontespizio del dizionario del dottor Johnson, l'interessante opera di cui ella faceva dono a tutte le sue allieve quando lasciavano il Mall. Alla copertina era unita una copia delle Parole indirizzate a una giovinetta che lascia l'educandato di Miss Pinkerton al Mall, del compianto reverendo dottor Samuel Johnson. Occorre aggiungere che la maestosa dama menzionava con estrema frequenza il nome del Lessicografo da quando una visita di quest'ultimo all'istituto era valsa a consacrarne la fama e la fortuna. Ricevuto dalla sorella maggiore l'ordine di prelevare «il dizionario» dallo scaffale, Miss Jemima aveva tolto dal mobile due copie del volume in questione. Poi, quando Miss Pinkerton ebbe terminato di redigere la dedica sulla prima, Miss Jemima con aria timida e incerta le porse la seconda. «E questo per chi è?» domandò la Pinkerton con terrificante freddezza. «Per Becky Sharp,» rispose la tremebonda Jemima, facendosi rossa in volto e persino sul collo risecchito; e volse le spalle alla sorella. «Sì, per Becky Sharp: anche lei se ne va...» «MISS JEMIMA!» esclamò la sorella, quasi parlasse in lettere maiuscole. «Ti ha forse dato di volta il cervello? Rimetti il dizionario sullo scaffale e non arrischiarti più ad assumere iniziative del genere!» «Va bene, sorella, ma dopo tutto costa soltanto due scellini e nove pence, e Becky, poveretta, ci resterà malissimo se non lo riceverà.» «Mandami subito Miss Sedley,» disse Miss Pinkerton: al che Miss Jemima trottò via, turbata e nervosissima, incapace di aggiunger parola. Il padre di Miss Sedley era un commerciante londinese che godeva di una solida agiatezza, mentre Miss Sharp era stata accettata all'educandato alla pari: per lei Miss Pinkerton era convinta di aver fatto abbastanza, e riteneva del tutto superfluo accordarle il privilegio del dizionario all'atto della partenza. Sebbene per solito le lodi tributate dalla direttrice di una scuola non siano più attendibili di quelle incise su una pietra tombale, nondimeno, come avviene che un individuo si congedi da questa terra meritandosi appieno gli elogi incisi dallo scalpellino sulla sua tomba - che sia stato, cioè, un buon cristiano, un buon padre, un buon figlio, una buona moglie o un buon marito, e che veramente lasci la sua famiglia in lacrime - così negli educandati maschili e femminili può talvolta accadere che l'allievo si sia mostrato degno del plauso tributatogli da un direttore disinteressato. Miss Amelia Sedley rientrava nel novero di queste eccezioni; e non saltato era in tutto meritevole degli elogi di Miss Pinkerton, ma vantava del pari altre preclare virtù che quella vecchia, presuntuosa Minerva non era stata in grado di notare per il divario di temperamento e di età che la separava dalla sua allieva. Giacché non solo Miss Sedley cantava come un usignolo, o come una Billington e danzava come una Hillisberg o una Parisot; non solo ricamava alla perfezione e scriveva con un'ortografia impeccabile come quella del dizionario, ma in petto le batteva un cuore sensibile, tenero, gioioso, longanime, tale da assicurarle l'affetto di chiunque avesse a che fare con lei: dalla vecchia Minerva alla sguattera e alla figlia guercia di una venditrice di dolciumi che una volta la settimana era autorizzata a offrire la propria merce alle educande del Mall. Delle sue ventiquattro compagne, dodici potevano considerarsi sue intime amiche. Nemmeno l'invidiosa Miss Briggs si arrischiava a sparlare di lei: la grande e potente Miss Saltire (nipote di Lord Dexter) non esitava a riconoscerle un portamento aristocratico. Quanto a Miss Swartz, una ricca e facoltosa mulatta giunta a Londra da St. Kitt, il giorno della partenza di Amelia fu colta da un tale accesso di disperazione che si rese necessario l'intervento del dottor Floss e poco mancò dovessero narcotizzarla col sal volatile. Per contro, l'affetto di Mrs. Pinkerton si esprimeva in forma calma e compassata, come l'alta posizione sociale e le eminenti virtù di questa signora lasciano facilmente immaginare, ma per parte sua Miss Jemima aveva pianto ripetutamente nell'imminenza del distacco da Amelia, e se il timore di sua sorella non glielo avesse impedito avrebbe ceduto anch'essa a un attacco isterico al pari dell'ereditiera di St. Kitt (la quale, per parte sua, pagava una retta doppia). Naturalmente queste estrinsecazioni di soverchio dolore erano concesse soltanto alle allieve di prima categoria. Invece la povera Jemima doveva badare ai conti, al bucato, alle riparazioni, ai dolci, alle stoviglie, al pentolame e alla servitù. D'altro canto, perché insistere a parlare di lei? Molto probabilmente, d'ora in poi non la sentiremo più menzionare, e quando il pesante cancello di ferro battuto si sarà richiuso su di lei, né lei né Miss Pinkerton lo varcheranno per entrare nel piccolo mondo di cui ci accingiamo a raccontare la storia. Poiché invece avremo occasione di parlare a lungo di Amelia, è più che lecito dire, sin dall'inizio della nostra conoscenza con lei, che era un'adorabile creatura; e non è cosa da poco, nella vita come nei romanzi dove (specie in questi ultimi) abbondano mascalzoni di ogni genere, avere costantemente a che fare con una persona così candida e lietamente disposta verso il prossimo. Dal momento che non si tratta di un'eroina, descrivere il suo aspetto fisico è senza scopo: diciamo che, per essere un'eroina, aveva forse il naso troppo corto e le guance troppo piene, ma il suo era un colorito sano e il suo sorriso era fresco e radioso. I suoi occhi brillavano di una vivida, scintillante serenità, tranne quando le si colmavano di lacrime: circostanza, questa, che per vero dire si verificava un po' troppo spesso. Giacché infatti questa candida fanciulla piangeva per la morte di un canarino, o per quella di un topo che il gatto avesse destramente acciuffato, o per la fine di un romanzo, foss'anche il più sciocco. Peggio che mai se accadeva che qualcuno le rivolgesse parole scortesi, ammesso che qualcuno osasse farlo. Persino l'austera e onnipotente Miss Pinkerton l'aveva rimproverata una sola volta, e sebbene capisse la sensibilità altrui come capiva l'algebra, aveva imposto a tutto il corpo insegnante di trattare Miss Sedley con la massima cortesia. Con lei i toni aspri e perentori andavano completamente banditi. Fu così che, al momento del commiato, Miss Sedley non seppe come comportarsi, incerta qual era tra il riso e il pianto, suoi consueti strumenti di espressione. Era contenta di tornare a casa, e al tempo stesso le dispiaceva lasciare il convitto. Per tre giorni, prima della sua partenza, Laura Martin, l'orfanella, le era rimasta incessantemente alle calcagna come se fosse stata un cagnolino. Inoltre aveva fatto e ricevuto una dozzina di regali, e quattordici promesse di scrivere almeno una volta la settimana. «Spediscimi la lettera in doppia busta all'indirizzo del conte di Dexter, mio nonno,» le disse la Saltire (che, sia detto per inciso, era decisamente tirchia). «Non importa che tu metta il francobollo, sai? Quello che conta è che tu mi scriva tutti i giorni,» le aveva detto invece l'esuberante Swartz dai capelli lanosi, una ragazza dall'indole generosa e cordiale. Per parte sua la piccola Laura Martin, che da poco aveva imparato a scrivere, le prese una mano e con espressione compunta le disse: «Sai, Amelia? Nelle mie lettere ti chiamerò "mamma".» Particolari, questi, che Mr. Jones, il quale sta leggendo il libro nel suo circolo, senz'alcun dubbio reputerà sciocchi, inconsistenti, sentimentali e pretestuosi. Proprio così: mi pare di vederlo, Mr. Jones, alquanto acceso da una cenetta a base di montone arrosto annaffiato da una mezza pinta di vino, nell'atto d'armarsi di matita e di sottolineare gli aggettivi «inconsistenti e pretestuosi», aggiungendovi sicuramente le parole «proprio così», a titolo di commento personale. Mr. Jones è un uomo di genio che ammira la grandezza e l'eroismo, nella vita come nei romanzi. Accetti pertanto un buon consiglio: meglio cercarli altrove. Ma torniamo ai fatti. Quando Mr. Sambo ebbe sistemato con ogni cura sulla carrozza i fiori, i regali, i bauli e le cappelliere di Miss Sedley, oltre a un vecchio bauletto di pelle alquanto scalcagnato sul quale era stato inchiodato saldamente il biglietto da visita di Miss Sharp, e che il suddetto Sambo si affrettò a consegnare con un risolino al cocchiere il quale a sua volta lo sistemò col resto del bagaglio, non senza una smorfia di spregio, venne finalmente l'ora della partenza. In quel momento il dolore del distacco fu sensibilmente attenuato dall'edificante discorso rivolto da Miss Pinkerton alla sua alunna. Non che quel discorso di addio alimentasse in Amelia uno stato d'animo più sereno, o le ispirasse una calma che fosse frutto di razionalità. Al contrario lo sproloquio della Pinkerton risultò noioso, conclamante, rettorico, letteralmente insopportabile, né Miss Sedley, timorosa com'era della dama in questione, si arrischiò ad esternare alla di lei presenza i suoi segreti affanni. Poi in salotto furono recati una bottiglia di vino e una ciambella, come avveniva in circostanze solenni quali le visite dei genitori delle allieve; dopo di che, consumato il rinfresco, Miss Sedley fu libera di andarsene. «Andate a salutare Miss Pinkerton, Becky,» disse Miss Jemima a una ragazza che nessuno aveva notato, e che in quel momento scendeva le scale reggendo una cappelliera. «Temo proprio di esser tenuta a farlo,» rispose Miss Sharp imperturbabile, lasciando Miss Jemima stupefatta. Miss Sharp bussò alla porta, e dopo aver ricevuto l'invito ad entrare varcò la soglia con fare disinvolto, dicendo in un francese dall'accento impeccabile: «Mademoiselle, je viens vous faire mes adieux.» Miss Pinkerton non conosceva il francese: si limitava a dirigere chi lo conosceva; onde si morse le labbra, e alzando il capo adorno di un bel naso romano e coronato da un grande e solenne turbante, si accontentò di rispondere: «Miss Sharp, vi do il buongiorno.» E nel profferire queste parole la Semiramide di Hammersmith agitò la mano in un gesto che recava in sé il duplice scopo di salutare Miss Sharp e offrirle il destro di stringerle un dito, sicché per qualche istante la mano le rimase sollevata. Miss Sharp, per parte sua, incrociò le mani con un freddo sorriso, si piegò in un inchino e non raccolse l'onore che le veniva accordato. La Semiramide reagì con un moto indignato del turbante: era l'ultima scaramuccia tra la giovane e la vecchia, e quest'ultima aveva avuto la peggio. «Che Dio vi benedica, mia cara,» disse abbracciando Amelia, e al tempo stesso dardeggiando la Sharp con sguardi di corruccio al di sopra delle spalle della giovane. «Suvvia, venite, Becky,» disse Miss Jemima estremamente preoccupata, trascinando via Miss Sharp, poi la porta del salotto si chiuse per sempre alle loro spalle. Poco dopo, al piano di sotto, si venne alla dolorosa separazione. Le parole non sono in grado di descriverla. Nell'atrio si erano radunate la servitù al completo, le amiche del cuore, tutte le compagne e le insegnanti, nonché il maestro di danza sopraggiunto proprio in quel momento. Tali furono l'agitazione collettiva, lo scambio di baci e di abbracci conditi dagli strilli isterici provenienti dalla stanza di Miss Swartz, l'alunna di riguardo, che nessuna penna sarebbe in grado di dipingerli, e ogni cuore gentile sarà ben lieto di non indugiarvi. Ad ogni modo anche gli abbracci ebbero termine e si separarono, ossia Miss Sedley si separò dalle sue amiche. Già da qualche minuto Miss Sharp era salita quietamente in carrozza: nessuno pianse per doverla lasciare. Sambo, il servo negro dalle gambe storte, chiuse la portiera della carrozza dietro la padroncina in lacrime, poi balzò sul predellino posteriore. «Ferma!» gridò Miss Jemima, correndo verso il cancello con un pacchetto in mano. «Eccoti qualche panino, cara,» disse ad Amelia. «Durante il tragitto potrebbe venirti appetito. Becky, Becky Sharp, qui c'è un libro che mia sorella... cioè, io... sì, il dizionario di Johnson, insomma. Non puoi andartene senza! E adesso addio! Avanti pure, cocchiere! Addio! Che Dio vi benedica!» E la buona creatura rientrò in giardino sopraffatta dall'emozione. Ma, oh sorpresa! Proprio mentre la carrozza si metteva in moto, Miss Sharp sporse il pallido viso dal finestrino e scaraventò il dizionario in giardino. Per poco Miss Jemima non svenne per lo sgomento. «Ma... ma... non mi è mai capitato... Quale audacia!» esclamò. L'emozione le impedì di portare a compimento le due frasi. La carrozza si allontanò; il grande cancello venne richiuso. Suonò una campanella che annunciava l'inizio della lezione di ballo. Il mondo si schiudeva davanti alle due fanciulle. Addio per sempre, Chiswich Mall. II • NEL QUALE MISS SEDLEY E MISS SHARP SI PREPARANO A DAR BATTAGLIA Non appena Miss Sharp ebbe compiuto il gesto poc'anzi descritto e vide che il dizionario, dopo esser volato sul lastricato del giardino, era caduto ai piedi dell'esterrefatta Miss Jemima, il suo volto, che sino a quel momento aveva espresso un livido rancore, si atteggiò ad un sorriso non molto più gradevole, poi si abbandonò soddisfatta sui cuscini della carrozza e disse: «Il dizionario l'ho bell'e sistemato. E grazie a Dio sono fuori da Chiswick.» Quel gesto di ribellione scombussolò Miss Sedley non meno di Miss Jemima. Basti infatti considerare che aveva lasciato il collegio da pochi minuti, un lasso di tempo insufficiente per sgombrare il campo dalle sensazioni ch'era andata accumulando nell'arco di sei anni. Si consideri come esistano persone alle quali non basta una vita per sbarazzarsi dalla paura e dai timori reverenziali. Si faccia, per esempio, il caso di un signore di mia conoscenza: un uomo di sessantotto anni che una mattina, a colazione, mi disse con volto estremamente turbato: «Stanotte ho sognato che il dottor Raine mi frustava.» Quella notte le sue reminiscenze lo avevano riportato indietro di cinquantacinque anni, e nel segreto della sua psiche, il dottor Raine e la sua bacchetta erano stati terribili come a tredici. E se il dottor Raine gli fosse apparso in carne ed ossa armato della sua verga di betulla, e gli avesse ingiunto: «Abbassati i calzoni, ragazzo»? .. Pertanto Miss Sedley era rimasta semplicemente sconvolta da quel gesto d'insubordinazione. «Come hai potuto fare una cosa simile, Rebecca?» disse alla fine, dopo una pausa di silenzio. «Perché? Credi forse che salterà fuori Miss Pinkerton per ordinarmi di tornare indietro e stare in castigo nello stanzino buio?» disse Rebecca ridendo. «No, ma...» «Odio quella casa,» continuò Rebecca furibonda, «e spero solo di non vederla mai più. Vorrei che finisse in fondo al Tamigi, ecco cosa vorrei. E se ci fosse dentro Miss Pinkerton, sta' pur certa che non muoverei un dito per tirarla fuori. Ah, cosa darei per vederla galleggiare a pelo d'acqua col suo turbante, la coda del suo vestito e quel suo naso che sembra la prua di un barca!» «Zitta!» supplicò Amelia. «Perché? Temi forse che il lacchè negro vada a spifferare quel che sente?» obiettò Rebecca ridendo. «Che torni indietro, se gli garba, e vada a raccontare alla Pinkerton che la odio con tutta l'anima. Sì, vorrei proprio che lo facesse. Vorrei dimostrarle quanto la detesto. Per due anni non ho avuto che insulti e offese. Sono stata trattata peggio dell'ultima delle sguattere. Non ho mai avuto un'amica; nessuno, tranne te, mi ha mai rivolto una parola buona. Sono stata costretta a occuparmi delle piccole delle elementari e a parlare francese con le allieve del corso superiore, al punto che la mia lingua materna mi è venuta a noia. Però, salutare la Pinkerton in francese è stata un'idea proprio buffa, non ti pare? Non ne sa una sola parola, ma si dà troppe arie per confessarlo. Credo sia stato proprio questo a indurla a lasciarmi andare. Quindi, benedetto sia il francese! Vive la France! Vive l'Empereur! Vive Bonaparte!» «Oh, Rebecca, Rebecca! Non ti vergogni?» esclamò Amelia. Quella era certamente la bestemmia più nefanda che la bocca di Becky avesse mai profferito. In quel momento, gridare in Inghilterra «Viva Bonaparte!» era come gridare «Viva il diavolo!» «Ma come puoi, come osi nutrire propositi tanto vendicativi?» «La vendetta sarà forse malvagia, ma è naturale,» rispose Rebecca. «Non sono un angelo, io». E in verità non lo era davvero. Giacché infatti, come si è potuto dedurre da questa pur breve conversazione (che si snodava mentre la carrozza arrancava lentamente in direzione del Tamigi), se per due volte Rebecca Sharp aveva ringraziato il Cielo, lo aveva fatto innanzitutto perché finalmente si era liberata da una persona che odiava, e in secondo luogo perché aveva colto l'occasione propizia per confondere i suoi nemici: motivi che senza dubbio alcuno non possono ascriversi a devota gratitudine, e che non si affacciano alla mente delle persone dotate di temperamento mite e sottomesso. Rebecca non era certamente mite, né sottomessa. Tutti la trattavano male, diceva la giovane misantropa, e possiamo esser certi che una persona trattata male da tutti merita in fondo il trattamento di cui vien fatta oggetto. Il mondo è uno specchio che ad ogni uomo rimanda la sua immagine. Se lo fissi con espressione accigliata, ti risponderà con un'occhiataccia. Se ridi di lui e con lui, diventerà un amico allegro e compiacente. Pertanto i giovani non hanno che da scegliere: se il mondo non si curava di Miss Sharp, lei a sua volta non si era mai prodigata per nessuno. Di conseguenza non era lecito aspettarsi che ventiquattro ragazze fossero gentili come Miss Sedley, l'eroina di questo libro (e che alla quale abbiamo affidato questo ufficio proprio perché tale era il suo carattere, altrimenti la scelta sarebbe potuta cadere su Miss Swartz, o Miss Crump, o Miss Hopkins.) No, non si poteva attendersi che fossero tutte d'indole gentile e mansueta come Miss Amelia Sedley, che tutte cogliessero ogni possibile occasione per trionfare della cattiveria e del pessimo carattere di Rebecca, e che infine tutte riuscissero - profondendosi in cortesie e in buone parole - a debellare almeno una volta l'avversione di Rebecca per i suoi simili. Il padre di Rebecca era un artista, e in tale sua qualità aveva dato lezioni di disegno nell'educandato di Miss Pinkerton. Era un uomo intelligente, di gradevole compagnia, piuttosto indolente nel lavoro, con una pronunciata inclinazione soverchia a contrarre debiti e a frequentare le osterie. Quando era ubriaco picchiava, la moglie e la figlia; poi, la mattina, in preda all'emicrania, imprecava contro il mondo che disprezzava il suo genio, e per giunta insultava in termini molto incisivi (e a volte non senza valide ragioni) quegli stupidi dei pittori suoi colleghi. Dal momento che stentava alquanto a sbarcare il lunario, e a Soho, il quartiere dove abitava, era in debito con tutto il vicinato per un miglio all'intorno, aveva ritenuto di migliorare la propria situazione impalmando una giovane ballerina francese. Per parte sua, Miss Sharp evitò sempre di alludere alla modesta professione di sua madre: anzi, a partire da un certo momento, prese ad asserire categoricamente che gli Entrechats erano una famiglia di nobile schiatta originaria della Guascogna, e a menare gran vanto dei suoi antenati. E non è tutto: per quanto la cosa possa sembrar curiosa, a mano a mano che la fanciulla avanzava negli anni, questi antenati crescevano per rango e per splendore. Nondimeno la madre di Rebecca era una persona abbastanza istruita, onde sua figlia si esprimeva in un francese purissimo, dall'impeccabile accento parigino. A quell'epoca si trattava di una virtù alquanto rara, e tale, in effetti, fu la ragione del contratto con la rigorosa Miss Pinkerton. Dopo la morte della moglie, il padre di Rebecca, consapevole di avere ben poche probabilità di guarire dopo un terzo attacco di delirium tremens, scrisse una dignitosa e patetica lettera a Miss Pinkerton raccomandando la figlia orfana alla di lei benevolenza, dopo di che discese nella tomba al cospetto di due ufficiali giudiziari che litigavano fra loro. Rebecca aveva diciassette anni quando si recò a Chiswick nella sua duplice qualità di allieva e di insegnante. I suoi doveri, lo abbiamo visto, consistevano nel parlar francese, e i suoi diritti nell'essere mantenuta, nel ricevere uno stipendio di poche ghinee all'anno e nell'attingere briciole di sapere dai professori che insegnavano nell'educandato. Era piccola e minuta, piuttosto pallida, coi capelli castano-chiaro e due occhi che, solitamente chini, quando si alzavano apparivano molto grandi, belli e dotati di una straordinaria intensità. Erano così belli che il reverendo Crisp, che proprio allora aveva concluso i suoi studi a Oxford ed era coadiutore del vicario di Chiswick, il reverendo Flowerdew, si era invaghito di Miss Sharp solo per esser stato ferito da uno sguardo di quegli occhi che lei gli aveva lanciato dal banco dell'educandato nella chiesa di Chiswick, raggiungendolo sul pulpito. Il giovanotto pervaso da codesti amorosi sensi prendeva talvolta il tè nel salotto della Pinkerton, alla quale era stato presentato da sua madre, e aveva spinto il proprio ardire sino a vergare una specie di dichiarazione su un biglietto, affidando alla venditrice guercia l'incarico di recapitarlo alla destinataria, ma il biglietto in questione era stato intercettato. Mrs. Crisp, tempestivamente informata del fatto, giunse da Boxton e si portò via il suo caro ragazzo. La semplice idea che in quel nido di colombelle si celasse quell'aquila rapace aveva letteralmente scombussolato Miss Pinkerton, la quale non avrebbe esitato a scacciare Rebecca se non fosse stata legata da un contratto; né mai si mostrò disposta a credere alle proteste della fanciulla, che giurava di non aver mai scambiato una parola con Mr. Crisp, eccetto nelle due circostanze in cui lo aveva incontrato all'ora del tè sotto i suoi occhi. Al confronto delle altre educande, tutte alte e slanciate, Rebecca sembrava una bambina, e tuttavia aveva la melanconica precocità dei poveri. Le circostanze l'avevano costretta ad affrontare tanti creditori e a chiudere loro la porta in faccia, ad adulare tanti fornitori per ammansirli e convincerli ad accordarle ancora a credito un po' di cibo. Trascorreva gran parte del suo tempo col padre, costretta a porger l'orecchio ai discorsi dei suoi innumerevoli compagni di bisboccia, sovente assai poco adatti alle orecchie di una fanciulla. Ma Rebecca, diceva lui, non era mai stata una ragazza: a otto anni era già una donna. Perché dunque Miss Pinkerton aveva permesso che un uccello tanto pericoloso penetrasse nella sua gabbia? Il fatto è che la vecchia signora credeva che Rebecca fosse la più innocua creatura di questo mondo, tanto perfetta era l'arte con la quale ella mostrava di saper recitare la parte dell'ingénue ogni qual volta il padre la portava con se a Chiswick. Circa una anno prima dell'accordo in base al quale era stata ammessa all'educandato, Rebecca, allora sedicenne aveva ricevuto in dono da Miss Pinkerton una bambola (che, sia detto per inciso, apparteneva a Miss Swindle, cui era stata sequestrata perché vi giocava durante le ore di scuola) e il dono era stato accompagnato da un discorsetto edificante e solenne. Come ridevano, padre e figlia, mentre bel bello rientravano a casa dopo il ricevimento (ossia il giorno della premiazione, cui assisteva tutto il corpo insegnante) e come si sarebbe infuriata la Pinkerton se avesse potuto vedere la caricatura che quella mima impeccabile di Rebecca faceva della sua persona, servendosi della bambola in questione! Con lei Becky intrecciava certi dialoghi estremamente spiritosi che esilaravano Newman Street, Gerrard Street e tutto il quartiere degli artisti. I giovani pittori che venivano a bersi un bicchiere di gin-and-water insieme col loro pigro, dissoluto e gioviale maestro, avevano l'abitudine di chiedere scherzosamente a Rebecca se Miss Pinkerton fosse in casa. E ormai la conoscevano, poveretta: eccome se la conoscevano! Quasi come Mr. Lawrence o il presidente West. Una volta Rebecca ebbe l'onore di trascorrere qualche giorno a Chiswick Mall, e tornò a casa con Jemima, un'altra bambola alla quale fu assegnato il nome di Miss Jemmy. E questo perché, sebbene la poveretta le avesse offerto marmellata e ciambelle in quantità sufficiente per sfamare tre bambini, e per di più quando se n'era andata le avesse regalato una moneta da sette scellini, in Rebecca il senso del comico era decisamente superiore alla gratitudine, cosicché Miss Jemmy fu sacrificata senza misericordia, seguendo la sorte della di lei sorella. Poi sopravvenne la catastrofe, e Rebecca venne condotta al Mall, che d'ora innanzi sarebbe stata la sua casa. Il rigido formalismo che vi dominava le dava l'impressione di soffocare: il susseguirsi - impietosamente ritmato - delle preghiere, dei pasti, delle lezioni e delle passeggiate, come si fosse trattato di un convento, le riusciva opprimente altre ogni dire; il che la induceva a ripensare alla libertà del miserando studio di Soho con un sentimento di così struggente nostalgia che tutti, lei compresa, furono indotti a ritenere che a consumarla fosse il dolore causatole dalla morte del padre... Aveva una stanzetta negli abbaini, e di notte le domestiche la udivano piangere e camminare. Ma piangere di rabbia: non di dolore. Non era mai stata un'ipocrita, sino a quando la solitudine le insegnò l'arte della simulazione. I suoi contatti con le donne erano sempre stati molto scarsi. Suo padre, per quanto deplorevole, era un uomo geniale, e la sua conversazione le riusciva mille volte più stimolante di quella offertale dalle persone del suo sesso che le circostanze le facevano conoscere. L'altezzosa vanagloria della vecchia direttrice, l'ottusa bonomia della sorella, le chiacchiere insulse e i pettegolezzi delle ragazze più grandicelle, il tono gelido e compassato delle istitutrici: tutto la indispettiva in egual misura. Rebecca non aveva il minimo sentimento di tenerezza materna, altrimenti il chiacchiericcio delle più piccine, di cui era suo compito occuparsi, sarebbe valso a interessarla e a distrarla. Invece, pur essendo vissuta accanto a loro per due anni, nessuna mostrò di dolersi della sua partenza. La buona e gentile Amelia Sedley fu l'unica persona alla quale poté, sia pure in modesta misura, legarsi di un sentimento di amicizia; ma chi avrebbe potuto non affezionarsi ad Amelia? La gioia e i privilegi di cui fruivano le fanciulle che la circondavano causavano a Rebecca indicibili spasimi di invidia. «Quella si dà tante arie perché è la nipote di un conte,» diceva di una. «Come s'inchinano, come scodinzolano tutti davanti a quella creola, per via delle sue centomila sterline! Lei è ricca, ma io sono mille volte più intelligente e più affascinante di lei! Sono colta e educata come la nipote di un conte, con tutto il suo albero genealogico... Ma qui sono l'ultima di tutte. E pensare che, quando vivevo con mio padre, i giovanotti erano pronti a rinunciare ai balli e alle feste, pur di trascorrere una serata in mia compagnia!» Fu a questo punto che Becky decise di uscire ad ogni costo dalla prigione nella quale era reclusa, e prese a fare progetti concreti per l'avvenire. Sfruttò tutte le possibilità che il luogo le offriva in materia di studio e, dal momento che aveva inclinazione per la musica non meno che per le lingue, non tardò a portare a termine il corso d'istruzione che a quell'epoca veniva reputato un necessario compendio all'educazione di una fanciulla. Si esercitava senza posa al pianoforte, e un giorno che tutte le sue compagne erano uscite, e lei era rimasta sola in casa, fu udita eseguire un brano con tale maestria, che Minerva coltivò senza indugio il saggio proposito di risparmiare la spesa di un insegnante per le più piccole e ordinò a Miss Sharp di impartir loro lezioni di musica. Ma la ragazza per la prima volta, e non senza lo stupefatto disappunto della maestosa direttrice, oppose un secco rifiuto. «Sono qui per parlare il francese alle bambine,» disse Rebecca, asciutta, «non per insegnare musica e farvi risparmiare dei quattrini. Pagatemi, e io la insegnerò.» Minerva si vide costretta a cedere, ma da quel giorno inutile dirlo, prese a detestarla. «In trentaquattro anni,» disse (ed era vero), «nessuno ha mai osato ribellarsi alla mia autorità. Mi sono nutrita una serpe in seno.» «Serpe... un corno,» rispose Miss Sharp alla vecchia dama prossima a svenire per la sorpresa. Mi avete accolta perché vi tornavo utile. Tra noi non ha senso parlare di gratitudine. Odio questo luogo e voglio andarmene. Non intendo far niente più di quanto sia obbligala a fare.» Inutilmente la vecchia dama le chiese se si rendeva conto di parlare a Miss Pinkerton. Rebecca le rispose con una risata: un orrida, sarcastica, diabolica risata che mancò poco non facesse venire un attacco isterico alla direttrice.» «Datemi un po' di soldi,» continuò la ragazza, «e liberatevi di me; oppure, se preferite, trovatemi un buon posto d'istitutrice presso una famiglia dell'aristocrazia: potrebbe essere una soluzione, se siete d'accordo.» E in tutte le discussioni che seguirono Rebecca continuò a insistere su questo punto: «Trovatemi un lavoro. Noi due ci odiamo ed io sono pronta ad andarmene.» La degna Miss Pinkerton, col suo naso romano e il suo turbante, sebbene fosse alta come un granatiere e sino a quel momento fosse stata una specie di monarca assoluto al quale nessuno osava opporsi, non aveva la tenacia della sua giovane allieva, e invano lottava contro di lei nel tentativo di intimorirla. Una volta che si era arrischiata a rimproverarla in pubblico, Rebecca aveva fatto ricorso al sopradescritto espediente di risponderle in francese, cosa che aveva letteralmente distrutto la poveretta. Se intendeva conservare la sua autorità nell'educandato, era ormai necessario allontanare la ribelle, levarsi di torno quel mostro, quella serpe, quel tizzone d'inferno; cosicché, serpe o tizzone che fosse, avendo appreso proprio allora che la famiglia di Sir Pitt Crawley aveva bisogno di un'istitutrice, Miss Pinkerton non esitò a raccomandare Miss Sharp. «Non posso certo affermare che il contegno di Miss Sharp sia disdicevole, se non nei miei confronti, e devo riconoscere che le sue doti e le sue qualità sono di altissimo livello. Per lo meno per quanto riguarda il cervello, posso asserire che esso rende onore ai metodi didattici seguiti nel mio istituto.» Così la direttrice riuscì a stabilire un accordo tra la raccomandazione e la propria coscienza: le cattiverie furono dimenticate e la giovane apprendista fu finalmente libera di andarsene. Beninteso, la battaglia che abbiamo testé descritta in poche righe durò in realtà parecchi mesi, e dal momento che Miss Sedley, che aveva ormai diciassette anni e si accingeva a lasciare l'educandato, era amica di Miss Sharp («Questo è l'unico neo che la sua direttrice le rimproveri,» diceva Minerva), Rebecca fu invitata a trascorrere una settimana a casa sua, prima di assumere le sue mansioni di istitutrice presso una famiglia. Dunque, davanti alle due fanciulle si schiudeva il mondo: davanti ad Amelia un mondo affatto nuovo, brillante e pervaso di rosee prospettive; davanti a Rebecca un mondo non del tutto nuovo (occorre dire, a onor del vero, che in merito all'affare Crisp la venditrice di dolciumi aveva lasciato intendere a qualcuno, il quale lo aveva riferito a qualcun altro, come tra Miss Sharp e Mr. Crisp ci fosse assai di più di quanto non si credesse, e come la lettera del giovanotto fosse la risposta a un'altra lettera). Ma chi riuscirà mai ad accertare la verità? Sta di fatto, comunque, che per Rebecca il mondo non si apriva, ma si riapriva. Quando la carrozza che recava le due fanciulle raggiunse la barriera di Kensington, Amelia non aveva ancora dimenticato le compagne, ma aveva quantomeno asciugato le lacrime; ed era arrossita di piacere quando un giovane ufficiale della Guardia le era passato accanto, e dopo aver spiato all'interno del cocchio aveva esclamato: «Bella ragazza, perdio!». Prima che la carrozza arrivasse in Russell Square lei e Rebecca avevano già tenuto un lungo sproloquio sulla Corte e discusso dell'opportunità o meno che le ragazze dovessero incipriarsi e indossare la crinolina per essere presentate alle Loro Maestà, e se ad Amelia sarebbe spettato o meno tanto onore. Sapeva per certo che sarebbe andata al ballo del Lord Mayor. Quando finalmente arrivarono a casa, e Amelia dalle braccia di Sambo si lasciò cadere a terra, era la fanciulla più bella e felice di tutta Londra. Sambo e il cocchiere concordavano su questo punto, e parimenti suo padre e sua madre, e così pure tutta la servitù della casa, mentre s'inchinava e sorrideva nell'atrio dove si era radunata per dare il benvenuto alla sua padroncina. Inutile dire che Amelia mostrò a Rebecca tutte le stanze della casa e tutto ciò che contenevano i suoi cassetti, e così pure i suoi libri e il pianoforte e i vestiti e le collane e le spille e i merletti e le cianfrusaglie. Insistette perché Rebecca accettasse l'anello con la corniola bianca e quello con la turchese, nonché un delizioso abito di mussola a fiori che ormai le andava stretto, ma che sarebbe andato a pennello alla sua amica. Decise poi di chiedere alla madre se potesse farle dono anche dello scialle di cachemire bianco. Poteva benissimo privarsene: suo fratello non gliene aveva portati proprio allora due nuovi dall'India? Quando Rebecca vide i due splendidi scialli che, Joseph Sedley aveva portato alla sorella dall'India, dichiarò in tutta sincerità che «doveva essere delizioso avere un fratello», suscitando all'istante un sentimento di pietà nel tenero cuore di Amelia, dal momento che la povera Becky era sola al mondo, orfana, senza parenti, senza amici. «Non sei sola, Rebecca,» disse Amelia, «tu sai che ti sono sempre amica e che ti sarò sempre affezionata come una sorella. Credimi!» «Ah, se avessi dei genitori come li hai tu! Dei genitori gentili, ricchi, affettuosi, pronti a darti tutto ciò che desideri... e il loro affetto, soprattutto, che è la cosa più preziosa! Il mio babbo non poteva darmi nulla, ed io avevo soltanto due vestiti. E poi, avere un fratello! Un fratello affezionato! Chissà quanto bene gli vuoi!...» Amelia rise. «Come! Non gli vuoi bene, forse? Ma se dici di amare tutti quanti!» «Sì che gli voglio bene, ma...» «Ma?...» «Be', non credo che a Joseph importi gran che io gli voglia bene o no. Quando è tornato a casa dopo esser stato assente per dieci anni, in tutto e per tutto mi ha dato due dita da stringere! È buono, è gentile, ma non mi rivolge quasi mai la parola. Credo che voglia bene alla sua pipa molto più che a sua...» Amelia s'interruppe. Perché avrebbe dovuto dir male di suo fratello? «Con me è sempre stato molto gentile quando ero piccola. Avevo solo cinque anni quando è partito.» «È ricchissimo, vero?» chiese Rebecca. «Ho sentito dire che tutti i nababbi indiani sono pazzamente ricchi.» «Sì, credo abbia una grossa rendita,» disse Amelia. «E tua cognata è simpatica?» «No, no, Joseph non è sposato, «rispose Amelia, tornando a ridere. Forse glielo aveva già detto, ma a quanto pareva Rebecca se n'era scordata. Anzi, eccola ripetere ch'era convinta di vedere una mezza dozzina di nipotini e nipotine di Amelia. Sembrava proprio contrariata che Mr. Sedley non fosse sposato. Era certa che Amelia le avesse detto che aveva moglie, e poi a lei i bambini piacevano immensamente. «Secondo me dovresti averne abbastanza, dopo tutti quelli che hai visto a Chiswick,» disse Amelia, alquanto sorpresa da quell'impeto subitaneo di tenerezza materna da parte della sua amica. In seguito, occorre dirlo, Miss Sharp si sarebbe guardata del compromettersi con asserzioni del genere, delle quali era sin troppo facile svelare la falsità. Ma non dobbiamo dimenticare che quell'innocente fanciulla aveva solamente diciassette anni, e che ancora non era esperta nell'arte dell'inganno. Nella mente dell'ingegnosa ragazza le domande poc'anzi riportate comportavano la seguente implicazione: «Se Mr. Joseph Sedley è ricco e scapolo, perché non dovrebbe riuscirmi di sposarlo? Certo, ho solo quindici giorni di tempo, ma dopotutto tentar non nuoce.» Pertanto, nel segreto del suo cuore decise di porre in atto quel lodevole tentativo: raddoppiò le sue moine ad Amelia, baciò la collana di pietre bianche mentre se la metteva al collo, giurando e spergiurando che non se ne sarebbe mai separata. Più tardi, quando suonò la campanella che annunciava il pranzo, scese le scale cingendo la vita dell'amica con un braccio, come sogliono fare le ragazze. Giunta davanti alla porta del salotto, si sentì così turbata da non trovare il coraggio di entrare. «Senti il mio cuore, cara: senti come batte!» disse all'amica. «Ma no, ma no,» le rispose Amelia. «Suvvia, entra, non aver paura: papà non ha certo l'intenzione di mangiarti.» III • REBECCA AL COSPETTO DEL NEMICO Quando le due ragazze entrarono, un uomo corpulento e rubicondo in calzoni di daino e alti stivali all'ungherese, il collo avvolto in vistosi cravattoni che gli salivano sin quasi al naso, il panciotto a strisce bianche e rosse, la giacca verde mela adorna di bottoni d'acciaio grossi quasi come monete da una corona (l'abbigliamento da mattina degli elegantoni dell'epoca) smise di leggere il giornale accanto al fuoco, balzò dalla poltrona, si fece rosso come un pomodoro e quasi occultò la faccia nei cravattoni che gli fasciavano il collo. «Suvvia, sono soltanto tua sorella, Joseph,» disse Amelia ridendo e stringendo le due dita che lui le porgeva. «Sono tornata a casa per sempre, sai? E questa è la mia amica Miss Sharp: ne hai già sentito parlare...» «No, mai, parola mia,» rispose la testa nascosta nei cravattoni. Cioè... sì... Che freddo, che tempo infame... nevvero, signorina?» Ciò detto, prese ad attizzare il fuoco, sebbene si fosse ormai alla metà di giugno. «Che bell'uomo!» disse Rebecca ad Amelia, in un sussurro perfettamente udibile. «Davvero?» disse quest'ultima. «Glielo dirò.» «No, no, te ne scongiuro, cara!» esclamò Miss Sharp ritraendosi come una colomba spaurita. Aveva già fatto un rispettoso e verginale inchino al gentiluomo, e i suoi occhi fissavano il tappeto con insistenza tanto modesta e schiva, che solo un miracolo - si sarebbe detto - le avrebbe permesso di vederlo. «Grazie per gli splendidi scialli, caro fratello,» disse Amelia al pingue giovanotto, tuttora impegnato ad attizzare il fuoco. «Vero che sono meravigliosi, Rebecca?» «Ah, divini!» confermò Miss Sharp, e i suoi occhi si spostarono dal tappeto al candelabro. Joseph sbuffò, soffiò, arrossì nei limiti consentitigli dal suo colorito giallognolo, e non smise di armeggiare intorno al fuoco. «Io non posso permettermi regali così sontuosi,» continuò la sorella, «ma in collegio ti ho ricamato un bel paio di bretelle.» «Santo Dio, Amelia, dici davvero?» esclamò il fratello, seriamente allarmato. Diede un violento strattone al cordone del campanello, che gli rimase in mano: un piccolo incidente che valse ad accrescere l'imbarazzo del brav'uomo. «Per l'amor di Dio, guarda se il mio buggy è alla porta. Non posso attendere oltre... Sì, debbo proprio andarmene. Accidenti a quel dannato domestico!» In quel momento entrò il padre di famiglia, facendo tintinnare le monete che aveva in tasca con un tipico gesto da bravo mercante inglese. «Che cosa c'è, Emmy?» domandò. «Joseph vuole che vada a vedere se è arrivato il suo buggy. Che cos'è un buggy, papà?» «È un palanchino trainato da un cavallo,» rispose il vecchio, che a modo suo non mancava di spirito. A questo punto Joseph scoppiò in una risata sonora; ma nel momento in cui incontrò lo sguardo di Miss Sharp, il suo riso si spense come se fosse stato colpito dal fulmine. «Questa fanciulla è forse la tua amica? Sono lieto di conoscervi, Miss Sharp. Ma avete forse litigato con Joseph, voi ed Emmy? Vedo infatti che vuole già andarsene...» «Ho promesso a Bonamy di pranzare con lui. È un mio collega...» «Come! Non avevi detto a tua madre che avresti pranzato a casa?» «Ma vestito così è impossibile!» «Davvero? Guardatelo, dunque! Non vi sembra che sia abbastanza bello per pranzare in qualsiasi posto, Miss Sharp?» Miss Sharp guardò Amelia, e le due amiche scoppiarono in una risata che giunse oltremodo accetta alle orecchie del vecchio signore. «Vi è mai capitato di vedere un paio di calzoni di daino come questi, da Miss Pinkerton?» continuò il vecchio, impietoso. «Papà, vi prego!» esclamò Joseph. «Santo Dio, ora l'ho offeso. Mia cara Mrs. Sedley, ho offeso vostro figlio. Mi sono permesso di fare commenti sui suoi calzoni di daino. Non è vero, Miss Sharp? Suvvia, Joseph, fa' amicizia con Miss Sharp e andiamo tutti a pranzo.» «C'è il pillau Joseph. Proprio come piace a te. E poi papà ha mandato a casa il miglior rombo che abbia potuto trovare in tutta Billingsgate.» «Venite, signore, prego! Accompagnate a pianterreno Miss Sharp; io vi seguirò con queste due fanciulle,» disse il padre prendendo moglie e figlia sottobraccio, e si avviò allegramente verso la sala da pranzo. Se in cuor suo Miss Rebecca Sharp aveva deciso di conquistare quel pingue bellimbusto, io non credo, gentili signore, che sia nei nostri diritti deplorarlo. È pur vero che per solito il compito di rimediare un marito spetta alle madri, in omaggio al modesto riserbo che si addice alle giovinette; ma non dimentichiamoci che Miss Sharp era priva di una affettuosa e trepida genitrice pronta ad adoperarsi per svolgere una siffatta, delicata incombenza, e che, se non si fosse trovata un marito da sola, non c'era persona al mondo disposta a risolvere per lei questo problema. Quale forza induce le ragazze a «uscire dal guscio», se non la nobile ambizione di giungere al matrimonio? Perché frequentano in massa le stazioni termali? Perché ballano sino all'alba nel corso di un'interminabile e stressante stagione mondana? Perché si rassegnano a imparare alla meno peggio quattro sonate al pianoforte, quattro canzoni alla moda, pagando un insegnante una ghinea la lezione? Perché, se sono dotate di belle braccia e bei gomiti, s'ingegnano di suonare l'arpa? Perché mai indossano cappelli svettanti di piume color verde Lincoln, se non allo scopo di servirsi di quelle frecce, di quelle armi fatali per colpire qualche «desiderabile» giovanotto? Che cosa spinge genitori affatto rispettabili ad arrotolare i tappeti, a mettere la casa sottosopra, a spendere un quinto del loro reddito in balli, cene e champagne ghiacciato? Forse per amore incondizionato dei propri simili e per il sincero desiderio di vedere i giovani spassarsela allegramente? Nemmeno per idea! Vogliono accasare le loro figlie, e come la brava Mrs. Sedley aveva già predisposto nel profondo del suo cuore benevolo innumerevoli piccoli espedienti volti a trovar marito alla sua Amelia, così anche la nostra carissima quanto indifesa Rebecca aveva deciso di fare il possibile per assicurarsi un consorte, a lei necessario ancor più di quanto lo fosse per la sua amica. Rebecca aveva una fervida fantasia: aveva letto Le Mille e una notte e la Geography di Guthrie; e per dire la verità, mentre si preparava per il pranzo, dopo aver chiesto ad Amelia se suo fratello fosse ricco, aveva mentalmente costruito uno splendido castello in aria nel quale ella fungeva da incontrastata castellana, con un marito che sfumava in lontananza (non lo aveva ancora individuato, cosicché la sua immagine appariva tuttora indefinita), si era prontamente abbigliata con scialli, turbanti e collane di diamanti, ed era montata in groppa a un elefante al suono della marcia di Bluebeard per recarsi in visita ufficiale al Gran Mogol. Ah, magiche visioni di Alnaschar! Voi siete un privilegio della giovinezza! Quante fanciulle, prima di Rebecca, si sono già smarrite dietro questi sogni deliziosamente impossibili! Joseph Sedley aveva dodici anni più di Amelia. Era un funzionario della Compagnia delle Indie, e nel momento in cui scriviamo egli figurava nell'Annuario della Compagnia delle Indie, sezione Bengala, in qualità di ricevitore di Boggley Wollah, carica notoriamente dignitosa e redditizia. Chi fra i lettori desiderasse sapere a quali gradi più prestigiosi sia giunto Joseph in prosieguo di tempo, non ha che da consultare i numeri successivi del summenzionato Annuario. Boggley Wollah si trova in una regione acquitrinosa della giungla, non priva di bellezza nella sua solitudine, famosa per la caccia alle beccacce e dove talvolta si può persino stanare la tigre. Ramguge, sede di tribunale, è situata a sole quaranta miglia. A una trentina di miglia c'è anche una guarnigione di cavalleria. Ciò, per lo meno, è quanto scrisse Joseph a suo padre e a sua madre allorché prese possesso della ricevitoria. E in quel luogo incantevole aveva vissuto per otto anni assolutamente solo, senza posare gli occhi su anima viva tranne due volte l'anno, quando arrivava il distaccamento che doveva portare a Calcutta il denaro delle imposte da lui riscosso. Fortunatamente in quel periodo aveva contratto una malattia di fegato che lo aveva costretto a ritornare in Europa per sottoporsi alle cure del caso e che, una volta in patria, gli era stata pretesto per concedersi ogni sorta di comodità e di svaghi. A Londra non abitava coi familiari, ma in un comodo appartamentino personale, come si conviene a uno scapolo allegro e spensierato. Quando era partito per l'India, era ancora troppo giovane e non aveva potuto concedersi la dose di ineffabili piaceri che spetta a un giovane di mondo, ma al suo rientro vi si era tuffato col massimo trasporto. Guidava la carrozza ad Hyde Park, pranzava nelle taverne alla moda (giacché l'Oriental Club non era stato ancora fondato); frequentava i teatri secondo l'usanza mondana del tempo, e faceva la sua comparsa all'Opera con un cappello a tricorno e un paio di calzoni attillatissimi che gli erano causa d'indicibili sofferenze. Tornato in India, aveva preso a parlare in termini entusiastici di quel periodo della sua vita e dei piaceri che gli aveva elargito: si compiaceva di lasciar credere che lui e lord Brummel fossero i due giovanotti più eleganti del momento. Invece a Londra la sua situazione non era diversa che a Boggley Wollah. Non conosceva nessuno, nella capitale, e se non avesse avuto la compagnia del medico, delle pillole e del mal di fegato, sarebbe morto di malinconia. Era pigro, bizzoso e bon vivant. La presenza di una signora lo terrorizzava, cosicché raramente metteva piede nella casa paterna di Russell Square, dove regnava l'allegria e dove gli scherzi di quel vecchio buontempone di suo padre lo ferivano nel suo amour propre. La corporatura massiccia era motivo, per Joseph, di ansietà e di paura. Di tanto in tanto metteva in atto qualche tentativo per attenuare la sua pinguedine, ma ben presto l'ingordigia e l'indolenza prevalevano sui suoi sforzi di snellire la propria figura, e Joseph non tardava a tornare ai tre pasti giornalieri. Non vestiva mai con autentica eleganza, ma si preoccupava di agghindare la sua tozza figura e trascorreva ore e ore in una siffatta occupazione. Il suo lacchè si arricchiva sfruttando il suo guardaroba smesso. Sul suo tavolo da toeletta c'erano più essenze e belletti che su quello di una bella donna in declino. Per riuscire a farsi una vita snella aveva fatto ricorso ad ogni tipo di ventriera, di busto, di corsetto che esistesse in commercio. Al pari della maggior parte degli uomini corpulenti, si faceva confezionare abiti molto attillati, ed anzi li voleva di taglio brillante e giovanile. Quando alla fine era vestito di tutto punto, usciva per una solitaria scarrozzata pomeridiana in Hyde Park, poi tornava a casa per cambiarsi d'abito e recarsi a pranzo (sempre da solo, inutile dirlo) al Piazza Coffee-House. Era vanitoso come una ragazza, e forse la sua estrema timidezza era solo frutto di un'estrema vanità. Se Miss Rebecca segnava un punto a suo favore proprio con lui, e in concomitanza con il suo ingresso in società, dava prova di essere una giovane di intelligenza non comune. La prima mossa rivelava una notevole astuzia. Quando aveva dichiarato ad Amelia che Sedley era un bell'uomo, era certa che lei l'avrebbe riferita a sua madre, e che a sua volta quest'ultima l'avrebbe ripetuta a Joseph, e che in ogni caso lei ne sarebbe stata lusingata. Tutte le mamme si compiacciono dei complimenti rivolti al figlio. Se qualcuno avesse detto a Sicorace che suo figlio Calibano era bello come un Apollo, per quanto strega ne sarebbe stata lusingata. Poi, forse, lo stesso Joseph aveva captato l'eco di quel complimento (Rebecca aveva parlato in tono intelligibile): anzi, non c'era dubbio che lo avesse udito, e nella sua certezza di essere oltremodo avvenente si era sentito correre un brivido di piacere per tutto il corpo. Subito peraltro si ricredette: «Che si stia burlando di me, questa ragazza?» si disse; e senza un attimo di esitazione balzò verso il cordone del campanello. Stava per andarsene (già lo abbiamo visto) quando le facezie del padre e le esortazioni della madre lo indussero a trattenersi. Pertanto condusse a cena la fanciulla in preda a uno stato d'animo misto di esitazione e di turbamento. «È davvero convinta che io sia un bell'uomo,» pensava, «o mi sta prendendo in giro?» Dicevamo poc'anzi che Joseph era vanitoso come una ragazza, ma per parte loro le ragazze non hanno che da capovolgere la frase e dire di una qualsiasi del loro sesso: «È vanitosa come un uomo.» Né, in tal caso, si potrà dire che abbiano torto. Gli esseri umani provvisti di barba sono avidi di complimenti, ambiziosi in fatto di vestiario, orgogliosi delle proprie doti fisiche e consapevoli del proprio fascino né più né meno come qualsiasi civetta di sesso femminile. Scesero dunque a pianterreno: Joseph Sedley rosso in volto, e Rebecca in atteggiamento modesto, gli occhi verdi rivolti verso terra. Indossava un abito bianco, e aveva le spalle nude, di un candore di neve. Era l'incarnazione dell'innocenza verginale, di un'umile, indifesa giovinezza. «Devo starmene quieta e buona,» pensava Rebecca, «e manifestare vivo interesse per l'India.» Abbiamo già appreso come Mrs. Sedley avesse fatto cucinare un Curry coi fiocchi, in ossequio ai gusti del figlio, e durante il pasto questo piatto venne offerto anche a Rebecca. «Che cos'è?» chiese la ragazza, rivolgendo uno sguardo interrogativo al giovanotto. «Ah, una cosa semplicemente divina,» rispose Joseph, la bocca piena e il volto acceso dalla gioia di masticarlo. «Credi, mamma: è buono come i curries che mangio in India!» «Se si tratta di una specialità indiana, voglio assaggiarla,» esclamò Rebecca. «Sarà buono come tutto ciò che viene dall'India.» «Da' un po' di curry a Miss Sharp,» disse ridendo Mr. Sedley. Rebecca non lo aveva mai assaggiato in vita sua. «Davvero trovate che sia buono come tutto ciò che viene dall'India?» chiese Mr. Sedley. «Oh, sì, è squisito,» rispose Rebecca, nonostante soffrisse per il pizzicore del pepe di Caienna. «Perché non ci mettete anche un poco di chili?» propose Joseph con molta convinzione. «Un po' di chili? E perché no?» disse Rebecca ansante. Quel nome evocava in lei l'immagine di un possibile refrigerio. «Sono così freschi, così verdi...» esclamò, facendosene servire qualcuno; poi se ne mise uno in bocca. Bruciavano più del curry, e Rebecca non riuscì a sopportarli. «Un po' d'acqua, per l'amor di Dio!» supplicò, posando la forchetta. Mr. Sedley scoppiò a ridere in modo alquanto sguaiato, assuefatto com'era alle facezie un po' volgari dei funzionari di Borsa. «Eppure vengono dall'India, ve lo assicuro!» disse. «Sambo, versa un po' d'acqua a Miss Sharp.» Alla risata del padre fece eco quella di Joseph, cui lo scherzo era sembrato divertentissimo. Le signore si mantennero entro i limiti del sorriso. A loro giudizio, Rebecca aveva già sofferto sin troppo. Costei aveva già patito le pene dell'inferno, e sarebbe stata lietissima di strozzare il vecchio Sedley; ma preferì inghiottire la propria umiliazione come aveva inghiottito il curry, e non appena le riuscì ancora di parlare disse in tono comicamente cordiale: «Avrei dovuto ricordare che la principessa delle Mille e una notte mette il pepe nelle focaccette alla panna. Anche voi, signore, mettete il pepe nelle focaccette alla panna, quando siete in India?» Il vecchio Sedley ricominciò a ridere. Pensava che Rebecca era proprio una ragazza di carattere gioviale. «Focaccette alla panna, dite?» rispose Joseph. «La panna è pessima, nel Bengala. Di solito beviamo latte di capra. Anzi, che lo crediate o no, ormai lo preferisco!» «Ora credo che abbiate cambiato parere, Miss Sharp; oppure continuate a preferire tutto ciò che viene dall'India?» chiese il vecchio con aria furbesca ma quando al termine del pranzo le signore si furono ritirate, si rivolse al figlio e gli disse: «Attento Jos: quella ragazza cerca d'incastrarti.» «Sciocchezze!» rispose Jos, che si sentiva estremamente lusingato. «Ricordo una ragazza, signore, figlia di un certo Cutler dell'Artiglieria. È stato nel '4, a Dumdum. Quella sì, aveva cercato di mettermi in trappola! Poi ha sposato Lance, il chirurgo. Aveva cercato di accalappiare anche Mulligatawney; è magistrato a Budge-budge e tra qualche anno entrerà senza dubbio a far parte del Consiglio. Stavo dicendovi, signore, che l'Artiglieria ha dato una festa da ballo, e che Quintin, uno del XIV Artiglieria, mi ha detto: "Ehi; Sedley, scommetto tredici contro dieci che Sophie Cutler incastra te o Mulligatawney prima che inizi la stagione delle piogge." "Accetto," ho detto io. Ottimo, questo chiaretto: è di Adamson o di Carbonell?» Gli rispose un sommesso russare: il bravo agente di cambio si era addormentato, e per quel giorno il resto della storia andò disperso. Ma dal momento che Joseph era sempre molto loquace quando si trovava in compagnia di uomini, il dottor Gallop, il farmacista, che di tanto in tanto andava a fargli visita per informarsi sulle condizioni del suo fegato e per aver notizia delle pillole, si era già sentito raccontare quell'episodio una ventina di volte. Visto che era in cura, Joseph ritenne opportuno accontentarsi di una bottiglia di chiaretto in aggiunta al madera che aveva bevuto a cena, poi trovò il modo di trangugiare due piatti di fragole alla panna, un paio di dozzine di pasticcini ch'erano stati dimenticati in un piatto nelle sue immediate vicinanze, e nel frattempo (i romanzieri sanno sempre tutto) lasciò che il suo pensiero vagheggiasse la ragazza che stava al piano superiore. «Una creatura così semplice, così vivace, così spontanea!» pensava. «E come mi ha guardato quando le ho raccolto il fazzoletto, dopo pranzo! Lo ha lasciato cadere due volte! Chi canta, in salotto? Perdio! E se andassi a dare un'occhiata?» Ma la timidezza lo assalse, dominandolo con forza incontrollabile. Il padre dormiva. Il suo cappello era in anticamera. C'era un posteggio di carrozze a pochi passi di lì, in Southampton Row. «Vado a vedere i Forty Thieves con la De Camp,» si disse. E nonostante indossasse gli stivali, riuscì a sgusciar via in silenzio, senza destare l'esimio genitore. «Joseph se n'è andato,» disse Amelia, che osservava dalla finestra mentre Rebecca cantava, seduta al pianoforte. «Miss Sharp lo ha spaventato e lui ha preferito andarsene,» commentò Mr. Sedley. «Povero Jos, mi chiedo perché sia tanto timido.» IV • LA BORSA DI SETA VERDE Il panico del povero Jos si protrasse per due o tre giorni, durante i quali lui non si mostrò nella casa paterna, né Rebecca si arrischiò a nominarlo. La ragazza si atteneva a un atteggiamento di rispettosa gratitudine nei confronti di Mrs. Sedley: era felice nei negozi, stupefatta e al settimo cielo nei teatri ove la buona signora la conduceva. Un giorno Amelia aveva l'emicrania e non si sentiva di partecipare a un ricevimento cui le due fanciulle erano state parimenti invitate. Ebbene: nulla poté indurre Rebecca a recarsi senza l'amica. «Come! Io, lasciarti? Lasciare te che hai insegnato a una povera orfana cosa siano felicità e l'affetto? Non sarà mai!» E gli occhi verdi, levati verso il cielo, brillarono di lacrime. Mrs. Sedley fu costretta a riconoscere che anche l'amica di sua figlia aveva un cuore buono e generoso. Quanto agli scherzi di Mr. Sedley, Rebecca ne rideva con tanto cordiale disponibilità, che il brav'uomo se ne sentì compiaciuto e intenerito. Ma Miss Sharp non si limitò ad attirarsi la simpatia della famiglia: si assicurò la considerazione di Mrs. Blenkinsop palesando il più vivo interesse per la preparazione della marmellata di more: operazione che in quel momento era in corso nella camera della governante. Ostentava di chiamare Sambo «signore» o «Mr. Sambo», cosa che lusingava altamente il domestico, e ogni qual volta spingeva il proprio ardire fino a suonare il campanello si scusava con la cameriera per il disturbo che le causava in termini di tale umiltà e dolcezza, che la servitù subiva il suo fascino non meno di chi abitava il salotto. Un giorno, mentre osservavano certi disegni che Amelia aveva inviato a casa quando ancora si trovava all'educandato, Rebecca, che ne aveva preso in mano uno, scoppiò in lacrime e uscì dalla stanza. Fu questo il giorno in cui Joseph Sedley fece la sua seconda apparizione. Amelia si affrettò a seguire l'amica per scoprire quale fosse il motivo di quella profonda e subitanea commozione, e poco dopo la brava fanciulla ritornò sui suoi passi, sola e parimenti emozionata. «Sapete, mamma, suo padre era il nostro insegnante di disegno, a Chiswick. Le parti migliori dei nostri disegni sono di suo pugno.» «Eppure sono sicura di aver sentito dire da Miss Pinkerton che lui si limitava a correggerli.» «Lo chiamavamo "correggere", mamma. A Rebecca è tornato in mente il momento in cui eseguiva quel disegno, e ha rivisto mentalmente suo padre mentre vi lavorava... E allora, capirai...» «Quella cara figliola ha un cuore d'oro,» disse Mrs. Sedley. «Vorrei tanto che si trattenesse un'altra settimana con noi,» disse Amelia. «Assomiglia moltissimo a Miss Cutler, quella ragazza che conoscevo a Dumdum. Solo che è più bella. Adesso ha sposato Lance, il chirurgo dell'Artiglieria. Una volta Quentin, nel XIV Artiglieria, ha scommesso...» «Basta, Joseph, la sappiamo a memoria questa storia,» esclamò Amelia ridendo. Piuttosto, cerca di convincere la mamma a scrivere a quel... come si chiama?... A quel Sir Crawley perché conceda qualche altro giorno alla povera Rebecca. Eccola: ha gli occhi arrossati, a furia di piangere!» «Ora mi sento meglio,» disse la ragazza col più suadente dei suoi sorrisi. Prese la mano che Mrs. Sedley le porgeva e la baciò. «Siete tutti così gentili con me!» aggiunse poi. «Tutti tranne voi Mr. Joseph,» precisò con una risatina. «Io!» esclamò Joseph, subito tentato di svignarsela. «Santo Cielo! Che dite, Miss Sharp!» «Proprio così! Come avete potuto esser così crudele da farmi mangiare quella pietanza così pepata il giorno stesso che ci siamo conosciuti? Non siete buono come la mia cara Amelia!» «Non ti conosce bene quanto me,» intervenne Amelia. «Sfido chiunque a non essere buono con voi, mia cara!» disse Mrs. Sedley. «Quel curry era fantastico,» disse Joseph con la massima compunzione. «Forse non c'era abbastanza limone... Ecco, sì, il limone non bastava.» «E i chili?» «Come vi hanno fatto piangere, per Giove!» esclamò Joseph rievocando la comicità della scena e prorompendo in una risata che, al solito, si spense all'improvviso. «Un'altra volta eviterò con cura di lasciarvi scegliere per me,» disse Rebecca mentre di nuovo scendevano le scale per andare a pranzo. «Non pensavo che gli uomini prendessero gusto a far del male alle povere ragazze indifese.» «Perdio, Miss Rebecca, non vi farei del male per nessuna ragione al mondo!» «Ma certo,» disse lei, «lo so che non me ne fareste.» E gli strinse leggermente il braccio con la piccola mano, per poi ritrarla sgomenta, guardandolo fuggevolmente e tosto chinando lo sguardo al tappeto: non posso negare che il cuore di Jos sussultò sotto l'effetto di quella brevissima, garbata e involontaria attenzione di evanescente interesse da parte della candida fanciulla. Si trattava nondimeno di un gesto alquanto audace, e non c'è dubbio che, come tale, certe signore di insindacabile correttezza e nobiltà lo giudicheranno affatto deplorevole. Ma non dimentichiamo che la povera Rebecca doveva fare tutto da sé. Se una persona è così povera da non potersi pagare una domestica, anche se si tratta di una persona d'alto bordo sarà costretta a rassettarsi la casa da sé, e se una brava ragazza non dispone di una mammina affettuosa che provveda direttamente a prendere i dovuti accordi col giovanotto, è indispensabile che si aggiusti da sola. Ed è una fortuna che donne del genere non esercitino più sovente i loro poteri. Impossibile resistergli, quando lo fanno. Basta che palesino una pur minima inclinazione, ed ecco gli uomini buttarglisi ai piedi, belle o brutte che siano. Questa, a mio avviso, è un'incontestabile verità. Una donna alla quale venga offerta l'occasione propizia, e che non sia proprio deforme, trova il modo di sposare CHIUNQUE LE AGGRADI. Grazie al Cielo quelle creature sono simili ad animali selvatici: non si rendono conto del potere di cui dispongono. Diversamente, non esiterebbero a sopraffarci. «Perdio,» pensò Joseph entrando in sala da pranzo, «comincio a provare né più né meno quel che provavo a Dumdum con Miss Cutler.» Poi, nel corso del pasto, Miss Sharp continuò a rivolgergli la parola in un tono tra l'affettuoso e il faceto. Giacché ormai era in rapporti confidenziali con tutti i membri della famiglia. Le due ragazze si volevano bene come due sorelle, come suole accadere di tutte le fanciulle che si trovino a vivere per dieci giorni sotto lo stesso tetto. E Amelia, quasi pensasse soltanto ad assecondare i progetti di Rebecca, ricordò al fratello una promessa ch'egli le aveva fatto durante le vacanze di Pasqua ( «quando ero ancora a scuola», disse ridendo): la promessa che lui, Joseph, l'avrebbe portata a Vauxhall. «Quale migliore occasione, ora che Rebecca è con noi?» concluse Amelia. «Ah, che bellezza!» esclamò Rebecca; e stava per battere le mani per la contentezza, ma si trattenne in ossequio a un contegno modesto. «Stasera no,» disse Joseph. «Domani, allora.» «Domani tuo padre ed io siamo fuori a cena,» disse Mrs. Sedley. «Non penserai che io ci vada, Mrs. Sed!» obiettò il marito. «O che ci vada una donna della tua età. Si beccherebbe i reumatismi, in quell'orrendo, umidissimo luogo!» «Ma le ragazze hanno bisogno di un accompagnatore!» disse Mrs. Sedley. «Ci vada Jos. Direi che è grande e grosso quanto basta.» E a queste parole persino Sambo, che se ne stava in piedi accanto alla credenza, non poté trattenere uno scoppio di risa. Il povero Jos fu tentato di macchiarsi del reato di parricidio. «Slacciategli il busto!» ingiunse Mr. Sedley, spietato. «Spruzzategli la faccia con un po' d'acqua, Miss Sharp! Portatelo di sopra. Sta per svenire, povero tesoro! Suvvia, portatelo di sopra: è leggero come una piuma!» «Se credete che io sia disposto a subire una cosa simile signore, io... io...» sbottò Joseph. «Fa' venire l'elefante di Mr. Jos, Sambo,» esclamò il padre. «E manda qualcuno all'Exeter Change. «Poi, accorgendosi che Jos era prossimo a piangere per l'umiliazione, il vecchio mattacchione smise di ridere e tese una mano al figlio. «In Borsa ogni scherzo è lecito, Jos... Ehi, Sambo, lascia perdere l'elefante e porta piuttosto dello champagne per me e per Mr. Jos. Nemmeno quel dannato Boney ne ha uno come il mio, nella sua cantina!» Una coppa di champagne valse a ripristinare il buonumore di Jos, che prima di essersi scolato la bottiglia (della quale, sempre per il fatto di essere in cura, bevve solo due terzi) acconsentì ad accompagnare le ragazze a Vauxhall. «Ma ciascuna delle ragazze deve avere un cavaliere,» disse il vecchio Sedley. «Sono certo che Jos si dimenticherà di Emmy in mezzo alla folla, tanto le sue attenzioni saranno rivolte a Miss Sharp. Mandate qualcuno al numero 96 e chiedete se George Osborne sia disposto a venire con voi.» Nell'udire queste parole, Mrs. Sedley (e non saprei dirne il motivo), Mrs. Sedley guardò il marito e sorrise. Gli occhi di Mr. Sedley ammiccarono maliziosi, poi si posarono su Amelia. Questa chinò il capo e arrossì come solo può arrossire una fanciulla di diciassette anni, e come Miss Rebecca Sharp non arrossì in tutto l'arco della sua vita, o quanto meno dal giorno in cui, all'età di otto anni, la sua madrina l'aveva colta in flagrante nell'atto di rubare la marmellata nella credenza. «Sarebbe più cortese che Amelia scrivesse un biglietto,» disse il padre. «Così George avrebbe modo di apprezzare la bella scrittura che abbiamo imparato alla scuola di Miss Pinkerton. Ti ricordi, Emmy, quando gli hai mandato quel biglietto d'invito perché venisse con noi a vedere La dodicesima notte, e hai scritto "notte" con una t sola?» «Sono passati tanti anni!» disse Amelia. «Sembra ieri, nevvero John?» disse Mrs. Sedley al marito quella notte stessa durante una conversazione che aveva luogo in una camera al secondo piano, dentro un'alcova chiusa da un tendaggio di chinz dai vivaci e fantasiosi disegni indiani con la fodera di calicò rosa pallido. In quella specie di grande tenda da campo c'era un letto enorme con due guanciali sui quali posavano due volti accesi e rubicondi: l'uno in cuffietta di pizzo, l'altro con una berretta di cotone completata da un fiocco. Durante quella specie di redde rationem coniugale, Mrs. Sedley riproverò al consorte il suo comportamento crudele verso il povero Jos. «Sei stato cattivo, John, a tormentare così quel povero ragazzo,» disse Mrs. Sedley. «Mia cara,» rispose il berretto a pompon, deciso a difendere il suo comportamento, «Joseph è ancora più vanitoso di quanto tu lo sia mai stata in vita tua, ed è tutto dire. È pur vero che trent'anni fa, verso il 1780, forse tu avevi buon motivo per esserlo... non oso negarlo. Ciò che in Jos mi riesce insopportabile è quella sua timidezza piena di pompa altezzosa. È più Giuseppe di Giuseppe. È invasato di se stesso ed è convinto di essere un'autentica meraviglia. Io invece, cara consorte, sono convinto che ben presto avremo delle noie per causa sua. Tanto per cominciare, è evidentissimo che l'amichetta di Emmy gli sta facendo una corte spietata, e se non riesce ad assicurarselo lei ci penserà qualcun'altra. Quel bel tipo è destinato a finire nelle grinfie di una donna, né più né meno come a me tocca in sorte di andare in Borsa tutti i giorni. Ringraziamo il cielo che non ci abbia portato a casa una nuora negra, cara mia. Ma tieni a mente quel che ti dico: la prima donna che gli getta l'amo se lo pesca di sicuro.» «Domani mi sbarazzo di quella piccola intrigante,» dichiarò recisa Mrs. Sedley. «E perché non permettere che se lo sposi lei invece di un'altra, Mrs. Sedley. Ha una carnagione bianchissima, comunque. Per me Joseph faccia pure come gli garba: non m'importa di chi se lo sposerà.» Ancora qualche istante, e alle voci dei due subentrò una sommessa ma poco romantica musica nasale. Così, fatta eccezione per le campane che scandivano le ore e la voce della guardia notturna che le ripeteva, tutto fu silenzio in Russell Square, nella casa di John Sedley, Esq., di professione agente di cambio allo Stock Exchange. La mattina dopo la nostra Mrs. Sedley non pensava più di tradurre in atto i suoi propositi minacciosi nei confronti di Miss Sharp. Sebbene non esista sentimento più scoperto, più diffuso e più comprensibile della gelosia materna, ella non osava credere che quella piccola, umile, melliflua istitutrice si permettesse di metter gli occhi su un fuori classe come il ricevitore di Boggley Wollah. Senza contare che ormai era già stata spedita la richiesta di prolungamento delle vacanze della ragazza, onde sarebbe stato arduo trovare un pretesto plausibile per sbarazzarsene. Come se ogni circostanza volesse collaborare alle fortune di Miss Sharp, persino gli elementi naturali (ed ella, dapprima, non fu disposta a credervi) fecero di tutto per darle una mano. Infatti la sera in cui era stata programmata la gita a Vauxhall (George era stato invitato a cena, e i genitori si erano recati in visita dal consigliere Balls a Highburry Barn, in forza di un invito precedente) si mise a piovere come piove soltanto quando qualcuno decide di andare a Vauxhall, cosicché i giovani si videro costretti a restare a casa. Ma Mr. Osborne non parve esserne contrariato. In tête-à-tête con Joseph, indugiò in sala da pranzo e scolò una buona dose di vino di Porto, mentre Joseph sciorinava gran numero delle sue migliori storielle indiane, dal momento che in compagnia di soli uomini diventava molto più loquace. Più tardi Amelia fece gli onori di casa in salotto, e i quattro giovani trascorsero una serata così piacevole che finirono per dichiararsi contenti che il temporale li avesse costretti a rinviare la gita a Vauxhall. Osborne era figlioccio di Sedley, cosicché da ventitré anni era ospite abituale in quella casa. Quando aveva sei settimane, Sedley gli aveva regalato un bicchiere d'argento, e a sei mesi un corallo con un fischietto e dei campanellini d'oro. Poi, da ragazzo, ogni Natale il vecchio gli aveva sempre elargito una «mancetta». George ricordava tuttora come una volta, quando a dieci anni era un monello scatenato, prima di tornare in collegio le aveva buscate di santa ragione da Joseph Sedley, che a quel tempo era un giovanottone goffo che si dava un mucchio di arie. Insomma, George Osborne era di casa dai Sedley quanto comportavano questi scambi quotidiani di cortesie. «Ti ricordi, Sedley, quella volta che sei andato su tutte le furie perché avevo tagliato i fiocchi dei tuoi stivali ungheresi e miss... sì, voglio dire... Amelia mi ha salvato dai tuoi ceffoni mettendosi in ginocchio e scongiurando suo fratello Jos di non voler picchiare il piccolo George?» Joseph ricordava perfettamente quell'episodio memorando, ma finse di essersene dimenticato. «E ti ricordi che prima di partire per l'India sei venuto in carrozza a farmi una visitina nel collegio del dottor Swishtail, e che mi hai regalato mezza ghinea dandomi uno schiaffetto sul capo? Allora avevo l'impressione che tu fossi alto almeno due metri, e quando hai fatto ritorno dall'India mi ha sorpreso scoprire che eri alto non più di me.» «È stato davvero molto gentile, Mr. Sedley, a venirvi a trovare in collegio e a regalarvi quella mezza ghinea!» esclamò la Sharp, in tono ammirato. «Proprio così! Eppure gli avevo tagliato i fiocchi degli stivali! Quando sono in collegio i ragazzi non dimenticano mai il denaro che ricevono in dono, e tantomeno il donatore!» «Gli stivali coi fiocchi mi piacciono moltissimo,» dichiarò Rebecca. E questa osservazione non mancò di lusingare Joseph Sedley, convinto com'era di essere titolare di due splendide gambe, onde indossava sempre quelle chaussures particolarmente decorative. Nondimeno, nell'udire quelle parole nascose le suddette gambe sotto la sedia. «Miss Sharp,» intervenne Osborne, «voi che siete un'eccellente artista. Dovreste dunque dipingere un grande quadro che illustrasse l'episodio degli stivali: Sedley in pantaloni di daino che regge in una mano uno degli stivali rovinati, mentre con l'altra mi tiene stretto per il colletto della camicia. Amelia, inginocchiata ai suoi piedi, protende le mani in un gesto di supplica. Al quadro bisognerebbe dare un titolo allegorico, come quelli che si leggono sul frontespizio dei sillabari e di certi libri di scuola.» «Qui non avrei il tempo di dipingerlo. Ma lo farò quando... quando me ne sarò andata.» E nel profferire queste parole abbassò la voce assumendo un'espressione così mesta e afflitta che tutti meditarono sulla sorte avversa della fanciulla e sulla crudeltà dell'imminente distacco da lei. «Ah, potessi fermarti di più, mia cara Rebecca!» esclamò Amelia. «E perché dovrei farlo?» rispose l'altra. «Forse per soffrire ancor di più, per sentirmi ancor più infelice quando ti perdessi?» E distolse il capo. Al che Amelia si abbandonò a quella sua naturale inclinazione al pianto che, già lo abbiamo visto, costituiva uno dei difetti più irritanti di quella sciocchina. George Osborne fissava le ragazze tra il commosso e l'incuriosito, mentre Joseph sollevava il petto in una specie di sospiro e chinava lo sguardo in contemplazione dei prediletti stivali ungheresi. «Vorreste farci un poco di musica, Miss Sedley... cioè... Amelia?» propose George, che in quel momento aveva un gran desiderio di prender la ragazza tra le braccia e baciarla davanti a tutti. Lei gli gettò una rapida occhiata; e se io asserissi che in quell'istante s'innamorarono, probabilmente affermerei il falso, dal momento che i loro rispettivi genitori li avevano cresciuti col preciso proposito di pervenire a quel risultato; anzi, si sarebbe detto che le pubblicazioni di nozze fossero già avvenute da dieci anni. Pertanto si diressero nel salottino sul retro ove, secondo l'usanza, si trovava il pianoforte; e dal momento che faceva quasi buio, con gesto del tutto naturale Amelia posò la sua mano in quella di George, il quale, inutile dirlo, era in grado di destreggiarsi meglio di lei fra poltrone e canapè. La cosa ottenne a meraviglia lo scopo di lasciare a tu per tu Joseph e Rebecca, accanto al tavolo nel salone ove la fanciulla era intenta a confezionare all'uncinetto una borsa di seta verde. «Non mi sembra il caso di chiedervi se si tratta di un segreto di famiglia, dal momento che George e Amelia non fanno mistero dei loro sentimenti,» osservò Rebecca. «Appena George otterrà il comando di una compagnia, sarà affare fatto,» rispose Joseph. «Quel giovanotto è in gamba, credetemi.» «E vostra sorella è una ragazza deliziosa,» continuò di rincalzo Rebecca. «Beato l'uomo che riuscirà a farla sua!» esclamò con un profondo sospiro. Quando avviene che due persone di sesso diverso e non sposate abbiano il destro di avviare tra loro una conversazione così delicata, tra loro si stabilisce fatalmente un certo grado di confidenza. Non fa conto riferire nei dettagli il colloquio tra Joseph Sedley e Rebecca Sharp, dal momento che il campione elargito ai lettori ne rivela il parco interesse. Del resto è raro che nella vita quotidiana la conversazione possa dirsi interessante, come del resto in qualsiasi circostanza, fatta eccezione per le pagine dei romanzi di grande valore e di eletta ispirazione. Nel salottino accanto si faceva musica, onde la conversazione avveniva a bassa voce; ma anche se Rebecca e Joseph avessero urlato a squarciagola, i due nell'altra stanza non ne sarebbero stati disturbati, tanto fittamente erano immersi nel loro intimo dialogare. Era forse la prima volta in vita sua che Mr. Sedley si rivolgeva a un'esponente del sesso opposto senza provare timidezza o perplessità di sorta. Rebecca gli fece varie domande sull'India, il che offrì a Joseph il pretesto per raccontare molti episodi curiosi su quel paese e sulla sua esistenza in quelle remote contrade. Descrisse le feste da ballo nel palazzo del governatore e come si riuscisse a ottenere un certo refrigerio nella stagione della massima calura per mezzo di punkah, di stuoie bagnate e di altri espedienti del genere. Parlò degli innumerevoli scozzesi protetti dal governatore Lord Minto; poi descrisse la caccia alla tigre e le circostanze in cui il mahout del suo elefante era stato sbalzato di sella da una tigre inferocita. Miss Rebecca si divertiva moltissimo a sentir parlare delle feste da ballo del governatore, e rideva di cuore di certe storielle riguardanti gli aides de camp scozzesi. Anzi, dichiarò a Mr. Sedley che aveva uno spirito tremendamente caustico. Quanto alla storia dell'elefante, ostentò il massimo raccapriccio: «Per amore di vostra madre e dei vostri amici,» lo pregò, «promettetemi che d'ora in poi non prenderete più parte a quelle terrificanti spedizioni!» «Ma no, ma no,» Miss Sharp, «rispose Joseph sollevando il grande collo della sua camicia,» il pericolo è uno degli elementi più elettrizzanti, nella caccia. In realtà, a caccia era stato una sola volta, e proprio in occasione dell'episodio testé riferito, quando aveva rischiato di morire non a causa della tigre ma di puro spavento. A mano a mano che procedeva in quelle chiacchiere si faceva sempre più ardito, al punto che ebbe l'audacia di chiedere a Rebecca per chi mai stesse confezionando quella borsa di seta verde. E intimamente si compiaceva di sé, del suo garbo, della sua signorile disinvoltura. «Per chiunque desideri una borsa come questa,» fu la risposta di Rebecca. E la ragazza gli scoccò un'occhiata dolcissima, maliarda. E Sedley si accingeva a sciorinare un discorsetto di straordinaria eloquenza (e già esordiva con un «Oh, Miss Sharp, davvero...») quando la canzone che echeggiava nel salotto accanto si tacque all'improvviso, ed egli udì risuonare la propria voce con tale nitore e sonorità che tosto s'interruppe, arrossì e prese a soffiarsi il naso. «Mai prima d'ora vostro fratello è stato così eloquente, Amelia,» commentò Osborne. «La vostra amica ha operato un miracolo.» «Me ne compiaccio,» rispose Amelia, la quale, non diversamente da ogni donna dabbene, celava in cuore la smania di combinar matrimoni, e sarebbe stata entusiasta di veder suo fratello ripartire per l'India con una moglie al suo fianco. Per giunta, nei brevi giorni che aveva trascorso con lei, aveva sentito nascere in sé un'amicizia vivissima per Rebecca, nella quale ravvisava innumerevoli virtù e qualità delle quali non si era punto accorta quando vivevano insieme a Chiswick. Infatti l'affetto che una ragazza prova per un'altra cresce con la velocità del fagiolo della favola, e in una sola notte è capace di giungere alle stelle. E non bisogna volergliene se, una volta maritate, questa Sehnsucht nach der Liebe vien meno. I sentimentali, che sono altrettanti parolai, lo definiscono brama d'idealità. In pratica, la cosa sta a significare che le donne non si sentono appagate fino a quando non hanno marito e figli sui quali riversare il loro affetto; così, in mancanza d'altro, lo sfogano per ripiego su qualcun altro. Avendo esaurito il suo modesto repertorio di canzoni, o forse perché aveva indugiato troppo a lungo nel salottino del pianoforte, Amelia aveva ritenuto opportuno esortare l'amica a venire a sua volta a cantare. «Non sareste stato disposto ad ascoltarmi se aveste udito Rebecca prima di me,» disse a George, quantunque sapesse benissimo che quell'affermazione era priva di senso. «Tuttavia non posso non confessare a Miss Sharp,» rispose Osborne, «che considero Miss Amelia Sedley la prima cantante del mondo. Può anche darsi che abbia torto, ma sinceramente questa è la mia opinione.» «Adesso avrete agio di confrontarci,» disse Amelia, mentre Joseph spingeva la propria cortesia fino a trasportare i candelabri sul pianoforte. Osborne lasciò intendere che avrebbe gradito starsene al buio in quel salotto, ma Amelia ridendo affermò di non esser disposta a restarsene da sola a fargli compagnia, cosicché entrambi seguirono Joseph. Anche se Osborne era liberissimo di non mutar parere, è indubbio che Rebecca cantava molto meglio di Amelia. Fece sfoggio di tutta la sua bravura, con gran stupore dell'amica, che non l'aveva mai sentita cantare così. Intonò una canzone francese, della quale Joseph non comprese un'acca e che lo stesso Osborne ammise di non aver capito; poi cantò alcune di quelle ballate senza pretese, di gran moda quarant'anni addietro, che aveva per tema principale il re, i marinai inglesi, la povera Susanna e Mary dagli occhi di cielo. Non sono certo un gran che dal punto di vista musicale, ma contengono chiare allusioni all'amore che la gente capisce molto meglio delle svenevoli lagrime, sospiri e felicità di quell'eterna musica donizettiana, che al giorno d'oggi ci viene ammannita a ogni piè sospinto. L'ultima canzone del concerto diceva così: Ah, buia e desolata appariva la landa, Ah, tuonava e gemeva la tempesta, Il tetto della casa era sicuro usbergo, Il focolare era caldo e luminoso. Davanti alla finestra passò un orfanello, E sedotto da quel gaio bagliore, Sentì doppiamente la sferzata del vento notturno, E doppiamente il gelo della neve caduta. L'osservarono accelerare il passo, Con il cuore esausto e le membra dolenti; Voci garbate lo invitarono a volgersi e a fermarsi, Dolci visi gli diedero il benvenuto. È l'alba ormai, l'ospite se n'è andato, Dentro la casa il focolare splende ancora; Abbi pietà, Signore, di tutti i poveri, solinghi viandanti! Ascolta il sibilo del vento sulla collina. Le parole di questa romanza sembravano rievocare quelle che Rebecca aveva profferito poc'anzi: «Quando me ne sarò andata»... Quando fu all'ultimo verso la calda voce di Miss Sharp parve venir meno, e tutti compresero ch'ella pensava alla partenza, alla sua miseranda condizione di povera orfana. Joseph Sedley, che amava la musica ed era facile alla commozione, rimase in preda a una sorta di rapimento estatico per tutta la durata della canzone, e alla fine della romanza si sentiva profondamente turbato. Se avesse avuto più coraggio, e se George e Amelia si fossero trattenuti più a lungo nei salottino accanto, come lo stesso George aveva proposto, Joseph Sedley avrebbe posto fine al suo celibato e questo libro non avrebbe mai visto la luce. Ma, terminata la romanza, Rebecca abbassò il coperchio del pianoforte, diede la mano ad Amelia e si dileguò nella penombra dell'altra sala. In quell'istante entrò Sambo reggendo un vassoio carico di sandwiches, gelatine di frutta e caraffe e bicchieri di cristallo scintillante che subito attirarono lo sguardo di Joseph. Quando poi i padroni di casa rientrarono dalla cena alla quale erano stati invitati, constatarono che i giovani erano immersi in una fitta conversazione, e infatti non avevano udito arrivare la carrozza. In quel momento Joseph stava dicendo: «Miss Sharp, ve ne prego, accettate almeno un cucchiaino di gelatina di frutta onde ristorarvi dopo la vostra eccezionale, la vostra... la vostra encomiabile fatica.» «E bravo il nostro Jos,» esclamo Mr. Sedley. E al suono familiare della voce che lo dileggiava, Joseph fu assalito dalla consueta inquietudine, ritrovò il suo imbarazzato silenzio e subito prese congedo. Non posso certo affermare che abbia trascorso la notte in bianco domandandosi se fosse innamorato o meno di Miss Sharp. In verità l'amore non aveva mai compromesso l'appetito e il sonno del nostro Joseph. Nondimeno egli pensava a come sarebbe stato delizioso abbandonarsi all'ascolto di siffatte canzoni dopo il cutcherry, a com'era distinguée quella ragazza che si esprimeva in un francese migliore di quello della moglie del governatore... e alla figura strepitosa che avrebbe fatto se avesse partecipato alle feste da ballo di Calcutta. «Povera ragazza,» si diceva, «è chiaro che è cotta di me. È povera, d'accordo, ma non più di tutte le altre ragazze che capitano in India, e del resto potrei imbattermi in qualcosa di molto peggio, per Diana!» E sull'onda di queste considerazioni si addormentò. Per contro, è inutile precisare che Miss Sharp vegliò dominata dal pensiero «se Mr. Sedley sarebbe venuto o meno l'indomani». Inesorabile come il destino, il giorno dopo Joseph comparve prima di pranzo. Mai prima di allora la casa di Russell Square era stata onorata da un evento del genere. Da parte sua George Osborne era già arrivato, mettendo «sottosopra» Amelia, intenta a scrivere alle sue dodici amiche predilette di Chiswick Mall, mentre Rebecca era impegnata nello stesso lavoro del giorno innanzi. Quando il calesse di Joseph si fermò, e quando, dopo il violento colpo di batacchio alla porta e il rumoroso tramestio in anticamera l'ex ricevitore di Bogley Wollah ebbe arrancato su per le scale fino al salotto, Amelia e Osborne si scambiarono uno sguardo d'intesa. Dopo di che i due ebbero un sorriso malizioso fissarono ostentatamente Rebecca che chinò i suoi riccioli sul suo lavoro. Il cuore le batteva all'impazzata mentre Joseph faceva il suo ingresso: un Joseph ansimante, ansioso, il volto acceso, vestito di un panciotto nuovo di zecca e di un paio di lucidi stivali scricchiolanti. E dietro lo spropositato cravattone il suo rossore andava accentuandosi sempre più. Tutti, d'altronde, si sentivano agitati, e forse più di ogni altro lo era Amelia. Sambo, dopo aver annunciato il ricevitore, entrò nella stanza sulle orme di Joseph. Ridacchiando reggeva due splendidi mazzi di fiori che il nostro singolare personaggio, in preda a un impeto di galanteria, aveva acquistato quella mattina stessa al mercato di Covent Garden. Non erano proprio enormi come quelle specie di covoni avvolti in carta velina che oggigiorno le signore si compiacciono di portarsi appresso; tuttavia sia Rebecca che Amelia parvero estasiate di quell'omaggio, mentre Joseph ne offriva un mazzo per ciascuna piegandosi in un inchino pieno di sussiego. «Ottima idea, Joseph,» commentò Osborne. «Grazie, grazie, carissimo Joseph!» esclamò Amelia. E le sarebbe piaciuto moltissimo baciare suo fratello se questi avesse palesato un simile desiderio. (Io pur di ottenere un bacio di Miss Amelia, avrei comperato tutte le serre di Mr. Lee.) «Magnifici; sono davvero magnifici!» disse Rebecca, accostando delicatamente il naso al mazzo di fiori; poi se lo strinse al seno e levò lo sguardo al cielo, in preda a una sorta di estatica ammirazione. Può darsi che prima avesse sbirciato nel mazzo, caso mai vi fosse celato un billet doux, ma non ce n'era nemmeno l'ombra. «Anche a Bogley Wollah si sa cosa sia il linguaggio dei fiori, Sedley?» chiese Osborne ridendo. «Bah, stupidaggini!» fu la risposta di quel giovanotto sentimentale. Li ho comperati da Nathan. Ad ogni modo sono contento che vi siano giunti graditi. Ho comperato anche un ananasso, Amelia, l'ho consegnato a Sambo. Se lo mangiassimo per merenda? Con questo caldo, è veramente fresco e gradevole.» Rebecca si affrettò a confessare che non aveva mai assaggiato un ananasso in vita sua e non vedeva l'ora di gustarne il sapore. La conversazione andò avanti di questo passo, né saprei dire quale pretesto trovasse Osborne per lasciare il salotto, imitato poco dopo da Amelia. Forse voleva presiedere alla preparazione dell'ananasso... Fatto sta che Jos ebbe modo di trovarsi a tu per tu con Rebecca, la quale aveva ripreso il suo lavoro. La seta verde e i ferri luccicanti si muovevano e balenavano sotto le sue candide, agili dita. «La canzone che avete cantato ieri sera era stupenda, Miss Sharp, veramente stu-pen-da.» disse il ricevitore. «Vi giuro che quasi mi venivano le lacrime agli occhi.» «Evidentemente celate in voi sentimenti gentili, Mr. Joseph. Come tutti i membri della vostra famiglia, d'altronde.» «La notte scorsa non ho chiuso occhio e stamattina ho cercato di canticchiarla. Non mi credete? Alle undici è venuto Gollop, il mio medico. Eh, sì; perché dovete sapere che sono malato, e Gollop viene ogni giorno a visitarmi. Cribbio, quando è arrivato stavo cantando come un pettirosso!» «Ah, siete un vero spasso! Volete farmi un favore? Cantatemela adesso.» «No, no, cantatela voi! Ve ne prego, cara Miss Sharp, cantatela!» «No, adesso no, Mr. Sedley,» disse Rebecca sospirando. «Devo finire la borsa. Sareste così gentile da aiutarmi, Mr. Sedley?» E prima ancora che avesse il tempo di chiedere in che forma potesse offrire il suo contributo, Mr. Sedley, funzionario della Compagnia delle Indie, si trovò seduto di fronte a Rebecca dardeggiandole sguardi carichi di passione. Aveva le braccia protese in un gesto implorante, e le mani tendevano la matassa di seta verde ch'ella andava dipanando. In tale romantico atteggiamento Osborne e Amelia sorpresero l'interessante coppia quando entrarono per annunciare che la merenda era pronta. Ormai la matassa era del tutto avvolta intorno al rocchetto, ma Jos non aveva avuto l'ardire di parlare. «Sono sicura che stasera si deciderà, mia cara,» disse Amelia, e strinse la mano di Rebecca. Dal canto suo anche Sedley aveva parlato, sia pure a se stesso. «Per Dio,» si era detto, «a Vauxhall affronterò definitivamente la questione.» V • IL NOSTRO DOBBIN La lotta fra Cuff e Dobbin e i suoi imprevedibili risultati rimarranno a lungo nel ricordo di coloro che furono educati nel celebre collegio del dottor Swishtail. Il secondo dei due, che tutti erano soliti chiamare «Coraggio, Dobbin, coraggio, Dobbin, arrì, arrì, Dobbin» e in vari altri modi atti a designare il loro modo infantile di manifestare il disprezzo, era il più taciturno, il più impacciato ed anche il più tonto di tutti i convittori di Swishtail. Il padre faceva il droghiere, e si diceva che il ragazzo fosse stato accettato al collegio «alla pari», vale a dire che la retta per l'insegnamento e il vitto venivano pagati in mercanzie varie anziché in denaro. Dall'ultimo banco in fondo all'aula emergeva quel vestituccio malandato di velluto a coste dentro il quale si sarebbe detto che le membra ossute del ragazzo da un momento all'altro avrebbero fatto scoppiare le cuciture: quelle membra che rappresentavano un numero imprecisato di libbre in candele, zucchero, sapone da bucato, prugne (una parte risibile delle quali finivano nei budini destinati agli alunni), e altri generi coloniali. Fu davvero terribile per il povero Dobbin, il giorno in cui uno dei ragazzi, durante una puntata in città per far scorta di croccante e salsicce, aveva scoperto il carro di Dobbin & Rudge (Generi coloniali e Olii, Thames Street, Londra) davanti all'ingresso del collegio, proprio mentre scaricava un carico delle derrate in cui commerciava la ditta in questione. Da quel momento il giovane Dobbin non ebbe più pace. Era vittima di continui scherzi, terribili, crudeli. «Ciao, Dobbin,» lo salutava uno, «buone notizie per te, sul giornale: il prezzo dello zucchero sta salendo.» Un altro tirava in ballo problemi come questo: «Se una libbra di candele di sego costa sette pennies e mezzo, quale sarà il prezzo di Dobbin?» E tutte quelle giovani canaglie, ivi compreso l'assistente, scoppiavano a ridere come pazzi, convinti com'erano che il commercio al minuto fosse un'attività disdicevole, indecorosa, e che di conseguenza meritasse il dileggio e lo spregio di qualsiasi autentico gentiluomo. «In fin dei conti anche tuo padre fa il negoziante, Osborne,» disse Dobbin al ragazzo che era stata la causa di tutti i suoi guai. Ma l'altro, in tono solenne e altezzoso, aveva risposto: «Mio padre ha tanto di carrozza e cavalli.» Il povero William Dobbin era andato a rifugiarsi sotto una specie di tettoia in fondo al cortile che serviva per la ricreazione dei ragazzi, e quivi aveva trascorso gran parte di un giorno di festa in preda alla più nera malinconia. Chi di noi non ha vissuto simili ore di cupo dolore infantile? E chi più di un ragazzo dotato di generosi sentimenti soffre nel patire un'ingiustizia? Chi tende a rinchiudersi in se stesso a causa di un'offesa subita? Chi prova tanta amarezza per un torto ricevuto e tanta gratitudine per una gentilezza? Quante povere, innocenti creature subiscono umiliazioni, conoscono la solitudine e ogni sorta di sevizie morali in cambio di quattro nozioni di latino e di aritmetica! Pertanto William Dobbin, data la sua ritrosia ad apprendere gli elementi di latinorum contenuti in quel fantastico libro denominato Eton Latin Grammar, era condannato a figurare tra gli ultimi allievi del dottor Swishtail, e subiva le umiliazioni dei compagni in grembiule e faccino bianco e rosso mentre, simile a un gigante fra i nani, marciava ancora frammisto a quelli di prima, lo sguardo chino, i calzoncini lisi e il libro tutto sgualcito, con le orecchie a ogni angolo. Tutti lo deridevano, piccoli e grandi. Gli scucivano i calzoni, già di per sé troppo stretti, gli tagliavano le fettucce della branda, rovesciavano secchi e panche perché lui andasse a sbattervi contro ammaccandosi gli stinchi, cosa che accadeva infallibilmente. Gli indirizzavano certi pacchetti che contenevano il sapone e le candele di suo padre. Non c'era bambino, per piccolo che fosse, il quale non provasse un gusto matto a burlarsi di lui; e Dobbin sopportava tutto, paziente e avvilito, senza far parola. Cuff invece era il numero uno, la perla del convitto Swishtail. Faceva entrare del vino di straforo e faceva a pugni coi monelli di strada. Il sabato lo venivano a prendere con due ponies e se ne andava in sella a uno di quei cavallini. In camera aveva un paio di stivali che usava durante le vacanze per andare a caccia. Aveva un orologio d'oro e fiutava prese di tabacco come il rettore. Era stato all'Opera e si permetteva di disquisire sulla bravura dei vari attori, dichiarando di preferire Kean a Kemble. Era capace d'imparare quaranta versi latini in un'ora, scriveva poesie in francese, e per concludere sapeva dire e fare qualunque cosa. Persino il rettore, dicevano, provava nei suoi confronti una sorta di timore. Cuff, il re del convitto, regnava sui sudditi e si permetteva di maltrattarli dall'alto della sua albagiosa superiorità. Chi gli tostava il pane, chi gli lucidava le scarpe; altri si mettevano spontaneamente al suo servizio, e d'estate consumavano interi pomeriggi a raccattargli le palle da cricket. Ma il ragazzo che Cuff disprezzava più di ogni altro era «Figs». Non gli rivolgeva mai la parola, tranne che per schernirlo e insultarlo. Un giorno, trovandosi a tu per tu, i due pivelli avevano avuto un battibecco. Mentre Figs era in aula e stava arrancando su una lettera da spedire a casa sua, Cuff entrò e gli ingiunse di andargli a fare una commissione (probabilmente si trattava di andare a comperare dei dolci). «Ora non posso,» rispose Dobbin, «devo finire questa lettera.» «Cosa? Non puoi?» rispose Cuff. E s'impadronì di quel foglio, pieno di parole cancellate e di errori di ortografia, e che Dio sa quanta fatica, quanta concentrazione, quante lacrime fosse costato al povero Dobbin: poveraccio, stava scrivendo a sua madre, che gli voleva bene anche se era solo l'umile consorte di un droghiere e passava la vita in un retrobottega di Thames Street. «Non puoi?» ripeté il giovincello. «Sarei veramente lieto di sapere perché. Non puoi scrivere domani la tua lettera a mamma Figs?» «Smettila con le tue villanie,» rispose Dobbin alzandosi dal banco al colmo del nervosismo. «Insomma, bello mio, vuoi sbrigarti ad andare sì o no?» strillò il galletto del collegio. «Posa la lettera,» disse Dobbin, «una persona che si rispetti non si permette di leggere le lettere altrui.» «Allora ci vai sì o no?» rispose l'altro, imperturbabile. «No che non ci vado! E bada di non provarti a menar le mani altrimenti ti spacco il muso!» urlò Dobbin accostandosi a un calamaio di piombo. Sul volto aveva un'espressione così inferocita che Cuff si fermò, abbassò le maniche e si allontanò con un sorrisetto. Da quel giorno pose ogni cura nell'evitare di trovarsi faccia a faccia col figlio del droghiere, sebbene (occorre sottolinearlo) non desistesse dal dirne peste e corna alle sue spalle. Qualche tempo dopo avvenne che in un pomeriggio di sole Cuff capitasse davanti al povero Dobbin il quale, sdraiato all'ombra di un albero in giardino, era profondamente assorto nella lettura di una novella delle Mille e una Notte, di cui possedeva una copia. Era lì tutto solo, quasi felice, a debita distanza dai giochi dei suoi compagni. Se i ragazzi venissero lasciati in pace, se gli insegnanti la smettessero di sgridarli, se i genitori non perseverassero nella pretesa di voler giudicare i loro pensieri e influire sui loro sentimenti, pensieri e sentimenti che sono ignoti a tutti (giacché, in conclusione, cosa ne sappiamo, io e voi, l'uno dell'altro, e dei nostri figli, dei nostri genitori, dei nostri vicini di casa? Chissà quanto sono più limpidi e puri i pensieri dei ragazzini che pretendiamo di «educare» di quelli dello stolido e del corrotto che esercita la sua influenza su di loro); se, dicevo, genitori e insegnanti si decidessero a lasciare in pace i fanciulli affidati alle loro attenzioni, ne verrebbe ben poco danno, anche se i bimbi in questione si curerebbero un po' meno d'imparare as in praesenti. Stavo dunque dicendo che quella volta Dobbin aveva die monticato il mondo che lo circondava ed era lontano, nella Valle dei Diamanti, con Sindibàd il Marinaio, col principe Ahmed e con la fata Peribanu in quella caverna favolosa dove il principe l'ha scovata e dove tutti saremmo lieti di fare una scorribanda, quando a distrarlo da quel sogno delizioso sopravvennero strida acutissime, tipiche di un bimbetto che pianga. Alzò lo sguardo e vide Cuff impegnato a picchiare uno dei convittori più piccoli. Era il bambino che aveva raccontato a tutto il collegio la storia del carro del droghiere, ma William non sapeva serbare rancore, e menchemeno nei confronti di un ragazzo più piccolo di lui. «Dunque, vi siete permesso di rompere la bottiglia, vero, signorino?» diceva Cuff agitando minaccioso davanti agli occhi del poverino la sua gialla bacchetta da cricket. Il ragazzo aveva avuto ordine di scavalcare il muro del giardino (approfittando di un tratto in cui erano stati rimossi i cocci di vetro conficcati nella malta ed erano state praticate delle tacche per dare appoggio al piede nello spessore del muro di mattoni), di percorrere a tutta velocità un quarto di miglio, di andare a comperare (a credito, beninteso) una mistura di rhum, di scansare tutte le spie del Censore disseminate per ogni dove, di inerpicarsi nuovamente su per il muro e di rientrare nel giardino. Ma nel corso di quella spedizione gli era scivolato un piede, la bottiglia si era rotta macchiando di rhum i pantaloncini e lui si era presentato al cospetto del suo «padrone» tremebondo e contrito, anche se affatto innocente. «Come vi siete permesso di romperla, signorino?» disse ancora Cuff. «Non siete altro che uno sciocco ladruncolo. Il rhum ve lo siete bevuto voi ed ora vorreste dare ad intendere di aver rotto la bottiglia. Stendete la mano, presto.» E la bacchetta si abbatté con rumore sordo sulle mani del bimbo. Dobbin udì un gemito e sollevò lo sguardo. La fata Peribanu si dileguò insieme al principe Ahmed nel profondo della caverna; il marinaio scomparve dalla Valle dei Diamanti quasi fosse stato carpito in volo dalle nubi e agli occhi di William si presentò un quadro che rifletteva la realtà nuda e cruda: un ragazzo che ne picchiava un altro più piccolo di lui. «L'altra mano!» urlò Cuff al suo piccolo compagno che aveva il volto alterato dalla sofferenza. Dobbin ebbe un brivido e si strinse nel suo vestituccio malandato. «Beccati questo, canaglia!» E di nuovo la bacchetta cadde con violenza sulla mano del bimbo. No, caro signore, guardatevi bene dall'inorridire: tutti i ragazzi lo hanno fatto, in collegio. Probabilmente succederà anche ai vostri figli, di prenderle come di darle. La bacchetta si abbatté per la terza volta, mentre Dobbin si alzava in piedi. Non saprei dirvi perché mai lo abbia fatto. In collegio le punizioni corporali sono di prammatica, come lo knut in Russia. Sotto un certo aspetto, chi cercasse di evitarle non si comporterebbe da gentiluomo. Forse la debole anima di Dobbin provò un impulso di ribellione davanti alla tirannia, o forse celava in cuore un desiderio di vendetta ed ora voleva competere con quel tiranno irriducibile che in collegio si procacciava tutto il possibile: gloria, onori, fastigi, sventolio di bandiere, rullo di tamburi, presentat'arm delle guardie. Ad ogni modo, quale che fosse il suo impulso, Dobbin balzò in piedi e gridò: «Smettila, Cuff; se continui a picchiare quel ragazzo, io...» «Tu cosa?» domandò Cuff, esterrefatto per quell'interruzione. «Stendi la mano anche tu, carogna!» «Te ne darò tante quante non ne hai mai prese in tutta la tua vita,» rispose Dobbin rispondendo alle prime parole di Cuff, mentre il piccolo Osborne, ansimante, il viso coperto di lacrime, alzava due occhi increduli su quell'inopinato difensore emerso di punto in bianco in suo soccorso. Né lo stupore di Cuff fu da meno. Immaginate il nostro re Giorgio III quando ebbe la notizia della rivolta scoppiata nelle colonie del Nord America; immaginate l'indomito Golia quando il piccolo David gli si fece accosto col proposito di misurarsi con lui, e vi farete un'idea del sentimento che provò Reginald Cuff quando si vide sfidato con tanta improntitudine. «Ci rivedremo dopo scuola,» disse, dopo una breve pausa. E il suo sguardo voleva significare: «Pensa pure a far testamento e ad esprimere agli amici le tue ultime volontà.» «Come ti pare,» rispose Dobbin. «Tu, Osborne, mi farai da padrino.» «D'accordo. Se proprio ci tieni...» disse Osborne. Non dimenticatevi, infatti, che suo padre aveva una carrozza, e lui si vergognava un poco di quel suo campione. Proprio così: al momento della battaglia, Osborne provò una certa vergogna mentre gridava: «Forza, Figs!» E nemmeno uno dei ragazzi che assistevano in cerchio ripeté quel grido d'incoraggiamento durante le prime battute di quel celebre combattimento, giacché all'inizio Cuff; con un sorriso sprezzante sulle labbra, allegro e noncurante come fosse stato a una festa da ballo, scaricò una tempesta di pugni sul malcapitato e per ben tre volte stese a terra il povero campione. Ed ogni volta echeggiavano gli applausi: tutti morivano dalla voglia di flettere il ginocchio davanti al vincitore. «Quando tutto sarà finito, toccherà a me prenderne un sacco e una sporta,» pensava Osborne, aiutando il suo campione a rimettersi in piedi. «Faresti meglio ad arrenderti,» disse a Dobbin, «dopo tutto alle botte ci sono abituato, io, lo sai benissimo.» Ma Figs, tutto tremante, le narici dilatate dalla collera, respinse il suo piccolo padrino e si apprestò ad affrontare l'urto della quarta ripresa. Non sapeva assolutamente come fare a parare i colpi dell'avversario: infatti nei tre rounds precedenti era stato Cuff a muovere all'attacco, senza permettergli di mandare a segno un solo colpo. Pertanto in questa ripresa decise di andar subito alla carica: era mancino, cosicché mise in azione il braccio sinistro, e con tutte le forze colpì due volte: la prima all'occhio sinistro, la seconda al bellissimo naso aquilino di Cuff. Stavolta toccò a quest'ultimo crollare nella polvere fra lo stupore di tutti gli astanti. «Bel colpo, perbacco!» esclamò Osborne con l'aria di chi se ne intende; «suonagliele col sinistro, vecchio mio!» Durante le fasi successive del combattimento il sinistro di Figs fu autore di spaventosi e stupefacenti prodigi: ad ogni round Cuff finì per terra. A conclusione della sesta ripresa i ragazzi che gridavano: «Forza, Figs!» erano ormai in numero quasi eguale a quelli che incitavano Cuff, e alla fine del dodicesimo round quest'ultimo era, come si suol dire, praticamente «spacciato»: la sua presenza di spirito era andata a farsi benedire e non sapeva più né attaccare né difendersi. Invece Figs era tranquillo come un quacchero. Il volto pallidissimo, gli occhi sgranati e scintillanti, un taglio profondo al labbro inferiore dal quale sgorgava sangue in abbondanza, conferivano a Dobbin un che di feroce e al tempo stesso di spettrale che forse valse a sgomentare più d'uno fra gli spettatori. Ciò non toglie che il suo avversario non demordesse e si apprestasse ad attaccare per la tredicesima volta. Se avessi la penna di Napier o fossi un cronista del «Bell's Life» non esiterei a descrivere nel modo dovuto questa lunga tenzone. Era l'ultima carica della Guardia (o diciamo meglio che si sarebbe potuta designarla così se la battaglia di Waterloo avesse già avuto luogo), erano le truppe di Ney che muovevano all'attacco del colle di La Hay Sainte, irto di diecimila baionette e sovrastato da dieci aquile; ed era il grido del britanno carnivoro che, precipitandosi giù dal crinale del colle si avventava sul nemico per stringerlo nella sua morsa. In poche parole, mentre Cuff, non senza dar prova di coraggio, barcollante e intontito, tornava ad alzarsi, una volta di più il figlio del mercante di fichi secchi lo colpiva al naso di sinistro scaraventandolo al suolo per l'ultima volta. «Credo che possa bastargli,» fu il commento di Figs, mentre l'avversario rotolava sull'erba in modo definitivo, proprio come una palla da biliardo quando finisce nella buca. Infatti, quando finirono di contare, Mr. Reginald Cuff non si era rialzato (oppure aveva preferito non farlo). A questo punto tutti i ragazzi presero ad inneggiare a Figs, proprio come se fosse sempre stato il loro beniamino, e fecero un tal baccano che il dottor Swishtail uscì dal suo studio, desideroso di apprenderne la causa. Naturalmente non esitò un istante a esternare il proposito di frustare Figs, ma Cuff, che nel frattempo era tornato in sé, si fece avanti e disse: «È stata colpa mia, signore, non di Figs... cioè... di Dobbin. Stavo picchiando un ragazzo e mi sono meritato la lezione.» Un magnanimo discorso che valse non soltanto a risparmiare le frustate a Figs, ma a fargli ritrovare presso i compagni quel prestigio che la sconfitta aveva rischiato di fargli perdere. Quanto a Osborne, descrisse l'episodio in una lettera ai suoi genitori. Sugarcane House, Richmond, 18 marzo. Cara mamma, vi spero in buona salute e vi sarei grato se voleste mandarmi una focaccia e cinque scellini. Qui c'è stato un pugilato tra Cuff e Dobbin. Come sapete, Cuff è il capo dei convittori. I rounds sono stati tredici e Dobbin lo ha sconfitto. Così adesso Cuff è secondo nella graduatoria. Sono stato io la causa del combattimento. Cuff mi picchiava perché avevo rotto una bottiglia di latte e Figs non ha voluto. Lo chiamiamo Figs perché suo padre fa il droghiere, Figs & Rudge, Thames Street, City, e io sono dell'idea che voi dovreste comperare il tè o lo zucchero da suo padre, dal momento che ha combattuto per me. Cuff va a casa sua ogni sabato, ma questo sabato non ci va perché ha gli occhi pesti. Viene sempre a prenderlo un lacchè in livrea su una cavalla bianca, con pony bianco per lui. Sarei così contento se papà mi regalasse un pony. Il vostro devotissimo figlio George Sedley Osborne P.S. Tanti saluti da parte mia alla piccola Emmy. Le sto fabbricando una carrozza ritagliandola nel cartone. Vi prego, non mandatemi un seed-cake, ma un plum-cake. Dopo quella vittoria, le quotazioni di Dobbin salirono vertiginosamente presso i suoi compagni, e Figs cessò di essere un soprannome spregiativo per diventare un nomignolo rispettabile, non diverso da quelli che i ragazzi erano soliti affibbiarsi a scuola. «In fin dei conti, che colpa ne ha, lui, se suo padre è un droghiere?» disse Osborne, che sebbene fosse uno dei piccoli, era molto considerato dai ragazzi dell'istituto Swishtail. E le sue parole furono salutate da calorosi applausi. Si convenne che era spregevole burlare Dobbin a causa della modestia dei suoi natali. Figs diventò un soprannome cortese quasi affettuoso; persino quello spione dell'assistente smise di prenderlo in giro. Il mutare della situazione servì del pari ad aprire la mente di Dobbin, che a partire da quella data fece clamorosi progressi anche nello studio. Lo stesso Cuff, ad onta della sua prosopopea, lo aiutò in latino, con gran stupore di Dobbin che arrossiva tutto, sorpreso di tanta benevola condiscendenza. Gli dava ripetizione durante le ore di ricreazione e non solo lo portò dalla classe dei piccoli a quella dei più grandicelli, ma seppe addirittura trovargli un buon posto. Inoltre tutti poterono constatare, che se da un lato non riusciva gran che nelle lingue classiche, in compenso era bravissimo in matematica. Tra la generale soddisfazione, agli esami estivi riuscì terzo in algebra: il che gli valse in premio un libro francese. Non si può descrivere la faccia di sua madre quando, alla presenza di tutti i convittori, dei loro familiari e di tutta la compagnia, il dottor Swishtail gli regalò quel delizioso libro che è Télémaque con dedica autografa a Guglielmo Dobbin. Tutti i ragazzi applaudirono, in segno di ammirata simpatia, mentre nessuno riuscirebbe a descrivere il rossore di William, né a dire quante volte incespicò e quanti piedi calpestò facendo ritorno al suo posto. Dobbin padre, che solo allora cominciò a provare una certa considerazione per il figliolo, gli regalò due ghinee che William spese in gran parte per invitare i suoi compagni a un piccolo ricevimento. Alla fine delle vacanze tornò con l'abito a code. D'altra parte Dobbin era troppo modesto per attribuire quel lieto capovolgimento della situazione alla prova di fermezza e di carattere che aveva saputo dare. Al contrario, e Dio sa per quale strana elucubrazione della sua mente volle ravvisarne il merito nel piccolo Osborne, al quale da allora in poi si sentì legato da quell'affetto incondizionato che solo i bambini sanno provare: un affetto paragonabile a quello del goffo Orson per il meraviglioso, giovane Valentine, argomento di un incantevole libro di fiabe. Si potrebbe dire che Dobbin si prostrò ai piedi di George Osborne e ne fece la sua divinità. Già prima di diventare suo amico provava per lui una segreta ammirazione, ma ora divenne il suo lacchè, il suo cane, il suo Venerdì. Credeva sinceramente che Osborne fosse la perfezione incarnata, che fosse il ragazzo più bello, più attivo, più intelligente, più generoso di quanti ve ne sono sulla faccia della terra. Spartiva con lui il suo denaro e lo colmava di doni: temperini, portapenne, caramelle, sigilli d'oro, copie del Little Warber e libri di avventure corredate di splendide illustrazioni a colori che raffiguravano ora briganti ed ora prodi cavalieri, e nei quali si leggeva sovente questa dedica: «A George Sedley Osborne, dal suo affezionato William Dobbin.»: attestazioni di omaggio e devozione che Osborne accettava con garbata degnazione, come si conviene ad una persona che fruisca di ben altri meriti. Per questa ragione, quando il tenente Osborne si presentò alla casa di Russell Square il giorno della gita a Vauxhall, disse alle signore: Mrs. Sedley, oso sperare che ci sia posto anche per il nostro Dobbin: l'ho invitato a cena da voi, e poi a venire a Vauxhall in nostra compagnia. È molto timido, sapete? Quasi quanto Joseph. «Timido? Per carità!» esclamò il grasso individuo lanciando uno sguardo vainqueur a Miss Sharp. «Certo che è timido,» replicò Osborne ridendo. «Ma voi, Sedley, avete più linea, avete maggior tatto. L'ho incontrato al Bedrord quando sono andato a cercarvi e gli ho detto che Miss Amelia era tornata e che avevamo in programma di uscire una sera a divertirci tutti assieme. E che ormai Mrs. Sedley lo aveva perdonato di aver mandato in briciole la coppa del punch durante la festa dei bambini. Ricordate, signora, che malestro ha combinato, sei anni fa?» «Il punch è finito tutto sull'abito di seta viola di Mrs. Flamingo!» rispose Mrs. Sedley. Era così impacciato! Del resto le sue sorelline non sono certo più aggraziate di lui! L'altra sera a Highbury c'era anche Lady Dobbin con tre di loro. Veramente impeccabili: potete credermi, miei cari!» «Se non erro il consigliere è pieno di quattrini,» disse Osborne, sfacciato. «Non credete, signora, che potrei sposarmi una delle sue figlie?» «Suvvia, scioccherellone! Vorrei proprio vedere chi sarebbe disposta ad accettarvi come marito, con quella faccia gialla che vi ritrovate !» «Ah, sì? Secondo voi avrei la faccia gialla. Aspettate piuttosto di vedere quella di Dobbin. Ha avuto la faccia gialla tre volte: due a Nassau e una a St. Kitts.» «Sarà. Comunque, la vostra per noi è già abbastanza gialla; nevvero, Amelia?» Quest'ultima si limitò a sorridere e ad arrossire delle considerazioni materne. Poi il suo sguardo si posò con insistenza sul volto di Osborne, così pallido e interessante, su quei baffi neri, lucenti e ritorti dei quali lo stesso titolare non mancava di compiacersi; e nel segreto del suo cuore pensò che in tutto l'esercito di Sua Maestà non c'era un eroe come Osborne, un uomo con un viso tanto attraente. «Non m'importa niente del pallore e della goffaggine del capitano Dobbin,» disse. «A me piace e non cesserà mai di piacermi.» Non poteva essere altrimenti, visto che Dobbin era l'amico e il paladino di George. «È l'uomo migliore di tutto l'esercito,» continuò Osborne, «ed è un ufficiale veramente in gamba. Che importanza ha se non è un Apollo?» Dopo di che si diede un'occhiata allo specchio, con molta naïveté, e colse lo sguardo di Miss Sharp che lo fissava intensamente. Egli arrossì appena, mentre Rebecca pensava: «Eh, mon beau Monsieur! Credo proprio di averti capito.» Che furbacchiona! Quella sera stessa, quando Amelia, agile e lieve come una piuma, in abito di mussola bianca e pronta a conquistare tutta Vauxhall, entrò nel salotto fresca come una rosa e gorgheggiante come un'allodola, le venne incontro un giovanottone alto e dinoccolato, con enormi mani, enormi piedi, enormi orecchie rese tanto più evidenti dai capelli neri tagliati corti. Indossava l'orrenda divisa adorna di alamari, con cappello a tricorno, che a quel tempo portavano i militari; ed eccolo piegarsi nella più goffa riverenza che sia mai stata eseguita da un essere umano. Era, costui, il capitano William Dobbin del ...mo reggimento di Fanteria di Sua Maestà, convalescente della febbre gialla buscatasi nelle Indie Occidentali dove le circostanze lo avevano scaraventato, mentre tanti suoi validi commilitoni si coprivano di gloria nella penisola iberica. Per annunciarsi aveva battuto alla porta con un colpo così timido e impercettibile, che al piano di sopra le signore non lo avevano udito. Infatti è evidente che in caso contrario Miss Amelia si sarebbe guardata bene dall'entrare in salotto cantando. Invece vi entrò, e quella fresca, incantevole vocetta giunse dritta dritta al cuore del capitano, e vi rimase. E quando lei gli porse la mano, prima ancora di stringerla egli pensò: «È mai possibile? È proprio lei la bimbetta in abito rosa di cui conservavo il ricordo? Quella che ho visto poco tempo addietro, la sera della mia nomina, quando ho rovesciato la coppa del punch? Dunque è lei la fanciulla che George Osborne, a quanto dichiara, si propone di portare all'altare! Che soave creatura, e che splendido fiore si porterà via quel brutto furfante!» Sì, ebbe il tempo di pensare a tutto ciò prima di stringere tra le sue la mano di Amelia, mentre il tricorno gli cadeva sul pavimento. La sua storia dal momento in cui era uscito dal collegio fino ad ora che abbiamo il piacere di ritrovarlo, per quanto non venga narrata per esteso, mi sembra risulti intuibile a un attento lettore, almeno nelle sue linee essenziali, da quanto affiora nella conversazione delle pagine precedenti. Il disprezzato droghiere Dobbin era diventato il consigliere Dobbin. Il consigliere Dobbin era colonnello delle guardie a cavallo della City, che in quel momento fremevano di militaresco ardore, smaniosi com'erano di respingere l'invasore francese. Il suo reggimento, nel quale persino il vecchio Osborne non era che un modesto caporale, era stato passato in rivista da Sua Maestà in persona e dal duca di York. Adesso il colonnello-consigliere era stato fatto cavaliere, suo figlio era entrato nei ranghi dell'esercito e il giovane Osborne non aveva tardato a seguirlo nel medesimo reggimento. Avevano prestato servizio nelle Indie Occidentali e in Canada, ed il loro reggimento era appena rientrato in patria; ma nel frattempo nulla era mutato nel trasporto d'affetto che Dobbin provava per George Osborne sin da quando erano compagni di scuola. Pertanto i rispettabili componenti di questa compagnia sedettero a tavola e presero a parlare di guerra e di gloria, di Boney e di Lord Wellington, nonché dell'ultima «Gazette». In quei giorni aureolati d'eroismo ogni «Gazette» riportava la notizia di una nuova vittoria: i due baldi giovanotti fremevano dal desiderio di veder figurare il proprio nome nell'elenco dei valorosi e imprecavano alla malasorte che li aveva aggregati a un reggimento cui non era offerta l'occasione di farsi onore. Quei discorsi elettrizzavano Miss Sharp, tutt'al contrario della povera Amelia, che al solo ascoltarli tremava tutta e si sentiva prossima al deliquio. Joseph raccontò innumerevoli episodi di caccia alla tigre e concluse con la storia di Miss Cutler e del chirurgo Lance, mentre si premurava di riempire il piatto di Rebecca di tutte le cibarie che si trovavano sulla tavola. Per parte sua, s'ingozzò più che poté di cibo e di bevande. Quando le signorine si ritirarono, balzò in piedi per aprire la porta con gesto d'indicibile grazia e galanteria. Poi tornò a tavola, e con gesti rapidi e nervosi prese a tracannare un bicchiere di vino dopo l'altro. «Beve per sentirsi in forma,» sussurrò Osborne a Dobbin. Dopo di che, finalmente, venne il momento di uscire, e arrivò anche la carrozza che li avrebbe portati a Vauxhall. VI • VAUXHALL Mi rendo perfettamente conto che per ora sto intonando una canzoncina piuttosto leggera (ma faranno seguito capitoli terribili); però debbo pregare il gentile lettore di rammentarsi che fino a questo momento mi sono limitato a descrivere la famiglia di un agente di cambio residente in Russell Square, i componenti della quale vanno a spasso, vanno a pranzo, vanno a cena e si vogliono bene né più né meno di come accade nella vita di ciascuno di noi, cioè senza che nessun avvenimento patetico o fuori dell'ordinario conferisca una luce particolare ai loro amori. Le cose, pertanto, stanno in questi termini: Osborne, innamorato di Amelia, ha invitato un vecchio amico a cena e ad unirsi a loro per una gita a Vauxhall. Quanto a Jos Sedley, ormai ama Rebecca. Riuscirà a farne la sua sposa? Ecco, per il momento, la questione più importante. Gli stessi avvenimenti avrebbero potuto essere raccontati in chiave aristocratica, romantica, oppure comica. Se, poniamo, avessimo spostato l'azione in Grosvenor Square proponendo gli stessi casi tali e quali... ebbene, non avremmo trovato un nostro pubblico? Per esempio, chi mi avrebbe impedito di riferire in quali circostanze Lord Joseph Sedley si fosse innamorato, e come il marchese di Osborne si fosse invaghito di Lady Amelia, col pieno consenso del duca, il di lei nobile genitore... Oppure, anziché attingere i miei personaggi all'alta società avrei potuto sceglierli fra la gente del popolo e descrivere quanto avveniva nella cucina di Mr. Sedley: dire che il negro Sambo era innamorato della cuoca (il che, d'altronde, era vero) e raccontare che per causa sua si era preso a cazzotti col cocchiere; come lo sguattero fosse stato colto in flagrante mentre rubava un cosciotto di montone freddo e come la nuova femme de chambre di Mr. Sedley rifiutasse di andare a letto se non le veniva accordata una candela di cera. Non è difficile descrivere fatti del genere in termini atti a suscitare le più fragorose risate, e si può spacciarli per una raffigurazione realistica della vita. Se invece avessi voluto indulgere ai toni truculenti, e alla nuova femme de chambre avessi assegnato come amante un ladro matricolato il quale fa irruzione con la sua ghenga, uccide Sambo sotto gli occhi del padrone, rapisce Amelia in camicia da notte e non la lascia più libera sino al terzo volume, forse avrei scritto una storia raccapricciante e del più vivo interesse, densa di capitoli procacciatori di brividi che il lettore avrebbe affannosamente divorato. Ma i miei lettori si disilludano: questa è una storia semplice, scevra da elementi così romanzeschi. Si accontentino dunque di un capitolo nel quale si parla di Vauxhall: un capitolo così breve che a stento e fatica merita di esser qualificato come tale, e che tuttavia è un capitolo, molto importante per giunta. Del resto, non esistono forse nella vita di tutti noi dei capitoli di breve durata che sembrano privi d'importanza e invece esercitano un peso determinante sulla nostra sorte? Pertanto saliamo in carrozza insieme con tutto il gruppo di Russell Square e andiamocene ai giardini. Jos e Miss Sharp hanno preso posto sui sedili anteriori e sono piuttosto pigiati; quanto a Mr. Osborne, siede di fronte, tra Amelia e il capitano Dobbin. I personaggi che siedono in carrozza sono affatto persuasi che in serata Jos chiederà a Rebecca di diventare Mr. Sedley. Quanto ai genitori di costui, rimasti a casa, si sono assuefatti a questa ipotesi, sebbene - detto fra noi - il vecchio Sedley provasse nei confronti del figlio un sentimento molto affine al disprezzo. Diceva che era vanesio, egoista, pelandrone, effemminato. Trovava esasperanti quelle sue arie di uomo alla moda, e rideva a crepapelle delle fandonie che raccontava. «Gli lascerò metà delle mie sostanze» diceva, «tanto più che ne avrà da vendere del suo; ma siccome non dubito che se io, te e sua sorella ce ne andassimo all'altro mondo domani stesso, lui direbbe "Mio Dio!" per poi pranzare con l'appetito di tutti i giorni, non ho la minima intenzione di prendermela per lui. Sposi chi gli pare, la cosa non m'interessa.» Invece Amelia - ed era naturale in una ragazza prudente e dotata di un indole come la sua - era semplicemente entusiasta di quel matrimonio. Un paio di volte Jos aveva lasciato capire di volerle dire qualcosa di molto importante, qualcosa che lei era disposta di buon grado ad ascoltare; ma il pingue giovanottone non si decideva, non riusciva a liberarsi del suo grande segreto: tra la più viva delusione di sua sorella era riuscito soltanto a liberarsi di un gran sospiro e se n'era andato per i fatti suoi. Questo mistero contribuiva a mantenere il tenero cuore di Amelia in uno stato di perpetuo subbuglio. Quando non parlava con Rebecca di quel delicato argomento, si abbandonava a lunghe e riservatissime conversazioni con Mrs. Blenkinsop, la governante, la quale ne faceva cenno alla cameriera, la quale, forse, ne riferiva vagamente alla cuoca, la quale - non ne ho il minimo dubbio raccontava la faccenda a tutti i fornitori del quartiere, per cui nella zona di Russell Square non erano poche, ormai, le persone che parlavano del matrimonio di Mr. Jos. Inutile dire come Mrs. Sedley fosse convinta che suo figlio, sposando la figlia di un pittore, commettesse una mésaillance.. «Ma, buon Dio, Signora,» commentava Mrs. Blenkinsop, «voi venivate da una famiglia di droghieri quando vi siete maritata con Mr. Sedley, e lui era soltanto l'impiegato di un agente di cambio. Fra tutti e due avevate sì e no cinquecento sterline, mentre adesso potete considerarvi abbastanza ricchi.» Amelia era perfettamente d'accordo con lei, e alla fine anche la conciliante Mrs. Sedley finì con il far sua questa opinione. Quanto a Mr. Sedley, non aveva un parere personale: «Sposi chi crede,» continuava a ripetere, «non è affar mio. Questa ragazza non ha un centesimo, ma non ne aveva nemmeno Mrs. Sedley. È intelligente, mi sembra di buon carattere e forse saprà come farlo filar diritto. Sempre meglio lei, cara mia, che una Mrs. Sedley dalla pelle nera e una dozzina di nipotini color mogano.» Dunque, tutto sembrava arridere al futuro di Rebecca, la quale con assoluta naturalezza si appoggiò al braccio di Joseph per andare a cena e sedette accanto a lui a cassetta, nella carrozza aperta. E che figura faceva il nostro, guidando la pariglia tutto tronfio e borioso! Nessuno parlava delle sue nozze, ma tutti le davano ormai per cosa fatta. Mancava soltanto una dichiarazione esplicita, e in tal senso Rebecca in quel momento sentì dolorosamente la mancanza di una madre trepida e affettuosa che in dieci minuti avrebbe sistemato ogni cosa. Sarebbero bastate poche parole a quattr'occhi per strappare la confessione decisiva dalle timide labbra del giovanotto. La situazione, dunque, si prospettava in questi termini mentre la carrozza percorreva il ponte di Westminster. Giunsero ai Royal Gardens. E quando il pomposo Jos scese dal cigolante veicolo, la folla accolse con uno scroscio di applausi il grasso signore, il quale si fece rosso e s'avviò, enorme, imponente, al braccio di Rebecca. Per parte sua, com'è naturale George si occupò di Amelia, che aveva l'aspetto radioso di un alberello di rose illuminato dal sole. «Dobbin,» disse George, «ti spiacerebbe occuparti tu degli scialli e del resto? Da bravo, suvvia!» Così, mentre lui si allontanava al braccio di Amelia e Jos cercava di rimpicciolirsi il più possibile per riuscire a passare attraverso il cancello al fianco di Rebecca, il buon Dobbin dovette accontentarsi di dare il braccio agli scialli e di pagare all'ingresso per tutto il gruppo. Dopo di che, timidamente guidò i suoi passi dietro la comitiva. Non voleva essere di disturbo. Del resto, non gl'importava un bel niente di Rebecca e di Jos, ma in quanto ad Amelia, la riteneva persino all'altezza del portentoso George Osborne; e quando vide l'avvenente coppia avviarsi lungo i viali (Amelia era allo zenith della felicità e del più incantato stupore) indugiò in contemplazione di quella visione di gioia tutta naturale con una sorta di compiacimento paterno. Forse provava il desiderio di portarsi anche lui qualcuno a braccetto, invece degli scialli, tanto più che la gente scoppiava a ridere, nel vedere quel giovane ufficiale goffamente onusto d'indumenti femminili. Ma William Dobbin era per abitudine incurante di se stesso. Il suo amico si divertiva, dunque anche lui non poteva che sentirsi appagato e soddisfatto. La verità è che il capitano Dobbin non prestò la benché minima attenzione a tutto quanto lo circondava: non agli incantevoli giardini; non alle centomila lampade perennemente accese; non ai violinisti in tricorno che eseguivano melodie di sogno sotto il padiglione dorato al centro dei giardini; non ai cantanti di ballate comiche o sentimentali che giungevano grate all'orecchio degli astanti; non alle danze campestri intrecciate da agili popolani che saltellavano e battevano i piedi ridendo; non al segnale che annunciava come Madame Saqui si accingesse a salire su una fune che arrivava alle stelle; non all'eremita che sedeva nel suo eremitaggio sempre illuminato; non ai viali immersi nella penombra che invitavano le coppie d 'innamorati ai loro teneri e segreti colloqui; non ai boccali di birra serviti da camerieri in vecchie livree malridotte; non ai padiglioni festosi di luci ove la folla banchettava in allegria, fingendo di mangiare fettine di prosciutto pressoché invisibili. Insomma, non ebbe occhio per nessuna di queste cose, né per il gentilissimo Mr. Simson, quel dolce, sorridente imbecille che, se non erro, fin d'allora dirigeva il luogo in questione. Si aggirava tirandosi appresso il bianco scialle di Amelia; e dopo aver ascoltato sotto il padiglione dorato La battaglia di Borodino - una cantata guerresca contro l'avventuriero corso che proprio in quei giorni aveva subito quella grave sconfitta sul suolo di Russia - eseguita dalla Salmon, Dobbin si allontanò provando a cantarellarne il motivo, ma a un certo punto si accorse che stava ripetendo il ritornello che aveva udito cantare da Amelia mentre lei scendeva le scale prima di cena. Al che scoppiò a ridere. Rideva di se stesso, dal momento che, a dire il vero, la sua voce non era certo più gradevole di quella di un gufo. È del tutto naturale che i nostri giovani, spartiti in coppie com'erano, dopo essersi solennemente promessi di non lasciarsi per tutto il corso della serata, si separassero nel giro di una decina di minuti. Finisce sempre così, a Vauxhall: le coppie immancabilmente si lasciano per ritrovarsi di bel nuovo all'ora di cena e raccontarsi a vicenda le avventure reciprocamente vissute in quel lasso di tempo. Quali furono le avventure di Miss Amelia e Mr. Osborne? È un segreto. Tuttavia di una cosa possiamo esser certi: furono assolutamente felici e si comportarono nel modo più corretto. Da quindici anni ormai stavano insieme ogni qual volta lo volevano, cosicché il loro tête-à-tête non offriva alcun sapore di novità. Ma allorché Miss Rebecca e il suo corpulento cavaliere si persero nei meandri di un viale solitario, ove vagavano non più di un centinaio di coppie smarrite al pari di loro, entrambi compresero come il momento fosse oltremodo critico e spinoso, e Miss Sharp pensò che in quel frangente o mai più sarebbe maturata la dichiarazione che già tremava sulle timide labbra di Mr. Sedley. Già si erano recati a contemplare il panorama di Mosca, e lì un villanzone aveva pestato i piedi a Miss Sharp, costringendola a lasciarsi cadere fra le braccia di Mr. Sedley. Ora, quell'incidente da nulla era valso nondimeno ad accrescere la tenerezza e la fiducia del signore in questione, tanto da indurlo a raccontarle forse per la sesta volta un buon numero dei suoi aneddoti indiani. «Come mi piacerebbe vedere l'India!» disse Rebecca. «Vi piacerebbe davvero?» chiese Joseph con tenerezza veramente indicibile, e stava per proseguire in quell'abile interrogatorio (sbuffava e ansimava a un punto tale, che la mano di Rebecca, posata vicino al suo cuore, poteva captarne ogni febbrile pulsazione) quando, accidenti!, ecco suonare la campanella che annunciava l'inizio dei fuochi d'artificio. Ne seguì un gran correre, una gran confusione, e questa interessante coppia d'innamorati fu indotta a seguire la corrente della folla. Il capitano Dobbin aveva pensato di riunirsi agli altri per la cena, dal momento che, a dir la verità, i divertimenti di Vauxhall non lo interessavano molto. Due volte venne a passare davanti al piccolo padiglione ove le due coppie si erano riunite, ma nessuno gli badò. La tavola era imbandita per quattro, le due coppie erano impegnate in allegri conversari, e Dobbin comprese di esser stato completamente dimenticato, come non fosse mai apparso sulla faccia della terra. «Decisamente sarei de trop,» pensò malinconicamente il capitano, «tanto vale che vada a far due chiacchiere con l'eremita.» S'allontanò dal brusio della ressa, dal baccano, dal rumor di piatti e di posate del banchetto e imboccò il buio sentiero in fondo al quale viveva il ben noto Solitario di cartapesta. Be', non si può dire che sia stato un vero spasso per Dobbin. Io stesso so per esperienza personale che quando non si è in compagnia Vauxhall è uno dei posti più deprimenti e desolati del mondo. Frattanto le due coppie erano perfettamente a loro agio nel piccolo padiglione, ove si stava svolgendo una conversazione oltremodo intima e divertente. Pienamente e pomposamente consapevole del proprio ruolo, Jos in tono solenne dava ordini ai camerieri. Fu lui a condire l'insalata, a sturare la bottiglia di champagne, a scalcare il pollo, oltre a mangiare e a bere gran parte di quanto era posato sulla tavola. Alla fine volle a tutti i costi che si ordinasse una coppa di rack punch. A Vauxhall tutti bevevano il rack punch. «Cameriere, del rack punch!» Alle origini della storia che stiamo raccontando figura una coppa di rack punch. E perché il rack punch non dovrebbe rivestire l'importante funzione che può assumere qualsiasi altra cosa? Non fu una coppa di acido prussico a provocare la morte della bella Rosmunda? E non fu una coppa di vino a causare quella di Alessandro Magno? O, per lo meno, non è quanto asserisce il dottor Lemprière? Ebbene, parimenti avvenne che la coppa di punch esercitasse un ruolo determinante sul destino dei principali personaggi di questo «Romanzo senza eroe». Influì sulla vita di tutti e quattro, sebbene tre di loro non ne avessero tracannato nemmeno un sorso. Le signore non lo assaggiarono, a Osborne non piaceva; di conseguenza Jos, quel pingue gourmand, bevve l'intero contenuto della coppa, col risultato di manifestare una vivacità che da principio risultò sorprendente, e poi divenne né più né meno penosa. Prese infatti a chiacchierare a voce alta e a ridere in modo così fragoroso, da radunare davanti al padiglione un capannello di almeno venti persone, mentre l'innocente comitiva quivi raccolta si trovava al colmo dell'imbarazzo. Poi volle a tutti i costi intonare una canzone, cosa che fece in quel tono stridulo e miagolante che caratterizza la voce delle persone in stato di ubriachezza. Per poco non calamitò sul posto l'uditorio raccolto davanti al padiglione dorato della musica, e la sua esibizione venne salutata dagli scroscianti battimani dei presenti. «Bravo ciccione!» gridò un tale. «Encore, encore, Daniel Lambert!» gridò un altro. «Guardate, guardate: ha il fisico ideale per ballare sulla corda,» commentò un altro buontempone, suscitando la costernazione delle due signorine e un violento impeto di collera in Mr. Osborne. «Per l'amor del Cielo, Jos, alziamoci e andiamocene!» esclamò il giovanotto, mentre le signorine si alzavano in piedi. «Fermati, tesoruccio, coccolina mia!» gridò Jos. E, fattosi audace come un leone, afferrò Rebecca per la vita. Rebecca fece l'atto di andarsene, ma non le riuscì di staccare da sé la mano di Joseph. Fuori, gli scrosci di risa raddoppiarono, mentre Jos continuava a bere, a cantare, a profondersi in goffe galanterie. Strizzava l'occhio al pubblico, e ondeggiando vezzosamente il suo bicchiere esortava tutti a bere del punch assieme a lui. Mr. Osborne si accingeva a fare a pugni con un tizio che indossava un paio di vistosi stivali e sembrava incline ad approfittare di una simile occasione. Ormai sembrava impossibile che la situazione non degenerasse in un grave incidente quando l'amico Dobbin, che fino a quel momento aveva passeggiato su e giù per i giardini, si avvicinò al padiglione. «Via di qua, imbecilli!» prese a strillare, respingendo a spallate gran parte della folla che, nel vedere il suo cappello a tricorno e il suo aspetto alquanto truce, non tardò un istante a darsela a gambe. Poi, tutto sconvolto, entrò nel padiglione. «Mio Dio, Dobbin, dove diamine eri andato a finire?» chiese Osborne. E afferrò lo scialle bianco appeso al braccio dell'amico per posarlo sulle spalle di Amelia. «Renditi utile e occupati di Jos, mentre io riaccompagno le signore alla carrozza.» Jos si alzò in piedi per palesare la sua contrarietà, ma bastò una piccola spinta delle dita di Osborne per rispedirlo a bofonchiare sulla sua sedia, cosicché il tenente ebbe modo di portare in salvo Amelia e Miss Rebecca. Mentre queste si allontanavano, Jos mandò loro un bacio con le dita, mentre esclamava in una sorta di singulto: «Benedetta! Benedetta voi!» Poi, afferrata la mano del capitano Dobbin e singhiozzando da straziar l'anima, gli confidò il segreto del suo amore. Adorava la ragazza che proprio in quel momento si era allontanata. Era certo che il suo contegno le avesse spezzato il cuore; l'avrebbe sposata l'indomani mattina nella chiesa di St. George in Hanover Square; per Giove, avrebbe fatto uscire l'arcivescovo di Canterbury da Lambeth Palace e l'avrebbe costretto a tenersi pronto alla cerimonia. Astutamente, il capitano Dobbin lo indusse a lasciare senza indugio i giardini per recarsi immantinenti a Lambeth Palace; dopo di che, superati i cancelli, non incontrò difficoltà a issare Mr. Joseph Sadlev su una carrozza pubblica e a scaricarlo sano e salvo a casa sua. A sua volta George Osborne condusse a casa sane e salve le due ragazze. Poi, quando la porta venne richiusa dietro di loro ed egli prese ad attraversare Russell Square, si abbandonò a un tale accesso d'ilarità che la guardia notturna lo squadrò, interdetta. Nel salire le scale, Amelia ebbe per l'amica uno sguardo colmo di tristezza, poi la baciò e andò a coricarsi senza aggiungere una sola parola. «Non può non dichiararsi, domani,» pensava Rebecca. «Per ben quattro volte mi ha chiamata "amore dell'anima mia"; mi ha stretto forte le mani sotto gli occhi di Amelia... Sì, domani si dichiarerà.» Del resto, anche Amelia ne era sicura. E forse si arrischiò perfino a pensare all'abito che avrebbe indossato nella sua qualità di damigella d'onore, nonché ai regali che avrebbe fatto alla sua diletta cognatina. Poi il suo pensiero corse ad un'altra cerimonia, nel corso della quale sarebbe spettato a lei il ruolo primario... e così via. Ah, ingenue fanciulle! Davvero non conoscete gli effetti del rack punch! Il rack nel punch è una bazzecola in confronto al rack in testa, la mattina dopo! E questa è la pura verità, ve lo posso garantire: non esiste un mal di testa più feroce di quello provocato dal rack punch di Vauxhall. Sono passati vent'anni da quando ne ho bevuti due bicchieri, e mi ricordo ancora delle conseguenze, parola di gentiluomo. Immaginatevi Joseph Sedley, che era malato di fegato e aveva mandato giù almeno due pinte di quella spaventevole mistura! L'indomani mattina, che secondo la convinzione di Rebecca avrebbe dovuto segnare l'inizio della sua lieta sorte, trovò il povero Sedley gemebondo e in preda a torture che la mia penna si rifiuta di descrivere. L'acqua di soda non era stata ancora inventata. Lo crediate o no, la birra chiara era l'unica bevanda con la quale gli sventurati bevitori riuscivano in qualche modo a placare l'arsura causata dalle soverchie libagioni della sera innanzi. George Osborne trovò appunto l'ex ricevitore di Boggley Wollah con un bicchiere di quel beverone davanti a sé. Il poveraccio gemeva, seduto su un divano, mentre Dobbin, che già si trovava sul posto, si occupava bonariamente del suo infermo come già aveva fatto la sera prima. I due ufficiali contemplavano quel Bacco sfiancato dai suoi eccessi, e sogghignavano guardandosi con la coda dell'occhio. Persino il cameriere personale di Sedley, un uomo dall'aspetto solenne e impassibile, muto e grave come un impresario di pompe funebri, faticava a trattenere le risa quando posava lo sguardo sul suo disgraziato padrone. «Mr. Sedley era furibondo, ieri sera, signore. Una cosa veramente inconsueta. Voleva, nientemeno, prendere a pugni il vetturino. Il capitano è stato costretto a portarlo di sopra in braccio come un lattante.» E nel profferire queste parole un vago sorriso affiorò sui lineamenti di Mr. Brush, che peraltro si ricompose subito ritrovando la sua calma insondabile, mentre apriva la porta del salone e annunziava: «Mr. Hosbin.» «Come va, Sedley»? chiese il giovane, dopo aver gettato un'occhiata alla sua vittima. «Niente ossa rotte? Da basso c'è un vetturino con un occhio pesto e la testa fasciata che vuole denunciarti ad ogni costo.» «Come sarebbe a dire "denunciarti?"» chiese Sedley con un fil di voce. «Tu l'hai picchiato la notte scorsa, vero, Dobbin? Gliene hai date un sacco, caro mio, sembravi Molyneux. La guardia notturna ha dichiarato di non aver mai visto nessuno crollare a terra steso a quel modo. Chiedi pure a Dobbin, se non ci credi.» «Sì, sì, hai combattuto un vero e proprio round col vetturino,» confermò Dobbin. «E ce l'hai messa tutta, anche!» «E quel tale in giacca bianca, a Vauxhall. Come l'ha fatto correre, Jos! E le donne! Che strilli!... Confesso che questo spettacolo mi ha fatto veramente piacere. Credevo che voialtri borghesi non sapeste nemmeno dove sta di casa, il coraggio. Ad ogni modo, per parte mia starò attento a schivarvi, Jos, quando avete bevuto!» «Eh, quando voglio so essere terribile,» rispose Jos dal suo sofà con voce flebile. E nel dir questo fece una smorfia così contrita e al tempo stesso così ridicola, che persino il capitano, sempre così compunto, non poté trattenersi e sbottò in una fragorosa, incontenibile risata. Osborne aveva il coltello per il manico e volle approfittarne senza pietà. Non aveva smesso di pensare all'eventualità di quel matrimonio fra Jos e Rebecca; e l'idea che un membro nella famiglia della quale lui, George Osborne del ...mo Reggimento, sarebbe entrato quale parte integrante della medesima, commettesse una mésaillance con una ragazzuccia da quattro soldi, con un'istitutrice, con un'intrigante, non gli garbava affatto. «Tu avresti picchiato qualcuno? Tu, povero vecchiardo? Ma figuriamoci!» disse dunque Osborne. «Tu terribile! Ma se non ce la facevi nemmeno a reggerti sulle gambe! Ai Giardini stavi quasi per piangere, e intorno la gente sghignazzava. Miagolavi, Jos, proprio così. Hai cantato addirittura una canzone, te ne ricordi sì o no?» «Cosa?» domandò Jos. «Dico se ti ricordi di aver cantato una canzone sentimentale, e di aver chiamato Rosa... cioè, volevo dire Rebecca, o come diavolo si chiama quell'amica di Amelia, "Tesoruccio, cocchina mia".» Dopo di che quel perfido giovanotto afferrò Dobbin per una mano e rifece la scena, tra l'inorridito sconcerto dell'autentico protagonista, e ad onta delle suppliche del buon Dobbin, che lo pregava di aver pietà. «Perché dovrei aver pietà?» rispose Osborne all'amico che lo rimproverava, quando ebbero lasciato il malato affidandolo alle cure del dottor Gollop. «Ma si può sapere quale diritto ha di far tanto il gradasso e di mettersi alla berlina a Vauxhall? E chi è quella scolaretta che gli fa le moine? Perdio, la famiglia è già di bassa estrazione, se poi ci s'intrufola costei... Non ho niente da dire sul conto delle istitutrici, però come cognata preferisco avere una signora. Sono uomo di larghe vedute, però ho una dignità da difendere e so perfettamente quale sia la mia condizione! Quindi è opportuno che anche lei sia consapevole della sua. Dunque spetta a me far intendere le cose a quel Nababbo ciccione, e impedirgli di comportarsi da cretino più di quanto lo sia di natura. Per questo gli ho detto di stare in guardia, perché lei potrebbe anche vendicarsi.» «Può darsi che tu abbia ragione,» rispose Dobbin, perplesso. «Tu sei sempre stato un Tory e la tua famiglia è una delle più antiche d'Inghilterra. Però...» «Va' a trovare le ragazze e fa' la corte a miss Sharp,» propose il tenente interrompendo Dobbin. Ma quest'ultimo non si disse disposto ad accompagnarlo nelle sue visite quotidiane alle signorine di Russell Square. George, che da Holborn scendeva lungo Southampton Row, scoppiò a ridere quando vide che due teste erano affacciate a spiare la strada dal primo e dal secondo piano di casa Sedley. Sul balcone del salotto, Amelia guardava ansiosamente nella direzione opposta, dove abitava Osborne, smaniosa di vederlo arrivare, e Miss Sharp, dalla sua stanza al secondo piano, se ne stava all'erta, speranzosa di veder apparire la grossa sagoma di Joseph Sedley. «Sorella Anna è sulla torre di vedetta,» disse Osborne ad Amelia. E tra mille risate le descrisse nel modo più comico le condizioni deplorevoli in cui versava suo fratello, divertendosi moltissimo del proprio racconto. «Siete cattivo a riderne così, George,» disse Amelia, al colmo della desolazione. Ma la sua espressione così afflitta e costernata non fece che accentuare le risate di Osborne, convinto com'era che la situazione fosse quanto mai divertente. E quando poi comparve Miss Sharp, non desistette dal proprio atteggiamento: anzi, la prese in giro sottolineando l'effetto che il suo fascino aveva esercitato su quel ciccione di Jos. «Ah, Miss Sharp, se l'aveste veduto stamani, avvolto in una vestaglia a fiori, mentre si lamentava e si torceva sul sofà! Se l'aveste veduto nell'atto di tirar fuori la lingua per farla vedere al dottor Gollop!» «Chi avrei dovuto vedere?» «Chi? Come sarebbe a dire, chi? Ma il capitano Dobbin naturalmente, per il quale, fra parentesi, abbiamo avuto tante premure, ieri sera.» «Al contrario, siamo stati tutti molto scortesi con lui,» disse Emmy, arrossendo vivamente.» Io... Io mi ero letteralmente dimenticata di lui.» «Ma è logico,» rispose Osborne, che non smetteva di ridere. «Non si può passar la vita a occuparsi del capitano Dobbin, nevvero Amelia? Nevvero, Miss Sharp?» «Tranne quando ha rovesciato quel bicchiere di vino sulla tavola,», disse Miss Sharp in tono altezzoso e sospingendo il capo all'indietro, «ho semplicemente ignorato l'esistenza del capitano Dobbin. Non mi sono accorta di lui un solo momento.» «Perfetto, Miss Sharp, non mancherò di dirglielo,» disse Osborne. E mentre parlava, Miss Sharp sentiva nascere in lei un sentimento di odio e di diffidenza per il giovane ufficiale, che quest'ultimo non pensava nemmeno lontanamente di aver suscitato. «Ho il sospetto che costui voglia burlarsi di me,» pensava Rebecca. «Chissà, magari ha riso di me anche con Joseph. E se lo avesse spaventato? Forse non si farà più vedere.» Le si annebbiò la vista e il cuore prese a pulsarle all'impazzata. «Voi mi prendete sempre in giro,» disse Rebecca sforzandosi di sorridere con tutto il candore possibile. «E va bene, scherzate pure, Mr. George; io non ho nessuno che possa prendere le mie difese.» Dopo di che se ne andò, e mentre Amelia gli rivolgeva un tacito rimprovero, da gentiluomo qual era, Osborne provò un tenue palpito di rimorso per aver usato un'inutile sgarberia a quella fanciulla indifesa. «Vedete, cara Amelia,» disse, «voi siete troppo buona, troppo gentile. Non conoscete il mondo. Io sì, invece. E miss Sharp, la vostra piccola amica, deve imparare a comportarsi come le si conviene.» «Non credete che Jos voglia...» «Non ne so nulla, mia cara, ve lo giuro. Forse sì e forse no. Non sono il suo padrone, io. So soltanto che è molto sciocco, molto vanesio, e che ieri sera ha messo il mio tesoruccio in una situazione quanto mai sgradevole e imbarazzante. Il mio tesoruccio, la cocchina mia...» E di nuovo scoppiò a ridere, ma in modo così comico che anche Emmy si unì alla sua risata. Per tutta la giornata Jos non si fece vivo. Ma Amelia non se ne diede pensiero; le venne l'idea di mandare il ragazzo, il piccolo aiutante di Sambo, a casa di Joseph per sollecitare un libro che lui le aveva promesso e per chiedere notizie. Mr. Brush, il cameriere di Joseph, fece sapere, a titolo di risposta, che il suo padrone era a letto ammalato e che poco prima il dottore si era recato a visitarlo. «Verrà domani,» pensò Amelia, ma non ebbe il coraggio di farne parola con Rebecca. Del resto, nemmeno Rebecca fece la minima allusione a Joseph per tutto il giorno successivo alla serata di Vauxhall. Tuttavia l'indomani, mentre le signorine sedevano sul divano fingendo di lavorare, di scriver lettere o di leggere un romanzo, Sambo entrò nel salotto col suo solito sorriso accattivante. Recava un involto sotto braccio e un biglietto posato su un vassoio. «Un biglietto da Mr. Jos, signorina,» disse Sambo. Come tremava Amelia, mentre lo apriva! Il biglietto diceva: Cara Amelia, ti mando The Orphan of the Forest. Ieri non sono potuto venire, stavo troppo male. Oggi parto per Cheltenham. Ti prego, se puoi di scusarmi presso l'amabile Miss Sharp per il mio comportamento a Vauxhall. Supplicala di concedermi il suo perdono e di voler dimenticare le parole che in un momento di eccitazione inconsulta posso aver pronunciato durante quella cena fatale. Non appena sarò guarito (la mia salute ha subìto una grave scossa) me ne andrò in Scozia per qualche mese. Tuo devotissimo Jos Sedley Era la sentenza di morte. La fine di tutto. Amelia non osò posare lo sguardo sul volto pallidissimo e sugli occhi brucianti di Rebecca, ma lasciò cadere la lettera in grembo all'amica, si alzò e salì in camera sua ove diede libero sfogo al suo dolore e alla sua delusione. Mrs. Blenkinsop, la governante, accorse a consolarla. Amelia si abbandonò singhiozzando sulla sua spalla e ben presto si sentì racconsolata. «Non affliggetevi così, signorina,» le disse, avrei preferito non dirvelo, ma credetemi: dopo i primi giorni quella ragazza non è piaciuta più a nessuno. L'ho sorpresa io in persona mentre leggeva le lettere di vostra madre. La Pinner continua a ripetere che fruga nel vostro stipo, nei vostri cassetti e nei cassetti di tutti noi. È sicura, dice, che ha cacciato il vostro nastro bianco dentro la sua valigia. «Sono stata io a darglielo, sono stata io!» Ma queste parole non valsero a mutare l'opinione di Mrs. Blenkinsop su Miss Sharp. «Quelle istitutrici non mi vanno giù, Pinner,» disse alla cameriera, «si danno arie e tono da gran signore, ma alla resa dei conti hanno un salario come voi e me, e non è certo migliore.» Ormai, fatta eccezione per la povera Amelia, tutti in casa erano convinti che la partenza di Rebecca era una realtà necessaria e inevitabile, e sia i servitori, sia i padroni (esclusa Amelia) concordavano nel pensare che dovesse andarsene il più presto possibile. La nostra brava bambina fece man bassa nei suoi cassetti e armadi, saccheggiò le scatole in cui teneva i gingilli, passa in rassegna i vestiti, gli scialli, i fermagli, le reticelle, i pizzi, le calze di seta e ogni cianfrusaglia di cui disponeva, e fece una selezione di effetti personali che mise in disparte per farne dono a Rebecca. Poi andò dal suo papà, che era un commerciante inglese davvero generoso e aveva promesso di darle tante ghinee quanti erano i suoi anni, e lo supplicò di regalare quel denaro alla povera Rebecca che ne aveva tanto bisogno, mentre lei non mancava di nulla. Riuscì persino a estorcere un'elargizione a George Osborne, e niente affatto irrisoria, dal momento che il giovanotto era forse l'ufficiale più scialacquatore di tutto l'esercito: George si recò in Bond Street e vi acquistò il più grazioso cappello e la più bella casacchina che si potesse comperarvi a suon di palanche. «Questo è un regalo che ti manda George, cara Rebecca,» disse Amelia, tutta fiera dell'elegante scatola che conteneva quei doni. «Ha veramente un gusto eccezionale, non ne esiste un altro come lui.» «Proprio così,» rispose Rebecca, «ed io gli sono profondamente grata.» Ma tra sé e sé pensava: «È stato George Osborne a mandare a monte il mio matrimonio,» onde non ci è difficile immaginare quali fossero i veri sentimenti che provava per lui. Serena, rassegnata, si preparò alla partenza, e accettò tutti i doni della gentile Amelia, non senza mostrare dapprima quel minimo di esitazione e di riluttanza imposto dalle regole della buona educazione. Naturalmente esternò la sua eterna gratitudine a Mrs. Sedley, ma senza insistere troppo: la brava signora era imbarazzatissima ed era evidente che cercava in tutti i modi di evitarla. Quando Mr. Sedley le regalò la borsa gli baciò la mano; e trovò accenti di tale commozione quando gli chiese il permesso di considerarlo d'ora in poi il suo amico e protettore, ch'egli fu sul punto di sottoscriverle un assegno per altre venti sterline, ma si trattenne in tempo: doveva prender parte a una cena, la carrozza lo attendeva e si affrettò a congedarsi. «Dio vi benedica, mia cara. Quando verrete a Londra, troverete la nostra casa sempre pronta ad accogliervi. Alla Mansion House, James.» Alla fine giunse il momento di separarsi da Amelia, e su questo quadro preferisco stendere un velo. Mi limiterò a riferire che, dopo una scena nel corso della quale ci fu chi faceva sul serio e chi recitava perfettamente la sua parte, dopo che le più affettuose carezze, le lacrime più sconsolate, la bottiglia del sale volatile e alcuni dei migliori sentimenti di cui è capace il cuore umano ebbero svolto la loro singola funzione, Rebecca ed Amelia si lasciarono, mentre la prima giurava che avrebbe amato l'amica per sempre, per sempre, per sempre. VII • CRAWLEY DI QUEEN'S CRAWLEY Tra i nomi più rispettabili che figuravano alla lettera C nel Court Guide del 18..., c'era quello di sir Pitt Crawley, baronetto, residente in Great Gaunt Street, oppure a Queen's Crawley, nell'Hampshire. Quel nome onorato era apparso altresì costantemente nella lista dei candidati al parlamento, accanto a quello di altri gentiluomini d'alto rango che si presentavano a turno alle elezioni per quella circoscrizione. A proposito di Queen's Crawley, si narra che la regina Elisabetta ebbe a sostarvi per colazione nel corso di uno dei suoi viaggi, e a tal punto ebbe ad apprezzarvi un'ottima birra offerta dal Crawley del tempo (un uomo aitante dalla barba ben curata e dalle solide gambe) che lì per lì accordò al paese il diritto d'inviare due suoi esponenti al Parlamento. E dal giorno della visita di Sua Maestà il villaggio assunse la denominazione di Queen's Crawley, che conserva ancor oggi. Per la verità a causa del tempo trascorso e dei mutamenti che intervengono nel corso dei secoli, vuoi negli imperi, vuoi nelle città e nei villaggi, Queen's Crawley non era più la popolosa borgata ch'era stata ai tempi della regina Bess, anzi era declinata allo stato di quello che suole essere definito un lurido villaggio. Nondimeno sir Pitt Crawley, con rigoroso senso della giustizia e con quell'eleganza di tratto che gli era peculiare, diceva: «Lurido? Lurido un corno! Mi rende 1.500 sterline buone all'anno!» Sir Pitt Crawley, così chiamato dal nome del grande parlamentare, era figlio di Walpole Crawley, primo baronetto, ministro del Sigillo durante il regno di Giorgio II, quando fu incriminato per peculato al pari di molti intemerati gentiluomini dell'epoca: Walpole Crawley, non fa conto precisarlo, era figlio di sir John Churchill Crawley, così chiamato in onore del famoso comandante militare del tempo della regina Anna. Sull'albero genealogico appeso a Queen's Crawley non manca nemmeno Charles Stuart, che più tardi fu denominato Charles Barebones, figlio del Crawley vissuto durante il regno di Giacomo I; e prima di ogni altro il Crawley della regina Elisabetta, rivestito della sua armatura e con la sua bella barba a doppia punta. Dal suo giustacuore, secondo l'uso dell'epoca, fuoruscivano gli innumerevoli rami di un albero fronzuto, sui quali erano scritti gli illustri nomi poc'anzi menzionati. Accanto al nome di sir Pitt Crawley (del quale si parla nel nostro racconto) si legavano altresì quelli del fratello, il rev. Bute Crawley (il grande parlamentare era in disgrazia quando lui nacque) rettore di Crawley-cum-Snailby, e di parecchi altri membri d'ambo i sessi della famiglia Crawley. Sir Pitt in prime nozze aveva sposato Grizzel, sesta figlia di Lord Mungo Binkie, e di conseguenza cugina di Mr. Dundas. Da costei aveva avuto due figli: Pitt, così chiamato non in onore di suo padre, ma del grande ministro, l'inviato della provvidenza, e Rawdon Crawley, che ebbe il suo nome in onore del grande amico del principe di Galles, dal quale, una volta divenuto re Giorgio IV, venne completamente dimenticato. Molti anni dopo la morte di Lady Crawley, Sir Pitt condusse all'altare Rosa, figlia di Mr. G. Dewson di Mudbury; ed essa gli diede due figlie per la cui educazione ora veniva assunta come istitutrice Miss Rebecca Sharp. Di conseguenza la madamigella in questione stava per entrare in una famiglia di antico lignaggio, si sarebbe trovata in un ambiente oltremodo distinto, di gran lunga superiore a quello assai mediocre che aveva testé lasciato in Russell Square. Aveva ricevuto l'ordine di raggiungere le sue allieve per mezzo di due righe scritte su una vecchia busta, e che dicevano testualmente: Sir Pitt Crawley prega Miss Sharp di trovarsi qui con il suo bagaglio martedì, perché devo partire per Queen's Crawley domenica mattina presto. Great Gaunt Street. Rebecca, per quanto ne sapeva, non aveva mai visto un baronetto in vita sua. Pertanto, preso congedo da Amelia, contate le ghinee che quel brav'uomo di Mr. Sedley aveva messo in una borsa per lei, asciugatisi gli occhi col fazzoletto (concludendo quest'operazione non appena la carrozza ebbe svoltato l'angolo), cominciò a chiedersi quale fosse, verosimilmente, l'aspetto di un baronetto: «Forse porta una stella sulla giacca... O la stella è riservata ai Lords? Ad ogni modo sarà molto elegante; senza dubbio indosserà l'abito di Corte a sbuffi e avrà i capelli incipriati come quelli di Mr. Wroughton, il celebre attore del Covent Garden. È sarà pieno di superbia; sono quasi certa che mi tratterà dall'alto in basso. Dovrò adattarmi alla bell'e meglio e accettare la situazione: sarà sempre meglio vivere tra la nobiltà che in mezzo a quella rozza gentucola della City...» Ma occorre aggiungere come queste considerazioni sui suoi amici di Russell Square fossero impregnate della stessa amara filosofia con la quale, in una celebre favola apologetica, si dice che la volpe parlasse dell'uva. Dopo aver attraversato Gaunt Square e svoltato in Great Gaunt Street, la carrozza si fermò davanti ad una casa alta e tetra fiancheggiata da due case parimenti alte e tetre; e tutte e tre recavano sopra la finestra del salone centrale uno stemma abbrunato: una peculiarità, questa, che può sempre essere registrata in Great Gaunt Street, ove si direbbe che la morte regni sovrana in qualsiasi momento dell'anno. Le imposte del primo piano della casa di Sir Pitt erano chiuse, quelle della finestra della sala da pranzo erano semiaperte, mentre le tende apparivano avvolte con somma cura entro vecchi giornali. John, lo staffiere, aveva guidato da solo la carrozza. Pertanto, non essendoci altri a cassetta, non aveva la minima voglia di scendere a tirare il campanello. Così pregò un garzone di lattaio che passava in quel mentre di sostituirlo in quella bisogna. Quando costui ebbe tirato il campanello, dalle imposte della sala da pranzo si sporse una testa, mentre la porta d'ingresso veniva aperta da un domestico in brache corte, ghette, una casacca vecchia e sudicia e un lurido fazzoletto avvolto intorno al collo villoso. La testa era lucidissima e calva; il volto rubizzo, dall'espressione ambigua, gli occhi ammiccanti e la bocca piegata in un continuo sogghigno. «Abita qui Sir Pitt Crawley?» chiese John senza scendere di cassetta. Dalla porta l'uomo assentì con un cenno del capo. «Allora tira giù queste valigie!» ribatté John. «Perché non lo fai tu?» rispose l'uomo, sempre fermo sulla soglia. «Non posso mollare i cavalli. Lo vedi che sono solo, sì o no? Coraggio, da' una mano e vedrai che la signorina ti pagherà una birra,» disse John con una risataccia da cavallo e affatto incurante di Miss Sharp dal momento che quest'ultima aveva rotto coi suoi padroni e, andandosene, non aveva lasciato la più piccola mancia per il personale di servizio. L'uomo dalla testa calva si levò le mani di tasca e, fattosi avanti, si caricò sulle spalle il baule di Miss Sharp, portandolo in casa. «Prendete anche questo cesto e questo scialle, per piacere, e apritemi la porta,» disse Miss Sharp mentre scendeva dalla carrozza al colmo dell'indignazione. E aggiunse, rivolta a John: «Scriverò a Mr. Sedley per riferirgli come vi siete comportato.» «Se fossi in voi non lo farei,» rispose lo staffiere. «Voglio sperare che non abbiate dimenticato niente. I vestiti di Miss Amelia, per esempio... li avete presi sì o no? Erano destinati alla cameriera, speriamo almeno che vi vadano bene. Chiudi la porta, Jim; tanto da quella lì non caverai mai niente di buono, puoi starne certo.» E indicò Rebecca con il pollice. «Un brutto tipo, credimi, un brutto tipo.» E nel dir questo lo staffiere di Mr. Sedley diede una frustata ai cavalli e ripartì. La verità è che se la faceva con la suddetta cameriera, ed era indignato che quest'ultima fosse stata defraudata del vestiario destinatole. Su esortazione dell'uomo con le ghette, Rebecca entrò nella sala da pranzo, che non le parve più allegra di quanto siano solitamente locali del genere in assenza dei nobili padroni di casa. Le fedeli stanze sembrano in lutto a causa di quell'assenza. Il tappeto è arrotolato ai margini della credenza; i quadri celano la loro effigie dietro fogli di carta, il lampadario pende dal soffitto avvolto in un deprimente sacco di juta scura; le tende alle finestre sono dissimulate da lerce fodere rimediate alla bell'e meglio. Dal suo angolo buio il busto in marmo di Sir Walpole Crawley fissa i tavoli sgombri da ogni oggetto, gli alari lucidi d'olio, i portacarte vuoti posati sulla mensola del caminetto. La scansia delle bottiglie è pressoché nascosta sotto il tappeto, le sedie sono capovolte e allineate contro le pareti, e in un altro angolo altrettanto immerso nella penombra, di fronte alla statua e appoggiata a un tavolino a rotelle per le vivande, c'è una rozza e antiquata cassetta da posate, chiusa a chiave. Accanto al caminetto c'erano due seggiole da cucina, un tavolo rotondo, un vecchio paio di molle e un attizzatoio. Una pentola bolliva, appesa sopra uno stento fuocherello. Sul tavolo c'era del pane, un po' di formaggio, un candeliere di stagno e un poco di birra scura dentro un boccale. «Avrà già mangiato, immagino. Fa troppo caldo, qua dentro, per voi? Vi andrebbe un sorso di birra?» «Dov'è Sir Pitt Crawley?» chiese Miss Sharp in tono maestoso. «Sir Pitt? Ah! Ah! Sono io, Sir Pitt, e se non vado errato mi dovete una birra perché ho scaricato i vostri bagagli. Chiedetelo alla Tinker se non è vero che sono proprio io Sir Pitt. Mrs. Tinker, vi presento Miss Sharp. Signora istitutrice, questa è la signora cameriera.» La donna che era designata con l'appellativo di Mrs. Tinker entrava in quel momento nella stanza recando una pipa e un cartoccio di tabacco che era stata spedita a comperare poco prima dell'arrivo di Miss Sharp. La Tinker porse pipa e tabacco a Sir Pitt, che nel frattempo si era messo a sedere di fianco al fuoco. «E il resto dove lo avete cacciato? Vi ho dato un penny e mezzo. Fuori il resto, vecchia Tinker.» «Eccolo, il vostro resto,» rispose la Tinker gettandogli gli spiccioli. «Non ci sono che i baronetti per correr dietro ai centesimi.» «Un centesimo al giorno fa sette scellini all'anno,» rispose il deputato, «e sette scellini sono l'interesse di sette ghinee. Preoccupatevi dei centesimi, cara la mia Tinker, e vedrete che le ghinee spunteranno da sole.» «Eh, sì, cara la mia ragazza, questo è proprio Sir Pitt Crawley. Per capirlo basta guardare com'è attaccato al quattrino,» commentò Mrs. Tinker, contrariata. «Non impiegherete molto tempo a conoscerlo.» «Non per questo ho qualche demerito,» replicò Sir Pitt in tono quasi compito. «Prima che generosi occorre esser giusti, Miss Sharp.» «Non ha mai regalato un centesimo in tutta la sua vita, «brontolò la Tinker. «E non lo farò mai, dal momento che è contro i miei principi. Se volete sedervi con noi andate a prendervi un'altra seggiola in cucina, vecchia Tinker. Poi manderemo giù un boccone.» Ciò detto, Sir Pitt introdusse la forchetta nella pentola posata sul fuoco, ne trasse un pezzo di trippa e una cipolla, divise l'uno e l'altra in parti eguali dandone a Mrs. Tinker. «Vedete, Miss Sharp, quando non sono in città, il vitto di Mrs. Tinker è a mio carico; quando invece sono qui, cena con noi. Ah! Ah! Sono proprio contento che Miss Sharp non abbia fame. E anche voi, Tink, non è vero?» E presero a consumare quella cena frugale. Terminato che ebbero di mangiare, Sir Pitt si mise a fumare la pipa, e quando fu completamente buio accese la candela infilata nel candeliere di stagno, levò di tasca un enorme fascio di carte e cominciò a leggerle e a riordinarle. «Sono qui per via di una causa, mia cara, in virtù della quale domani mi godrò una così vezzosa compagna di viaggio.» «Lui ne ha sempre di cause,» commentò la Tinker, prendendo il boccale della birra. «Suvvia, coraggio, bevete,» disse il baronetto. «Eh, sì, cara mia, Mrs. Tinker ha perfettamente ragione. Ho vinto e perso più cause io di qualsiasi altro in Inghilterra. Ecco qua: questa è la causa di Sir Pitt Crawley versus Snaffle. Gliela farò perdere, o io non mi chiamo più Pitt Crawley. Poi c'è questa di Podder e un'altra versus Crawley. I fabbricieri della parrocchia di Snaily contro Sir Pitt Crawley! Non possono assolutamente provare che si tratta di terreno pubblico. Li sfido. Quella è roba mia. Non è della parrocchia, quella terra. Sarebbe come dire che è vostra, o della Tinker. Li sconfiggerò, dovessi rimetterci anche mille ghinee. Guardate, guardate pure se vi garba. Leggete. Avete una bella scrittura? Quando saremo a Queen's Crawley mi farò dare una mano da voi, potete esserne certa, Miss Sharp. Adesso che mia madre è morta ho bisogno di qualcuno che svolga le sue mansioni.» «Era un'attaccabrighe come lui, tale e quale. Faceva causa a tutti i fornitori. In quattro anni ha licenziato quarantotto servitori.» «In quanto ad avara, era avara,» disse il baronetto senza scomporsi, «ma mi rendeva dei servigi preziosi. Quando c'era lei, potevo fare a meno di un amministratore.» E la conversazione continuò a lungo su questo tono confidenziale, con grande divertimento della nuova venuta. Quali che fossero le qualità di Sir Pitt Crawley, buone o cattive, un fatto è certo: non si curava minimamente di nasconderle. Parlava solo e soltanto di se stesso, e alternava il più scoperto e grossolano accento dello Hampshire ai toni signorili di un uomo del gran mondo. Pertanto, dopo aver ordinato perentoriamente a Miss Sharp di esser pronta l'indomani mattina alle cinque, le augurò la buona notte. «Dormirete con Mrs. Tinker, stanotte. È un letto così grande che in due ci si sta benone. Ci è morta Lady Crawley. Buona notte.» Con questa benedizione Sir Pitt se ne andò; dopo di che la solenne Tinker, reggendo il lucignolo in mano, fece strada su per la nuda e grande scalea di pietra, passò davanti alle alte e lugubri porte del salone, con le maniglie avvolte nella carta, e penetrò nella camera da letto padronale ove Lady Crawley aveva dormito il suo ultimo sonno. Sia il letto che la camera erano così tetri e funerei, che, oltre ad essere la stanza in cui Lady Crawley aveva esalato l'ultimo respiro, si sarebbe detto che vi aleggiasse il suo spettro. Ciò non impedì a Rebecca di fare il periplo della stanza andando allegramente su e giù, curiosando nel guardaroba e negli armadi, provandosi ad aprire i cassetti chiusi a chiave, osservando i quadri ed esaminando gli oggetti di toeletta. Nel frattempo la vecchia domestica era immersa nelle sue preghiere. «Se avessi la coscienza sporca, non vorrei proprio dormire in questa camera» disse costei. «Qui c'è posto per noi e per una mezza dozzina di fantasmi,» rispose Rebecca. «Mia cara Mrs. Tinker, raccontatemi tutto di Lady Crawley, di Sir Pitt Crawley e degli altri.» Ma la vecchia Tinker non era certo il tipo da abbandonarsi alle confidenze sollecitate da quell'indiscreta. E lasciandole intendere che il letto era destinato al sonno, non ai conversari, si piazzò a un'estremità del medesimo e russando diede inizio a un concerto quale può essere intonato solo dal naso dell'innocenza. Rebecca tardò ad addormentarsi: pensava al domani, al nuovo mondo nel quale entrava e alle occasioni di successo che t le venivano offerte. Il lucignolo baluginava nella coppetta. Il caminetto proiettava una larga ombra nera sulla metà di un vecchio arazzo muffito che senza dubbio Lady Crawley aveva ricamato con le sue mani, e sul ritratto di due giovincelli: l'uno in toga da universitario e l'altro in uniforme militare scarlatta. E di quest'ultimo, mentre era ormai prossima al sonno, Rebecca decise di fare l'oggetto dei suoi sogni. Alle quattro di un mattino d'estate così roseo da rendere allegro un luogo sconfortante come Great Gaunt Street, la fedele Tinker svegliò la sua compagna di letto esortandola a prepararsi per la partenza; poi tolse catenacci e chiavistelli al portone d'ingresso in anticamera, suscitando un fragore che echeggiò paurosamente in tutta la strada, e alla fine si diresse in Oxford Street per chiamare una carrozza ferma a un posteggio. È inutile precisare quale fosse il numero della carrozza; e tantomeno sottolineare come il vetturino stazionasse di prima mattina nelle adiacenze di Swallow Street, nella speranza che qualche allegro buontempone uscito dalla taverna e diretto barcollando verso casa sua, avesse bisogno del suo veicolo, per poi ricompensarlo con la ben nota munificenza degli ubriachi. E del pari è ozioso puntualizzare come il suddetto vetturino, se mai aveva accarezzato la speranza sopra descritta, patisse la più cocente delusione, dal momento che l'illustre baronetto da lui condotto fino alla City non gli accordò un centesimo di più del prezzo della corsa. Invano pregò, invano andò in furia e scaraventò il bagaglio di Miss Sharp nel rigagnolo di scarico davanti alla locanda delle diligenze, giurando che avrebbe fatto ricorso in tribunale contro un cliente del genere. «Te lo sconsiglio,» disse uno degli stallieri, «questo signore è Sir Pitt Crawley.» «Proprio così, Joe,» confermò il baronetto, «e vorrei proprio veder la faccia di un tale che riuscisse a spuntarla contro di me.» «Già, piacerebbe anche a me,» disse Joe con un ghigno sardonico, mentre issava il bagaglio di Sir Pitt sul tetto della diligenza. «Riservami il posto a cassetta, capo,» gridò il membro del parlamento al postiglione. «Benissimo, Sir Pitt,» rispose quest'ultimo toccandosi educatamente il cappello, ma livido di rabbia perché aveva promesso quel posto a uno studente di Cambridge che certamente gli avrebbe dato una corona di mancia. Quanto a Miss Sharp, fu sistemata su un sedile posteriore all'interno di quel veicolo, a bordo del quale doveva, in un certo senso, fare il suo ingresso in questo vasto mondo. Tralascerò di raccontarvi come lo studente di Cambridge s'inerpicasse seccatissimo, coi suoi cinque mantelli, sull'imperiale, e come il suo umore migliorasse prontamente quando Miss Sharp fu costretta a lasciare l'interno della diligenza e a sistemarsi lassù, accanto a lui, che subito la coprì con una delle sue pellegrine; o come il vecchio signore asmatico, la signora tutta smorfie che giurò su quanto aveva di più sacro al mondo di non aver mai prima d'ora affrontato un viaggio in diligenza (c'è sempre una signora del genere in una diligenza; o meglio c'era, dal momento che ormai le diligenze... dove sono finite?) e la grassa vedova con la fiaschetta del brandy si accomodassero all'interno; o come il facchino sollecitasse quattrini da tutti i passeggeri, ottenendo un sixpence dal signore e due soldi e mezzo unti e bisunti dalla grassa vedova; o come finalmente la diligenza s'inoltrasse lungo le strade tetre e anguste di Aldersgate, passasse rumorosamente davanti alla cupola azzurra della cattedrale di St. Paul, per poi accelerare all'altezza della porta di Fleet Market che, al pari dell'Exeter Change, è ormai entrata a far parte del regno delle ombre; o, ancora, come proseguisse transitando davanti al White Bear a Piccadilly e i viaggiatori vedessero la rugiada imperlare le ortaglie di Knightsbridge, finché si lasciarono alle spalle Turnham Green, Brentford e Bagshot. Tuttavia chi scrive queste pagine, avendo intrapreso in tempi lontani lo stesso viaggio, e in una giornata altrettanto radiosa, non può esimersi dal ricordarlo con un rimpianto denso di dolore e di soave malinconia. Dov'è, ora, quella strada? Dov'è finita la festosa gaiezza di quei giorni remoti? Non esistono dunque più Chelsea e Greenwhich e quei bravi, vecchi postiglioni col naso bitorzoluto? Dov'è finita quella brava gente? E il vecchio Weller è forse ancora al mondo? E quei simpatici camerieri, e le locande dove prestavano servizio, e quei bei pezzi di manzo freddo, e il garzone un po' tonto col suo naso paonazzo e i secchi tintinnanti? Dov'è, ora? E con lui dov'è finita tutta la sua generazione? Per i grandi geni del futuro che ora indossano il grembiulino e un giorno scriveranno romanzi ad uso dei figli del mio beneamato lettore, questi uomini e queste cose apparterranno ormai al mondo della storia e della leggenda come Ninive, Riccardo Cuor di Leone e Jack Sheppard. Per loro una diligenza sarà qualcosa di fiabesco, un tiro a quattro qualcosa di mistico come Bucefalo e Black Bess. Come luccicava il pelo dei cavalli quando gli stallieri li liberavano dalla coperta ed essi ripartivano al galoppo! E come agitavano la coda quando, al termine della tappa, coi fianchi fumanti, si avviavano verso il cortile dietro la locanda! Ahimè, non udremo mai più echeggiare il corno a mezzanotte, né vedremo aprirsi gli alti cancelli del dazio. Ad ogni modo, dove ci sta portando il veloce omnibus di Trafalgar? Ci conviene scendere a Queen's Crawley senza indulgere ad altre divagazioni, e vediamo un po' come si comporta Miss Rebecca Sharp. VIII • STRETTAMENTE CONFIDENZIALE Miss Rebecca Sharp a Miss Amelia Sedley, Russell Square, Londra. (In franchigia - Pitt Crawley) Mia cara, carissima amica, Con quanta gioia e con quanto dolore prendo la penna per scriverti, per scrivere alla mia più cara amica! Ah, quale mutamento fra il passato e il presente! Oggi sono sola e senza amici; ieri per me era come vivere in casa mia, in dolce compagnia di una sorella alla quale non cesserò mai di voler bene. Rinuncio a dirti quante lacrime abbia versato, quale sia stata la mia tristezza durante la notte fatale in cui mi sono separata da te. Martedì tu sei andata verso la felicità e la gioia insieme con tua madre e col tuo devoto, giovane ufficiale; ed io per tutta la notte non ho fatto che pensare a te che danzavi dai Perkins e senza dubbio eri la ragazza più graziosa. John, lo staffiere che sedeva a cassetta della vecchia carrozza, mi ha condotto fino alla casa di città di Sir Pitt Crawley; e qui, dopo essersi comportato in modo quanto mai disobbligante e impertinente, (ahimè, si corre forse qualche rischio ad esser villani coi poveri e gli afflitti?) mi ha lasciato in balia di Sir Pitt Crawley e sono stata costretta a trascorrere la notte in una tetra camera da letto, accanto a un'orrida vecchia servente che bada alla casa. Non ho chiuso occhio per tutta la notte. Sir Pitt non ha niente a che vedere con l'immagine che noi, povere ingenue, ci eravamo fatte di un baronetto quando in collegio leggevamo Cecilia. Anzi, è impossibile immaginare una persona sprovvista quanto lui dei connotati di Lord Orville. Per dartene un'idea, sappi che è un vecchio tarchiato, dalle maniere grossolane, di una sporcizia indicibile, con una giacca logora e certe ghette decrepite. Fuma una pipa puzzolente e si cucina la cena da solo mettendo qualcosa a cuocere dentro una pignatta appesa sopra il fuoco del caminetto. Parla inglese con l'accento dei contadini, e non ha fatto che imprecare contro la vecchia serva e contro il vetturino della carrozza con la quale siamo andati alla locanda donde parte la diligenza sulla quale ho viaggiato. E per quasi tutto il tragitto mi è toccato stare sull'imperiale! La fantesca mi ha svegliata all'alba. Poi, giunti alla locanda, mi hanno fatta entrare nella diligenza. Ma quando siamo arrivati in un villaggio che si chiama Leakington, ebbene... vorresti crederlo? Proprio mentre la pioggia aumentava sono stata costretta a issarmi sull'imperiale! Sir Pitt, praticamente, si comporta da padrone della diligenza, e quando a Mudbury è salito un altro passeggero che voleva un posto all'interno, sono stata obbligata a cedergli il mio e ad uscire sotto la pioggia, dove per fortuna c'era uno studente di Cambridge molto gentile che mi ha riparata con uno dei suoi numerosi mantelli. A quanto pareva, sia il giovanotto che il postiglione conoscevano benissimo Sir Pitt, e hanno riso molto di lui. Alludevano a lui usando lo stesso appellativo di vecchio taccagno, perché è di un'avarizia e di una grettezza inimmaginabili. Pare che non dia mai un centesimo a chicchessia (ed io che detesto l'avarizia!), e il giovanotto mi ha fatto osservare come durante le ultime due tappe del viaggio fossimo andati a passo di lumaca perché erano stati attaccati i cavalli di Sir Pitt, il quale di conseguenza stava a cassetta. «Ma vedrete come li farò filare fino a Squashmore, quando monterò io a cassetta a guidarli!» ha detto il giovane Cantab «Benone, Master Jack,» ha risposto il postiglione; e quando ho captato il senso di quella frase e ho capito che Master Jack si proponeva di guidare lui per il rimanente tragitto sfogandosi per vendetta a far correre all'impazzata i cavalli di Sir Pitt, naturalmente anch'io ho riso di cuore. A Mudbury, che dista quattro miglia da Queen's Crawley, era ad attenderci una carrozza adorna di stemmi e trainata da quattro splendidi cavalli, sulla quale abbiamo fatto il nostro solenne ingresso nel parco del baronetto. Per arrivare alla casa si deve percorrere un bel viale lungo un miglio, e la custode si è profusa in inchini al nostro passaggio, mentre si affannava a spalancare il vecchio cancello di ferro battuto, che assomiglia parecchio a quello dell'aborrita Chiswick, e reca sui pilastri che lo fiancheggiano i serpenti e la colomba dello stemma dei Crawley. «Il viale è lungo un miglio,» ha detto Sir Pitt, «ci sono seimila sterline di legname, in questi alberi. Vi pare poco?» Il tutto farcendo il suo inglese d'idiotismi dialettali. A Mudbury aveva fatto salire sulla carrozza uno dei suoi fattori, un certo Mr. Hodson, e per tutto il percorso hanno fatto un gran parlare di espropri, di vendite, di bonifiche, di fittavoli e di coltivi, tutte faccende di cui io non capisco un'acca. Sam Miles era stato sorpreso a pescare di frodo e Peter Bainley era finito in un ricovero di mendicità. «Gli sta bene,» è stato il commento di Sir Pitt, «sono centocinquant'anni che questo qui e tutta la sua genìa mi truffano di quella fattoria.» Probabilmente si trattava di qualche vecchio fittavolo che non era in grado di pagare l'affitto. Sir Pitt avrebbe dovuto dire «egli», ma a quanto pare i ricchi signori non sono tenuti a rispettare le regole della grammatica, a differenza delle povere istitutrici. A un certo punto ho notato la cuspide di un bellissimo campanile che emergeva da certi vecchi olmi del parco, e davanti a questi, in mezzo a un prato e tra le serre, una vecchia costruzione di mattoni rosso cupo rivestita d'edera, con alti comignoli e le finestre che luccicavano al sole. «È la vostra chiesa, signore?» ho domandato. «Eccome se è la mia chiesa, maledizione!» mi ha risposto Sir Pitt (ma usando un'espressione, molto, molto più volgare). «A proposito, Hodson? Come sta Buty? Buty, mia cara, è mio fratello Bute, il curato. Io lo chiamo Buty and the Beast. Ah! Ah! Ah!» Hodson si è unito alla risata, dopo di che ha risposto: «Credo proprio che stia meglio, Sir Pitt. Ieri è uscito a cavallo per dare un'occhiata al nostro grano.» «Per dare un'occhiata alle sue decime, altro che al nostro grano, maledizione! (E anche questa volta ha usato l'altra volgarissima espressione di poco prima.) Possibile che non crepi mai? Con tutta l'acquavite che manda giù! Quello è destinato a campare come quel vecchio... come si chiamava? Ah, sì... Matusalemme.» Nuova risata di Hodson. «I ragazzi sono tornati dall'università. Hanno dato un mucchio di botte a Scroggins. Per poco non l'hanno accoppato.» «Cosa? Hanno picchiato il mio secondo guardiacaccia?» ha urlato Sir Pitt. «Era sulla terra del curato,» ha risposto Hodson; al che Sir Pitt ha giurato che se avesse beccato i ragazzi mentre cacciavano di frodo sulla sua terra, li faceva schiaffare in galere com'era vero Dio. «Comunque,» ha continuato, «ho venduto il beneficio della cura, e nessuno di quei maledetti riuscirà a procacciarselo, parola mia.» Mr. Hodson non ha esitato a dargli ragione, e questo discorso è valso a farmi capire che i due fratelli sono in rotta, cosa che avviene molto spesso tra fratelli, e anche tra sorelle. Ti ricordi le due Scratchley, a Chiswick? Non facevano che litigare. E Mary Box, che picchiava sempre Louisa? Poco dopo abbiamo visto due ragazzini che raccattavano ramoscelli nel bosco; al che Hodson, su ordine di Sir Pitt, è sceso dalla carrozza e ha preso ad inseguirli brandendo la frusta. «Suonagliele, Hodson,» sbraitava il baronetto, «dagliele di santa ragione, e trascina fino al castello quei due manigoldi. Li denuncerò com'è vero che mi chiamo Pitt.» Abbiamo udito il sibilo della frusta che ricadeva sul dorso di quei due poveri disgraziati e tremebondi; allora Sir Pitt, pago di constatare che i due delinquenti erano stati catturati, ha deciso di proseguire verso casa. Tutta la servitù era in nostra attesa e................................................................ .................................................. Mia cara, giunta a questo punto ieri sera sono stata bruscamente interrotta da colpi concitati battuti alla porta. Sai chi era? Sir Pitt in persona, in berretto e camicia da notte! Una visione impagabile, come puoi immaginarti. Io, al cospetto di un visitatore abbigliato in quella guisa, mi sono ritratta, ma lui è avanzato, afferrando la mia candela. «Niente candele accese dopo le undici, Miss Becky,» ha detto, «andate a letto al buio, mia bella civettina,» (è così che gli piace interpellarmi) «e cercate di andare a letto ogni sera entro le undici, altrimenti vi sequestro la candela.» Al che se n'è andato ridendo insieme a Mr. Horrocks, il maggiordomo. Puoi esser certa che farò tutto il possibile per evitare il ripetersi di simili visite. La sera sguinzagliano due mastodontici cani da guardia che ieri notte hanno abbaiato e urlato incessantemente alla luna. «L'ho chiamato Gorer,» ha detto Sir Pitt riferendosi a uno dei due cani, «ha ammazzato un uomo ed è capace di tenere a bada anche un toro; sua madre una volta si chiamava Flora, ma adesso preferisco chiamarla Ringhiosa. È troppo vecchia, ormai, non ce la fa a mordere. Ah! Ah! Ah!» Davanti alla casa di Queen's Crawley, una costruzione antiquata, antipaticissima, tutta frontoni, cimase e comignoli altissimi come quelle dei tempi della regina Elisabetta, c'è una terrazza, adorna come il cancello del serpente e della colomba, sulla quale si aprono le porte del grande atrio d'ingresso: un atrio, cara amica, immenso e tetro come quello del castello di Udolpho. C'è un camino gigantesco nel quale potrebbe entrare metà dell'istituto della Pinkerton, e la grata è così enorme che a dir poco ci si potrebbe arrostire un bue intero. Tutt'intorno sono appesi i ritratti di non so quante generazioni di Crawley: alcuni con la barba e la gorgiera pieghettata, altri in parrucca e piedi divaricati, mentre le figure femminili mostrano un busto rigido e lunghissimo e gonne rigide come torri, e altre hanno le chiome pettinate a boccoli copiosi e... be', mia cara, diciamo semplicemente che non hanno busto. In fondo all'atrio sale un'imponente scalea di legno di quercia, nera e funebre quanto mai, sovrastata sui due lati da teste di cervo. Di qui si accede al biliardo, alla biblioteca, al salone giallo e ad altri salottini Al primo piano ci sono per lo meno venti camere da letto, e in una di queste c'è il letto nel quale ha dormito la regina Elisabetta. Stamattina le mie allieve mi hanno illustrato tutte queste bellissime stanze. Tengono sempre le imposte chiuse; cosicché sembrano ancora più sinistre; quando lasciavano filtrare uno spiraglio di luce, mi aspettavo sempre di scorgere uno spettro. Al piano superiore c'è lo studio. Di qui una porta mette nella mia camera, e un'altra, al capo opposto, dà accesso alla stanza delle signorine. Poi ci sono gli appartamenti del figlio maggiore, Mr. Pitt, che qui chiamano Mr. Crawley, e le stanze di Mr. Rawdon Crawley, che è ufficiale come qualcuno di nostra conoscenza e attualmente presta servizio al reggimento. Di stanze ce n'è in abbondanza, te lo assicuro: potrebbero trovarvi alloggio tutti gli abitanti di Russell Square, e avanzerebbe ancora un po' di spazio disponibile. Mezz'ora dopo il nostro arrivo, il suono di una grossa campana ha annunciato che il pranzo era servito, ed io sono scesa insieme alle mie due allieve, che hanno otto e dieci anni e sono due ragazzine magre magre, insignificanti. Indossavo il tuo vestito di mussola, a me particolarmente caro (quello che ha mandato in furia Mrs. Pinner quando ha saputo ch'era stato destinato a me). Infatti pranzerò sempre con la famiglia: solo quando ci sono invitati, le signorine ed io pranzeremo al piano di sopra. Stavo dunque dicendoti che al suono della campana ci siamo radunati nel salottino di Lady Crawley, che per l'esattezza è la seconda Lady Crawley, la madre delle due ragazzine. Suo padre, un commerciante di ferramenta, deve aver creduto di farle fare chissà che matrimonio! Forse un tempo non era brutta e lo sguardo melanconico dei suoi occhi sembra rimpiangere la perduta bellezza. È pallida, magra, ha le spalle strette: non dev'essere il tipo in grado di esercitare un'effettiva autorità. Nel salottino c'era anche il figliastro, vestito a puntino, solenne e austero come un impresario di pompe funebri. È pallido, magro, niente affatto avvenente. E non apre mai bocca! Ha le gambe magre, il torace incavato, i baffi color fieno e i capelli di un biondo paglierino: tale e quale la madre, come si può constatare dal quadro appeso sopra il caminetto, che ne onora l'immagine. Il suo nome era Griselda, nel nobile casato dei Binkie. «Questa è la nuova istitutrice, Mr. Crawley,» ha detto Lady Crawley, avanzando alla mia volta e prendendomi una mano: «Miss Sharp..» «Oh!» è stato tutto ciò che ha risposto Mr. Crawley sollevando fugacemente il capo dall'opuscolo che stava leggendo. «Spero che sarete gentile con le mie bambine,» ha aggiunto Lady Crawley; e come sempre i suoi occhi arrossati erano pieni di lacrime. «Ma certo, mamma,» ha detto la maggiore delle due bimbe, «perché non dovrebbe essere gentile?» Mi è bastato uno sguardo per capire che di quella donna non era assolutamente il caso di aver timore. «Il pranzo è servito, Milady,» ha detto il maggiordomo vestito di nero. Indossava una camicia con una gala così vistosa da assomigliare alle gorgiere dei tempi della regina Elisabetta che indossavano gli antenati nei ritratti appesi in anticamera. Al che Lady Crawley ha preso il braccio di Mr. Crawley e si è avviata verso la sala da pranzo. Io le ho tenuto dietro tenendo per mano le mie due piccole allieve. Sir Pitt, che già sedeva a tavola, reggeva in mano una brocca d'argento. Era risalito in quel momento dalla cantina, ed anche lui appariva vestito di tutto punto: in altri termini, si era tolto le ghette lasciando vedere le gambe tozze coperte da un paio di calze nere lavorate a maglia. Sulla credenza posava una quantità di suppellettili luccicanti in metallo prezioso: c'erano antiche coppe d'oro e d'argento, antichi vassoi e ampolle come quelle che sono in vendita nella bottega di Rundell & Bridge. Anche sulla tavola le posate e tutto il resto era d'argento, e ai due lati della credenza sostavano in attesa due domestici dai capelli rossi, in livrea giallo canarino. Mr. Crawley ha detto una preghiera alquanto lunga e Sir Pitt ha risposto «Amen»; dopo di che sono stati tolti i grandi copri vivande d'argento. «Che cosa c'è per pranzo, Betsy?» ha domandato il baronetto. «Montone bollito, se non sbaglio, Sir Pitt,» ha risposto Lady Crawley.. «Mouton auxnavets,» ha precisato il maggiordomo in tono grave (pronunciando per l'esattezza muttonnenavett), e la minestra è potage de mouton à l'écossaise. Per contorno ci sono pommes de terre au naturel e choufleur à l'eau. «Il montone è sempre una gran cosa, una pietanza prelibata,» ha commentato il baronetto. «Che agnello era, Horrocks? E quando l'hai macellato?» «Era uno di quelli scozzesi col muso nero, Sir Pitt. L'abbiamo ammazzato giovedì.» «Qualcuno ne ha comperato una parte?» «Steel, quello di Mudbury, ha comperato la schiena e due cosciotti; ma dice che era troppo giovane e maledettamente lanoso, Sir Pitt.» «Gradite un po' di potage, Miss... Miss Blunt?» ha chiesto Mr. Crawley. «Ottimo questo brodo, mia cara,» ha detto Sir Pitt, «ed è un vero piatto scozzese, anche se gli danno un nome francese.» «Credo proprio, Signore, che la buona società lo chiami come lo chiamo io,» ha replicato Mr. Crawley in tono altezzoso. I due domestici in livrea giallo canarino ci hanno servito la minestra in scodelle d'argento; poi hanno portato in tavola la birra annacquata che a me e alle due bambine è stata servita in bicchieri da vino. Non m'intendo di birra, ma francamente confesso di preferire l'acqua pura. Mentre consumavamo il pranzo, Sir Pitt ha chiesto che fine avessero fatto le spalle del montone. «Credo che le abbia mangiate la servitù,» ha risposto Lady Crawley, con l'aria, quasi, di chieder scusa. Sir Pitt è scoppiato in una risata fragorosa, poi ha ripreso a parlare con Horrocks: «Ormai credo proprio che quel porcellino nero della nidiata della scrofa di Kent dovrebbe essere al punto giusto» «Non al punto di scoppiare, Sir Pitt,» ha risposto il maggiordomo, serio e impassibile, tanto che Sir Pitt e le due ragazzine si sono messe a ridere rumorosamente. «Esatto, Milady,» ha detto Horrocks, «e oltre a quelle abbiamo avuto ben poco.» «Miss Crawley e Miss Rose Crawley,» ha detto Mr. Crawley, «la vostra risata mi sorprende. Debbo dire che mi pare estremamente fuori luogo.» Per quanto me ne ricordo, direi che a questo si riduce tutta la conversazione svoltasi durante il pranzo. Terminato il pasto, davanti a Sir Pitt è stata posata una caraffa d'acqua calda e una bottiglia di cristallo che credo contenesse del rhum. Poi Horrocks ha servito a me e alle signorine un bicchierino di vino, e a Lady Pitt un bicchiere grande, colmo sino all'orlo. Quando ci siamo ritirate nel salottino, la signora ha preso dal cestino un lavoro a maglia che aveva tutta l'aria di non voler finire mai, e le signorine si sono messe a giocare con un mazzo di carte bisunte. In un magnifico candelabro d'argento antico ardeva un'unica candela. Dopo aver risposto a poche domande di Milady non ho avuto altra scelta, per passare il tempo, se non leggere un libro di sermoni, oppure un opuscolo sulle leggi agrarie: lo stesso che Mr. Crawley aveva tra le mani prima di pranzo. Finalmente, trascorsa un'ora, si è udito un suono di passi. «Via, via le care, bambine» ha esclamato la signora con voce tremebonda, «e voi, Miss Sharp, posate i libri di Mr. Crawley.» E abbiamo avuto appena il tempo di obbedire a queste ingiunzioni quando Mr. Crawley è entrato nella stanza. «Riprendiamo il sermone di ieri sera, signorine,» ha detto. «Leggetene una pagana a turno, così Miss... Miss Short avrà modo di rendersi conto di come leggete.» Dopo di che le due poverine hanno cominciato a leggere sillabando un noiosissimo sermone ch'era stato recitato nella cappella di Betsheda a favore della missione che opera fra gli Indiani Chickaso. Una serata veramente piacevole, non ti pare? Alle dieci i servitori hanno ricevuto l'ordine di chiamare Sir Pitt e tutto il resto della servitù per recitare le preghiere. Il primo ad entrare nel salotto è stato Sir Pitt, che aveva il naso scarlatto e si reggeva male sulle gambe. A lui hanno fatto seguito il maggiordomo, i canarini, il cameriere personale di Mr. Crawley, tre individui che puzzavano orrendamente di stallatico e quattro donne, una delle quali, abbigliata con ogni sorta di fronzoli e falpalà, mi ha lanciato un'occhiata sprezzante prima da lasciarsi cadere pesantemente in ginocchio. Quando Mr. Crawley ha finalmente terminato di illustrare il significato del sermone, a ciascuno è stata distribuita una candela e ce ne siamo andati a letto. Dopo di che, come ho detto poc'anzi alla mia cara, alla mia dolce Amelia, le circostanze mi hanno costretto a interrompere questa lettera Buonanotte. E abbiti mille, mille, mille baci! Sabato. Stamattina alle cinque ho udito i grugniti del porcellino nero. Ieri Rose e Violet me l'avevano mostrato, al pari delle stalle, del canile e del giardiniere, che era intento a raccogliere la frutta per mandarla al mercato, ed è stato insistentemente pregato dalle signorine perché regalasse loro un grappolo d'uva. Ma lui ha risposto che Sir Pitt aveva contato gli acini uno per uno, e che da parte sua non voleva rimetterci il posto per averne ceduti anche pochissimi. Dopo di che le mie deliziose pupille si sono impadronite di un pony che pascolava nel recinto e mi hanno chiesto se mi sarebbe piaciuto cavalcarlo; poi hanno cominciato a cavalcare loro fino a quando lo stalliere, tra orribili imprecazioni, non è riuscito a farle desistere. Lady Crawley passa il suo tempo a lavorare a maglia. La sera Sir Pitt è sempre un po' brillo: non mi stupirebbe affatto che indugiasse a bere insieme con Horrocks, il maggiordomo. La sera Mr. Crawley legge regolarmente un sermone e la mattinata la trascorre chiuso nel suo studio, oppure va a Mudbury per affari, o a Squashmore dove il mercoledì e il venerdì fa la predica ai fittavoli. Ti prego di esternare ai tuoi cari papà e mamma il mio affetto e mille ringraziamenti da parte mia. E il tuo povero fratello si è rimesso dalle conseguenze del rack-punch? Santo cielo, se gli uomini imparassero, una buona volta, a stare alla larga da quelle terribili bevande! Tua per sempre affezionatissima Rebecca Tutto sommato, ritengo sia stato vantaggioso, per la nostra cara Amelia Sedley, che Miss Sharp e lei siano state costrette a separarsi. Non c'è dubbio che Rebecca sia una persona molto divertente e dotata di spirito: le sue descrizioni della povera signora che piange sulla sua bellezza tramontata e del signore con le basette color fieno e i capelli biondo paglierino sono innegabilmente molto vivaci e rivelano un acuto spirito di osservazione. Forse entrambi siamo stati colti dall'idea che, mentre era inginocchiata in preghiera, avrebbe potuto pensare a qualcosa di più consistente dei fronzoli e dei falpalà di Miss Horrocks. Nondimeno il gentile lettore è pregato di non dimenticare che il titolo di questa storia è La Fiera della Vanità, e che la Fiera della Vanità è un luogo dove tutto è molto vano, stolido e perverso, un luogo brulicante d'imposture e di falsità. Ora, quantunque il moralista che vedete in copertina (ritratto dal vero del vostro umile servitore) giuri di non indossare né toga né stola, ma solo il berretto a sonagli che costituisce la divisa e il simbolo della sua confraternita, è bene tuttavia dir sempre la verità, quantomeno quella che ci è nota, sia che si indossi il berretto a sonagli, sia che si porti un cappello da predicatore. E nel momento in cui ci si dispone a dire la verità, fatalmente vengono a galla molte cose spiacevoli. Una volta, a Napoli, mi è capitato di ascoltare un collega cantastorie mio pari, mentre sulla spiaggia raccontava a un gruppo di innocui buontemponi le abominevoli imprese da lui inventate e attribuite a certi malfattori; e nel suo resoconto poneva accenti di così accalorato sdegno, che a un certo punto il pubblico e il suo poeta esplosero in una gragnola di insulti, imprecazioni e improperi contro l'ignobile protagonista della storia. Il risultato fu che il cappello fece il giro riempiendosi di baiocchi, mentre scrosciava una tempesta di applausi. Invece nei piccoli teatri di Parigi, non solo il pubblico grida «Ah, gredin! Ah monstre!» e lancia dai palchi maledizioni all'indirizzo del tiranno, ma gli stessi attori rifiutano nel modo più categorico di interpretare il ruolo dei malvagi, come ad esempio quello degli «infâmes Anglais» o dei brutali cosacchi o di altri personaggi siffatti, e preferiscono incarnare la parte di onesti cittadini francesi (quali sono nella realtà) adattandosi a percepire una paga più bassa. Ho scelto questi due esempi per dimostrare come i motivi d'interesse non siano i soli a stimolare l'autore di questa storia nel suo desiderio di segnare a dito e darle di santa ragione ai suoi malvagi, ma anche la schietta e insuperabile avversione ch'egli prova nei loro confronti: un odio ch'egli sente il bisogno di sfogare a suon d'insulti e senza mezzi termini. Pertanto avverto il mio «gentile lettore» che racconterò una storia densa di orride infamie e di intricati (ancorché appassionanti, così per lo meno io spero) misfatti. I miei furfanti non sono furfanti all'acqua di rose, di questo siate pur certi. E quando le circostanze lo esigeranno non esiterò ad usare il linguaggio adatto. Ma fino a quando ci muoviamo in un paesaggio sereno, dobbiamo per forza di cose esser sereni anche noi. Le tempeste in un bicchier d'acqua sono un'assurdità. Riserveremo per tanto questo genere di cose per quando saremo in pieno oceano e nel cuore della notte. Il presente capitolo è indubbiamente sereno. Altri invece... ma non è il caso di anticiparli. A mano a mano che i personaggi appariranno sulla scena, chiederò licenza come uomo e come fratello non solo di presentarli, ma altresì di scendere ogni tanto dal palcoscenico per commentarne le azioni. Se si comportano da persone dabbene sarò lieto di elogiarli e di stringer loro la mano; se sono stolidi ne riderò di sottecchi in complicità col lettore; se infine sono malvagi e senza cuore, li insulterò senza pietà facendo ricorso agli epiteti più drastici consentiti dalle regole della buona creanza. Altrimenti voi potreste pensare che sia io a dileggiare le pratiche di devozione che Miss Sharp trova così ridicole: che sia io a divertirmi un mondo nel contemplare quel vecchio Sileno del baronetto, mentre invece ride unicamente chi prova rispetto soltanto per la ricchezza e non apprezza altro che il successo. In questo mondo vive e prospera gente di questa fatta... senza Fede, senza Speranza, senza Carità. Diamogli addosso, amici, diamogli addosso senza misericordia. Taluni incontrano grande successo, e in realtà sono solo buffoni e impostori. Una cosa è certa: il ridicolo è stato creato al solo scopo di combattere e sbeffeggiare gente di questa sorta. IX • RITRATTO DI FAMIGLIA Sir Pitt Crawley era un filosofo che manifestava un'inclinazione assai accentuata per quanto siamo soliti definire gusti plebei. Il suo primo matrimonio con la figlia del nobile Blinkei era stato celebrato sotto gli auspici dei genitori, e nel corso della sua vita coniugale Sir Pitt non si era peritato di ripetere con estrema frequenza a Lady Crawley di considerarla la più detestabile attaccabrighe d'alto bordo mai apparsa sulla faccia della terra. Il giorno in cui fosse morta, diceva, si sarebbe fatto impiccare piuttosto che risposarsi con una strega della stessa risma. Orbene, al decesso di Milady, rimase fedele alla promessa, scegliendo di portare all'altare Miss Rose Dawson, figlia di Mr. John Thomas Dawson, mercante di ferramenta a Mudbury. Quale fortuna, per Rose, esser diventata Lady Mudbury! Proviamoci a fare l'inventario di tanta felicità. Prima di tutto si vide costretta a rinunciare a Peter Butt, un giovanotto che le faceva la corte e che, in conseguenza della delusione amorosa, si diede al contrabbando, alla caccia di frodo e ad innumerevoli altre attività parimenti illecite. Poi, com'era logico aspettarsi si mise in urto con tutti i suoi amici e i conoscenti che lei, data la nuova posizione sociale, non poteva ricevere a Queen's Crawley; né d'altro canto trovò nell'ambito del suo rango e della vita domestica chi fosse disposto a frequentarla. Chi, infatti, avrebbe dovuto farlo? Forse Sir Huddleston Fuddleston, che aveva tre femmine ognuna delle quali aveva sperato di diventare Lady Crawley? Oppure Sir Giles Wapshot e famiglia, offesi perché la favorita non era stata una delle signorine Wapshot? O gli altri baronetti della contea, scandalizzati per il fatto che Sir aveva fatto un matrimonio indegno del suo lignaggio? Senza parlare della gente comune, i cui malevoli commenti restano confinati nell'anonimato. Ma di tutti costoro a Sir Pitt non importava un soldo bucato, e non esitò a dirglielo in faccia. Lui aveva la sua bella Rose, e del resto che cosa può desiderare un uomo, se non di fare ciò che più gli aggrada? Ed eccolo ubriacarsi tutte le sere, eccolo che ogni tanto picchiava la sua bella Rose. E quando se ne andava a Londra per le sessioni del Parlamento, la piantava in asso nello Hampshire senza una sola persona amica. Perfino la moglie di Bute Crawley non si degnava di farle visita, perché - diceva - non avrebbe mai ceduto il pas alla figlia di un negoziante. Gli unici doni che Madre Natura avesse elargito a Lady Crawley erano due guance porporine e una pelle candida. A parte questo, Rose non aveva carattere né qualità di sorta. Sprovvista di opinioni e di occupazioni, incapace di godere di un passatempo purchessia, priva di quell'energia e di quel temperamento che talvolta sono retaggio di donne anche mediocri, non si può certo dire che fosse riuscita a far breccia nel cuore di Sir Pitt. Dopo la nascita delle figlie le guance porporine diventarono pallide, il fresco incarnato svanì nel nulla, e da allora in poi non fu che una specie di semovente nella casa del marito, un oggetto altrettanto inutile, o quasi, del pianoforte a coda della compianta Lady Crawley. Avendo la carnagione chiara, indossava sempre abiti chiari, proprio come son solite fare le bionde. Prediligeva colori come il verde smunto e l'azzurro scialbo, ed era senza posa impegnata in lavori a maglia e cose del genere. Nel giro di pochi anni aveva confezionato coperte da letto per tutta la casa. Inoltre curava personalmente un giardinetto ricolmo di fiori, ma al di fuori di ciò non c'era niente che le piacesse o dispiacesse. Era indifferente agli sgarbi del marito, e quando lui la picchiava, scoppiava a piangere. Non aveva abbastanza carattere per abbandonarsi al bere, e girava tutto il giorno in pantofole e coi diavolini in testa, lamentandosi in continuazione per ogni minima cosa. O Fiera della Vanità, Fiera della Vanità! Se non fosse stato per causa tua Rose sarebbe stata una ragazza allegra e soddisfatta. Insieme con Peter Butt avrebbe formato una coppia serena e appagata che in un'accogliente fattoria avrebbe cresciuto, tra innocui e onesti svaghi, tra affanni, speranze e lotte, una sana famiglia. Ma alla Fiera della Vanità un titolo nobiliare o un tiro a quattro sono gingilli molto più ambiti della felicità, e se ai nostri giorni Barbablù o Enrico VIII fossero ancora al mondo, credete forse che non sarebbero in grado di procacciarsi la più graziosa fra tutte le ragazze che quest'anno verranno presentate a corte? La languida apatia della mamma non poteva, logicamente, suscitare nelle figlie un particolare affetto. Al contrario le ragazze si sentivano perfettamente a loro agio nelle stalle, o con la servitù. E dal momento che, grazie al cielo, il giardiniere scozzese aveva una brava moglie e una nidiata di bambini, esse trovarono nella sua casa una sana compagnia e una certa istruzione: l'unica dalla quale avessero avuto modo di trar partito prima dell'arrivo di miss Sharp. L'assunzione di quest'ultima era conseguente alle rimostranze di Mr. Pitt Crawley, l'unico amico e sostenitore sul quale Lady Crawley avesse mai potuto fare assegnamento; l'unica persona alla quale, oltre alle sue bambine, si sentisse in qualche modo legata. Ma Pitt aveva ereditato i tratti caratteristici dei Blinkei, la famiglia materna, ed era quindi un gentiluomo molto dignitoso e compito. Quand'ebbe raggiunta la maggiore età, una volta tornato dal Christchurch s'impegnò a riformare la rilassata disciplina del servitorame, nonostante l'opposto parere del padre al quale egli ispirava una certa soggezione. Pitt era così ossequiente alle regole dell'etichetta, che magari sarebbe morto di fame, ma non avrebbe mai accondisceso a presentarsi a tavola senza colletto bianco. Una volta, poco dopo il suo ritorno dall'università, Horrocks si permise di recapitargli una lettera senza averla precedentemente posata su un vassoio. Pitt lo fulminò con una tale occhiata e lo rimproverò con parole così aspre, che da quel giorno in poi il maggiordomo al suo cospetto tremava. Quando era a casa, i diavolini di carta di Lady Crawley scomparivano di prima mattina, e Sir Pitt eliminava le sue ghette imbrattate di fango. E sebbene quel vecchio irriducibile non rinunciasse a certe sue radicate abitudini, certo evitava di ubriacarsi di rhum in presenza del figlio e si rivolgeva alla servitù in tono educato e in termini contenuti. Non solo: i servitori constatarono che davanti al figlio Sir Pitt non insultava mai Lady Crawley. Era stato Mr. Pitt Crawley a insegnare al maggiordomo che bisognava dire: «Milady, la cena è servita,» e aveva insistito per condurre Lady Crawley a tavola. Le rivolgeva raramente la parola, ma lo faceva con molto rispetto, e quando lei usciva da una stanza, non mancava di alzarsi in modo cerimonioso e di aprirle la porta con un elegante inchino. A Eton era stato soprannominato Miss Crawley, e in quel collegio (mi duole doverlo dire) si prendeva regolarmente un sacco di botte dal fratello minore, Rawdon. Mr. Pitt non aveva qualità brillanti, ma compensava questa carenza di talento con un'accanita dedizione ai suoi doveri: basti dire che in otto anni di scuola sembra non abbia subito le punizioni che, a quanto si dice, solo un angelo riesce ad evitare. I suoi studi all'università andarono naturalmente a gonfie vele. Quivi si preparò alla vita pubblica, nella quale in seguito sarebbe stato introdotto grazie all'appoggio del nonno materno, Lord Binkie, studiando con accanimento gli oratori antichi e moderni e parlando in ogni occasione nei circoli studenteschi. Ma sebbene fosse dotato di una certa eloquenza e si compiacesse oltre ogni dire dell'intonazione magniloquente che sapeva conferire alla sua voce di modesta vibrazione; sebbene evitasse scrupolosamente di esprimere concetti ed opinioni che non fossero frusti e risaputi, e sostenuti da un detto latino; ad onta della mediocrità che solitamente elargisce il successo a chicchessia, Mr. Pitt per qualche oscura ragione non seppe farsi strada. Non riuscì nemmeno a farsi conferire il premio di poesia che, a detta dei suoi amici, era certissimo di ottenere. Terminati gli studi, diventò segretario personale di Lord Binkie ed esercitò le mansioni di addetto alla legazione di Pumpernickel, incarico al quale adempì col massimo scrupolo recando di persona all'allora ministro degli Esteri certi dispacci riservatissimi consistenti per lo più in pasticci di foiegras di Strasburgo. Successivamente fu addetto d'ambasciata per dieci anni (sette dei quali successivi alla morte di Lord Binkie), ma dal momento che la carriera diplomatica procedeva così lentamente, finì col rinunciarvi e decise di fare il gentiluomo di campagna. Di ritorno in Inghilterra, scrisse un opuscolo sul malto (poiché infatti era ambizioso e gli era sempre piaciuto mettersi in vista), e prese parte attivamente alle discussioni inerenti il problema dell'emancipazione dei negri. Poi divenne amico di Mr. Wilberforce di cui ammirava le opinioni politiche, ed ebbe un famoso carteggio col reverendo Silas Hornblower, intorno alla missione nell'Ashanti. Spesso andava a Londra, per le sessioni del Parlamento o quantomeno a maggio, quando vi si tenevano le riunioni religiose. In campagna faceva il magistrato e si prodigava in visite e prediche presso coloro che mancavano di un'adeguata preparazione religiosa. Si diceva che corteggiasse Lady Jane Sheepshanks, terza figlia di Lord Southdown, autrice di due squisiti libretti intitolati La vera coffa del marinaio e La venditrice di mele di Finchley Common. La descrizione che Rebecca aveva fatto dei compiti che Mr. Pitt si era assunto a Queen's Crawley non erano per niente caricaturali. Era perfettamente vero che costringeva la servitù a soggiacere alle già descritte pratiche di pietà, ed era altrettanto vero che aveva dovuto piegarvisi (non senza vantaggio, del resto) anche suo padre. Inoltre presiedeva una congregazione religiosa dissidente, ma associata alla stessa parrocchia di Crawley, suscitando lo scandalizzato stupore di suo zio rettore e per contro il divertimento di Sir Pitt, il quale una volta si lasciò persino trascinare sul posto: circostanza, quest'ultima, che provocò veementi e sdegnati sermoni contro l'inginocchiatoio in stile gotico del baronetto. Ma quei discorsi non ebbero il minimo effetto sul bravo Sir Pitt, perché durante i sermoni era solito schiacciare un pisolino. Mr. Crawley sosteneva in tutta sincerità che, per il bene del paese e della cristianità, il vecchio gentiluomo avrebbe dovuto cedere a suo favore il seggio in Parlamento; ma il baronetto aveva insistito nell'opporre un pervicace rifiuto. Naturalmente, entrambi erano troppo avveduti per rinunciare alle quindicimila sterline annue che incassavano per il secondo seggio (a quel tempo era occupato da un certo Mr. Quadroon, il quale aveva avuto carta bianca sul problema dello schiavismo). Infatti il patrimonio familiare versava in condizioni alquanto precarie, e il reddito dovuto alla cessione del secondo seggio contribuiva in larga misura a sostenere le spese di casa di Queen's Crawley. La famiglia non si era più riassestata dopo il pagamento dell'onerosissima ammenda per peculato al primo baronetto, Walpole Grawley, quando era stato ministro del Sigillo. Sir Walpole era un allegrone sempre disposto ad arraffare e a sperperare quattrini («alieni appetens, sui profusus», commentava Mr. Crawley con un sospiro) e ai suoi tempi era amatissimo in tutta la contea, sia per le abbondanti libagioni che offriva a tutti, sia per l'ospitalità che elargiva senza riserve a Queen's Crawley. A quel tempo le cantine erano rifornite di Borgogna, i canili di cani da caccia e le scuderie di splendidi stalloni. Ora invece i cavalli di Queen's Crawley servivano per trainare l'aratro o la diligenza di Trafalgar, ed era stato proprio con una coppia di questi cavalli che, in un giorno di riposo, Miss Sharp era stata condotta al castello. Infatti, per quanto zotico, Sir Pitt teneva moltissimo alla salvaguardia del proprio decoro, quand'era a casa. Quando usciva, era raro che non si servisse del tiro a quattro, e se a tavola pranzava con semplice montone lesso, si faceva servire da tre domestici. Se di per se stessa la parsimonia bastasse a render facoltosi, Sir Pitt avrebbe potuto esser ricchissimo. Se avesse fatto l'avvocato in una piccola città di provincia senz'altro capitale che le risorse del suo cervello, probabilmente avrebbe saputo sfruttarle nel modo migliore e assicurarsi una notevole competenza e influenza. Sfortunatamente, invece, egli apparteneva all'alta aristocrazia ed era proprietario di una vastissima tenuta, ancorché gravata da ipoteche; due circostanze che gli erano più di danno che di vantaggio. La sua vera e propria mania per le cause giudiziarie gli costava migliaia di sterline ali anno, e siccome era troppo furbo - diceva - per farsi derubare da un solo amministratore, ne aveva una dozzina che lo imbrogliavano in pari misura, e dei quali - del resto - diffidava senza distinzione fra l'uno e l'altro. A causa della sua esosità, trovava solo fittavoli svogliati e inetti. Era un agricoltore così avaro che misurava il seme da spargere nelle zolle; onde la natura, vendicativa, gli elargiva raccolti molto più magri di quanti ne concedesse a coltivatori più generosi di lui. S'ingolfava in ogni genere di speculazioni: gestiva miniere comperava azioni per la gestione di canali, cavalli da diligenza; assumeva appalti per il governo, ed era, di conseguenza l'uomo e il magistrato più affaccendato di tutta la contea. Siccome non li pagava adeguatamente, non trovava mai funzionari onesti per la direzione della sua cava di granito, ed ebbe il piacere dl constatare che quattro di costoro avevano tagliato la corda con una fortuna, riparando in America. Prive delle necessarie misure di sicurezza, le sue miniere di carbone s'inondavano d'acqua; la sua carne di manzo risultò avariata e il governo lo privò del diritto di approvvigionamento annonario. Quanto ai suoi cavalli da posta, tutti i proprietari di diligenze postali sapevano come avesse perduto più animali di qualsiasi altro proprietario del paese, perché non li nutriva abbastanza e comperava bestie di seconda scelta per poterle pagare a buon mercato. Era di carattere abbastanza socievole e andava esente da qualsiasi forma di altezzosità: anzi, mostrava di preferire la compagnia di un contadino o di un cavallante a quella di un gentiluomo dello stampo di suo figlio. Indulgeva all'alcool e alla bestemmia e non disdegnava di scherzare con le figlie dei contadini. A quanto se ne sapeva, non aveva mai regalato uno scellino o compiuto un'azione magnanima in vita sua, ma aveva un temperamento allegro, sornione, incline alla risata. Poteva accadere che scherzasse con un affittuario e bevesse un bicchiere in sua compagnia, per metterlo sul lastrico il giorno dopo, oppure scherzare con lo stesso buonumore con un cacciatore di frodo, per poi schiaffarlo in galera il giorno dopo. Quanto al suo garbo nei confronti del sesso gentile, ne ha già riferito Miss Sharp. In conclusione si può dire ch'egli fosse il vecchio più meschino, astuto, egoista, sciocco e spregevole fra quanti baronetti, lord e semplici borghesi annoverava il suolo d'Inghilterra. La mano rossa di Sir Pitt Crawley era sempre nelle tasche di tutti eccetto che nella sua, ed è con un sentimento di pena e di dolorosa mortificazione, nella nostra qualità di ammiratori dell'aristocrazia britannica, che ci vediamo costretti a ravvisare tante manchevolezze in una persona il cui nome figura nel Debrett. L'influenza che Mr. Crawley esercitava sul padre aveva le sue radici principali in questioni finanziarie. Sir Pitt era debitore al figlio di una quota del patrimonio materno che non aveva la minima intenzione di versargli. Tale era la sua ripugnanza a pagare chiunque e qualsiasi cosa, che solo l'esercizio della forza poteva indurlo a saldare un debito. Miss Sharp ebbe modo di stabilire (giacché, e non tarderemo a constatarlo, ben presto ella fu messa al corrente di tutti i segreti di famiglia) che il solo pagamento degli interessi ai creditori costava al baronetto varie centinaia di sterline all'anno. D'altra parte Sir Pitt provava un piacere indicibile nel far attendere quei poveracci e nel procrastinare il momento della restituzione di quanto dovutogli spostando di continuo la data fissata da un tribunale a un altro, da un termine ad uno successivo. A che pro essere membro del Parlamento, diceva, se poi ci si deve abbassare a pagare i propri creditori? Dal che si può dedurre che la sua qualifica senatoriale gli era preziosa, e non poco. Ah, Fiera della Vanità, Fiera della Vanità! Eccoci al cospetto di un uomo che faceva errori di ortografia, che non aveva mai letto un libro in vita sua, che aveva le abitudini e le astuzie di un bifolco, che nella vita cercava solo di attaccar briga, che conosceva solo sentimenti mediocri e coltivava gusti scadenti e deteriori. Eppure fruiva di un rango elevato, di onori e di poteri. Era un dignitario del suo paese ed un pilastro delle istituzioni nazionali. Importanti ministri e uomini di Stato gli facevano la ronda attorno, e alla Fiera della Vanità gli competeva un posto più prestigioso di quello spettante a una persona di vivida intelligenza o di immacolata virtù. Sir Pitt aveva una sorellastra nubile la quale aveva ereditato da sua madre un immenso patrimonio. Egli glielo aveva sollecitato più volte dietro ipoteca, ma lei aveva sempre respinto quella proposta preferendo investire il suo denaro in titoli di Stato. Nondimeno aveva esternato il proposito di spartire quelle ricchezze, dopo la sua morte, tra il secondogenito di Sir Pitt e la famiglia del vicario. Già un paio di volte, del resto, aveva accondisceso a pagare i debiti di Rawdon Crawley, quando il giovane aveva frequentato l'università o era stato di stanza al reggimento. Di conseguenza, in occasione delle sue visite a Queen's Crawley, Miss Crawley veniva trattata da tutti con la massima deferenza, perché il suo conto in banca non poteva non farne, agli occhi di chicchessia, una creatura semplicemente adorabile. Quale dignità conferisce a una vecchia signora un conto in banca! E con quale indulgenza siamo disposti a giudicare i suoi eventuali difetti, se la sorte vuole che sia nostra parente (auguro ad ogni lettore di avere una ventina di parenti consimili)! Come la troviamo garbata, buona, affettuosa! Con quanto ossequio il socio più giovane di Hobbs & Dobbs l'accompagna sorridendo fino alla carrozza adorna dello stemma in forma di losanga, col grasso cocchiere asmatico a cassetta! E quando è ospite a casa nostra, come ci affanniamo a far sapere agli amici quale sia la sua posizione sociale! Diciamo, per esempio (e siamo assolutamente sinceri): «Vorrei proprio che Miss MacWhirters mi firmasse un assegno per cinquemila sterline.» «Per lei sarebbe una bazzecola,» replica vostra moglie. E se qualcuno vi domanda se si tratta di una vostra parente, voi rispondete con una certa noncuranza: «È mia zia.» Vostra moglie si prodiga in attenzioni nei riguardi di costei, e le vostre figlie le preparano un numero infinito di cestelli a maglia, cuscini ricamati e sgabelli posapiedi. Quando viene a trovarvi, nella sua camera arde sempre un bel fuoco, anche se vostra moglie deve rinunciarvi e si vede costretta ad allacciarsi il busto in una stanza gelata. Durante il suo soggiorno la casa assume un aspetto lindo, festoso, caldo, gioviale, confortevole, a differenza dell'atmosfera che vi regna in altri momenti dell'anno. Voi stesso, caro signore, senza nemmeno avvedervene rinunciate ad andare a dormire dopo pranzo, e all'improvviso scoprite (sebbene perdiate sempre) che vi piace moltissimo fare una partitina a carte. E che buone cenette imbandite: ogni giorno la tavola è imbandita con cacciagione, madera, malvasia, e ogni sorta di pesce arrivato espressamente da Londra. Perfino i domestici, in cucina, godono i riflessi di questa generale prosperità. Inoltre, guarda caso, durante la permanenza del grasso cocchiere di Miss MacWhirters, la birra diventa molto più forte, e il consumo di tè e di zucchero nella stanza dei bambini (dove la cameriera della suddetta MacWhirters consuma i suoi pasti) non è oggetto del consueto controllo. Ho ragione o no? Mi rivolgo alla borghesia. Ah, benigne potenze celesti! Perché non mi mandate una vecchia zia - una zia nubile, per essere esatti - con lo stemma sulla carrozza e una frangetta di capelli color caffè chiaro? Quante borse da lavoro confezionerebbero per lei, le mie figlie! Che daffare ci daremmo io e Giulia, per render piacevoli le sue giornate in casa nostra! Ah, dolce, dolce visione! Ah, insensato, stolido sogno! X • MISS SHARP COMINCIA A FARSI DEGLI AMICI Entrata dunque a far parte dell'amabile famiglia di cui abbiamo abbozzato il ritratto nelle pagine precedenti, è inutile precisare come Rebecca si facesse un dovere (in conformità a quanto lei stessa ebbe a dire) di rendersi accetta ai suoi benefattori e di meritarsi, per quanto era nei suoi poteri, la loro fiducia. Chi potrebbe esimersi dall'ammirare, in una povera orfana, una virtù come la gratitudine? E se anche i suoi calcoli non escludevano una certa dose di egoismo, chi non sarebbe disposto ad ammettere che la sua prudenza fosse motivata? «Sono sola al mondo,» rifletteva quella povera ragazza priva di amicizie, «non ho niente su cui fare assegnamento ad eccezione del mio lavoro; e mentre quella scioccherella di Amelia, con le sue gote rosse e nemmeno la metà del mio cervello possiede diecimila sterline e ha in vista un matrimonio soddisfacente, la povera Rebecca (molto più bella di lei, tra parentesi) può fare assegnamento solo su se stessa e sulle sue risorse innate. Vedremo dunque se le risorse in questione sapranno procacciarmi una posizione rispettabile, e se giorno verrà in cui avrò modo di provare a Miss Amelia la mia vera superiorità su di lei. Amelia, per la verità, non mi è antipatica: a chi potrebbe essere antipatica una creatura così innocua e d'indole mite? Tuttavia sarebbe certo un gran giorno, per me, quello in cui potessi fruire di una posizione sociale superiore alla sua. E del resto, perché non dovrei riuscirci?» In tal modo la nostra romantica amica galoppava con la fantasia e immaginava il proprio avvenire, e non e certo il caso di scandalizzarci se il principale abitatore dei suoi molteplici castelli in aria era un marito. A che dovrebbero pensare le signorine, se non ad un marito? E a che pensano le loro mamme? «Bisognerà che sia la mamma di me stessa,» pensò Rebecca, non senza un amaro sentimento di sconfitta al pensiero della sua disavventura con Jos Sedley. Pertanto prese la saggia decisione di cementare al massimo la propria posizione in seno alla famiglia Crawley, e a tale scopo si propose di stabilire rapporti amichevoli con tutte le persone che in vario modo avrebbero potuto ostacolare il raggiungimento dell'agognata sicurezza. Lady Crawley non rientrava nel novero di costoro, senza contare che l'apatia e la totale mancanza di carattere le impedivano di rivestire qualsiasi ruolo effettivo nella sua stessa casa. Pertanto Rebecca non tardò ad accertare che non soltanto era inutile assicurarsi la sua benevolenza, ma che addirittura non era possibile conquistarsela. Parlando di lei alle sue allieve diceva sempre «la vostra povera mamma», e pur badando a rispettare nei suoi confronti il massimo ossequio formale, rivolse il suo fattivo interesse agli altri membri della famiglia. Con le ragazze, delle quali riuscì ad accattivarsi l'incondizionata simpatia, adottò un metodo molto semplice. Non afflisse le loro giovani menti cercando di farcirle ad ogni costo di nozioni, ma le lasciò libere d'istruirsi in conformità alle loro naturali inclinazioni. Chi impara meglio di chi decide di fare a modo suo? La maggiore delle bambine amava entro certi limiti dedicarsi alla lettura. Ora, dal momento che la biblioteca di Queen's Crawley annoverava un discreto numero di romanzi d'evasione del secolo precedente, sia in inglese sia in francese (acquistati dal ministro del Sigillo quand'era caduto in disgrazia), e siccome nessuno eccetto lei - andava mai a dare un'occhiata agli scaffali della libreria, Rebecca si trovò nella piacevole condizione d'impartire, quasi giocasse, un'adeguata istruzione a Miss Rose Crawley. Lesse quindi con Miss Rose molte divertenti opere di letteratura francese e inglese, tra le quali meritano menzione quelle dell'erudito dottor Smollet, del geniale Mr. Henry Fielding, dell'elegante e fantasioso Monsieur Crébillon figlio, tanto ammirato dal nostro immortale poeta Gray, e di Monsieur de Voltaire, genio universale. Una volta Mr. Crawley chiese cosa stessero leggendo le ragazze. «Smollett,» rispose l'istitutrice. «Oh, Smollett,» commentò Mr. Crawley soddisfatto. «È un autore meno brillante di Mr. Hume, ma anche meno pericoloso, in un certo senso. State leggendo un'opera di storia, suppongo.» «Sì,» rispose Rose, senza peraltro precisare che si trattava della storia di Mr. Humphrey Clinker. Un'altra volta Mr. Crawley manifestò una certa contrarietà nel vedere tra le mani di sua sorella un libro di commedie francesi: ma quando Miss Sharp gli disse che glielo aveva dato per impratichirla nella conversazione in francese, non trovò altro da obiettare. Da buon diplomatico qual era, Mr. Crawley menava un vanto esagerato della sua conoscenza del francese (si trattava, dopo tutto, di un uomo di mondo) e si sentiva altamente lusingato dei complimenti che l'istitutrice gli faceva di continuo circa la sua ottima conoscenza di quella lingua. Al contrario, i gusti di Miss Violet erano molto più triviali e rumorosi di quelli di sua sorella. Conosceva gli anfratti più reconditi nei quali le galline andavano a deporre le uova. Sapeva arrampicarsi sugli alberi per sottrarre ai nidi dei piumati cantori il loro maculato peculio naturale, le piaceva pazzamente cavalcare i puledri e correre per la pianura come una novella Camilla. Prediletta da suo padre e dagli stallieri, era altresì croce e delizia per la cuoca, perché riusciva a stanare i vasi di marmellata nei più riposti nascondigli e ne smantellava il contenuto. Con la sorella erano continui litigi. Quando le scopriva, Miss Sharp non faceva parola di queste birichinate con Lady Crawley, che si sarebbe affrettata a riferirle al marito o, peggio che andar di notte, a Mr. Crawley. Per contro si dichiarava disposta a tacere a patto che Violet promettesse di far la brava in avvenire e di voler bene alla sua istitutrice. Con Mr. Crawley, Miss Sharp aveva assunto un atteggiamento di obbediente rispetto. Lo consultava sul significato di molti passi francesi che lei non capiva sebbene fosse di madre francese, e che lui invece interpretava senza la minima esitazione. Oltre ad aiutarla nella lettura dei libri profani, Mr. Crawley era così gentile da scegliere per lei altri libri di maggior costrutto, ed era a Rebecca che per lo più rivolgeva la parola quando si degnava di aprir bocca. Ella manifestò la massima ammirazione per la conferenza che Mr. Crawley aveva tenuto all'Associazione per gli aiuti a Quashimaboo e del pari palesò il più vivo interesse per il suo opuscolo sul malto. Sovente si commuoveva (addirittura fino alle lacrime) ascoltando le sue prediche serali. «Grazie, signore,» gli diceva sospirando, lo sguardo levato al cielo, tanto che lui qualche volta arrivava la punto di stringerle la mano. «Tutto, in fondo, sta nel sangue,» commentava tra sé quell'aristocratico baciapile. «Miss Sharp si commuove sentendomi parlare, mentre gli altri alle mie parole restano indifferenti. I miei sermoni sono di contenuto troppo complesso, per loro, sono troppo ispirati. Bisogna che adotti uno stile più piano. Lei invece li capisce. Non per nulla sua madre era una Montmorency.» Era dunque da questa famosa famiglia, a quanto pare, che Miss Sharp discendeva da parte di madre. Naturalmente si guardava bene dal dire che sua madre aveva fatto l'attrice, ciò che avrebbe turbato gli scrupoli religiosi di Mr. Crawley. Erano un'infinità i nobili emigrés che quella spaventosa rivoluzione aveva piombato nella miseria! Nel giro di pochi mesi - da quanti, cioè, si trovava in quella casa - Rebecca aveva già manipolato un buon numero di storie sul conto dei propri antenati, che poi Crawley ebbe modo di ritrovare per puro caso nell'Hozier conservato in biblioteca, avendo così conferma della loro veridicità e dell'antica stirpe nobiliare donde discendeva Rebecca. Questa curiosità e questa ricerca nei dizionari deve forse lasciarci supporre (o lasciar supporre alla nostra eroina) che Mr. Crawley provasse un autentico interesse per la sua persona? Ma no, ma no, si trattava di pura e semplice amicizia. Non abbiamo già precisato che faceva la corte a Lady Jane Sheepsbanks? Un paio di volte cercò di convincere Rebecca a non giocare con Sir Pitt a backgammon, che si trattava di un passatempo assolutamente empio e sarebbe stato molto più proficuo per lei leggere L'eredità di Thrump, La lavandaia cieca di Noorfields o altri libri del genere, edificanti e istruttivi. Ma Miss Sharp replicò che la sua povera mamma era solita intrattenersi in quel gioco col conte di Trictrac e col venerando Abbé du Cornet: ottima scusa per questo e per altri divertimenti mondani. Ma non fu solo giocando a backgammon col baronetto che la piccola istitutrice seppe rendersi accetta al suo datore di lavoro. Trovò mille espedienti per renderglisi utile. Leggeva, dando prova d'inesauribile scorta di pazienza, tutte le comparse delle innumerevoli cause con le quali, prima ancora ch'ella arrivasse a Queen's Crawley, Sir Pitt aveva promesso di divertirlo. Si offri di copiare molte delle sue lettere, e con grande abilità corresse l'ortografia, in conformità a quella ormai entrata nell'uso corrente. Manifestò il più vivo interesse per tutto ciò che concerneva la proprietà: per il parco e per il giardino, per la fattoria e per le scuderie. Riuscì a fare di se stessa una così piacevole compagnia, che raramente il baronetto rinunciava a fare la sua passeggiata mattutina con lei (e con le bambine, beninteso); dava consigli sugli alberi da potare, sulle aiole da vangare, sulle messi da raccogliere, sui cavalli da attaccare ai carri o all'aratro. In meno di un anno seppe conquistarsi la fiducia del baronetto, mentre a tavola la conversazione, che una volta si svolgeva tra lui e Mr. Horrocks, il maggiordomo, ora aveva luogo quasi esclusivamente tra Sir Pitt e Miss Sharp. Quando Mr. Crawley era assente, Rebecca diventava, si può dire, la padrona di casa; ma pur assumendo di fatto un ruolo di tanto prestigio, sapeva man tenere un contegno così umile e prudente, da non ledere l'autorità del personale sia in cucina sia nelle scuderie, verso il quale, al contrario, si mostrava sempre affabile e riservata. Era ormai una persona completamente diversa dalla ragazzina orgogliosa, timida e inappagata che abbiamo avuto modo di conoscere in precedenza, e questo mutamento di carattere costituiva la miglior prova ch'ella potesse dare della sua prudenza, della sua sincera volontà di correggersi, o quantomeno di una incontestabile forza morale. Se fosse il cuore, oppure no, a suggerire a Rebecca questa nuova condotta basata sulla sottomissione e la condiscendenza, lo dimostrerà il seguito della nostra storia. È difficile che una ragazza di ventun anni sappia mantenere a lungo un atteggiamento basato sull'ipocrisia programmatica e consapevole senza tradirsi una sola volta. Tuttavia, sebbene così giovane, i nostri lettori non avranno dimenticato come la nostra eroina fosse vecchia d'esperienze di vita; e se essi non avessero ormai capito che Rebecca era molto intelligente, quanto abbiamo scritto finora sarebbe affatto privo di senso. Al pari di quei barometri dai quali due figurine - un uomo e una donna escono alternativamente per indicare il bello e il brutto tempo, così il maggiore e il minore dei figli Crawley non si trovavano mai in casa contemporaneamente. Infatti si detestavano a vicenda fin nei precordi. Per essere più esatti, Rawdon Crawley l'ufficiale dei dragoni, spregiava altamente tutta la casa e vi capitava pertanto in rarissime occasioni, cioè in concomitanza con l'annuale visita della zia. Abbiamo già illustrato in che cosa consistesse la miglior qualità di costei: la vecchia signora possedeva un patrimonio personale di settantamila sterline. Aveva quasi adottato Rawdon, mentre non dissimulava la più viva antipatia per il maggiore dei nipoti, che disprezzava reputandolo una madonnina infilzata. Quest'ultimo, per parte sua, non esitava a proclamare apertamente che l'anima della vecchia era dannata senza rimedio, e parimenti era convinto che suo fratello avesse pochissime probabilità di varcare la soglia del regno dei cieli. «È una donna senza timor di Dio,» diceva, «frequenta atei e francesi. La mia mente rabbrividisce quando mi vien fatto di considerare la sua situazione; quando penso che, sebbene sia prossima alla morte, è così dedita a tutto ciò che è folle, profano, futile, licenzioso.» In effetti la vecchia dama si rifiutava nel modo più categorico di ascoltare i suoi sermoni serali, e quando arrivava a Queen's Crawley si vedeva costretto a metter da canto le abituali pratiche di devozione. «Piantala con le tue prediche, Pitt, quando viene Miss Crawley,» gli diceva il padre. «Ha scritto che non ha la minima intenzione di sopportare le tue lagne religiose.» «Ma, signore, voi non tenete conto della servitù...» «La servitù? Che s'impicchi!» rispondeva Sir Pitt. Ma Mr. Crawley era convinto che, privati del dono morale di un'istruzione religiosa, i domestici avrebbero avuto in sorte una situazione di gran lunga peggiore. «Maledizione, Pitt,» sbottava il padre alle sue rimostranze, «non sarai così idiota da permettere che escano dalla famiglia tremila sterline all'anno!» «Cos'è mai il denaro, signore, paragonato alla nostra anima?» «Vuoi forse dire che in ogni caso la vecchia si guarderà bene dal lasciare i suoi quattrini a te?» (E non è da escludere che Mr. Crawley facesse proprio questa considerazione.) Indubbiamente la vecchia Miss Crawley rientrava nel novero dei reprobi. Aveva una casa in Park Lane, piccola ma piacevolissima, e siccome a Londra, durante la stagione, mangiava e beveva assai più del ragionevole, d'estate andava ad Harrowgate e a Cheltenham. Era una vecchia vestale oltremodo espansiva e ospitale. Ai suoi tempi, a farle fede, era stata una bellezza (come ben sappiamo, tutte le vecchie signore lo sono state, ai loro tempi). Era un bel esprit e allora veniva considerata una terribile radicale. Era stata in Francia dove a quanto si diceva Saint-Just le aveva ispirato un'infelice passione, e da allora in poi aveva adorato i romanzi francesi, la cucina francese, i vini francesi. Conosceva a memoria le opere di Voltaire e Rousseau; parlava con la massima disinvoltura del divorzio, e con grande energia dei diritti delle donne. In tutte le stanze della sua casa teneva ritratti di Mr. Fox, e sono convinto che parteggiasse per Fox anche quando era all'opposizione. Quando Poi Fox divenne ministro, ella si vantò di avergli procacciato l'adesione di Sir Pitt e del suo collega di Queen's Crawley, cosa che peraltro Sir Pitt avrebbe fatto indipendentemente dal solerte intervento della brava signora. Inutile precisare come, dopo la morte del grande statista Whig, Sir Pitt si affrettasse a cambiar parere. La spiccata simpatia della nobile dama per Rawdon Crawley ebbe inizio quando quest'ultimo era ancora un ragazzo, e per far dispetto all'altro nipote che studiava a Oxford, lo mandò a Cambridge. Poi, allorché le alte sfere di questa università esortarono il giovanotto a sgombrare il campo, dopo una permanenza di due anni, lei gli comperò un brevetto di ufficiale nelle Guards Green. Il giovane ufficiale era un perfetto e ben noto esemplare di «bellimbusto», o dandy. Il pugilato, la caccia ai ratti, il gioco del fives' court e la mania di guidare i tiri a quattro, erano a quell'epoca le occupazioni di gran moda tra i giovani dell'alta aristocrazia britannica, ed egli era un adepto di queste arti sublimi. Inoltre, sebbene appartenesse al corpo delle Guardie Reali che, essendo alle dirette dipendenze del Principe Reggente, non aveva ancora avuto modo di dar prova del suo valore combattendo oltre i confini della patria, Rawdon Crawley era già stato coinvolto in tre cruenti duelli à propos del gioco, una passione che non riusciva a domare. E in tali occasioni aveva potuto ostentare nei termini più eloquenti il suo totale disprezzo per la morte. «E altresì di quanto ci attende dopo la morte,» commentava Mr. Crawley levando al soffitto i suoi occhietti iniettati di sangue. Preoccuparsi dell'anima di suo fratello, o di chiunque altro la pensasse diversamente da lui, gli era di consolazione, non diversamente da quanto accade a tante altre persone caratterizzate da analoga «serietà». Da parte sua, la frivola e romantica Miss Crawley, invece di inorridire al cospetto del temerario contegno del suo beniamino, dopo ogni duello si affrettava a pagarne i debiti, rifiutandosi per giunta di prestar l'orecchio ad aperti commenti o a chiacchiere sommesse che ne vituperassero la condotta. «D'accordo,» soleva dire, «corre la cavallina; ma vale molto di più di quel piagnucolone ipocrita di suo fratello.» XI • ARCADICA SEMPLICITÀ Oltre ai rispettabili abitatori del castello, la cui semplicità e il cui seducente candore rurale provano quanto la vita in campagna sia preferibile a quella cittadina, è giusto presentare al lettore i loro parenti e vicini del presbiterio, cioè Bute Crawley e la di lui consorte. Il reverendo Bute Crawley era un uomo alto, imponente, incline alla cordialità. Soleva portare il cappello a larghe tese tipico del clero anglicano, e nella contea era di gran lunga preferito al fratello baronetto. All'università era stato capo-vogatore della barca del Christchurch e aveva sconfitto i migliori pugili della città. Del resto, nella vita privata aveva conservato questa passione per il pugilato e per gli esercizi ginnastici. Qualunque gara di boxe si svolgesse entro un raggio di venti miglia, poteva contare sulla sua partecipazione, e altrettanto dicasi per le corse, le cacce alla lepre, le regate, le feste da ballo, le elezioni e i banchetti ecclesiastici, cui trovava sempre il modo di presenziare. La sua cavalla baia e i fanali del suo calesse erano visibili a parecchie miglia di distanza dal presbiterio ogni qual volta si dava un pranzo a Fuddleston, a Roxby, a Wapshot Hall o in casa delle famiglie altolocate della contea con le quali intratteneva rapporti d'intima amicizia. Aveva una bella voce: cantava A southerly wind and a cloudy sky e dirigeva il coro, tra il plauso generale. Partecipava alle cacce alla volpe in giacca sale e pepe ed era considerato uno dei più abili pescatori della contea. Sua moglie, Mrs. Crawley, era una donna piccola e minuta, ma tutt'altro che insipiente: non per nulla era lei a scrivere i sermoni per il degno ecclesiastico. Apprezzava la vita domestica, onde trascorreva in casa gran parte del suo tempo in compagnia delle figliole. Nel presbiterio era lei a comandare con piglio inflessibile, ma a parte ciò aveva il buonsenso di concedere piena libertà al marito, il quale poteva andare e venire a sua discrezione e pranzare fuori come e quando gli garbava, anche perché Mrs. Crawley era molto economa e conosceva il prezzo del vino di Porto. Da quando aveva gettato l'amo all'allora giovane rettore di Queen's Crawley (figlia del defunto colonnello Hector McTavish, apparteneva a un'ottima famiglia, e nel perseguimento dei suoi intenti aveva trovato appoggio nella madre) e Bute aveva abboccato, era stata per lui una moglie sagace e parsimoniosa. Ma ad onta della sua oculatezza finanziaria Bute era sempre oberato dai debiti. Non meno di dieci anni gli erano occorsi per saldare i debiti contratti all'università, quando suo padre era ancora in vita. Se n'era appena districato quando, nel 179..., giocò cento sterline contro Kangaroo, che vinse il derby. Costretto a farsi prestare il denaro a un interesse disonestamente elevato, da quel momento non aveva avuto più pace. Di tanto in tanto la sorella gli dava una mano con qualche centinaio di sterline, ma naturalmente le speranze di Bute erano puntate sulla morte di lei: «Quel giorno,» diceva, «Matilda dovrà pur lasciarmi metà dei suoi quattrini, maledizione!» Di conseguenza il baronetto e suo fratello avevano tutte le ragioni che due fratelli possono avere per essere come cane e gatto. Sir Pitt l'aveva spuntata in un numero infinito di beghe familiari; e in quanto al giovane Pitt, non solo non andava a caccia, ma addirittura aveva creato una congregazione sotto il naso dello zio. Rawdon, chi non lo sapeva?, avrebbe ereditato gran parte della fortuna di Miss Matilda Crawley. Alla Fiera della Vanità l'amor fraterno si fonda essenzialmente sulle questioni finanziarie, sulle speculazioni in vita e in morte, sulle silenziose battaglie per assicurarsi il possesso delle vestigia ereditarie. Io, per esempio, sono in grado di citare il caso di un biglietto da cinque sterline che è diventato il pomo della discordia tra due fratelli, distruggendo un rapporto d'affetto che durava da mezzo secolo. In verità, quando osservo su cosa si basi l'edificante, durevole amore che lega le persone attaccate ai beni di questo mondo, non posso che provarne la più viva ammirazione! È inverosimile che l'arrivo a Queen's Crawley di un personaggio come Rebecca e il suo graduale inserimento nelle grazie di tutti, potesse passare inosservato alla moglie del rettore. Mrs. Crawley sapeva per filo e per segno quanto durava al castello la lombata di bue, quanti capi di biancheria finissero in bucato, quante pesche c'erano sulla spalliera a sud e quanti cucchiai di purgante prendeva Milady quando era indisposta: tutti argomenti, questi, di preciso interesse per certa categoria Gli persone che vive in campagna. Di conseguenza Mrs. Crawley non poteva ignorare l'istitutrice del castello fino a quando non ne avesse saputo vita, morte e miracoli. Tra la servitù del castello e quella del presbiterio era sempre regnato il massimo accordo. Un bicchiere di ottima birra non mancava mai, nella cucina del presbiterio, per i domestici del castello, assuefatti a mandar giù un beverone piuttosto acquoso (anzi, la moglie del vicario sapeva esattamente quanto malto veniva usato al castello per ogni barile di birra). Per giunta, come tra relativi padroni, così tra i servitori del presbiterio e quelli del castello sussistevano legami di parentela; ed era attraverso questi canali che ciascuna delle due famiglie sapeva per filo e per segno quanto accadeva nell'altra. Questa circostanza c'induce a una considerazione d'ordine generale: quando tra due fratelli regna l'accordo, essi manifestano la più assoluta indifferenza per il loro rispettivo comportamento, mentre il contrario è vero quando sono nemici, e arrivano al punto di spiarsi a vicenda. È così che, poco dopo il suo arrivo, Rebecca cominciò a figurare regolarmente nel bollettino del castello compilato regolarmente da Mrs. Crawley. Eccone un esempio: «Ucciso il porcellino nero, pesava x libbre. Salati i prosciutti. Per cena, zampone e torta di sfoglia farcita con frattaglie di maiale. Mr. Cramp di Mudbury si è recato da Sir Pitt per discutere sull'opportunità di far incarcerare o meno John Blackmore. Riunione nella congregazione di Mr. Pitt (seguivano i nomi di tutti i partecipanti). Milady, come sempre, oltre all'istitutrice con le signorine.» Poi cominciarono ad affluire notizie dettagliate: «La nuova istitutrice è un'eccellente direttrice di casa. Sir Pitt è molto gentile con lei, e anche Mr. Pitt, che le legge dei brani dei suoi sermoni.» «Che faccia tosta deve avere costei!» commentava, per parte sua, la piccola, bruna, attiva e zelante Mrs. Crawley. Finché, dai suddetti rapporti, risultò che l'istitutrice «aveva in pugno tutta la famiglia»; scriveva le lettere di Sir Pitt e trattava gli affari per conto suo, così come teneva i conti di casa ed esercitava la sua autorità su tutti quanti: su Lady Crawley, su Mr. Crawley e sugli altri abitanti del castello. Al che Mrs. Crawley concluse che si trattava di una piccola astuta intrigante la quale senz'ombra di dubbio celava in cuor suo qualche piano diabolico. Tutto ciò che avveniva al castello serviva ad alimentare la conversazione in casa del vicario, mentre gli occhietti penetranti di Mrs. Martha Crawley scrutavano implacabili il campo nemico, scoprendovi tutto e molto altro ancora. Mrs. Martha Crawley a Miss Pinkerton, The Mall, Chiswick Parrocchia di Queen's Crawley, dicembre... Gentile signorina, sono ormai trascorsi molti anni da quando, per mia lieta ventura, mi sono stati impartiti i vostri deliziosi e inestimabili insegnamenti. Nondimeno conservo tuttora, di Voi e di Chiswick il più affettuoso e reverente ricordo. Mi auguro che la vostra salute sia ottima. Per molti e molti anni ancora la buona società e il prestigio dell'insegnamento d'alta classe non potranno fare a meno di Miss Pinkerton. Quando la mia amica Lady Fuddlestone mi ha detto che le sue care figliole avevano bisogno di un'istitutrice (io sono troppo povera per assumere una governante che si occupi delle mie ma per fortuna sono stata educata a Chiswick) ho esclamato: «Chi mai potremmo interpellare se non l'ottima, l'incomparabile Miss Pinkerton? In una parola, cara signorina, non avreste sotto mano qualche ragazza che potesse venire assunta dalla mia gentile amica e vicina? Posso assicurarvi ch'ella non è disposta ad assumere una governante se non è stata scelta da voi. Il mio caro marito si compiace di ripetere che apprezza tutto ciò che proviene dalla scuola di Miss Pinkerton. Come sarei lieta di poter presentare lui e le mie care ragazze all'amica dei miei anni giovanili, a colei che fu ammirata dal grande lessicografo della nostra patria! Mio marito m'incarica di dirvi che, qualora un giorno veniste nell'Hampshire, si augura vorrete onorare della vostra presenza la nostra umile parrocchia di campagna. Tale essendo la modesta ma felice dimora della vostra affezionata Martha Crawley P.S. Il fratello di mio marito, il baronetto, con cui purtroppo non intratteniamo rapporti di affettuosa intesa, come invece sarebbe logico e naturale, ha assunto per le sue figliole un'istitutrice la quale, mi è stato riferito, ha avuto la fortuna di essere educata a Chiswick. Ho sentito parlare di lei in termini contrastanti, e siccome seguo le mie nipotine col più affettuoso interessamento (tanto che, ad onta degli screzi familiari, spero di vederle entrare in rapporto con le mie bambine) e desidero inoltre mostrarmi gentile con qualsiasi vostra allieva, vi sarò davvero grata, gentile Miss Pinkerton se vorrete raccontarmi la storia di questa signorina, alla quale per amor vostro intendo esternare i sentimenti di tutta la mia amicizia. M.C. Miss Pinkerton a Mrs. Martha Crawley Johnson House, Chiswick dicembre 18... Cara signora ho l'onore di accusare ricevuta della vostra lettera, alla quale mi affretto a rispondere. È oltremodo lusinghiero e motivo di intima soddisfazione, per chi si dedichi a un compito arduo come il mio, constatare come le proprie materne cure abbiano suscitato in contraccambio un così duraturo affetto; e riconoscere nell'amabile Mrs. Crawley, l'ottima allieva di un tempo, la brillante e colta Martha McTavish. Sono lieta di aver qui, affidate alle mie attenzioni le figlie di numerose ragazze che furono vostre compagne nel mio collegio; e davvero sarebbe per me un gran piacere se anche le vostre amate figliole avessero bisogno della mia guida ai fini della loro istruzione! Mentre porgo i miei rispettosi ossequi a Lady Fuddleston, ho l'onore di presentare (per lettera) a sua signoria due mie amiche: Miss Tuffin e Miss Hawkins. Queste due signorine sono parimenti in grado di insegnare greco, latino, rudimenti di ebraico, matematica, storia, spagnolo, francese, italiano, geografia, musica vocale strumentale, danza senza la guida di un maestro apposito e qualche elemento di scienze naturali. Inoltre vantano entrambe un'ottima conoscenza dell'astronomia. Miss Turpin, figlia del defunto reverendo Thomas Tuffin, docente al Corpus College di Cambridge, è poi in grado di insegnare il siriaco e le nozioni basilari del diritto costituzionale. Ma ha solo diciotto anni e il suo aspetto è oltremodo attraente: potrebbe quindi risultare inadatta a una famiglia come quella di Lady Fuddlestone. Al contrario, la fortuna non ha assistito Miss Letitia Hawkins per quanto concerne le sembianze fisiche. Ha ventinove anni, il viso fittamente butterato dal vaiolo e i capelli rossi. Per giunta zoppica un tantino e ha lo sguardo poco accattivante per effetto di un leggero strabismo. Entrambe queste signorine sono irreprensibili per quanto concerne virtù morali e religiose. Le loro pretese sono naturalmente adeguate ai loro meriti. Mentre porgo i miei migliori e grati saluti al reverendo Bute Crawley, ho l'onore di essere, cara signora, la vostra fedelissima e umilissima serva Barbara Pinkerton P.S. La signorina di cui parlate, Miss Sharp, istitutrice in casa dell'onorevole Sir Pitt Crawley, è stata in effetti mia allieva e non ho niente da dire a suo sfavore. Il suo aspetto è alquanto sgradevole, ma d'altro canto non possiamo dettar legge a Madre Natura. Sebbene i suoi genitori non avessero buona stampa (il padre era un pittore squattrinato e senz'arte né parte; la madre, come ho saputo più tardi con un sentimento d'inorridita indignazione, faceva la ballerina all'Opera), è dotata di un'intelligenza rimarchevole e non rimpiango dì averla tenuta per puro spirito di carità. Nondimeno ho motivo di temere che i principi della madre (della quale mi avevano parlato come di una contessa francese costretta ad emigrare per sfuggire agli orrori della rivoluzione e che invece era, come ho scoperto in prosieguo di tempo, una persona d'infima estrazione sociale e deplorevolissima moralità) possano prima o poi riaffiorare come una tara ereditaria in quella sventurata giovane, da me accolta perché era una povera derelitta. D'altra parte suppongo che, a tutt'oggi, ella abbia dato prova di esser ligia ai princìpi dell'onestà, e senza dubbi nulla potrà sopravvenire a mutarli nell'elegante e raffinata cerchia dell'eminente Sir Pitt Crawley. Rebecca Sharp a Miss Amelia Sedley. Da molte settimane ormai non scrivo alla mia diletta Amelia, perché in verità non c'è nulla di nulla di nuovo da raccontare su quanto si fa e si dice in questo castello, o meglio in questa Casa del Sonno, come io l'ho ribattezzato. Può forse importare qualcosa che il raccolto delle rape sia buono o cattivo? O di sapere che il maiale grasso pesa due quintali piuttosto che tre? O dell'erba medica che fa ingrassare le vacche? Dall'ultima volta che t'ho scritto non c'è stata una giornata diversa dalle altre. Prima di colazione, passeggiata con Sir Pitt e la sua vanga; dopo colazione, lezioni (se così è lecito definirle) nello studio; quindi mi tocca occuparmi della corrispondenza di Sir Pitt, del quale sono diventata la segretaria: leggo e scrivo lettere che riguardano immancabilmente questioni legali, affittanze, miniere, canali. Dopo cena, i soliti sermoni di Mr. Crawley o la partita a Backgammon col padrone di casa, cui lady Crawley assiste con la solita placida indifferenza. Ultimamente la sua persona ha acquistato un minimo d'interesse perché si è ammalata, e la circostanza è servita a recare al castello un nuovo visitatore nella persona di un giovane medico. Ebbene, mia cara: è proprio vero che una donna giovane non deve mai perdere ogni speranza: infatti il dottorino in questione ha fatto capire a una certa tua amica che, se avesse accettato da diventare Mrs. Glauber, sarebbe diventata il graditissimo ornamento del suo ambulatorio! Ho risposto a quell'impertinente che il mortaio e il pestello d'ottone ne costituivano un ornamento più che sufficiente. Figuriamoci se sono nata per diventare la moglie di un mediconzolo di campagna! Mr. Glauber se n'è tornato a casa sua irritatissimo del mio rifiuto, ha preso una pozione sedativa e adesso si è rimesso completamente. Sir Pitt ha approvato senza riserve la mia decisione: ritengo che gli seccherebbe perdere la sua piccola segretaria, e credo che la vecchia canaglia provi per me quell'oncia di simpatia che la sua natura gli permette di provare per chicchessia. Sposarmi. Nientemeno! E per giunta con un Esculapio campagnolo! No, no, non si possono dimenticare così presto le vecchie amicizie, delle quali peraltro non ho più intenzione di parlare. Torniamo piuttosto alla Casa del Sonno. Da qualche tempo non è più la Casa del Sonno. Infatti, mia cara, è arrivata Miss Crawley, accompagnata dai suoi grassi cavalli dai suoi grassi domestici e dal suo grasso cocker-spaniel... Proprio lei, l'illustre e facoltosa Miss Crawley con le sue settantamila sterline investite al cinque per cento, la quale (o forse sarebbe meglio dire le quali) è, o meglio sono, sono adorate dai suoi due fratelli. Poveretta, ha proprio l'aria di un apoplettica, non c'è che dire. Non mi meraviglio che i fratelli siano così in ansia per lei. Li vedessi mentre si danno un gran daffare a sistemarle i cuscini o a porgerle il capi! «Quando vengo in campagna,» dice (giacché non è sprovvista di una certa dose di spirito) «lascio a casa Miss Briggs, la mia adulatrice. Tanto, qui trovo i miei fratelli che la sostituiscono alla perfezione. Due bei tipi davvero!» Quando lei arriva, il castello è aperto a tutti e per un mese almeno si è tentati di credere che il vecchio Sir Walpole sia risuscitato. È un susseguirsi di cene, si esce a spasso in tiro a quattro e i domestici indossano le loro livree nuove giallo canarino. E si beve chiaretto e champagne come fosse cosa di tutti i giorni. Nello studio disponiamo di candele di cera e abbiamo un bel fuoco per scaldarci. Lady Crawley viene indotta a indossare il più sgargiante abito verde pisello di cui disponga nel suo guardaroba, e le mie allieve lasciano da canto i soliti vestiti scozzesi, si liberano delle scarpe dalla suola spessa per adottare calze di seta e abiti di mussola come si addice alle figlie di un baronetto, tenute a rispettare i dettami dell'eleganza. Ieri Rose è rientrata in uno stato da far paura: la scrofa Wilshire (una bestia enorme che lei predilige) l'ha scaraventata a terra, e ballandoci sopra ha ridotto a brandelli un bellissimo abito di seta lilla a fiori. Se un fatto del genere si fosse verificato una settimana fa, Sir Pitt sarebbe esploso nelle più turpi bestemmie, avrebbe preso a ceffoni la malcapitata e l'avrebbe messa a pane e acqua per un mese. Invece si è accontentato di dire: «Quando la zia sarà partita avrai quel che ti meriti signorina», ed è scoppiato a ridere come se si fosse trattato di un incidente del tutto irrilevante. Speriamo che la collera gli sia sbollita prima che Miss Crawley se ne sia andata, me lo auguro di tutto cuore per la povera Rose. Eh, sì: il denaro è un eccellente paciere, un meraviglioso conciliatore. Un altro straordinario effetto della presenza di Miss Crawley e delle sue settantamila sterline emerge dal comportamento dei due fratelli Crawley. Alludo al baronetto e al vicario, non ai nostri due fratelli. Quei due, che si detestano per tutto l'anno, a Natale ostentano le più vistose manifestazioni di reciproco affetto. Come ti ho scritto l'anno scorso quell'insopportabile reverendo dalla sfegatata passione per le corse, in chiesa usa tenere dei sermoni noiosissimi ai quali Sir Pitt reagisce russando. Ebbene, quando arriva Miss Crawley, niente più liti: dal castello ci si reca in visita al presbiterio, e viceversa. Il vicario e il baronetto parlano di maiali e di cacciatori di frodo; discutono degli affari della contea nel tono e nei modi più affabili, senza che esplodano alterchi ogni tre parole. E tutto questo sai perché? Perché Miss Crawley non sopporta le loro beghe, e ha detto chiaro e tondo che se non le daranno ascolto lascerà tutti i suoi soldi ai Crawley dello Shropshire. Se fossero furbi, quei Crawley dello Shropshire, credo che riuscirebbero ad assicurarsi tutto il peculio; ma il Crawley dello Shropshire è un ecclesiastico al pari del cugino dello Hampshire, e ha offeso a morte Miss Crawley (una volta che si era rifugiata da lui, in un impeto di collera nei riguardi dei suoi insopportabili fratelli) imponendole ad ogni costo il rispetto di non so quali pratiche di edificazione morale. Probabilmente avrà preteso di recitare le preghiere in casa. Ecco perché quando arriva Miss Crawley i libri di preghiere vengono chiusi e Mr. Pitt, che lei aborre, ritiene opportuno andarsene in città. Per contro fa la sua comparsa il giovane danda (o meglio il bellimbusto, credo che questo sia il termine più esatto). Mi riferisco al capitano Crawley, e suppongo non ti dispiaccia sapere che tipo è. È un giovanottone grande e grosso, sul metro e novanta di statura. Ha una voce tonante, bestemmia in continuazione e comanda a bacchetta la servitù. Questa peraltro lo adora, dal momento che lui elargisce denaro con molta prodigalità e di conseguenza i domestici sono pronti a fare tutto quanto gli aggrada. La settimana scorsa è mancato poco che i guardacaccia uccidessero un ufficiale giudiziario e il suo assistente, venuti da Londra per arrestare il capitano, perché erano stati sorpresi in agguato dietro il muro di recinzione del parco. Li hanno picchiati e gettati nello stagno. Senza il provvido intervento del baronetto, gli avrebbero sparato addosso come fossero stati cacciatori di frodo. Il capitano nutre il più profondo disprezzo per suo padre, per quanto almeno mi è dato di constatare: lo interpella con gli epiteti di vecchio tonto, vecchio zotico, vecchio cafone ed altri graziosi appellativi di pari significato. Presso le signore gode della peggior reputazione. Lascia entrare in casa i cani da caccia, passa il tempo coi vari signorotti della contea, invita a cena chi gli pare e piace; e Sir Pitt non osa impedirglielo, nel timore di contrariare Miss Crawley e perdere la ben nota eredità il giorno in cui la vecchia morisse di un colpo apoplettico. Permetti che ti riferisca un complimento rivoltomi dal capitano? Eh sì, non posso esimermi dal riferirtelo perché è troppo grazioso. Una sera abbiamo dato perfino una festa da ballo. Ti pare poco? C'erano Sir Huddkeston coi familiari, Sir Giles Waphot e le sue figliole, e non so quante altre persone. Ebbene, a un certo punto l'ho udito che diceva: «Per Giove, quella sì è un fior di bella ragazza!» E alludeva alla tua umile serva. Non solo: mi ha fatto l'onore di ballare con me due contraddanze. Se la intende a meraviglia coi signorotti del circondario, coi quali beve, scommette alle corse, va a cavallo, conversa di cacce e di gare di tiro a segno. Ma in quanto alle ragazze di provincia, dice che sono una barba e in verità temo che non abbia tutti i torti. Vedessi con che occhio sprezzante squadravano la povera sottoscritta! Quando loro ballano io me ne sto da parte buona buona a suonare il pianoforte. Ma l'altra sera è entrato il capitano. Veniva dalla sala da pranzo ed era alquanto acceso in volto. Nel vedermi seduta davanti alla tastiera è esploso nelle più fragorose bestemmie, Affermando che ero la più brava tra le ballerine presenti nel salone, e ha giurato e spergiurato che avrebbe fatto venire i suonatori da Mudbury. «Suonerò io una contraddanza,» ha esclamato prontamente Mrs. Martha Crawley, la moglie del vicario (una donnetta anziana, con la pelle olivastra, gli occhi lucenti e in testa un turbante inclinato sulle ventitré). E dopo che il capitano e la tua Rebecca ebbero danzato insieme, lo crederesti che mi ha fatto l'onore di complimentarsi con me per come ballo? Mai prima di allora, si era udita una cosa del genere! L'orgogliosa Mrs. Martha Crawley, cugina in primo grado del conte di Tiptoff: proprio lei che non si degna di far visita a Lady Crawley tranne quando arriva sua sorella. Povera Lady Crawley. Quando hanno luogo questi festeggiamenti, lei per lo più se ne sta di sopra a mandar giù pillole! Mrs. Crawley è stata colta da un'improvvisa simpatia per me. «Perché non portate le ragazze al presbiterio, cara Miss Sharp?» mi ha detto. «Le loro cugine sarebbero così contente di vederle!» Ma io ho capito benissimo cosa vuole da me. Il signor Clementi non disdegnava certo il suo compenso per insegnarci a suonare il pianoforte: compenso che invece Mrs. Crawley non intende corrispondere all'insegnante delle sue figliole. Ho capito i suoi propositi né più né meno come se me li avesse confidati; ma accetterò egualmente, perché ho deciso di rendermi gradita ad ogni costo. D'altronde, non è forse questo il dovere di una sventurata istitutrice priva di amici e protettori? La moglie del vicario mi ha elogiata, osservando che le mie allieve hanno fatto notevoli progressi nell'evidente presunzione di lusingare il mio amor proprio. Povera ingenua! Come se a me importasse qualcosa delle mie allieve! Il tuo vestito di mussola indiana e quello di seta rossa mi donano molto, cara Amelia, stando a quello che mi sento dire, anche se cominciano ad essere un po' sciupati Ma tu sai come noialtre ragazze povere non possiamo permetterci des fraiches toilettes. Beata te, cui basta spingerti fino a St. James 's Street, ove la tua cara mamma è pronta a comperarti tutto ciò che desideri. Addio, mia carissima, la tua affezionata Rebecca P.S. Ah, se avessi visto la faccia delle Blackbroocks (figlie dell'ammiraglio Blackbroocks), bellissime signorine che indossavano abiti venuti appositamente da Londra, quando il capitano ha scelto me per quel ballo! Quando Mrs. Martha Crawley (della quale la nostra intelligente Rebecca non aveva tardato a scoprire le trame) ebbe strappato a Miss Sharp la promessa di una visita, indusse l'onnipotente Miss Crawley a rivolgere l'indispensabile richiesta a Sir Pitt. La vecchia signora, buona com'era e desiderosa di vivere in letizia come di veder liete le persone che la circondavano, fu soddisfattissima della cosa e non esitò un istante a riconciliare i due fratelli, ripristinando fra loro un clima di amicizia e di reciproca armonia. Pertanto fu convenuto che in avvenire i giovani delle due famiglie si sarebbero incontrati frequentemente; e così fu, per lo meno fino a quando la vecchia e cordiale mediatrice sopravvisse a mantenere quel clima di pace. «Perché hai invitato a cena quel poco di buono di Rawdon Crawley?» chiese il vicario alla moglie mentre percorrevano il parco per rientrare a casa. «Non voglio saperne, di quel tipo. Per il semplice fatto che siamo gente di campagna ci squadra dall'alto in basso come fossimo negri. Non è soddisfatto fino a quando non gli riesce di metter le mani sul mio vino col sigillo giallo, che mi costa dieci scellini la bottiglia, canaglia! E poi è un individuo niente affatto raccomandabile: gioca d'azzardo, si ubriaca, un losco figuro sotto ogni punto di vista! Ha ucciso un uomo in duello, è indebitato fin sopra i capelli e ha privato me e i miei familiari di gran parte dell'eredità di Miss Crawley. Waxy mi ha detto,» e a questo punte il vicario strinse un pugno levando il braccio verso la luna, in un gesto che assomigliava di molto a una maledizione, «che gli lascerà cinquantamila sterline. Quindi ne resteranno meno di trenta da dividere.» «Credo che le manchi poco a tirar le cuoia,» rispose la moglie. «Quando si è alzata da tavola era molto rossa m faccia. Ho dovuto slacciarle il busto.» «Sfido! Ha bevuto sette coppe di champagne! Senza contare che lo champagne di mio fratello è fatto apposta per avvelenarci tutti quanti. Ma al solito voi donne non sapete distinguere il buono dal cattivo.» «Già, già, noi non sappiamo mai niente.» «Dopo cena ha bevuto del cherry-brandy, e col caffè ha mandato giù del Curaçao,» continuò il vicario. «Io non ne berrei un bicchierino neppure per cinque sterline, mi fa venire un brucior di stomaco da impazzire. Non può andare avanti così, Mrs. Crawley! Non può che morire al più presto, nessuno resiste a un regime del genere. Scommetto cinque contro due che Matilda entro un anno se ne andrà al Creatore.» E indulgendo col pensiero a questi austeri ragionamenti, continuando a pensare ai propri debiti, al figlio Jim che frequentava l'università, al figlio Frank a Woolwich, alle quattro figlie che, poverette, non erano certo delle Veneri e non potevano attendersi un centesimo di dote oltre a quanto gli sarebbe venuto dalla zia, il Vicario e la moglie, continuarono per la loro strada. «Non è possibile che Pitt sia così perfido e diabolico da cedere il beneficio della parrocchia, e soprattutto a quel metodista smidollato del figlio maggiore che punta al Parlamento,» continuò Mr. Crawley dopo una pausa. «Da Sir Pitt possiamo aspettarci di tutto,» rispose la moglie del vicario. «Dobbiamo indurre Miss Crawley a strappargli la promessa di beneficiarne James.» «Quando si tratta di promettere, Pitt non si fa pregare,» ribatté il fratello. «Quando è morto mio padre ha promesso che avrebbe pagato i miei conti all'università; ha promesso di costruire una nuova ala per il presbiterio; ha promesso di darmi il campo di Jibb e il prato di sei jugeri. Hai visto come le ha mantenute, le sue promesse? Ed è al figlio di quest'uomo, a quel mascalzone, a quel truffatore, a quel giocatore, a quell'assassino di Rawdon Crawley che Matilda lascerà gran parte delle sue sostanze! Questo, per Giove, non è agire da buon cristiano! Quel farabutto ha tutti i vizi, tranne l'ipocrisia: questa compete a suo fratello.» «Zitto, tesoro!» lo ammonì la moglie, «siamo ancora nelle proprietà di Sir Pitt.» «Ed io ti dico e ti ripeto che ha tutti i vizi di questo mondo. E fa' il santo piacere di non redarguirmi. È o non è vero che ha ammazzato il capitano Marker? È o non è vero che ha imbrogliato il giovane Lord Doevdale al Cocoa-Tree? È o non è vero che si è intromesso nell'incontro di pugilato tra Bill Soames e il campione del Cheshire, causandomi la perdita di quaranta sterline? Sono cose che sai perfettamente. Quanto alle donne, poi, sai altrettanto bene come davanti a me, nel mio studio...» «Per l'amor del cielo,» lo interruppe Martha, «risparmiami i particolari!» «E tu hai invitato quel farabutto a casa nostra!» continuò il vicario, esasperato. «Tu, una madre di famiglia, moglie di un ministro della Chiesa d'Inghilterra! Maledizione!» «Sei un imbecille, Bute Crawley,» esclamò la moglie in tono sprezzante. «E va bene, signora: imbecille o no (non pretendo e non ho mai preteso, Martha, di essere intelligente quanto te), una cosa è certa: Rawdon Crawley non voglio trovarmelo fra i piedi. Me ne andrò da Huddleston a vedere il suo levriero nero, ecco cosa farò, Mrs. Crawley. E farò correre Launcelot contro di lui per cinquanta sterline. Per Giove se lo farò. O contro qualsiasi altro cane d'Inghilterra. Ma quella bestia di Rawdon Crawley non la voglio vedere a nessun patto.» «Sei ubriaco, Bute, tanto per cambiare,» commentò sua moglie. L'indomani mattina, quando il vicario si svegliò e chiese una birra leggera, lei gli ricordò come si fosse ripromesso di andare a trovare Sir Huddleston Fuddleston quel sabato; e siccome lui sapeva che lo attendeva una serata annaffiata, convennero che avrebbe fatto meglio a tornare a cavallo la domenica mattina, in tempo per il servizio religioso. Dal che è lecito dedurre come i parrocchiani di Crawley avessero, per loro fortuna, un vicario affatto degno del loro signore. Non era trascorso molto tempo da quando Miss Crawley era giunta al castello, e già il fascino di Rebecca aveva fatto breccia nel cuore di quella simpatica libertina londinese, né più né meno come aveva conquistato quello degli innocenti campagnoli da noi descritti. Un giorno, mentre si disponeva alla consueta passeggiata in carrozza, lì per lì le venne l'idea che «la piccola istitutrice» dovesse accompagnarla fino a Mudbury. Prima ancora del loro ritorno, Rebecca l'aveva conquistata perché era riuscita a farla ridere quattro volte, divertendola per tutta la durata di quel breve tragitto. «Perché Miss Sharp non cena con noi?» propose a Sir Pitt, che aveva combinato un pranzo di cerimonia invitando la miglior società del vicinato. «Mio caro, non penserai ch'io sia disposta a parlar di mocciosi con Lady Fuddleston, o di garbugli legali con quel vecchio rimbambito di Lord Wapshot! Insisto categoricamente perché presenzi anche Miss Sharp. Se non ci sono abbastanza posti, che Lady Crawley resti nelle sue stanze. Perché ci tengo a Miss Sharp? Per un motivo semplicissimo: è l'unica persona, in tutta la contea, coli la quale si possa parlare!» Inutile precisare come, in seguito a disposizioni tanto perentorie, Miss Sharp, l'istitutrice, fosse invitata a cenare in sala assieme all'esimia compagnia. E quando Sir Huddleston, che in atteggiamento solenne e cerimonioso aveva dato il braccio a Miss Crawley per condurla a tavola, fece l'atto di sederlesi accanto, la vecchia signora prese a strillare con voce acutissima: «Becky Sharp! Miss Sharp! Venite a sedervi accanto a me, così mi farete divertire. Sir Huddleston può benissimo sedersi a fianco di Lady Wapshot.» Concluso il trattenimento e partite le carrozze, l'insaziabile Miss Crawley disse: «Venite con me nel mio salottino, Becky, spettegoleremo un poco sulla compagnia.» Cosa che alle due amiche riuscì alla perfezione: convennero infatti che durante il pasto Sir Huddleston soffiava come un mantice, Sir Giles Wapshot sorbiva la minestra producendo uno spiacevole rumore con la bocca, e sua moglie aveva un tic all'occhio sinistro. Becky sapeva rendere in caricatura quei gesti e tutta la conversazione della serata: dalla politica alla guerra, dalle sessioni del Parlamento alla famosa corsa dei levrieri dello Hampshire e a tutti gli altri argomenti tediosi e monotoni che alimentano le abitudinali chiacchiere dei gentiluomini di campagna. Quanto poi ai cappelli di Lady Wapshot e delle figlie, nonché al famoso cappello giallo di Lady Fuddleston, Miss Sharp seppe rievocarli comicamente con gran dovizia di particolari, suscitando nel suo uditorio il massimo divertimento. «Mia cara, siete un'autentica trouvaille» le disse Miss Crawley. «Mi piacerebbe portarvi a Londra con me, ma certo non potrei prendervi in giro come faccio con la povera Briggs. Siete troppo furba, non sarebbe possibile. Siete troppo intelligente, insomma. Non è vero, Firkin?» Mrs. Firkin, che stava pettinando i pochi capelli che ancora adornavano il cranio di Miss Crawley, alzò la testa in un gesto sdegnoso e disse nel tono del più pungente sarcasmo «Che la signorina sia intelligentissima, è fuor di dubbio.» Infatti Mrs. Firkin provava, nei confronti di Rebecca, quell'istintiva gelosia che costituisce uno dei princìpi-cardine di ogni donna degna di rispetto. Dopo aver respinto le cortesi profferte di compagnia di Sir Huddleston Fuddleston, da quel giorno in poi Miss Crawley decise di recarsi ogni giorno a colazione sottobraccio a Rawdon Crawley, mentre Rebecca seguiva col suo cuscino; oppure era Becky a darle il braccio e Rawdon teneva dietro recando il cuscino. «Dobbiamo sedere vicini, miei cari,» diceva la vecchia signora, «perché in tutta la contea siamo gli unici cristiani degni di questo nome.» E se questo era vero, occorre convenire che la religione doveva essere giunta all'infimo stadio, nello Hampshire! Oltre ad esser donna pervasa da un così elevato spirito religioso, Miss Crawley coltivava (già lo abbiamo visto) idee spiccatamente liberali, e non trascurava occasione per esternarle senza riserve. «Mia cara, che importanza ha la nascita?» diceva a Rebecca. «Guardate mio fratello Pitt; guardate gli Huddleston che risalgono al regno di Enrico II; guardate quel poveraccio di Bute, al presbiterio. Forse che uno, uno solo di loro, può competere con voi per intelligenza e educazione? Ma che dico, con voi?! Non sono eguali nemmeno a Briggs, la mia dama di compagnia, o a Bowls, il mio maggiordomo. Voi, mia cara, siete un unicum, un piccolo gioiello. Gli abitanti di mezza contea riuniti assieme non hanno il vostro cervello. Se i meriti di ogni singolo individuo ottenessero l'adeguata ricompensa, voi dovreste essere una duchessa... Ma nemmeno: le duchesse non dovrebbero esistere. Diciamo meglio che non dovreste avere superiori di sorta. Per parte mia, vi considero mia pari sotto ogni punto di vista, e ... Vi dispiace mettere altro carbone sul fuoco... e prendere quel vestito e aggiustarmelo, voi che avete quelle mani d'oro?» Con siffatto metodo quella vecchia filantropa si faceva servire, trovava il modo di farsi fare i lavori di cucito, si faceva leggere i romanzi francesi fin quando si addormentava: e sempre ad opera della sua «eguale». A quel tempo - e forse i lettori di una certa età se ne ricorderanno - tra la buona società avevano prodotto scalpore due avvenimenti i quali, come dicono i giornali, avrebbero potuto mettere in moto anche la giustizia. L'alfiere Shafton era fuggito con Lady Barbara Fitzfurse, figlia ed unica erede del conte di Bruin; e il povero Vere Vane, un gentiluomo che fino all'età di quarant'anni si era sempre comportato in modo irreprensibile, dedicandosi all'educazione di numerosa prole, improvvisamente e ignominiosamente aveva abbandonato il focolare domestico per amore di Mrs. Rougement, un'attrice sessantacinquenne. «Il lato migliore, nel carattere di Lord Nelson,» diceva Miss Crawley, «sta nel fatto che si sia rovinato per una donna. Un uomo capace di una cosa del genere deve avere della stoffa. Io adoro tutti i matrimoni avventati, in modo particolare che un uomo titolato decida di sposare la figlia di un mugnaio, come Lord Flowerdale, per esempio. Sono cose che fanno impazzire di collera le donne. Come mi piacerebbe che un uomo importante scappasse con voi, mia cara! Siete abbastanza graziosa perché un evento del genere possa verificarsi.» «Una fuga a due in carrozza! Sarebbe fantastico,» ammise apertamente Rebecca. «Un'altra cosa che mi piace moltissimo è l'idea che un giovane povero scappi con una ragazza ricca. Spero con tutto il cuore che Rawdon scappi con qualcuna. «Ricca o povera?» «Che dite mai, sciocchino? Rawdon non ha un centesimo, al di fuori di quello che gli passo io. È criblé de dettes. Per aver successo nel mondo bisogna che trovi un rimedio a questa disastrosa situazione finanziaria.» «È intelligente?» chiese Rebecca. «Intelligente, tesoro mio? Fatta eccezione per i cavalli, il reggimento, la caccia e il gioco d'azzardo, non gli passa un sol pensiero per la testa. Ma è un mascalzoncello così simpatico, che merita di sfondare nella vita. Sapete che ha ucciso un uomo in duello e trapassato con un colpo di pistola il cappello di un padre che aveva offeso? Al reggimento vanno tutti pazzi per lui, e tutti i giovanotti che frequentano il Wattier e il Cocoa-Tree lo portano in palma di mano.» In realtà, e non sapremmo dire esattamente perché, quando Rebecca Sharp scrisse alla sua diletta amica del ballo a Queen's Crawley e di come il capitano Crawley l'avesse notata per la prima volta, non raccontò com'erano andate esattamente le cose. Infatti, altre volte prima di allora il capitano Crawley si era interessato di lei. Spesso le si era parato dinnanzi all'improvviso durante le passeggiate nel parco, e almeno un centinaio di volte le aveva inopinatamente tagliato il passo negli innumerevoli corridoi e corridoietti del palazzo. Venti volte, a dir poco, s'era appoggiato al pianoforte nel corso della medesima serata (Lady Crawley era in camera ammalata, e nessuno si curava di lei). Più volte Rawdon le aveva scritto dei bigliettini (che costituivano il più impegnativo parto letterario di cui il grosso e goffo capitano dei dragoni fosse capace; del resto, con le donne la stupidità funziona esattamente come qualsiasi altra prerogativa). Ma quando nascose il primo di questi biglietti nello spartito della canzone che lei stava cantando, la piccola istitutrice balzò in piedi, lo guardò in faccia con espressione compunta, poi con gesto elegante prese quella missiva di forma triangolare, la sventolò come fosse stata un cappello a tricorno e, avanzando verso il nemico, la gettò nel fuoco facendogli al tempo stesso una profonda riverenza. Poi tornò al suo posto e riprese a gorgheggiare, più contenta di prima. «Cos'è successo?» chiese Miss Crawley, che l'improvviso interrompersi della musica aveva destato dal sonnellino pomeridiano. «Oh, una nota sbagliata,» rise Miss Sharp, mentre Rawdon fumava di mortificazione e di rabbia. Data l'evidentissima simpatia di Miss Crawley per la nuova istitutrice, Mrs. Martha Crawley mostrava di esser molto avveduta nel dissimulare qualsiasi sentimento di gelosia, ed anzi invitando al presbiterio Rebecca in compagnia di Rawdon Crawley: l'uomo che contendeva a suo marito l'eredità della vecchia zitella, investita al cinque per cento! Mrs. Crawley e il nipote strinsero, nientemeno, un legame di autentica amicizia. Lui rinunciò alle cacce, declinò ripetuti inviti da parte dei Fuddleston, smise di cenare al circolo militare di Mudbury. Adesso il suo gran divertimento consisteva nel recarsi al presbiterio... Dove andava anche Miss Crawley. E dal momento che la loro mamma era ammalata, perché non dovevano seguirla anche le bambine accompagnate da Miss Sharp? Ed ecco che ci andavano anche le bimbe (quei due tesori!) con Miss Sharp, e la sera qualcuno dei gruppo tornava a casa a piedi. Non Miss Crawley, beninteso: lei preferiva rientrare in carrozza; ma la passeggiata attraverso i campi del presbiterio fino al cancello del parco, e poi nel bosco fino al viale di Queen's Crawley sotto i raggi della luna, era affascinante per due cuori romantici come il capitano e Miss Rebecca. «Ah, quelle stelle, quelle stelle!» diceva Rebecca volgendo i suoi occhi scintillanti verso il cielo. «Quando le guardo mi sembra quasi di essere uno spirito!» «Ah... Oh.. Be'... Per Dio, sì, anch'io, Miss Sharp!» rispondeva l'altro, al colmo dell'entusiasmo. «Non vi disturba il mio sigaro, nevvero, Miss Sharp?» Miss Sharp adorava il profumo di un sigaro all'aperto più di qualsiasi altra cosa al mondo... si provò persino a fumarlo con gesto oltremodo vezzoso tirò persino una breve boccata, poi lanciò un gridolino, scoppiò a ridere e rese quella cosa squisita al capitano, che si arricciò i baffi e prese ad aspirare boccate così profonde che la brace splendette di un rosso vivo nelle tenebre del bosco. «Perbacco,» esclamò poi, «oh, oh, per Dio, non ho mai fumato un sigaro più buono di questo in tutta la mia vita... oh, oh...» La sua conversazione era diretto riflesso del suo intelletto, l'una e l'altro perfettamente adeguati a un giovane e greve ufficiale dei dragoni. Proprio in quel momento Sir Pitt, che assieme a John Horrocks discuteva di un montone da macellare fumando la pipa e bevendosi un bicchiere di birra, li scorse dalla finestra dello studio e si mise a bestemmiare come un turco. Non fosse stato per Miss Crawley, parola sua che avrebbe buttato fuori di casa quel lestofante di Rawdon. «Che sia un discolo non c'è dubbio,» commentò Horrocks. «E Flethers, il suo domestico, è anche peggio di lui. In cucina ha protestato per il vitto e la birra strillando come se fosse stato un lord. Ma secondo me, Sir Pitt, Miss Sharp è pane per i suoi denti,» aggiunse dopo una pausa. E in effetti lo era... per quelli del padre e per quelli del figlio. XII • UN CAPITOLO MOLTO SENTIMENTALE Ed ora abbandoniamo l'Arcadia; prendiamo congedo da quelle garbate persone che ivi praticavano le virtù agresti per ritornare a Londra e informarci sulla sorte di Miss Amelia. «Di lei non c'importa un bel niente» scrive di lei con minuta ed elegante calligrafia, e suggellando il suo biglietto con un sigillo di ceralacca rosa, un'ignota corrispondente. «È fade e insipida.» Fanno seguito altre lusinghiere osservazioni della stessa indole, che non farebbe conto ricordare se in verità non si traducessero in un singolare complimento per la fanciulla cui si riferiscono. Grazie alle esperienze da lui coltivate in società, senza dubbio il nostro cortese lettore avrà udito uscire dalla bocca di assennate rappresentanti del sesso gentile frasi come le seguenti: Cosa ci sarà mai di tanto seducente in Miss Smith? Come può aver indotto il maggiore Jones quella sciocca insulsa e sempre così impacciata Miss Thompson, che non ha proprio nulla da offrire al di fuori del suo faccino da pupattola di cera? Cosa può esserci in due gote rosee e in un paio d'occhi azzurri? Ecco le domande che si pongono quelle care moraliste, e nel loro strepitoso buon senso vogliono dire che il dono dell'intelligenza, la vivacità dell'ingegno, un'adeguata conoscenza del Mangnall, le non soverchie nozioni di botanica e geologia adatte all'educazione di una fanciulla un'oncia d'estro poetico, l'arte di strimpellare il pianoforte secondo il metodo Herz ed altre siffatte virtù, sono più preziose per una donna delle effimere grazie destinate fatalmente a tramontare nel giro di pochi anni. È oltremodo edificante ascoltare le donne mentre sono impegnate a disquisire intorno alla fuggevole durata della venustà. Tuttavia, sebbene la virtù sia così nobile, e pertanto sia doveroso far presente alle povere infelici cui la sventura ha assegnato la bellezza quale cruda sorte le attenda; e sebbene ovviamente l'eroico esemplare della specie femminina ammirato dalle donne sia più glorioso e fulgido della gentile, fresca sorridente, ingenua e tenera piccola dea domestica che gli uomini sono inclini ad adorare, le creature appartenenti a quest'ultima categoria di livello inferiore hanno agio di consolarsi constatando come, alla resa dei conti, gli uomini le prediligono; e che, ad onta dei moniti e delle proteste delle nostre care amiche, noi perseveriamo e continueremo a perseverare nel nostro folle e disperato errore. Ad esser sincero, per parte mia, quantunque persone per le quali nutro il massimo rispetto mi abbiano ripetuto infinite volte che Miss Brown è una donnetta insignificante, che Mrs. White non ha altro che il suo petit minois chiffonné e che Mrs. Black non sa mettere insieme quattro parole, posso asserire di aver avuto piacevolissime conversazioni con Mrs. Black (naturalmente, cara signora, non ne rivelerò una sillaba, stia pur tranquilla), constato che gli uomini fanno ressa attorno a Mrs. White e che i giovanotti si contendono Miss Brown per poter ballare con lei. Sono tentato di credere che l'essere disprezzate dalle esponenti del proprio sesso sia il maggior complimento che una donna possa ricevere. Nell'entourage di Amelia non mancavano le donne che le elargivano questo genere di complimenti, e in modo davvero confortante si può asserire, per esempio, che non c'era cosa sulla quale le sorelle di George Osborne e di William Dobbin si trovassero più d'accordo quanto nel convenire che le doti di Amelia erano né più né meno risibili; né, per altro verso, c'era qualcosa capace di stupirle più dell'ammirazione che i loro rispettivi fratelli provavano per costei. «Con lei siamo gentili,» dicevano le Osborne, due ragazze dalle folte sopracciglia che avevano sempre fruito delle migliori istitutrici, delle migliori sarte, dei migliori insegnanti. In effetti, la trattavano con una sorta di cortese condiscendenza, con una così insoffribile aria di protezione, che in loro presenza la povera fanciulla si chiudeva nel più assoluto mutismo, suffragando così l'opinione ch'esse nutrivano di lei, vale a dire che fosse una stupida fatta e finita. Amelia si forzava, in ossequio al suo dovere, di trovarle simpatiche, dal momento che erano le sue future cognate. In loro compagnia trascorreva «lunghe mattinate», le più tetre e uggiose mattinate che sia dato immaginare. La portavano solennemente a passeggio nella grande carrozza di famiglia, assieme ad una vestale segaligna, Miss Wirt, la loro istitutrice. I divertimenti consistevano nel condurla a concerti di musica sacra, all'oratorio, a visitare i piccoli indigenti di St. Paul; e la presenza delle sue amiche la metteva in uno stato di tale soggezione, che Amelia non osava nemmeno commuoversi quando i bambini intonavano gli inni. Avevano una casa comoda, una tavola sempre onusta di invitanti cibarie, la loro compagnia era solenne e il loro sussiego era fuori del comune; avevano un banco di prima fila al Foundling, i loro atteggiamenti erano solenni e compassati, i loro svaghi assolutamente onesti e di una noia mortale. Dopo ogni sua visita (ah, come si sentiva sollevata quando era finita!) Miss Osborne, Miss Maria Osborne e Miss Wirt, la vestale-istitutrice, si domandavano con crescente stupefazione: «Ma cosa diamine può trovare George in una simile creatura?» D'altro canto qualche malizioso lettore potrebbe chiedersi come mai Amelia, che in collegio era benvoluta da tutte e aveva tante amiche, appena entrata in società cominciò ad essere considerata dalle sue consimili con occhio tanto severo e sprezzante. Caro signore, non dimenticate che nel collegio di Miss Pinkerton uomini non ce n'erano, fatta eccezione per il maestro di ballo, ed era inconcepibile che le ragazze s'invaghissero di lui! Quando George, il loro bel fratello, prese l'abitudine di uscir di casa subito dopo la prima colazione, e di pranzar fuori almeno sei volte la settimana, è del tutto naturale che le sorelle si siano sentite trascurate, e pertanto offese. Quando il giovane Mr. Bullock (della Banca Hulker, Bullock & Co., in Lombard Street) che nel corso delle ultime due stagioni aveva corteggiato Miss Maria, ebbe l'ardire di invitare Amelia a ballare il cotillon, è forse lecito attendersi che la suddetta Miss Maria se ne compiacesse? Eppure quella candida, dolce creatura mostrò di rallegrarsene! «Sono davvero lieta che proviate simpatia per la cara Amelia,» disse con serietà e naturalezza a Mr. Bullock, quando il ballo fu terminato. «È fidanzata a George, mio fratello: non si può dire che sia una cima d'intelligenza, ma è una brava ragazza, semplice, spontanea... A casa le siamo tutti tanto affezionati.» Che tesoro di ragazza! Chi mai potrebbe calcolare la profondità dell'affetto da quell'entusiastico «tanto»? Miss Wirt e le due sorelle, a lui così affezionate, cercavano con la massima serietà e con encomiabile zelo di convincere George come il sacrificio cui si sottoponeva e la romantica dedizione di cui dava prova immolandosi sull'altare di Amelia fossero degni del più incondizionato encomio. Sicché molto probabilmente il giovanotto si persuase di essere uno degli uomini dotati di più elevato sentire fra quanti ne annoverava l'esercito di Sua Maestà Britannica, e finì per lasciarsi amare con una rassegnazione peraltro assai poco meritoria. Ma quantunque, come abbiamo detto poc'anzi, uscisse di prima mattina e pranzasse fuori casa sei volte la settimana, a differenza di quanto credevano le sue sorelle che lo immaginavano sempre appiccicato ad Amelia, spesso George si trovava in compagnia affatto diversa da quella di Miss Sedley. Invero accadeva sovente, quando il capitano Dobbin andava a cercare il suo amico, che Miss Jane Osborne, sempre prodiga di attenzioni nei confronti di Dobbin e lietamente disposta ad ascoltare qualche episodio di vita militare o ad informarsi sulla salute della sua cara mamma, indicasse ridendo il lato opposto della piazza e dicesse: «George? Vi conviene cercarlo in casa Sedley. Noi non lo vediamo dalla mattina alla sera.» Da parte sua il capitano replicava a questi discorsi sorridendo con fare imbarazzato, e da uomo di mondo che sa il fatto suo cercava di cambiare argomento portando la conversazione su temi generici, quali la stagione all'Opera, o l'ultimo ballo dato dal Principe alla Carlton House, oppure il tempo... questo benemerito espediente per alimentare i conversari della buona società. «Com'è ingenuo quel tuo prediletto,» diceva Miss Maria a Miss Jane, quando il capitano se n'era andato. «Hai notato com'è arrossito quando gli abbiamo detto che George era di servizio?» «È un vero peccato che Frederick Bullock non abbia il suo stesso pudore, Maria,» rispose la sorella maggiore, ergendo altezzosamente il capo. «Pudore? Io parlerei piuttosto di goffaggine, Jane. Per parte mia non vorrei proprio che Frederick mi strappasse il vestito, come ha fatto il capitano Dobbin al ballo di Mrs. Perkins, pestando coi suoi piedi il tuo!» «E come avrebbe potuto strapparti il vestito? Mi fai ridere. Ma se Frederick ha ballato tutto il tempo con Amelia!» In verità, se il capitano Dobbin aveva sorriso con aria impacciata era perché pensava a una circostanza della quale non riteneva opportuno informare le signorine Osborne. Infatti si era già recato in precedenza dai Sedley col pretesto di vedere George; ma George non c'era. Accanto alla finestra sedeva tutta sola la povera Amelia, il volto improntato a un'espressione alquanto mesta. Costei, dopo aver discorso del più e del meno, si era arrischiata a chiedere se fosse vero quanto si andava dicendo, e cioè che il reggimento stava per ricevere l'ordine di trasferirsi all'estero, e se quel giorno il capitano Dobbin avesse visto Mr. Osborne. Per il momento il reggimento non aveva ricevuto nessun ordine del genere, e Dobbin non aveva visto George, il quale molto probabilmente era a casa, in compagnia delle sorelle. Doveva forse andare in cerca di quel pigrone? Al che Amelia gli aveva stretto la mano in un gesto di cortese gratitudine; lui aveva attraversato la piazza e Amelia aveva continuato la sua lunga attesa, ma George non si era fatto vivo. Povero, piccolo cuore che continua a sperare, a palpitare, a struggersi di desiderio e ad attendere fiducioso! Come vedete, una vita siffatta non si presta ad essere raccontata. È una vita assai scarsa di quelli che siamo soliti chiamare avvenimenti; tutto vi s'identifica nell'attesa, nell'attesa quotidiana. «Quando verrà?» Ecco l'unico pensiero che regna, dal momento in cui ci si addormenta a quello del risveglio. Per contro, mentre Amelia chiedeva di lui al capitano Dobbin, non è da escludere che George fosse impegnato in una partita a biliardo col capitano Cannon in Swallow Street: infatti il giovanotto era un tipo allegro ed espansivo, ed eccelleva in tutti i giochi di abilità. Una volta, dopo che per tre giorni George non si era fatto vedere, Miss Amelia si mise in capo il suo cappellino e decise senz'altro di varcare la soglia di casa Osborne. «Come, come? Lasciate nostro fratello per venire da noi?» esclamarono le signorine. «Avete forse litigato, Amelia? Raccontateci, suvvia!» «Ma no, ma no, chi mai potrebbe litigare con lui?» rispose Amelia, gli occhi pieni di lacrime. Era venuta semplicemente per... per far visita alle sue care amiche, da tanto tempo non si vedevano. Quel giorno si comportò in modo così sciocco e improvvido, che le due Osborne e la loro istitutrice indugiarono a fissarla quando Amelia si congedò con aria quanto mai melanconica, e una volta di più si domandarono cosa diamine trovasse George in quella povera, scialba fanciulla. Ed era naturale che si ponessero una domanda del genere. Com'era possibile, del resto, che Amelia abbandonasse il suo timido cuore alla mercé degli occhi neri e indagatori delle signorine Osborne? Era meglio nascondersi, rinchiudersi in se stessa. So perfettamente come le due sorelle fossero espertissime in fatto di scialli di Cashmere o di gonne di raso rosa; so che quando Miss Turner aveva fatto tingere la sua di violetto trasformandola in una casacchina, e che quando Miss Pickford si era fatta un manicotto (o forse una giacchetta o un bordo) con una mantella di ermellino, queste trasformazioni non erano sfuggite all'occhio attento delle summenzionate fanciulle. Ma vedete, esistono cose più raffinate del raso e dei pellami più preziosi, di tutti i fasti di re Salomone e del guardaroba della regina di Saba: cose la cui bellezza sfugge all'esame dei più esperti conoscitori. Vi sono modeste, delicate, piccole anime che fioriscono tenere e fragranti in questi recessi ombrosi; e peraltro vi sono fiori da giardino grandi come bracieri di rame, capaci di fissare il sole e indurlo a chinar lo sguardo. Per parte sua Miss Sedley non apparteneva alla specie dei girasoli, ed io asserisco che sia in contrasto con tutte le regole delle proporzioni disegnare una violetta conferendole le dimensioni di una dalia doppia. Un fatto è certo: per una fanciulla che viva ancora nell'alveo della casa paterna non possono fiorire le emozionanti congiunture riservate alle eroine da romanzo. I vecchi uccelli che osano avventurarsi all'aperto possono anche incappare in qualche rete o buscarsi un colpo di fucile; per il mondo circolano falchi in gran copia cui gli uccelli hanno la ventura di sottrarsi, o dei quali possono cader vittime; ma i piccoli che ancora non escono dal nido vivono una vita confortevole e per nulla romantica, adagiati come sono tra le piume e la paglia, fino al giorno in cui, anche per loro, verrà il momento di spiegare il volo. E mentre Becky Sharp volava già da sola per le campagne, saltellando di ramo in ramo e badando a scansare molteplici trappole, beccando il cibo senza intralci e con fortuna, Amelia se ne stava chiusa e protetta fra le mura domestiche di Russell Square. Andava incontro al mondo, ma sempre condotta per mano da persone più anziane di lei: né si sarebbe detto che qualcosa di male potesse accadere a lei, o in quell'opulenta, confortevole dimora color mattone nella quale si trovava pienamente a suo agio. La mattina la mamma sbrigava le faccende, poi usciva per la consueta scarrozzata e compiva quel gradevole giro di visite e commissioni che costituiscono lo svago, per non dire la professione, di qualsiasi ricca signora londinese. Il papà conduceva le sue misteriose operazioni nella City, che cominciava ad essere in subbuglio, data la guerra che in quel periodo infuriava in Europa, mettendo a repentaglio la sorte degli imperi. Basti pensare che a quell'epoca il «Courier», un giornale che vantava decine di migliaia di lettori, un giorno dava notizia della battaglia di Vittoria, un altro quello dell'incendio di Mosca, e lo strillone che intorno all'ora di pranzo transitava per Russell Square annunciava avvenimenti come questi: «La battaglia di Lipsia! Seicentomila uomini impegnati nei combattimenti! Totale sconfitta dei francesi! Duecentomila morti!» Qualche volta, facendo ritorno a casa, il vecchio Sedley appariva preoccupato, e non era il caso di stupirsene, dal momento che notizie del genere sconvolgevano non solo i cuori ma tutte le Borse d'Europa. Eppure la vita in Russell Square, nel quartiere di Bloomsbury, continuava né più né meno come se in Europa tutto procedesse pacifico e tranquillo. La ritirata di Lipsia non valse a recare alcuna differenza nel numero di pasti che Mr. Sambo consumava nel tinello della servitù. Gli alleati invasero la Francia e la campanella del pranzo di Russell Square continuò a suonare alle cinque del pomeriggio, secondo la consuetudine. Dubito che ad Amelia importasse alcunché di Brienne e di Mont Mirail, né che provasse il pur minimo interesse per gli eventi bellici, tranne il giorno in cui l'imperatore abdicò. In quell'occasione batté le mani, recitò devotamente una preghiera in segno d'indicibile gratitudine e con impeto subitaneo si lanciò fra le braccia del tenente Osborne, tra lo stupore di tutti coloro che furono testimoni di quell'inopinato sfogo della sua emozione. In effetti veniva proclamata la pace, l'Europa sarebbe ritornata tranquilla, il Corso era deposto e il reggimento del tenente Osborne non avrebbe ricevuto l'ordine di partire per la zona di guerra. Così ragionava Amelia. Per lei il destino d'Europa s'identificava con quello del tenente Osborne. E poiché egli non era più in pericolo, ella aveva buon motivo d'intonare il Te Deum. George era l'Europa, l'imperatore, i sovrani della Coalizione e l'augusto Principe Reggente. Era il sole e la luna. Secondo me Amelia pensava che il ballo e le luminarie alla Mansion House, cui presenziarono i sovrani, fossero stati organizzati soprattutto in onore di George Osborne. Abbiamo già parlato della necessità, dell'indigenza, delle strettezze, di questi lugubri maestri cui la povera Becky Sharp fu costretta ad affidare la propria educazione. L'ultimo aio di Miss Amelia Sedley fu per contro l'amore, ed è sorprendente constatare quali straordinari progressi facesse la nostra amica sotto la guida di un insegnante così bene accetto. Nel corso dei quindici o diciotto mesi di quotidiana e costante attenzione agli insegnamenti di un così esimio e autorevole istruttore, Amelia fu resa edotta su innumerevoli segreti dei quali Miss Wirt e le donzelle dagli occhi neri che abitavano nella casa di fronte, e parimenti la vecchia Miss Pinkerton di Chiswick, non sospettavano nemmeno l'esistenza! D'altronde, come avrebbero potuto esserne al corrente, quelle dignitose vergini d'immacolata reputazione? Per quanto concerne Miss P. e Miss W. l'amore era naturalmente fuori causa: nei loro confronti, non oserei prospettarmi neppure vagamente un'ipotesi del genere. È vero che Miss Maria Osborne era «legata» a Mr. Frederick Augustus Bullock, della Banca Hulker & Bullock, ma il suo era un «legame» altamente rispettabile. Del resto Maria si sarebbe accontentata anche del vecchio Bullock, dal momento che la sua mente era rivolta - come si addice ad ogni fanciulla dabbene - a una casa in Park Lane, una villa a Wimbledon, una lussuosa carrozza, due cavalli di bellissima taglia e relativi staffieri, nonché un quarto dei profitti annui della prestigiosa Banca Hulker & Bullock, tutte prerogative assai vantaggiose che si trovavano riunite nella persona di Frederick Augustus. Se a quel tempo i fiori d'arancio fossero già stati inventati (quei commoventi simboli della purezza muliebre, importati fra noi dalla Francia ove si celebra il più alto numero di matrimoni d'interesse), Miss Maria avrebbe cinto il suo capo dell'immacolata corona e sarebbe partita in carrozza per il viaggio di nozze a fianco del vecchio Bullock, ancorché calvo, gottoso e munito di un vistosissimo naso; e con assoluta modestia avrebbe votato se stessa alla felicità di cotanto marito. Ma l'attempato signore era già sposato, onde Maria riversò le sue incontaminate riserve d'affetto sul figlio del suddetto. Dolci e olezzanti fiori d'arancio! L'altro giorno ho visto Miss Trotter (questo il suo nome da nubile), mentre adorna di una ghirlanda saliva rapida in carrozza davanti alla chiesa di St. George, in Hannover Square, mentre Lord Matusalemme le zoppicava appresso. E con quale toccante modestia quell'innocente fanciulla si affrettò a tirare le tendine della carrozza! E a quel matrimonio c'era la metà delle carrozze della Fiera della Vanità. Ma non era questo il tipo di amore che aveva dato il tocco finale all'educazione di Amelia, e che nel giro di un anno aveva tramutato una brava ragazza in una brava giovane donna, pronta a diventare una brava moglie, quando fosse giunto il lieto momento tanto sospirato. La fanciulla (e forse era imprudente da parte dei suoi genitori tollerare in lei quell'indulgere a una vera e propria forma d'idolatria, a così stupide svenevolezze romantiche) amava con tutto il cuore il giovane ufficiale di Sua Maestà col quale abbiamo fatto fuggevole conoscenza. Il suo pensiero volava a lui nell'attimo stesso in cui si destava, e l'ultimo nome che pronunciava nelle preghiere era il suo. Per Amelia non esisteva un uomo altrettanto bello e intelligente, un così abile cavaliere, un ballerino così agile ed elegante. Insomma, George era la perfezione fatta persona. La gente trovava straordinario il modo d'inchinarsi del Principe! Ma cos'era mai in confronto all'inchino di George? Un giorno aveva visto Lord Brummell, di cui tutti dicevano mirabilia: com'era possibile paragonare un uomo simile al suo George? Fra tutti i beaux che frequentavano l'Opera (e a quei tempi ce n'erano che andavano all'Opera con cappelli confezionati a bella posta), non uno poteva competere con lui! George era il Principe Azzurro, che nella sua magnanimità si degnava di abbassarsi al livello dell'umile Cenerentola! Se Miss Pinkerton fosse stata la confidente di Amelia, molto probabilmente avrebbe cercato di attenuare quell'incondizionata devozione, ma senza gran risultato, di questo potete essere certi. In certe donne trionfano la natura, l'istinto. Alcune sono fatte per l'intrigo, altre sono votate all'amore. Invito i degni scapoli che leggono questo libro a operare la scelta che maggiormente gli aggrada. In preda a questo sentimento travolgente, Amelia trascurava - crudele!- le dodici amiche di Chiswick. Pensare ad altro le riusciva letteralmente impossibile. Miss Saltrie a suo avviso era troppo fredda per farne la destinataria delle sue confidenze, e Amelia non si decideva ad aprire il suo cuore con Miss Scartz, la giovane ereditiera di St. Kitt dai capelli crespi. Durante le vacanze aveva invitato la piccola Laura Martin, ed io sono assolutamente certo che Amelia scelse lei quale confidente, che le promise di accoglierla in casa quando si fosse sposata, e che in fatto di amore le diede innumerevoli informazioni che non stentiamo a supporre riuscissero affatto nuove e utilissime per una ragazzina di quell'età. Ahi, ahi! Ho paura che la povera Emmy avesse qualche rotella fuori di posto. D'altra parte, cosa facevano i suoi genitori perché il suo cuoricino non battesse così forte? Il vecchio Sedley non sembrava dar molta importanza alla cosa. Da tempo appariva preoccupato e gli spinosi affari nella City lo assorbivano totalmente. Quanto a Mrs. Sedley, era per natura troppo semplice e niente affatto indagatrice, al punto da non essere nemmeno gelosa. Mr. Jos era lontano, a Cheltenham, concupito da una vedova irlandese. Amelia aveva la casa tutta per sé (a volte fin troppo, ahimè!), ma dubbi non ne aveva mai. Poiché George era in caserma, naturalmente, non sempre poteva ottenere il permesso di assentarsi da Chatham. E poi doveva esser libero di trovarsi con gli amici, di far visita alle sorelle, di frequentare la società (ambito com'era da ogni compagnia!) quando aveva modo di venire a Londra. E quando era al reggimento, certamente tornava troppo stanco dal servizio per aver voglia di scrivere lunghe lettere. So dove Amelia conservava il fascio delle lettere che ha ricevuto, e posso penetrare nella sua stanza e sgusciarne fuori come Jachimo. Come Jachimo? No, quel personaggio ha un ruolo antipatico. Mi accontenterò di assumere le vesti di Raggio di luna e spiare candidamente nel letto ove la fede, la bellezza e l'innocenza riposano sognando. Ma se le lettere di George Osborne erano caratterizzate dalla concisione che si addice a un soldato, siamo costretti a confessare che, se dovessimo pubblicare quelle indirizzate da Miss Sedley a Mr. Osborne, questo romanzo si svilupperebbe in un tal numero di volumi da riuscire insopportabile anche al più romantico dei lettori: giacché non solo ella riempiva enormi fogli di carta, ma vi scriveva anche per traverso, con risultati a dir poco conturbanti; ricopiava senza misericordia intere pagine di componimenti poetici; sottolineava parole e frasi con enfasi parossistica. Insomma, manifestava nei termini più eloquenti i sintomi consueti della sua condizione. Non era un'eroina. Le sue lettere erano piene di ripetizioni, la grammatica lasciava alquanto a desiderare, la metrica dei suoi versi si prendeva ogni sorta di libertà. Ma, mesdames, se non foste autorizzate talvolta a conquistare un cuore a dispetto della sintassi, e se meritassero di essere amati solo coloro che sanno cogliere la differenza tra un quinario e un settenario, sarebbe meglio mandare al diavolo tutta la poesia, e assieme a lei tutti i maestri di scuola. XIII • SENTIMENTALE E NON Temo che il giovanotto al quale Miss Amelia indirizzava le sue missive fosse un critico alquanto impertinente. Tali e tante erano le lettere che inseguivano il tenente Osborne nei suoi spostamenti, ch'egli prese quasi a vergognarsi dei commenti ironici di cui siffatte epistole erano oggetto nei salaci commenti dei suoi compagni di mensa, onde diede ordine al suo attendente di recapitargliele solo in separata sede. Fu perfino sorpreso nell'atto di accendersi un sigaro utilizzando all'uopo una di tali epistole amorose: cosa che suscitò la scandalizzata sorpresa del capitano Dobbin, il quale, lo giurerei, sarebbe stato pronto a pagare qualche sterlina pur di assicurarsi il possesso di un documento del genere. Per qualche tempo George fece il possibile per mantenere il segreto su quella liaison. Nondimeno ammetteva che nella sua vita ci fosse una donna. «E non è la prima,» aveva confidato il sottotenente Spooney al sottotenente Stubble. «Quell'Osborne è un diavolo incarnato A Demerara la figlia di un giudice è quasi impazzita per lui. Dopo, come sai, è stata la volta di quella splendida mulatta, quella Miss Pye di St. Vincent; e da quando ha fatto ritorno in patria, tutti concordano nel dire che sia diventato un vero e proprio Don Giovanni, per Giove!» Stubble e Spooney credevano fermamente che essere «un vero e proprio Don Giovanni, per Giove!» fosse la condizione più invidiabile nella quale potesse trovarsi un uomo. Di conseguenza Osborne godeva tra i suoi commilitoni della più alta reputazione. Si distingueva in tutti gli sport, negli esercizi militari, nel canto, ed era generoso col denaro che il padre gli concedeva con particolare munificenza. Le sue uniformi erano sempre di miglior taglio di quelle altrui, e ne aveva in maggior numero. I soldati lo idolatravano. Alla mensa beveva più di qualsiasi altro ufficiale, ivi incluso il vecchio colonnello Heavytop, e nel pugilato mostrava di sapersi battere meglio di Knuckles, un soldato che avrebbe raggiunto il grado di caporale se non fosse stato sempre ubriaco fradicio, ed era stato pugile professionista. Inoltre era il miglior battitore e il più abile giocatore di bocce di tutto il reggimento. Aveva un cavallo di sua proprietà, Greased Lightning, che aveva vinto la coppa della guarnigione alle corse di Quebec. Altri insomma, e non solo Amelia, lo adoravano. Stubble e Spooney lo consideravano una specie di Apollo; per Dobbin era addirittura un Mirabile Crichton, e in quanto alla moglie del maggiore O'Dowd, affermava che quel giovane così elegante le ricordava Fitzgerald Fogarty, figlio cadetto di Lord Castelfogarty. Stubble, Spooney e tutti gli altri formulavano le più romanzesche congetture sul conto di questa misteriosa dama che intratteneva una così fitta corrispondenza con Osborne: pensavano che fosse una duchessa di Londra invaghitasi di lui, una delle figlie del generale, fidanzata ad un altro ma pazzamente innamorata di George, o la moglie di un deputato al Parlamento che gli proponeva di rapirla e portarla via con se su un tiro a quattro, o qualche altra vittima di una passione deliziosamente eccitante e romantica, ma infelice per ambo le parti: tutte ipotesi sulle quali Osborne non gettava la minima luce, lasciando che i suoi giovani amici e ammiratori almanaccassero a piacere e architettassero le loro storie. In effetti, nessuno al reggimento avrebbe mai scoperto come stessero realmente le cose, se non fosse stato per un'indiscrezione del capitano Dobbin. Un giorno quest'ultimo stava facendo colazione alla mensa, mentre i due sopracitati personaggi indugiavano nelle consuete supposizioni sugli amori di Osborne insieme con Cackle, l'aiuto-medico. Stubble diceva che doveva trattarsi di una duchessa, dama di palazzo della regina Carlotta, e Cackle invece sosteneva che era una cantante d'opera di assai dubbia reputazione. Nell'udir ciò, Dobbin fu così irritato che, sebbene avesse la bocca piena di uovo, pane e burro, e sebbene si rendesse perfettamente conto che avrebbe dovuto tacere, non poté trattenersi e uscì a dire: «Sei un imbecille, Cackle; non sai parlar d'altro che di pettegolezzi e stupidaggini; Osborne non ha la minima intenzione di fuggire con una duchessa e neppure vuol rovinare una sartina. Miss Sedley è una delle ragazze più affascinanti che siano mai esistite. Sono fidanzati da molto tempo, e se qualcuno si permette di usare nei suoi riguardi espressioni irriguardose, lo diffido dal farlo in sua presenza.» Dopo di che Dobbin si fece rosso come un pomodoro, e poco mancò che non si strozzasse con un sorso di tè. Mezz'ora bastò perché la faccenda si propalasse per tutto il reggimento, e quella sera stessa la moglie del maggiore O'Dowd scrisse a sua cognata Glorvina, a Dowdstown, che non valeva la pena si affrettasse a partire da Dublino, giacché il giovane Osborne si era prematuramente fidanzato. Sempre quella sera, mentre gli offriva un whisky-toddy, gli espresse le sue felicitazioni, e George tornò a casa in preda a un accesso di collera incontenibile, per prendersela con Dobbin (il quale aveva declinato l'invito al ricevimento di Mrs. O'Dowd e sedeva in camera sua a suonare il flauto, e fors'anche a scrivere versi pervasi di melanconia), per prendersela con Dobbin - dicevo - che aveva svelato il suo segreto. «Chi ti ha autorizzato a occuparti dei fatti miei?» gridò Osborne, indignato. «Perché tutto il reggimento dov'essere informato del fatto che sto per sposarmi? E perché quella megera di Peggy O'Dowd si permette di parlare liberamente di me alla sua maledetta cena e di spargere ai quattro venti la notizia del mio fidanzamento? E in fin dei conti, che diritto hai, tu, di riferire che sono fidanzato e di ficcare il naso nelle mie faccende?» «Mi pare che...» prese a dire Dobbin. «Ti pare un accidente, Dobbin,» lo interruppe il giovane. «Ho un debito di riconoscenza nei tuoi confronti, e lo so anche troppo bene, maledizione, ma non sopporto che tu mi faccia prediche in continuazione solo perché ho cinque anni meno di te. M'impicchino, magari, ma non intendo sopportare oltre quelle tue arie di grand'uomo e quell'abominevole tono di compatimento e di protezione. Compatimento e protezione, proprio così! Vorrei tanto sapere, poi, in che cosa ti sono inferiore! «Sei fidanzato, sì o noi» chiese Dobbin. «E cosa diavolo importa a te o a chiunque altro, se lo sono oppure no?» «Te ne vergogni?» insistette Dobbin. «Mi piacerebbe proprio sapere quale diritto hai di rivolgermi una simile domanda,» rispose George. «Mio Dio, vuoi forse dire che hai intenzione di rompere il fidanzamento?» domandò Dobbin alzandosi in piedi. «In altri termini, stai dubitando che sia un uomo d'onore,» disse Osborne incollerito. «È questo che vuoi dire? Da tempo ormai, hai preso a rivolgermi la parola in un tono che mi è diventato intollerabile, dovessi dannarmi l'anima!» «Ma cosa ti ho fatto, dopo tutto? Ho detto semplicemente che trascuri una ragazza incantevole; George. Ti ho detto che quando sei a Londra dovresti andare da lei, e non nelle case da gioco di St. James's.» «Vorrai pure che ti renda il tuo danaro,» rispose Osborne con un risolino. «Certo che lo voglio, e l'ho sempre voluto,» disse Dobbin. «Del resto, parli da quel ragazzo generoso che sei.» «Maledizione, William, ti chiedo scusa,» proruppe George in un impeto di rimorso. «Dio sa quante volte tu mi abbia dato prova d'essermi amico. Mi hai tolto da un mucchio di guai. Se non fosse stato per te mi sarei trovato nei pasticci, quando Crawley delle Guardie mi ha vinto tatti quei quattrini, me ne ricordo benissimo. Tu però non devi trattarmi con tanta asprezza, aver sempre quell'aria d'insegnarmi come si stia al mondo. Voglio molto bene ad Amelia, l'adoro, tutto quello che vuoi. No, no, non t'inquietare. È senza difetti, lo so. Ma, vedi, che gusto si prova ad avere una cosa quando non si deve fare il minimo sforzo per ottenerla? Per Giove, il reggimento è appena tornato dalle Indie Occidentali, e io sento il bisogno di divertirmi un poco. Quando mi sarò sposato, cambierò vita, te lo prometto. Ascoltami, Dob, non inquietarti con me; il mese venturo ti darò un centinaio di sterline perché so che potrò ottenere da mio padre una bella sommetta. Chiederò il permesso a Heavytop e domani andrò a trovare Amelia. Soddisfatto?» «È impossibile essere a lungo in collera con te, George,» disse il buon capitano, «e in quanto ai soldi, vecchio mio, so perfettamente che se mi trovassi nel bisogno, tu divideresti con me il denaro fino all'ultimo scellino.» «Proprio così, per Diana,» confermò Osborne con generosità, sebbene non avesse mai un quattrino da dividere con chicchessia. «Solo, preferirei che tu avessi già finito di "divertirti". Avessi visto il viso della povera Miss Emmy, quando l'altro giorno mi ha chiesto di te. Avresti mandato al diavolo le palle da biliardo. Va' a rasserenarla, canaglia, va' a scriverle una lunga lettera. Cerca di farla contenta, in un modo o nell'altro. Basta così poco...» «Credo proprio che sia innamorata... eh, sì... innamoratissima di me,» commentò il tenente con aria compiaciuta. E se ne andò a concludere la serata tra gli allegri camerati del circolo ufficiali. Frattanto, in Russell Square, Amelia contemplava la luna che irradiava la sua luce sulla piazza tranquilla, né più né meno come brillava sul cortile della caserma di Chatham ov'era di stanza il tenente Osborne, e si domandava a quali doveri stesse adempiendo il suo eroe. Forse, pensava, in quel momento passava in rassegna le sentinelle, oppure bivaccava, o ancora si trovava chino sul capezzale di un camerata ferito. Oppure se ne stava tutto solo nella sua squallida cameretta, impegnato a studiare l'arte della guerra? Simili ad angeli alati che volassero sopra il fiume sino a Chatham e a Rochester, i suoi dolci pensieri cercarono di spinger lo sguardo nella caserma ov'era alloggiato George... Ed è una fortuna, conveniamone, che i cancelli fossero chiusi e la sentinella sbarrasse l'accesso a chicchessia: così i poveri angioletti in bianca veste non ebbero modo di udire le canzoni che quei giovanotti cantavano a gola spiegata tra un whisky-punch e l'altro. Il giorno successivo al breve colloquio nella caserma di Chatham, il giovane Osborne si apprestò a recarsi a Londra per dimostrare di essere un uomo di parola, ottenendo così l'approvazione del capitano Dobbin. «Mi piacerebbe portarle un piccolo regalo,» disse Osborne all'amico, «ma fino a quando mio padre non mi manda il denaro, sono al verde.» Al che Dobbin, il quale non poteva ammettere che quei buoni e generosi propositi andassero in fumo, porse qualche sterlina a Osborne, che le accettò dopo un fugace momento di esitazione. E son certo avrebbe comprato qualcosa di veramente bello per Amelia se, una volta sceso dalla diligenza di Fleet Street, il suo occhio non fosse stato attirato da un'elegante spilla da cravatta nella vetrina di un gioielliere, ed egli avesse saputo resistere alla tentazione. Invece l'acquistò, e di conseguenza il poco denaro avanzato non gli consentì di tradurre degnamente in atto il suo pensiero gentile. Ma la cosa, in verità, non aveva molta importanza. Ciò che Amelia desiderava non erano i regali, siatene pur certi. E in effetti, quando egli si presentò nella casa di Russell Square, il volto della fanciulla s'illuminò come se George fosse stato il sole che tornava a brillare squarciando le nubi. In un attimo quel familiare, irresistibile sorriso valse a dissipare le piccole preoccupazioni, i timori, le lacrime, i timidi dubbi, le fantasie coltivate senza posa per non so quanti giorni e quante notti. Irraggiò su di lei dalla soglia della porta che metteva nel salotto, magnifico, con le sue superbe basette, simile a un dio. Sambo, il cui volto si aprì in un ampio sorriso mentre annunciava il capitano Osborne (al quale di sua iniziativa aveva conferito questa fresca promozione), vide la giovane sussultare, arrossire e prontamente scostarsi dal suo posto d'osservazione accanto alla finestra. Samba si ritirò, e non appena la porta fu richiusa Amelia si precipitò fra le braccia del tenente George Osborne, che per lei erano l'unico naturale rifugio nel quale cercar riparo. Ah, povera, piccola anima ansiosa! Il più bell'albero della foresta, quello che presenta il tronco più eretto, i rami più robusti, il fogliame più folto, quello che tu hai prescelto per costruirvi il tuo nido, a tua insaputa può già esser stato segnato per il taglio, e tra breve può crosciare al suolo: Che vecchia, abusata similitudine è mai questa dell'albero e dell'uomo! Nel frattempo George la baciava delicatamente sulla fronte e sugli occhi scintillanti, e si mostrava buono e compiacente. Ed ella pensò che quella spilla da cravatta che non gli aveva mai visto indosso prima di allora fosse un gioiello meraviglioso. Il lettore avveduto che abbia osservato attentamente il comportamento tenuto fin qui dal nostro tenente e ricordi la breve conversazione col capitano Dobbin da noi riferita poc'anzi probabilmente si sarà fatta un'opinione sulla personalità di Mr. Osborne. Un francese piuttosto cinico ha asserito che in un contratto amoroso ci sono due soci: l'uno ama e l'altro si degna di lasciarsi amare. Talvolta l'amore riguarda l'uomo, talaltra riguarda la donna. A qualche giovanotto innamorato sarà accaduto di scambiare l'insensibilità per pudore, la stupidità per femminile riservatezza, la scioccaggine pura e semplice per timidezza; in altre parole di scambiare un'oca per un cigno. Forse qualche gentile lettrice ha dato libero corso alla propria fantasia rivestendo un asino di splendore e di gloria; ha ammirato l'idiozia reputandola virile schiettezza, ha adorato l'egoismo considerandolo virile superiorità, ha ritenuto che la stupidità fosse una sorta di maestosa gravità, e ha visto gli uomini con gli stessi occhi coi quali la brillante fata Titania vedeva un certo tessitore d'Atene. Mi è capitato di assistere a parecchie di queste commedie degli equivoci. Ad ogni modo un fatto è incontestabile: Amelia era convinta che il suo George fosse uno degli uomini più brillanti e ardimentosi di tutto l'Impero britannico, e del resto può darsi che ne fosse convinto anche il tenente Osborne. Era un po' turbolento, d'accordo. Quanti giovani lo sono! D'altronde le ragazze preferiscono i libertini agli smidollati. Non aveva corso ancora abbastanza la cavallina, ma presto si sarebbe quetato, ed ora che la pace era stata proclamata si sarebbe congedato dall'esercito. Quel mostruoso figlio di Corsica era sotto chiave all'isola d'Elba, di conseguenza non si parlava più di promozione e Osborne non aveva il destro di mostrare il suo incontestabile valore e il suo altrettanto indubbio talento militare. La sua rendita, unita alla dote di Amelia, avrebbe consentito di comperare un posticino in campagna, in una località adatta a praticarvi gli sport. Lui si sarebbe diviso tra le occupazioni legate all'agricoltura e lo svago della caccia, e sarebbero vissuti felici. Quanto all'ipotesi di restare in forza nell'esercito dopo il matrimonio, non era nemmeno il caso di pensarci. Potete figurarvi Mrs. Osborne in una cittadina di provincia, costretta ad abitare in un appartamento d'affitto? O, peggio che mai, in India, in mezzo a tutti quegli ufficiali, sotto l'egida protettrice della moglie del maggiore O'Dowd? George l'ama troppo teneramente per abbandonarla alla mercé di una donna così sguaiata e volgare, e per sottoporla alla rude vita che attende le mogli dei soldati. Per lui la cosa non aveva importanza, si capisce, ma la sua cara mogliettina aveva pur diritto al posto che, proprio nella sua qualità di moglie, le competeva in società; e naturalmente ella si mostrava perfettamente d'accordo con tutte quelle proposte, così come non avrebbe trovato a ridire su qualsiasi altra formulata dalla medesima persona. Così, conversando e costruendo infiniti castelli in aria (che Amelia adornava d'ogni specie di giardini gremiti di fiori, passeggiate fra i campi, chiesette di campagna, lezioni di catechismo e cose del genere, mentre i pensieri di George erano piuttosto rivolti alle scuderie, al canile e alla cantina), la giovane coppia trascorse un paio d'ore estremamente piacevoli. Poi, siccome il tenente aveva una sola giornata di licenza da trascorrere in città e doveva sbrigare innumerevoli faccende importanti, propose a Miss Emmy di andare a cena dalle future cognate; invito che fu accettato con gioia. Dopo di che Osborne la condusse dalle sorelle, e quivi la lasciò che conversava e ciangottava così allegramente, da lasciar stupefatte le degne donzelle le quali conclusero che dopo tutto George sarebbe riuscito a cavarne qualcosa. Quindi il tenente se ne andò per occuparsi dei suoi affari. In altre parole andò a mangiare un gelato in Charing Cross, provò una giacca nuova in Pall Mall, fece un salto all'Old Slaughters dove chiese del capitano Cannon. Con quest'ultimo giocò undici partite a biliardo e ne vinse otto; poi fece ritorno in Russell Square, con mezz'ora di ritardo per la cena, ma in compenso di ottimo umore. Pessimo era, invece, l'umore del vecchio Osborne. Quando rientrò dalla City ed entrò in salotto, salutato dall'elegante Miss Wirt e dalle figlie, queste si accorsero subito dall'espressione della sua faccia - che anche nei momenti più lieti era sempre gonfia, solenne e giallastra - dal piglio corrucciato e dal tremito che scuoteva le sopracciglia nere, come il cuore pulsante sotto il bianco panciotto fosse turbato e in preda alla più viva emozione. Quando anche Amelia si fece avanti, cosa che faceva sempre timidamente e tremando come una foglia, egli replicò con un grugnito e lasciò ricadere quella manina dalla sua zampa villosa senza nemmeno stringerla. Lanciò un'occhiata iraconda alla figlia maggiore, e questa, comprendendone al volo il significato (vale a dire: «Cosa diamine fa qui costei?» ), si affrettò a rispondere: «George è in città. È andato al comando, poi verrà a cena.» «Ah, sì? Benissimo, ma non ho intenzione di ritardare la cena per causa sua, Jane.» E con queste parole il degno signore si lasciò sprofondare nella sua poltrona, mentre il totale silenzio del solenne, fastoso salone veniva interrotto solo dal rapido ticchettio della grande pendola francese. Quando l'orologio, coronato da un gruppo bronzeo che raffigurava il Sacrificio di Ifigenia, batté cinque colpi col tono cavernoso di un orologio da cattedrale, Mr. Osborne diede un rabbioso strattone al cordone che pendeva alla sua destra, e il maggiordomo entrò di corsa. «Servite la cena, e subito!» ruggì il padrone di casa. «Mr. George non è ancora tornato, signore,» obiettò il maggiordomo. «Al diavolo Mr. George, per vostra norma e regola. Sono o non sono il padrone, qua dentro? Vi ho detto di servire!» ripeté incollerito. Amelia tremava. Le altre donne si scambiarono occhiate telegrafiche, e nei meandri inferiori della magione l'obbediente campanella cominciò a squillare. Poi, quando la campana ebbe finito di tintinnare, il capo-famiglia infilò le mani nelle grandi saccocce posteriori della sua lunga giacca blu dai bottoni di ottone, e senza indugio scese da solo, lanciando occhiate cariche di corruccio alle quattro donne che gli tenevano dietro. «Che cosa mai sarà accaduto?» si domandarono le signorine, alzandosi per seguire tremebonde il loro signore e padrone. «Che ci sia stato un crollo in Borsa?» insinuò Miss Wirt; e così, in timoroso silenzio, il muto stuolo delle donne seguì l'arcigna guida. In silenzio sedettero a tavola. Egli borbottò una preghiera che, dato il tono burbero, suonò piuttosto come un'imprecazione; poi furono sollevati i grandi coprivivande d'argento. Amelia tremava perché il suo posto era accanto a quello del terribile Mr. Osborne, e sola sull'altro lato, ove si trovava il posto vacante di George. «Minestra?» chiese il vecchio in tono sepolcrale, brandendo il mestolo e fissandola negli occhi. Poi, quand'ebbe servito lei e gli altri commensali, restò qualche minuto senza aprir bocca. «Portate via il piatto di Miss Sedley,» disse alla fine, «non è lecito farle mangiare una minestra simile. E neppure a me. È una porcheria. Portate via la minestra, Hicks, e domani, Jane, licenziate la cuoca.» Conclusi i suoi sfavorevoli commenti sulla minestra, Osborne passò a qualche breve e sardonica critica sul pesce, e maledì il mercato del pesce di Billingsgate usando espressioni affatto degne di quel luogo. Poi ripiombò nel silenzio più totale e scolò l'uno dopo l'altro alcuni bicchieri di vino con espressione sempre più contrariata. Finalmente un vivace colpo battuto alla porta annunciò l'arrivo di George, e tutti si sentirono sollevati. Non aveva potuto venire prima. Il generale Daguilet l'aveva trattenuto nella caserma delle Horse Guards. Non voleva né pesce né minestra. Una cosa qualsiasi gli andava bene. Ma certo, anche il montone. Gli andava tutto benissimo. Il suo buonumore creava un netto contrasto con il tetro cipiglio del padre, ed egli per tutta la durata del pasto continuò a conversare allegramente, fra la gioia di tutte, e in particolare di una, che non è necessario nominare. Non appena le signorine ebbero mangiato l'arancia e sorbito il bicchiere di vino che secondo la consuetudine chiudevano le melanconiche cene di casa Osborne, venne dato il segnale di tornare in salotto. Tutti si alzarono e si mossero. Amelia sperava che George non avrebbe tardato a raggiungerla, e allo scopo prese a suonare i walzer da lui preferiti (novità, a quel tempo, appena importata dall'estero) sul pianoforte a coda dalle solide gambe scolpite, rivestito di cuoio. Ma quel piccolo espediente non lo indusse a venire. George rimase sordo al fascino dei walzer, che echeggiarono sempre più flebilmente. Delusa, l'esecutrice abbandonò la tastiera del greve strumento, e sebbene le sue amiche si esibissero nei brani più spigliati e brillanti del loro repertoire, lei non ne udì una sola nota, ma rimase seduta meditabonda, pervasa da funesti pensieri. Mai prima di allora l'aspetto iracondo di Mr. Osborne le era parso tanto minaccioso. Mentre usciva dal salotto, lui l'aveva seguita con uno sguardo carico di disapprovazione, quasi Amelia fosse stata colpevole di qualcosa. Quando le servirono il caffè, ebbe un sussulto, come se Hicks, il maggiordomo, le avesse porto una pozione avvelenata. Quali misteri le tendevano un agguato? Ah, queste donne! Allevano e cullano i loro presentimenti, e si affezionano ai più tetri pensieri come accarezzerebbero un figlio deforme! Il volto cupo del padre aveva alimentato ansiose congetture anche nella mente di George. Tale essendo la situazione, come poteva sperare di estorcere al vecchio quella somma di cui aveva urgente bisogno? Prese a lodare la qualità del vino, ben sapendo che, in genere, questo era un sistema efficace per ammansire il vecchio. «Nelle Indie Occidentali non c'è stato modo di avere un madera come il vostro, signore; l'altro giorno il colonnello Heavytop si è bevuto tre bottiglie di quello che mi avevate mandato.» «Davvero?» disse il vecchio signore. «Mi costa otto scellini la bottiglia.» «Lo rivendereste a sei ghinee la dozzina?» chiese George ridendo. «Uno dei più grandi uomini del regno ne gradirebbe un poco.» «Ah, sì?» borbottò il padre. «Mi auguro che riesca a rimediarlo in qualche modo.» «Quando il generale Daguilet è venuto a Chatham, Heavytop ha dato un pranzo in suo onore e mi ha pregato di procurargli un po' del mio vino. È piaciuto anche al generale che ne ha voluta una botte per il comandante in capo. È il braccio destro di Sua Altezza Reale.» «È un vino strepitoso, perdio se lo è,» disse il Cipiglio con un'espressione un tantino meno corrucciata. George stava per trarre profitto da questa lieve schiarita e porre sul tavolo la questione dei foraggiamenti; ma ecco che il padre, ritrovando il suo tono severo, ancorché soffuso da una vibrazione leggermente più cordiale, lo pregò di suonare il campanello per far servire il bordeaux. «Verifichiamo se è buono come il madera che sarò ben lieto di offrire a Sua Altezza Reale. E mentre beviamo voglio parlarti di una questione importante.» Amelia, che sedeva nervosa al piano di sopra' udì squillare il campanello col quale veniva richiesto il bordeaux, e quel suono, non so per quale motivo, le parve inquietante, denso di misteriosi significati. Ci sono persone che hanno sempre dei presentimenti, e di questi fatalmente, prima o poi, qualcuno finisce con l'avverarsi. «Vorrei sapere, George...» cominciò il vecchio dopo aver sorseggiato lentamente il primo bicchiere, «vorrei sapere in quali termini sono i tuoi rapporti con quella... con quella piccolina di sopra.» «Mi pare, signore,» rispose George con un sorriso compiaciuto, «che non sia difficile capirlo. Mi sembra abbastanza evidente. Ah, che vino straordinario!» «Come sarebbe a dire "abbastanza evidente"?» «Signore... non chiedetemi troppo, vi prego... Io... io sono un uomo modesto. Io... io... non mi atteggio a rubacuori, tuttavia è certo che lei è molto innamorata di me. Lo vedrebbe chiunque anche ad occhi chiusi.» «E tu?» «Ma, signore, non mi avete forse ordinato di sposarla? Ed io non sono forse un bravo ragazzo? Voi e suo padre avete deciso il matrimonio tanto tempo fa, se non vado errato...» «Già, già, un bravo ragazzo! Come se non mi fosse giunta notizia delle tue imprese insieme con lord Deuceace e tutta la sua combriccola. Attento a quel che fai, caro mio.» Il vecchio pronunciava quei nomi nobiliari con ostentata soddisfazione. Ogni qual volta gli accadeva d'imbattersi in un esponente dell'aristocrazia si prodigava in inchini e salamelecchi, e lo riveriva come solo un libero cittadino britannico sa fare. Poi, tornato a casa, sfogliava il Peerage per informarsi sul suo casato. Chiacchierando, cercava d'inserire nella conversazione il nome del personaggio in questione, per lasciar credere alle figlie di conoscerlo. Si prosternava, crogiolandosi davanti a lui come un mendicante napoletano si crogiola al sole. Nell'udire quei nomi, George si spaventò: temette che il padre avesse saputo di certe piccole beghe di giuoco. Ma subito dopo quel vecchio moralista lo tranquillò dicendogli: «Mah... d'altro canto... si sa che i giovani sono giovani. Ciò che mi conforta, George, è che frequentando la miglior società, come spero e credo tu faccia, e come le mie sostanze continueranno a permetterti di fare...» «Grazie, signore,» disse George cogliendo quell'occasione al volo. «Vedete, non si può vivere senza soldi a contatto di quella gente, e la mia borsa... guardatela!...» E nel dir questo il giovane alzò un borsellino che Amelia aveva confezionato per lui e conteneva i miseri resti delle sterline di Dobbin. «Non ti mancherà niente, mio caro. Al figlio di un commerciante inglese non deve mancare niente. Le mie ghinee non sono diverse dalle loro, mio caro ragazzo, ed io non te le lesino. Domattina passa dalla City; va' da Chopper e troverai una sommetta per te. Io non ti nego il denaro se ho la certezza che frequenti la buona società; perché so per esperienza che dalla buona società si ha tutto il bene possibile. Io non mi do arie, sono di origine molto modesta. Tu invece usufruisci di vantaggi dei quali io non ho potuto godere. Ebbene, sfruttali nel modo migliore. Scegli pure i tuoi amici fra i giovanotti dell'aristocrazia. Caro mio, sapessi quanti non possono sprecare un solo scellino per ogni ghinea che tu puoi spendere! In quanto poi alle donnine (e nel dir questo, sotto le folte sopracciglia gli occhi balenarono maliziosi, ma non per questo l'espressione risultò accattivante) sappiamo come vanno le cose... I ragazzi sono ragazzi. C'è una sola cosa che ti vieto assolutamente: il gioco. Se non mi obbedirai, non ti darò più uno scellino, per Giove!» «Non dubitate, signore.» «Ma ora torniamo alla faccenda di Amelia. Non consideri l'eventualità di fare un matrimonio migliore di quello con la figlia di un agente di cambio? E questo che vorrei sapere, George.» «È una questione di famiglia,» rispose il giovane schiacciando una nocciolina. È un secolo che voi e Mr. Sedley avete combinato queste nozze.» «Non lo nego. Ma la posizione sociale della gente può anche mutare, caro mio. Riconosco che Sedley sia alle origini della agiatezza economica: è stato lui a mettermi in condizione di far valere le mie risorse e i miei meriti, consentendomi di raggiungere la posizione elevata che oggi posso vantarmi di avere nella City e nel commercio del sego. Del resto, ho avuto occasione di esternare la mia gratitudine a Sedley, e il mio libretto di assegni dimostra che anche di recente egli ne ha avuta la prova. A questo proposito, ti farò una confidenza George: ultimamente gli affari di Sedley hanno assunto una piega che non mi convince. E non convince nemmeno Chopper, il mio capo-contabile, che è una vecchia volpe e sa più di chiunque altro quello che accade in Borsa. Anche alla Banca Hulker & Bullock non sanno cosa pensare. Temo che sia andato a cacciarsi in qualche brutto affare. Pare che la Jeune Amélie, quella nave caduta in mano della nave corsara americana Molasses, fosse sua. Ad ogni modo, inutile dire che se non vedo le diecimila sterline di dote, tu Amelia non la sposi. Non voglio la figlia di un pezzente, in famiglia. Passami il vino... anzi, no: suona per il caffè.» Dopo di che Mr. Osborne aprì il giornale della sera, e George ne dedusse che il colloquio era concluso e suo padre si accingeva a schiacciare un pisolino. D'ottimo umore corse al piano di sopra da Amelia. Cosa mai lo indusse a riservarle speciali attenzioni, quella sera, a mostrarsi più affettuoso e servizievole di quanto lo fosse stato da tempo a quella parte? Perché si mostrò più ansioso di intrattenerla piacevolmente, di essere tenero e vivace nella conversazione? Forse il suo cuore generoso s'inteneriva al pensiero che ella dovesse patite una sventura, o forse l'idea di perdere la fanciulla gliela faceva maggiormente desiderare? Per giorni e giorni Amelia visse del ricordo di quella serata così lieta. Nella sua mente rimasero incancellabili ogni parola di George, il suo aspetto, la canzone che aveva cantato, il suo modo di atteggiarsi mentre si curvava su di lei o la contemplava di lontano. Mai, secondo lei, una serata in casa Osborne era trascorsa tanto veloce, e per poco non se la prese con Mr. Sambo, che a suo parere le aveva recato troppo presto lo scialle. Il mattino seguente George passò da casa sua per prendere amoroso congedo da lei; poi si affrettò a recarsi nella City, in cerca di Chopper, il capo-contabile del padre, il quale gli consegnò un assegno che il giovane senza indugio andò a cambiare alla Banca Hulker & Bullock, trasformandolo in un bel gruzzolo di quattrini. Proprio mentre George entrava, il vecchio Sedley usciva dall'ufficio del direttore, il volto atteggiato a un'espressione costernata. Ma il suo figlioccio era troppo esultante per accorgersi della disperazione in cui versava il povero agente di cambio, e dell'occhiata melanconica che gli rivolse il buon vecchio. Da parte sua, il giovane Bullock evitò di accompagnarlo sorridendo fino alla porta, com'era sempre stata sua consuetudine. E quando la porta della banca si fu richiusa alle spalle di Mr. Sedley, Mr. Quill, il cassiere (la cui gradevole mansione consisteva nell'estrarre da un cassetto e porgere le fruscianti banconote e nel dispensare sovrane con l'apposita spatola), strizzò l'occhio a Driver, l'impiegato che sedeva alla sua destra. E Driver gli rispose allo stesso modo. «Andiamo male,» bisbigliò Driver. «Da cani», rispose Mr. Q. «Come li volete, Mr. Osborne?» aggiunse poi, rivolgendosi a George. Quest'ultimo con rapido gesto intascò le banconote e quella sera stessa restituì cinquanta sterline a Dobbin. Sempre quella sera, Amelia gli scrisse una lunga lettera, e non si potrebbe immaginarne di più tenere. Il cuore le traboccava di tenerezza, ma al tempo stesso era presaga di qualche calamità. Qual era mai la causa dell'aspetto così arcigno del vecchio Osborne? Forse era sorto qualche screzio fra lui e suo padre? Il suo babbo, poverino, era rientrato dalla City in uno stato di tale prostrazione che tutti in casa se n'erano allarmati: insomma, quelle quattro facciate erano ricolme d'amore e di timore, di speranza e di funesti presagi. «Povera, piccola Emmy!... Cara, piccola Emmy!... Come mi ama!» pensava George scorrendo quell'interminabile epistola. «E... perdio, che mal di testa mi ha fatto venire quel punch. Che razza d'intruglio era mai?» Povera, piccola Emmy! Proprio così. XIV • MISS CRAWLEY TORNA A CASA Proprio in quel momento, o press'a poco, una carrozza da viaggio con le portiere adorne di stemmi a forma di losanga si fermava davanti a un tranquilla e raffinata dimora di Park Lane. All'interno sedeva una donna dall'espressione contrariata, i riccioli scomposti ricoperti da un velo verde. A cassetta sedeva un uomo grande e grosso, dall'espressione bonaria. Era l'equipaggio di Miss Crawley, la nostra amica, che ritornava a Londra dallo Hampshire. I finestrini della carrozza, dai quali per solito penzolavano la testa e la lingua del grasso cockerspaniel, che in quel momento era invece accoccolato in grembo della vecchia dama, erano chiusi. Quando il veicolo si arrestò, alcuni domestici e una giovane donna che si trovava del pari nella carrozza, si diedero da fare per trarne un voluminoso fagotto di scialli a mantelle. Tale involto di forma tondeggiante conteneva, appunto, Miss Crawley, che tosto fu portata al piano di sopra e messa a letto nella sua camera, riscaldata come se avesse dovuto accogliere un malato. Messi furono inviati a chiamare il medico e lo speziale che vennero senza indugio, si consultarono, prescrissero una cura e scomparvero. Al termine del consulto, la giovane compagna di viaggio di Miss Crawley si fece avanti per avere le istruzioni dei due illustri messeri, e somministrò le medicine antiflogistiche che i suddetti avevano prescritto. Il giorno dopo, il capitano delle Guardie Rawdon Crawley giunse a cavallo dalla caserma di Knightsbridge, e mentre il suo bel destriero nero calpestava la paglia davanti alla porta della zia inferma, egli s'informava solerte circa lo stato di salute della sua amabile congiunta. In effetti, c'erano seri motivi per allarmarsi. Il capitano constatò che la cameriera personale di Miss Crawley, la donna che sedeva in carrozza con lei, era più irritata del consueto, mentre Miss Briggs, la dame de compagnie, sedeva sola e in lacrime in salotto. Non appena aveva saputo della malattia che affliggeva la sua diletta amica, si era affrettata a raggiungerne la casa, ma le avevano tassativamente vietato di avvicinarla. Avrebbe voluto volare al suo capezzale: là ove lei, la Briggs, tante volte aveva vegliato la cara inferma. Ed ecco che, al suo posto, le somministrava i medicamenti un'estranea, un'odiosa campagnola della quale ignorava perfino il nome. Lacrime copiose soffocarono le parole della dame de compagnie, che insieme all'affetto conculcato seppellì nel fazzoletto il suo vecchio naso paonazzo. Rawdon Crawley incaricò la imbronciata femme de chambre di recarsi ad annunciare la sua visita, dopo di che la nuova assistente di Miss Crawley ridiscese in gran fretta dalla camera da letto della malata, posò la sua piccola mano in quella di lui che le era corso incontro con passo ansioso, lanciò uno sguardo carico di disprezzo alla sventurata Miss Briggs e, facendo cenno al giovane ufficiale di uscire dal salotto, gli fece strada al pianterreno della sala da pranzo, ora deserta, ove in passato erano state servite tante cene prelibate. Lì i due conversarono per una decina di minuti, e senza dubbio parlarono dei mali che affliggevano la povera degente del piano di sopra. Poi il campanello della sala da pranzo fu scosso da un breve tintinnio e tosto comparve Mr. Bowls, l'imponente maggiordomo, l'uomo che fruiva dell'incondizionata fiducia di Miss Crawley (e fino a quel momento aveva spiato il colloquio dal buco della serratura). Il capitano uscì arricciandosi i baffi, poi balzò in sella al suo splendido corsiero, fra l'ammirazione dei monelli radunatisi davanti alla casa, sollevò lo sguardo trattenendo per le briglie il cavallo che piroettava e caracollava altero, e per un fuggevole istante scorse il volto della giovane alla finestra. La figura femminile si dileguò, e non è dubbio ch'ella tornasse di sopra per adempiere ai suoi commoventi doveri di assistenza. Chi mai poteva essere costei? Quella sera in sala da pranzo fu apprestato uno spuntino per due, mentre Mrs. Firkin, la cameriera di Miss Crawley, entrava negli appartamenti della padrona e prestava i suoi servigi durante la breve assenza della nuova infermiera, che consumò un pasto frugale in compagnia di Miss Briggs. La Briggs era a tal punto dominata dal suo stato di emozione, che non le riusciva di trangugiare un solo boccone di carne. La giovane donna scalcò il fagiano con assoluta maestria, e chiese la salsa all'uovo in tono così reciso che la povera Briggs, davanti alla quale posava la salsiera contenente quel delizioso condimento, lasciò cadere il mestolino e tornò a precipitare nel più cupo e isterico stato di disperazione. «Penso che Miss Briggs gradirebbe un bicchiere di vino,» disse la giovane, rivolta al bonario Mr. Bowls. Questi ubbidì, e la Briggs, afferrato il bicchiere con gesto meccanico, ne ingoiò ansando il contenuto. Poi, con un piccolo gemito, prese ad armeggiare con la coscia di fagiano che aveva nel piatto. «Credo che possiamo servirci da sole,» disse la giovane con voce carezzevole, «senza dover ricorrere ai gentili servigi di Mr. Bowls. Grazie, Mr. Bowls, se avremo bisogno di voi, suoneremo il campanello.» Mr. Bowls scese al piano di sotto dove (sia detto incidentalmente) coprì di spaventevoli contumelie l'innocente cameriere, suo subalterno. «Non dovete adontarvi così, Miss Briggs,» disse la giovane donna in tono freddo e leggermente sarcastico. «La mia cara amica è tanto ammalata, e non v... non v... non vuole vedermi!» gorgogliò la Briggs in preda a un nuovo impeto d angoscia. «La sua malattia non è poi così grave. Consolatevi, cara miss Briggs: ha mangiato troppo, ecco tutto. Sta già meglio e presto sarà completamente ristabilita. È un po' indebolita dai salassi e dai medicinali, ma non tarderà a riprendersi. Tranquillizzatevi, ve ne prego, e bevete un altro bicchier di vino.» «Ma perché non vuol più vedermi? Perché?» si lamentò la Briggs con flebile voce. «Oh, Matilda! Matilda! Dopo ventitré anni di affettuosa amicizia! È questa la ricompensa per la tua povera Arabella?» «Non piangete così, povera Arabella,» disse l'altra con un impercettibile risolino. «Non vuoi vedervi solo perché dice che non sapete curarla bene quanto me. Non mi diverto a starmene alzata tutta la notte, siatene certa. Preferirei ci foste voi al mio posto.» «Sono stata al suo capezzale per anni e anni,» disse Arabella, «ed ora...» «Ed ora preferisce un'altra. Cosa volete, i malati hanno di queste fisime, e non bisogna contrariarli. Quando starà bene me ne andrò.» «Mai, mai,» replicò Arabella fiutando avidamente la boccetta dei sali. «Come, come? Lei non starà mai bene ed io non me ne andrò via?» chiese la giovane donna con la medesima irritante gentilezza di poc'anzi. «Al contrario: tra una quindicina di giorni starà benissimo ed io me ne farò ritorno a Queen's Crawley dalle mie allieve e dalla loro mamma, che è molto più ammalata della nostra amica. Non siate gelosa di me, Miss Briggs, non è assolutamente il caso. Io sono una povera ragazza senza appoggi, non posso far male ad anima viva. Non ho la minima intenzione di sostituirvi nella benevolenza di Miss Crawley, la quale una settimana dopo la mia partenza si sarà già dimenticata di me. Il suo affetto per voi è maturato nel corso di molti anni. Datemi un po' di vino, Miss Briggs, ve ne prego, e siamo amiche. Io ho tanto bisogno di amici.» La Briggs, tenera di cuore com'era e facile a sedare gli impeti del proprio malumore, rispose a questo appello e porse la mano. Nondimeno continuò a sentire anche più crudamente quell'abbandono, e sparse lacrime amare sulla volubilità della sua diletta Matilda. Trascorsa una mezz'ora e terminato il pasto, Miss Rebecca Sharp (tale infatti, per quanto strano possa sembrare, è il nome della persona che sino a questo momento ci siamo divertiti a designare come «la giovane») tornò nella stanza dell'inferma, dalla quale allontanò Mrs. Firkin con la più accattivante gentilezza. «Grazie, Mrs. R. Firkin,» le disse, «va bene così. Siete stata un tesoro. Se sarà necessario suonerò il campanello.» Così la Firkin se ne andò in preda a un accesso di gelosia, tanto più perniciosa in quanto non aveva agio di sfogarla. Fu forse la violenza di tale segreta tempesta interiore a spalancare la porta del salotto mentre lei percorreva il pianerottolo del primo piano? No: questa venne aperta con la mano furtiva da Miss Briggs. Era rimasta di vedetta, l'aveva sentito benissimo lo scricchiolio delle scale sotto il passo della Firkin che scendeva facendo tintinnare il cucchiaio nella scodella della crema da orzo che la povera servente ripudiata reggeva tra le mani. «Ebbene, come andiamo, Mrs. Firkin?» domandò, mentre l'altra varcava la soglia della stanza. «Come andiamo, Jane?» «Di male in peggio, Miss Briggs,» rispose la Firkin scuotendo il capo. «Non si sente meglio?» «Ha parlato una volta sola. Le ho chiesto se si sentiva un po' meglio e per tutta risposta mi ha detto di chiudere la mia stupida bocca. Ah, Miss Briggs, non avrei mai pensato di dover arrivare a un momento simile!» E di nuovo le cateratte si aprirono. «Che tipo è questa Miss Sharp, Mrs. Firkin? Mentre trascorrevo le festività natalizie nell'elegante dimora dei miei cari e fedeli amici, il reverendo Lionel Delamere e la sua amabile consorte, mai avrei sospettato che un'estranea mi avrebbe soppiantato nel cuore della mia cara, sempre carissima Matilda.» La Briggs, come rivelava il suo modo di esprimersi, aveva un temperamento sentimentale, incline agli exploits letterari, e infatti aveva pubblicato, a spese di un gruppo di suoi estimatori, una breve raccolta di versi: I trilli dell'usignolo. «Sono tutti pazzi di questa ragazza, Miss Briggs,» rispose la Firkin. «Sir Pitt non voleva lasciarla partire, ma d'altra parte non si sentiva di dir di no a Miss Crawley. Anche Mrs. Bute Crawley, quella del presbiterio, ha una gran simpatia per Miss Sharp: è contenta solo quando la vede. Anche il capitano la trova straordinaria, e Mr. Crawley è gelosa da morire. E poi Miss Crawley dal giorno che si è ammalata non ha voluto vicino nessun altro. Solo Miss Sharp, e francamente non riesco a spiegarmene il motivo. Direi che li ha stregati tutti.» Rebecca passò l'intera notte vegliando Miss Crawley, e la notte successiva la vecchia signorina dormì così tranquilla che Rebecca ebbe modo di riposare a sua volta alcune ore senza essere disturbata, coricata su una dormeuse ai piedi del letto della sua protettrice. Ben presto Miss Crawley si sentì molto meglio, tanto da sedere sul letto e ridere di cuore della perfetta imitazione che Rebecca le fece, delle estrinsecazioni di dolore di Miss Briggs. I singhiozzi della Briggs e quel suo modo tutto particolare di soffiarsi il naso furono riprodotti con tanto felice aderenza alla realtà, che Miss Crawley divenne quasi euforica; e i suoi medici curanti non mancarono di compiacersene, dal momento che in genere, quando la degna signora era affetta del minimo disturbo, la trovavano in preda alla più cupa depressione e al terrore di andare all'altro mondo. Il capitano Rawdon Crawley veniva tutti i giorni, e Miss Sharp gli dava fresche notizie sulla salute della zia. Questa migliorò a un ritmo così rapido che finalmente la povera Briggs ebbe il permesso di vedere la sua protettrice; e le persone facili a intenerirsi non stenteranno a figurarsi la repressa emozione di quella donna così sentimentale, e come quell'incontro riuscisse oltremodo commovente. Miss Crawley sollecitò al più presto la presenza della Briggs, e Rebecca le rifaceva il verso in sua presenza con tanta serietà e precisione, che quella mimica caricaturale procurava alla sua degna protettrice un doppio divertimento. Le ragioni che avevano causato l'incresciosa malattia di Miss Matilda e reso impellente la sua partenza dalla residenza di campagna del fratello erano d'indole così poco romantica da non potersi quasi riferire in un romanzo nobile e sentimentale come questo. Infatti è forse lecito accennare, anche solo vagamente al fatto che una soave creatura del gentil sesso, e per giunta esponente dell'alta società, abbia mangiato e bevuto a dismisura, e che una cena luculliana a base di aragosta consumata al presbiterio fosse la vera causa della suddetta indisposizione, che peraltro Miss Crawley s'intestardiva ad attribuire all'umidità? L'attacco era stato così violento che Matilda, stando alle parole del reverendo, era stata sul punto di «tirar le cuoia». Tutta la famiglia era spasmodicamente ansiosa di conoscere il testamento, e Rawdon Crawley smaniava di poter disporre di almeno quarantamila sterline prima dell'inizio della stagione a Londra. Da parte sua Mr. Crawley inviò una scelta oculata di testi edificanti, atti a disporre nel modo migliore il trapasso dalla Fiera della Vanità e da Park Lane al mondo di là. Ma un bravo medico di Southampton convocato a tempo debito, ebbe ragione dell'aragosta che aveva rischiato di avere conseguenze letali, e seppe restituire a Miss Crawley la forza sufficiente per far ritorno in città, mentre il baronetto non seppe celare il proprio disappunto per la piega che avevano assunto le cose, per nulla favorevole ai suoi piani. Mentre tutti si preoccupavano di Miss Crawley, ed ogni ora dal presbiterio venivano inviati dagli appositi messaggeri recando notizie dell'inferma, in un'altra ala della casa giaceva gravemente malata anche Lady Crawley, sebbene nessuno mostrasse di occuparsi di lei. Dopo una sola visita, sulla quale Sir Pitt non aveva trovato a ridire perché sapeva di non dover pagare la parcella, il buon dottore aveva scosso il capo. Lasciarono che si spegnesse lentamente nella sua camera solitaria, e tutti la ignorarono come si fosse trattato di una qualsiasi erba del parco. Anche le ragazze risentirono sensibilmente di quella situazione: persero infatti molti dei preziosi vantaggi che ricavavano dagli assidui insegnamenti di un'istitutrice come Miss Sharp. Ma quest'ultima era un'infermiera così premurosa, che Miss Crawley rifiutava le medicine se le venivano offerte da un'altra mano. Del resto, Mrs. Firkin era stata messa in disparte molto tempo prima che la sua padrona partisse per la campagna, e tornando a Londra la fida cameriera ebbe quantomeno la magra consolazione di constatare che Miss Briggs soffriva al pari di lei le stesse pene di gelosia, e subiva un trattamento in tutto e per tutto analogo. A causa della malattia di sua zia, il capitano Crawley aveva ottenuto una proroga della licenza e non si allontanava mai dall'anticamera di Miss Crawley, in ossequio ai suoi stretti doveri. (La vecchia signorina trascorreva i giorni della sua infermità nella grande camera padronale alla quale si accedeva attraverso il salottino azzurro.) E quivi Rawdon incontrava immancabilmente suo padre. Sebbene passasse per il corridoio e cercasse di non farsi notare, la porta della stanza del padre si apriva regolarmente, e dalla soglia lui lo scrutava con due occhi da iena. Perché mai si spiavano a vicenda? Si trattava, inutile precisarlo, di una magnanima forma di generosità: entrambi rivaleggiavano prodigandosi in ogni sorta di cure alla cara degente, che soffriva adagiata nel letto della camera degli ospiti. Da questa stanza Rebecca usciva per confortarli, o per meglio dire confortava ora l'uno ora l'altro. Entrambi questi illustri signori apparivano estremamente ansiosi di ricevere notizie della malata dalla viva voce di quell'intima, privilegiata messaggera. A cena - quando Rebecca scendeva una mezz'oretta - era lei a preservare la pace fra padre e figlio. Poi spariva e per tutta la serata non si faceva più vedere; Rawdon andava a cavallo al deposito del 150° Reggimento di Mudbury e abbandonava suo padre in balia di Mr. Horrocks e del suo rhum and water. Durante la degenza di Miss Crawley, Rebecca trascorse nella stanza della malata i quindici giorni più deprimenti che una creatura umana abbia mai conosciuto in tutta la sua vita; ma si sarebbe detto che quella tenera fanciulla fosse dotata di nervi d'acciaio, e non sembrava minimamente provata dalla fatica e dal tedio del suo compito di infermiera. Solo molto tempo dopo ebbe a confessare quanto penoso le fosse stato quel dovere, quanto fosse indisponente quella garrula vecchietta, sempre adirata, insonne e terrorizzata dalla Prospettiva della morte. Solo più tardi ammise che Miss Crawley per notti e notti aveva smaniato in preda a una specie di sconvolgente delirio causato dal pensiero della vita futura: quella vita futura della quale, quand'era in buona salute, non si curava affatto. Sforzati di immaginare, gentile e vezzosa lettrice, una vecchia dama egoista, arcigna, ingrata, affatto priva del timor di Dio, mentre senza parrucca si contorce in preda al dolore e al panico. Cerca di figurartela, e prima di diventar vecchia fa tesoro di questo spettacolo: impara che cosa siano l'affetto e la preghiera. Rebecca vegliò a quel capezzale nient'affatto gradevole con pazienza a tutta prova. Non le sfuggiva nulla, e al pari di un attento dispensiere sapeva sfruttare a proprio vantaggio ogni minima circostanza. Più tardi raccontò molti piccoli episodi intorno alla malattia di Miss Crawley, storielle che suscitavano il rossore della vecchia signorina, facendolo affiorare anche sotto il belletto. Durante tutto il decorso della malattia non ebbe mai un moto di contrarietà. Sempre attenta a tutto, anche perché aveva il sonno leggero, sapeva peraltro approfittare di ogni momento utile per accordarsi il riposo. Grazie a questa meditata amministrazione del suo tempo, il suo volto rivelava appena la stanchezza. Forse era più pallida del solito e segnata dall'ombra di lievi occhiaie; nondimeno, quando lasciava la camera dell'inferma, appariva sempre fresca e sorridente: in cuffietta e vestaglia, appariva egualmente inappuntabile, come se avesse indossato il più elegante degli abiti da sera. Così pensava il capitano, che smaniava d'amore per lei e le usava disordinate, goffe attenzioni. L'acuto strale dell'amore era riuscito a perforare la sua pelle coriacea. Sei settimane di tempo, la vicinanza, il fiorire delle occasioni avevano avuto incondizionata ragione di lui. Fra tante persone, ebbe l'idea non del tutto meditata di confidarsi con la zia del presbiterio la quale, essendosi accorta di quell'accesso di follia, lo rimproverò, lo mise in guardia, ma alla fine dovette convenire che la piccola Miss Sharp era la ragazza più buona, più intelligente, più divertente, più spiritosa, più semplice di tutta l'Inghilterra. Rawdon, a sentir lei, non doveva scherzare con quel piccolo cuore indifeso; senza contare che, qualora Miss Crawley avesse appreso una cosa simile, non gliel'avrebbe certo perdonata, sebbene lei stessa fosse affascinata dalla giovane istitutrice e amasse Miss Sharp al pari di una figlia. Era bene che Rawdon se ne andasse, tornasse al reggimento, in quella Londra culla di ogni depravazione, e non scherzasse coi sentimenti di un'ingenua fanciulla senza appoggio alcuno. Più volte la buona signora, commossa dell'infelicità dell'ufficiale, gli offerse il destro di incontrarsi con Miss Sharp al presbiterio e di tornare a casa con lei, come già abbiamo avuto modo di vedere. Care signore, quando uomini di un certo stampo conoscono finalmente l'amore, non si lasciano intimorire dalla vista dell'amo, della lenza e di tutto l'armamentario che prima o poi servirà ad accalappiarli: non possono fare a meno di accostarsi a quegli aggeggi pericolosi, di inghiottire l'esca; in tal modo vengono tosto agganciati e trascinati a riva, boccheggianti. Rawdon non ebbe difficoltà ad accorgersi che Mrs. Bute Crawley intendeva alimentare il suo amore per Rebecca. Per quanto fosse d'intelligenza mediocre, era uomo di mondo e ne aveva viste tante. Tuttavia, dopo un certo discorsetto che gli tenne la signora in questione, una luce balenò nel suo cervello torpido, o per lo meno lui lo credette. «Credete a me, Rawdon,» gli disse costei, «un giorno o l'altro Miss Sharp diventerà vostra parente.» «In qual modo, parente? Cugina, eh, signora? So benissimo che James la corteggia,» rispose furbescamente l'ufficiale. «No, no, una parente molto più stretta,» insistette lei con un lampo di malizia negli occhi neri. «Spero non si tratti di Pitt. Non deve appartenere a quel serpente. E poi è fidanzato con Lady Jane Sheepshanks.» «Voialtri uomini siete proprio ciechi e ottusi... Possibile che non vi rendiate conto... Se Lady Crawley dovesse andare al Creatore, sicuramente Miss Sharp diventerà vostra matrigna.» A questo punto un poderoso fischio uscì dalle labbra del nobile Rawdon Crawley, a esternare il suo sentimento di stupore. Indubbiamente non gli era sfuggita la palese simpatia che suo padre nutriva per Miss Sharp. Conosceva il vecchio pollo. Quel libertino... «È un uomo senza scrupoli...» prese a dire; ma rinunciò a continuare nei suoi commenti e, arricciandosi i baffi, si avviò verso casa, nella certezza di aver scoperto i segreti retroscena del curioso comportamento di Mrs. Bute Crawley. «Per Giove,» pensava, «questo è inammissibile. No, è veramente inaccettabile... Questa donna vuoi rovinare la poverina per impedirle di diventare Lady Crawley, ed entrare a far parte integrante della famiglia!» Così, la prima volta che ebbe occasione di incontrare Rebecca a quattr'occhi, col tatto consueto le rimproverò l'attaccamento che suo padre mostrava per lei. Lei con gesto sdegnoso rizzò il capo e fissandolo negli occhi rispose: «E con ciò? Ammettiamo pure che Sir Pitt provi dell'affetto per me. So che è vero, e non è il solo. Non crederete che abbia paura di lui, capitano Crawley... O forse pensate che non sia in grado di tutelare il mio onore?» E nel dir questo la giovane donna assunse il tono solenne di un'altera regina. «Ma no... cosa dite... volevo soltanto mettervi in guardia... volevo solo avvertirvi di stare all'erta, tutto qui,» rispose l'arricciatore di baffi. «Vorreste allora alludere a qualcosa di poco onorevole?» domandò lei, accalorandosi. «Mio Dio, no, Miss Rebecca, nemmeno per sogno...», obietto il pesante dragone. «Voi forse siete indotto a pensare che io, per il fatto di esser sola e senza amici, non sappia cosa sia il rispetto per se stessi, proprio come per parte loro non lo sanno i ricchi. Credete forse che, essendo una semplice istitutrice, sia sprovvista di buon senso, di buona educazione, di buoni sentimenti, alla stregua di certi nobili dello Hampshire? Sono una Montmorency, io. Credete che una Montmorency non valga quanto un Crawley?» Quando Miss Sharp si esaltava e alludeva ai suoi genitori, la sua voce chiara e squillante assumeva una lieve inflessione straniera che ne accentuava il fascino. «No,» continuò, accalorandosi sempre più, «posso sopportare la povertà, ma non la vergogna... e nemmeno lo scherno e l'insulto. Tanto meno da voi, capitano!» Dopo di che, incapace di contenersi oltre, scoppiò in pianto. «Maledizione, Miss Sharp... Rebecca... Per Giove... no, non lo farei nemmeno per mille sterline, ve lo giuro sull'anima mia. Fermatevi, Rebecca!» Ma lei si era già allontanata. Quel giorno uscì in carrozza con Miss Crawley (l'episodio testé riferito è antecedente alla malattia di quest'ultima). Più tardi, a cena, Rebecca fu particolarmente vivace e brillante, ma non mostrò di accorgersi dei cenni, delle allusioni e delle goffe suppliche che le venivano rivolte dall'umiliato e infatuato ufficiale. Del resto, altre scaramucce in tutto simili a questa si susseguirono nel corso di quella breve campagna: schermaglie assai uggiose sulle quali non fa conto soffermarsi, e tutte risoltesi allo stesso modo. Sconfitta, la cavalleria pesante di Crawley s'imbizzarriva, ed ogni giorno veniva incalzata, messa in fuga. Se il baronetto di Queen's Crawley non avesse temuto di lasciarsi sfuggire di punto in bianco l'eredità di sua sorella, non avrebbe mai acconsentito che le sue care figliole perdessero quella grazia di Dio rappresentata dall'educazione che veniva loro impartita dall'inestimabile istitutrice. Senza Rebecca, che aveva saputo rendersi così utile, così accetta a tutti, la casa sembrava un deserto. Nessuno, al posto suo, correggeva e ricopiava le lettere di Sir Pitt; nessuno teneva in ordine i libri di conti. Ora che la sua piccola segretaria se n'era andata, tutte le faccende domestiche ripiombavano nell'usuale trascuratezza, tutti i molteplici progetti di Sir Pitt stagnavano, inerti. Lo stile e l'ortografia delle ripetute lettere ch'egli le scrisse in tono supplichevole, esortandola a tornare, bastavano di per sé a rivelare quanto gli fosse stata preziosa la collaborazione di una siffatta amanuense. Quasi ogni giorno recava a Becky una nuova lettera del baronetto, rigurgitante di trepide preghiere affinché rientrasse a Queen's Crawley, oppure altre missive indirizzate a Miss Crawley, nelle quali egli si diffondeva in patetiche descrizioni del danno che subiva l'educazione delle sue figliole, ormai da troppo tempo trascurata. Istanze, queste ultime, che naufragavano nell'indifferenza di Miss Crawley. Quanto a Miss Briggs, non venne formalmente licenziata, ma le sue funzioni di dama di compagnia divennero in pratica una sinecura e si ridussero a un ruolo risibile. Ormai i suoi compagni erano il grasso cocker-spaniel, in salotto, e qualche volta la scontenta Mrs. Firkin, nella camerette della governante. Per altro verso, se la vecchia signorina non voleva a nessun costo sentir parlare della partenza di Rebecca, è pur vero che si guardava bene dall'assumerla regolarmente a servizio nella sua casa di Park Lane. Al pari di molte persone facoltose, Miss Crawley non esitava ad accettare da persone di condizione inferiore tutti i servigi che poteva ottenerne, ma poi, quando non ne aveva più bisogno, se ne liberava con la massima disinvoltura. In ambienti del genere, la gratitudine è un sentimento che non alligna: nessuno se ne preoccupa. Ma voi, poveri parassiti, umili vermi striscianti, a guardar bene le cose non avete serio motivo di dolervene: quanto a sincerità, la vostra amicizia per il ricco Epulone non differisce di molto da quella che ne avete in cambio. Voi amate il denaro, non l'uomo. E se Creso e il suo servo dovessero scambiarsi i rispettivi ruoli, voi, povero miserabile, sapete perfettamente a chi destinereste i vostri favori. Non oserei affermare con assoluta certezza che, nonostante lo zelo, la semplicità, il garbo, il costante buonumore di Rebecca, quella vecchia e astuta londinese sulla quale venivano profusi senza risparmio i tesori di tanta amicizia, non nutrisse qualche vago sospetto circa la sincerità della sua affezionata amica e infermiera. Doveva pur passare per la mente di Miss Crawley che nessuno dà niente per niente; e se sapeva valutare i suoi sentimenti nei confronti dell'umanità, doveva per contro essere in grado di misurare quelli che l'umanità poteva nutrire verso la sua persona. E avrà fors'anche riflettuto sul fatto che non aver amici è il destino che spetta a chi non si preoccupa di nessuno. Nel frattempo, è pur vero che Becky costituiva per lei un appoggio e un conforto estremamente preziosi: di conseguenza non esitò a regalarle due vestiti nuovi, una vecchia collana, uno scialle; e per dar prova alla nuova confidente dei sentimenti di amicizia che nutriva per lei, sparlò tranquillamente con lei di tutti i suoi più intimi conoscenti (e questa è la massima prova di stima che si possa dare a chicchessia), meditando al tempo stesso di assicurarle per l'avvenire qualcosa di vantaggioso: forse combinarle il matrimonio con Clump, il suo speziale, o trovarle qualche altra decorosa sistemazione. In ogni caso restava sempre aperta la possibilità di rispedirla a Queen's Crawley quando non avesse più avuto bisogno di lei e la stagione londinese fosse giunta al culmine. Allorché Miss Crawley fu ormai convalescente e cominciò a scendere in salotto, Becky prese l'abitudine di cantare per lei e trovò altri modi per distrarla. Poi, quando fu abbastanza in forze per uscir di casa, fu sempre Becky ad accompagnarla. E nel corso di una di tali passeggiate in carrozza, non v'immaginate certo ove l'incommensurabile benevolenza e la grande amicizia di Miss Crawley la indussero ad avventurarsi, fra tanti luoghi che vi sono al mondo: la portarono, nientemeno, che in Russell Square, nel quartiere di Bloomsbury, e precisamente nella casa di Mr. John Sedley. Inutile dire come, prima di tale evento, molte lettere fossero state scambiate fra le due amiche. Per la verità, nel corso dei molti mesi trascorsi da Rebecca nello Hampshire, quell'eterna amicizia si era notevolmente ridotta; e la cosa, del resto, non fa specie. Anzi, col tempo si era così sbiadita da rischiare di spegnersi del tutto. Il fatto è che ciascuna delle due ragazze era assorbita dai suoi problemi. Rebecca doveva badare a mettersi in buona luce presso i suoi padroni, mentre Amelia era ciecamente dominata dal suo sentimento. Quando le due amiche si rividero, volarono l'una nelle braccia dell'altra con lo slancio che le ragazze sanno imprimere ai loro rapporti. Ma se l'abbraccio di Rebecca espresse nel modo più felice la vivacità e l'energia, la povera, piccola Amelia arrossì mentre la baciava, e in cuor suo pensava di essere colpevole, nei confronti dell'amica, di un sentimento assai affine alla freddezza. Il primo incontro fra le due giovani fu molto breve: Amelia si accingeva ad uscire, mentre in strada Miss Crawley attendeva in carrozza e la servitù si stava chiedendo in quale luogo fosse mai capitata. Stupefatti, i domestici della vecchia dama squadravano Sambo, il lacchè negro di Bloomsbury, strano e imprevedibile abitante di quel quartiere. Ma quando Amelia scese col suo bel volto sorridente (Rebecca doveva presentarla alla sua amica e Miss Crawley desiderava tanto conoscerla, ma non poteva scendere dalla carrozza), gli aristocratici servitori gallonati di Park Lane si domandarono come Bloomsbury avesse prodotto un frutto simile. Miss Crawley fu quasi conquistata dal faccino grazioso di quella fanciulla che arrossiva avvicinandosi, timida e aggraziata, per porgere il suo omaggio alla protettrice della sua amica. «Che bella carnagione! E che voce incantevole!» esclamò Miss Crawley dopo quel breve incontro, mentre la carrozza muoveva di bel nuovo verso i settori occidentali della città. «La vostra amica è veramente affascinante, Miss Sharp. Deve assolutamente venire in Park Lane, avete capito?» Miss Crawley era una donna di gusto, ed apprezzava quel tratto semplice e spontaneo, ulteriormente accentuato da un'ombra di timidezza. Avere accanto a sé un viso attraente le piaceva non meno che avere una casa arredata con bei quadri e preziose porcellane. Quel giorno i suoi discorsi tornarono almeno una dozzina di volte su Amelia, per esprimere sul conto di quest'ultima il più vivo compiacimento. Ne parlò persino con Rawdon Crawley, che al solito era venuto a spartire il pollo con sua zia, in ossequio ai suoi doveri. Rebecca, beninteso, senza por tempo in mezzo, dichiarò che Amelia era fidanzata ufficialmente col tenente Osborne, un'antica fiamma. «È in fanteria?» chiese il capitano Crawley, stentando un poco (com'era naturale da parte di un ufficiale delle Guardie) a ricordare il numero del Reggimento, che era il .... Rebecca confermò che si trattava proprio di quello, o per lo meno così le pareva. «Il suo superiore diretto,» disse «è il capitano Dobbin.» «Un tipo piuttosto goffo e dinoccolato, vero?» disse Crawley. «Uno che inciampa sempre dappertutto? Lo conosco, sì. Osborne invece è piuttosto un bel ragazzo, con delle vistose basette nere.» «Delle basette enormi,» confermò Rebecca, «e lui è enormemente fiero di averle, di questo non è il caso che dubitiate.» A titolo di risposta Rawdon scoppiò un una risata fragorosa, cavallina, e le signore lo esortarono a spiegare il motivo di tanta ilarità; ma dovettero attendere che quell'esplosione di risa si fosse finalmente placata. «Poveretto!» disse alla fine, «crede di saper giocare al biliardo. Gli ho vinto duecento sterline al Coca Tree. Proprio così: a sentir lui sa giocare, quel povero allocco! Quel giorno si sarebbe giocato anche l'anima, se il capitano Dobbin non lo avesse trascinato via, maledizione!» «Rawdon, Rawdon, non essere così cattivo,» lo ammonì Miss Crawley, che peraltro si sentiva altamente compiaciuta. «Signora, fra tutti gli ufficiali di fanteria che conosco, è senza dubbio il più sciocco. Tarquin e Deuceace gli portano via tutto il denaro che ha, basta che lo vogliano. Farebbe carta falsa pur di mostrarsi in giro con un aristocratico. A Greenwich sono loro a invitare chi vogliono, ma è lui a pagare le cene!» «E tra gli ospiti ci saranno anche delle belle ragazze, immagino!» «Certo, Miss Sharp; come al solito avete ragione. Ci sono anche delle ospiti, e graziosissime per giunta.» E il capitano riprese a ridere, convinto di aver detto qualcosa di straordinariamente spiritoso. «Non essere cattivo, Rawdon!» esclamò sua zia. «D'altra parte suo padre è un mercante della City. E dicono che sia ricchissimo. Ah, quei maledetti mercanti! Bisogna ridurli sul lastrico. Ad ogni modo con lui non ho finito, di questo potete esser sicuri. Ah! Ah! Ah!» «Ahimè, sarò costretta a mettere in guardia Amelia, capitano Crawley. Un marito giocatore!» «Veramente orribile,» continuò il capitano in tono severo. Poi, come colpito da un'idea improvvisa, aggiunse: «Perdio, signora, perché non lo invitiamo qui?» «È una persona ammodo?» chiese la zia. «Ammodo? Ma certamente! Sembra uno di noi,» rispose il capitano Crawley. «Ve ne prego, invitatelo quando vi sarete rimessa e ricomincerete a ricevere, e con lui invitate anche la sua... la sua "innamorata" (si dice così, vero Miss Sharp?). Ma sicuro, invitate anche lei. Gli scriverò senz'altro un biglietto per invitarlo, così avremo modo di vedere se al piquet vale quanto al biliardo. Dove abita, Miss Sharp?» Miss Sharp diede al capitano Crawley l'indirizzo di casa del tenente Osborne, e quest'ultimo, pochi giorni più tardi, ricevette una lettera scritta con la calligrafia infantile del capitano Crawley. Incluso, c'era un biglietto d'invito di Miss Crawley. Anche Rebecca mandò un biglietto d'invito ad Amelia, la quale, manco a dirlo, accettò senza esitazione nell'apprendere che tra gli eletti c'era anche il suo amato George. Fu convenuto che Amelia avrebbe trascorso l'intera mattinata con le signore di Park Lane, le quali le usarono ogni più cortese attenzione. Rebecca la trattava con aria di garbata e protettiva condiscendenza: in fatto di abilità la superava di gran lunga, e da parte sua Amelia era così gentile e modesta che cedeva senza opporre la minima resistenza a chiunque avesse deciso di comandarla; onde obbedì alle disposizioni di Rebecca con placida e serena umiltà. Anche Miss Crawley fu molto affabile. Non smise di lodare la piccola Amelia parlandone in sua presenza come se si fosse trattato di una bambola, di una cameriera o di un quadro, e le manifestò la più stupita benevolenza con accenti di autentico entusiasmo. Ammiro l'accattivante modo di porgere che ostentano talvolta gli aristocratici nei confronti delle persone di condizione più umile della loro. Non c'è nulla di più divertente al mondo che assistere alla condiscendenza della gente di Mayfair. Quell'eccesso di gentilezza da parte di Miss Crawley ebbe l'effetto di stancare Amelia, e oserei affermare che delle tre signore di Park Lane quella che le riuscì più simpatica fu Miss Briggs. Infatti andò subito d'accordo con quest'ultima, come sempre le avveniva con le persone cortesi e trascurate dal prossimo. Evidentemente non era quella che si suol definire una ragazza di spirito. George venne per la cena: una cena en garçon col capitano Crawley. Fu la grande carrozza degli Osborne a condurlo in Park Lane da Russell Square, dove le sorelle, escluse dall'invito, non Si mostrarono risentite per quel tratto disobbligante. Ciò non gli impedì di cercare in tutta fretta il nome di Crawley sul Debrett, e appresero tutto il possibile sull'albero genealogico di questi ultimi, dei Binkies e dei vari parenti e congiunti. Rawdon Crawley riservò a Osborne un'accoglienza oltremodo amabile e cordiale. Lodò la sua abilità al biliardo e gli propose la rivincita; chiese notizie su quanto avveniva nel Reggimento di Osborne, e si sarebbe spinto a proporgli una partita di piquet se Miss Crawley non avesse tassativamente vietato qualsiasi gioco d'azzardo in casa sua; di modo che, almeno in questa circostanza, la borsa del tenente non venne alleggerita ad opera del tanto cortese capitano. Però si diedero appuntamento per l'indomani: sarebbero andati ad Hyde Park insieme, per via di un certo cavallo che Crawley voleva vendere; poi, sempre insieme, avrebbero cenato per concludere la giornata con un'allegra combriccola di giovanotti. «Sempre beninteso, che non siate di servizio presso la graziosa Miss Sedley» concluse Crawley con una strizzatina d'occhi. «Veramente graziosa, lo dico in assoluta sincerità,» si degnò di commentare. «Immagino che abbia fior di quattrini, nevvero?» Osborne rispose che non era affatto di servizio, e che era ben lieto di incontrarsi con Crawley, il quale il giorno dopo ebbe modo di lodare (stavolta con tutta sincerità) l'abilità di cavallerizzo di cui dava prova il suo nuovo amico, e lo presentò a due o tre bellimbusti appartenenti all'alta società, il che valse a inorgoglire immensamente quel vacuo e vanesio ufficiale. «A proposito, come sta la piccola Miss Sharp?» chiese Osborne a Crawley con ostentazione, mentre bevevano un bicchiere, a coronamento del pasto. «È una brava ragazza. Proprio. Cosa pensano di lei, a Queen's Crawley? Miss Sedley l'anno scorso le si era molto affezionata.» Gli occhietti azzurri del capitano Crawley lanciarono a Osborne un'occhiata collerica, e poi continuarono a fissarlo mentre salivano al piano di sopra per rinverdire la conoscenza con la vezzosa istitutrice. Se però l'ufficiale delle Guardie covava in seno un sia pur lieve sentimento di gelosia, il contegno di Rebecca bastò a dissolverlo completamente. Entrarono in salotto, dove Osborne venne presentato a Miss Crawley. Poi il giovane si avvicinò a Rebecca, in atteggiamento di benevola protezione, con l'aria di chi voglia mostrarsi particolarmente garbato e ben disposto verso qualcuno. Trattandosi di un'amica di Amelia, era perfino disposto a stringerle la mano. Pertanto le porse la sinistra dicendole: «Oh, Miss Sharp, come state?», convintissimo ch'ella si sentisse addirittura confusa da tanto onore. Invece per tutta risposta Miss Sharp gli porse l'indice destro, accompagnando quel gesto con un cenno del capo così freddo e contegnoso che Rawdon Crawley, spiando la scena dalla stanza attigua, riuscì a stento a trattenere le risa cogliendo in pieno lo smacco del tenente: la sua mossa iniziale seguita da un attimo di pausa e di perplessità, e dalla decisione finale di stringere quel dito che gli veniva offerto di buon grado... «Riuscirebbe ad averla vinta anche sul diavolo, per Giove!» penso il capitano mentre il tenente, sempre compito e affabile, cercava di avviare la conversazione chiedendo a Rebecca come si trovasse al suo nuovo posto. «Il mio posto?» rispose Rebecca. «Oh, siete davvero molto gentile a ricordarvene. Sì, non posso lamentarmene; lo stipendio è abbastanza soddisfacente, anche se forse è inferiore a quello che Miss Wirt percepisce dalle vostre sorelle, in Russell Square. E ditemi (se posso arrischiare questa domanda): come stanno le signorine?» «E perché non dovreste arrischiarla?» chiese Osborne, sorpreso. «Perché non si sono mai sognate di rivolgermi la parola, e tantomeno di invitarmi a casa loro, quando ero ospite in casa di Amelia. Ma non fa nulla: noialtre povere istitutrici siamo avvezze a subire sgarbi di questo genere.» «Mia cara Miss Sharp!» esclamò Osborne. «Questo, per lo meno, è quanto avviene in certe famiglie. Eh, sì,» continuò Rebecca, «voi non lo crederete, ma tra una famiglia e un'altra corrono notevoli differenze. Nello Hampshire la gente è molto meno ricca di voi, privilegiati operatori della City, ma in compenso si è mantenuto integro l'antico ceppo aristocratico della miglior Inghilterra. Non so se sappiate che il padre di Sir Pitt ha rifiutato di essere un Pari del Regno. Ad ogni modo vedete come sono trattata. Sì, nel complesso è un posto soddisfacente. Ma quale squisito pensiero, da parte vostra, il domandarmelo!» Osborne era furibondo. La piccola istitutrice lo aveva trattato con tale ironica condiscendenza, lo aveva persifler a tal punto, che il giovane leone britannico si sentì veramente imbarazzato; e d'altro canto non ebbe la presenza di spirito bastante a sottrarlo a quella dilettevole conversazione, sfruttando tempestivamente un pretesto qualsiasi. «Mi era parso che nell'insieme le famiglie della City incontrassero i vostri gusti,» le disse in tono di sufficienza. «Vi riferite all'anno scorso, quando ero appena uscita da quell'orribile collegio? Ma certo! Quale ragazza non è felice di andare in vacanza? E poi quale esperienza avevo alle spalle, per sapere che vi fosse di meglio? Invece bastano diciotto mesi per vedere le cose con occhi totalmente diversi! Diciotto mesi (scusate se ve lo dico, Mr. Osborne) passati in mezzo all'alta nobiltà. Quanto alla cara Amelia, è una perla, su questo non ho dubbi, sarebbe perfettamente a posto in qualsiasi ambiente. Suvvia, mi accorgo che cominciate ad essere di buonumore. Certo, però, che quella gente della City... Piuttosto, come sta Mr. Jones? Come va quel meraviglioso Mr. Joseph?» «Mi sembrava che l'anno scorso quel meraviglioso Mr. Joseph non vi dispiacesse affatto,» rispose Osborne, cortese. «Oh, come siete severo, Mr. Osborne. Entre nous, mentirei se vi dicessi che mi ha spezzato il cuore. Se però mi avesse chiesto ciò a cui sembravate alludere con il vostro sguardo (così gentile, così espressivo, veramente!), non avrei saputo dirgli di no.» Osborne le lanciò un'occhiata che sembrava dire: «Davvero? Quale degnazione da parte vostra!» «Quale onore, vero, avere per cognato George Osborne, il cavaliere George Osborne, figlio di Mr. Osborne, il quale a sua volta era figlio di... di... Cosa faceva vostro nonno? Ahi, ahi, non mi riesce di ricordarlo. Ma non vi arrabbiate, suvvia. Dopo tutto, non siete responsabile del vostro albero genealogico, e per parte mia Vi confermo che non avrei esitato a sposare Mr. Sedley. Che altro poteva fare una povera ragazza senza un penny? Ecco, siete al corrente di tutto il segreto, ed io vi ho parlato con la massima franchezza e sincerità. Debbo convenire che è stato estremamente cortese da parte vostra alludere a quell'episodio... sì, veramente cortese. Cara Amelia, stavo appunto parlando con Mr. Osborne di tuo fratello. Come sta?» La sconfitta di George era totale. Non che le argomentazioni di Rebecca fossero irreprensibili; ma era riuscita a metterlo dalla parte del torto e a indurlo a fuggire ignominiosamente: sentiva che, se avesse indugiato ancora, Rebecca sarebbe riuscita a renderlo ridicolo anche agli occhi di Amelia. Tuttavia George non era così meschino dal far pettegolezzi e vendicarsi di Rebecca, sebbene quest'ultima avesse avuto la meglio su di lui. Il che non gl'impedì, il giorno dopo, di esternare al capitano Crawley alcune sue opinioni sul conto di Rebecca, definendola pungente, pericolosa, civetta, e via dicendo: tutte qualifiche che incontrarono il divertito consenso di Crawley, e che nel giro di una giornata giunsero tempestivamente all'orecchio di Rebecca, accrescendo la di lei simpatia per il tenente Osborne. Il suo istinto femminile le diceva che era stato proprio lui a interrompere il felice corso della sua prima avance amorosa, e i sentimenti che provava nei suoi confronti ne erano l'esplicita conseguenza. «Volevo solo mettervi in guardia,» disse Osborne a Crawley con un'occhiata significativa (in precedenza aveva comperato il cavallo e perso qualche decina di ghinee). «Volevo solo avvisarvi. Conosco le donne, io, e vi consiglio di tener gli occhi aperti.» «Grazie, vecchio mio,» rispose Crawley, con un'occhiata che rivelava come la sua gratitudine fosse d'indole alquanto particolare. «Sapete veder lontano, a quanto pare.» E George se ne andò, convinto che Crawley avesse espresso, sul suo conto, un giudizio lusinghiero e assolutamente motivato. Più tardi riferì ad Amelia quale consiglio avesse dato a Rawdon Crawley. Era giusto che una così brava persona, un giovane così dabbene, stesse in guardia contro le insidie di quella piccola intrigante di Rebecca. «Perché mai dovrebbe stare in guardia?» «Via, parlo dell'istitutrice, della tua amica... Non fingere di non capire!» «Oh, George, che cos'hai fatto?» Ai suoi occhi femminili, resi lungimiranti dall'amore, era bastato un attimo per scoprire un segreto ch'era invisibile a quella povera pulzellona di miss Briggs e soprattutto allo sguardo ottuso di quel giovane bellimbusto dalle folte basette, il tenente Osborne. Infatti, al piano superiore, mentre Rebecca l'aiutava a indossare lo scialle, le due amiche ebbero modo di scambiarsi una di quelle brevi conversazioni che mandano in solluchero le donne. Fatto sta che Amelia si avvicinò a Rebecca, e prendendone le piccole mani nelle sue le disse: «Rebecca, ho capito tutto.» Rebecca la baciò. Né l'una né l'altra fecero parola a chicchessia di quel delizioso segreto. Il quale, peraltro, era destinato ad esser presto a conoscenza di tutti. Poco tempo dopo gli avvenimenti che abbiamo testé raccontato, e mentre Miss Rebecca continuava a soggiornare dalla sua protettrice, in Park Lane, in Great Gaunt Street veniva esposto uno stemma abbrunato, in aggiunta a quelli che fregiavano di sé quella strada funerea. Lo stemma in questione ornava la casa di Sir Pitt Crawley; ma non designava la morte del nostro baronetto, giacché si trattava di uno stemma femminile: anzi, per vero dire era lo stesso che, qualche anno avanti, era servito a rendere l'estremo omaggio alla madre di Sir Pitt, la defunta Lady Crawley vedova. Terminato il periodo di lutto, lo stemma era stato staccato dal portone e conservato in una delle stanze del palagio avito dei Crawley; ed ecco che ora veniva riutilizzato in occasione del decesso della povera Rose Dawson. Sir Pitt era vedovo per la seconda volta. Inutile osservare che lo stemma in questione, posto accanto a quello dei Crawley, non poteva essere quello di Rose, la quale era sprovvista di titoli nobiliari. Ma i cherubini potevano servire per lei com'erano serviti per la vecchia Crawley madre di Sir Pitt. Sotto lo stemma dei Crawley c'era la dicitura Resurgam! e ai due lati la colomba e il serpente di famiglia. Stemmi e fregi a lutto. Resurgam! Un'occasione d'oro per fare della morale. Solo Mr. Crawley era rimasto a quel capezzale disertato da tutti. Rose aveva preso congedo da questo mondo col solo conforto delle parole che costui aveva saputo dirle. Per vari anni era stata l'unica persona che le avesse usato gentilezze, l'unica persona che le avesse dato prova di amicizia e avesse confortato la solitudine di quell'amorfa creatura, morta nel cuore assai prima che nel corpo. Il cuore lo aveva venduto per esser moglie di Sir Pitt Crawley: ogni giorno la Fiera della Vanità annovera madri e figlie che stipulano contratti del genere. Al momento del trapasso il marito si trovava a Londra assorbito da non so quale fra i suoi numerosi progetti, oppure nello studio di uno fra i suoi non meno innumerevoli legali. Peraltro aveva trovato il tempo di andare spesso in Park Lane a far visita a Rebecca, e di mandarle ripetuti biglietti coi quali la scongiurava, le ordinava, le imponeva di tornare in campagna, accanto alle sue allieve le quali, dal giorno in cui si era ammalata la loro madre, erano rimaste totalmente in balìa di se stesse. Ma Miss Crawley si rifiutava categoricamente di lasciarla andare. In tutta Londra non esisteva una sola dama dell'alta società pronta a scaricare i propri amici non appena si stufava di loro, e ne esistevano pochissime che si stancassero rapidamente quanto lei; ma fino a quando perdurava il suo engoûment, il suo attaccamento era né più né meno stupefacente, e in quella fase la sua infatuazione per Rebecca non mostrava di venir meno. La notizia della morte di Lady Crawley provocò fra i familiari di Miss Crawley le reazioni ch'era lecito attendersi: nessuna spiccata manifestazione di dolore e nemmeno commenti particolarmente significativi. «Certo dovrò rinviare il mio impegno del giorno 3,» disse Miss Crawley. E aggiunse, dopo una breve pausa: «Speriamo che mio fratello abbia il buon gusto di non risposarsi.» «Se lo facesse, Pitt schiatterebbe di rabbia,» osservò Rawdon, manifestando la consueta benevolenza nei confronti di suo fratello. Rebecca non fece commenti, ma senza dubbio era, fra tutti, l'unica che manifestasse un sincero dolore, un turbamento non simulato. Quel giorno uscì dalla stanza prima che Rawdon si congedasse, ma più tardi, mentre il capitano si accingeva ad andarsene dopo aver salutato sua zia, s'incontrarono casualmente al pianterreno ed ebbero una breve conversazione. L'indomani mattina, mentre Rebecca guardava fuori della finestra, fece sobbalzare Miss Crawley placidamente intenta a leggere un libro francese. «È arrivato Sir Pitt, signora!» esclamò allarmatissima. E l'annuncio di quella notizia fu seguito immediatamente dal picchio all'uscio di Sir Pitt. «Non mi sento di riceverlo, mia cara. Non ho la minima voglia di vederlo. Bowl dica che non sono in casa, oppure scendete voi stessa e ditegli che mi sento male e non sono in grado di ricevere chicchessia. Il mio sistema nervoso non è in condizioni di sopportare una persona come mio fratello, in questo momento,» concluse Miss Crawley, e riprese la lettura del suo libro francese. Rebecca scese e mosse incontro a Sir Pitt che si accingeva a salire le scale. «Non può ricevervi, signore,» disse, «si sente troppo male.» «Tanto meglio,» fu la risposta. «Del resto è voi che volevo vedere. Seguitemi in salotto.» Ed insieme entrarono nella stanza. «Intendo assolutamente che torniate a Queen's Crawley,» disse il baronetto fissando i suoi occhi in quelli di lei, mentre si toglieva i guanti e il cappello con la larga fascia di crespo nero. Quegli occhi la fissavano in modo così strano, che Becky quasi tremava. «Mi auguro di poter tornare al più presto,» disse a voce bassa, «non appena Miss Crawley starà meglio... Spero di... di... tornare da quelle care bambine.» «Sono tre mesi che andate ripetendo la stessa cosa,» replicò Sir Pitt, «e invece continuate a restare appiccicata a mia sorella, la quale non esiterà a buttarvi via come una scarpa vecchia non appena si sarà stancata di voi. Vi voglio, lo ripeto ancora una volta. Io ritorno a Queen's Crawley per i funerali. Venite con me sì o no?» «Non oserei... non credo... che sarebbe appropriato viaggiare sola con voi...» balbettò Becky, in preda alla più viva agitazione. «Vi torno a dire che vi voglio,» esclamò Sir Pitt battendo i pugni sul tavolo. Mi è impossibile andare avanti senza di voi. Non mi sono reso conto di come andassero realmente le cose fino al giorno in cui ve ne siete andata. In casa tutto va a rotoli, non è più la casa di prima. I miei conti non tornano. Dovete tornare, cara Becky, dovete tornare assolutamente. Tornate!» «Tornare... Tornare come?» chiese Rebecca con voce ansante. «Tornate come Lady Crawley, se volete,» rispose il baronetto afferrando il suo cappello adorno della fascia di crespo. «Ecco! Siete soddisfatta? Tornate e sarete mia moglie. Ve lo meritate. Al diavolo la nascita, il casato. Voi siete una signora né più né meno come tutte le altre, e nel vostro dito mignolo c'è più cervello che nella testa di qualsiasi moglie di baronetto in tutta la contea. Allora, verrete sì o no?» «Oh, Sir Pitt!» disse Rebecca, molto commossa. «Ditemi di sì, Rebecca,» continuò Sir Pitt, io sono vecchio ma ancora in gamba. Ho ancora vent'anni di salute davanti a me. Sarete libera di fare tutto ciò che vorrete, di spendere quanto vorrete. Vi farò felice, vedrete se non lo farò. Vi assegnerò un rendita, disporrò ogni cosa nel modo migliore. Ecco!...» E il vecchio cadde in ginocchio guardando Rebecca come un satiro. Rebecca si ritrasse, e il suo volto era la vera e propria immagine della costernazione. Nel corso di questa storia non l'abbiamo mai vista perdere la sua presenza di spirito. Ma questa volta le cose andarono altrimenti, e pianse alcune delle lacrime più sincere che mai sgorgarono dai suoi occhi. «Oh, Sir Pitt!» esclamò. «Io... Io, signore, sono già sposata!» XV • NEL QUALE IL MARITO DI REBECCA FA UNA FUGACE APPARIZIONE Ogni lettore incline al sentimentalismo (e non ne desideriamo di altra specie) non avrà mancato di apprezzare il tableau sul quale si è chiuso l'ultimo atto del nostro piccolo dramma. Cosa può esservi, infatti, di più incantevole dello spettacolo offerto dall'Amore in ginocchio davanti alla bellezza? Ma quando l'Amore udì la Bellezza profferire quell'orribile confessione ch'ella, cioè, era già sposata rinunciò all'umile atteggiamento che aveva assunto prosternandosi sul tappeto, e proruppe in estrinsecazioni verbali che suscitarono nella povera, piccola Bellezza un timore più grande di quello che aveva provato nel confessare il suo segreto. «Sposata? Voi scherzate,» esclamò il baronetto, dopo quella prima esplosione di rabbia e di stupore. «Voi intendete burlarvi di me, Becky. E chi mai potrebbe sposare una ragazza senza il becco d'un quattrino?» «Sposata, sposata,» ripeté Rebecca stravolta e lacrimante, la voce rotta dall'emozione, il fazzoletto premuto sugli occhi, mentre si appoggiava al caminetto sentendosi prossima al deliquio: un'incarnazione del dolore che avrebbe commosso il cuore più indurito. «Sir Pitt, caro Sir Pitt, voi non dovete credere ch'io non vi porti gratitudine per tutto il bene che mi avete fatto! Anzi, solo la vostra generosità poteva strapparmi un simile segreto!» «Al diavolo la mia generosità!» strillò Sir Pitt. «E con chi siete sposata, di grazia? Quando è successo?» «Signore, concedetemi di tornare da voi in campagna! Lasciate che torni a occuparmi di voi con la stessa dedizione di un tempo! Vi prego, non allontanatemi da Queen's Crawley!» «Dunque vi ha piantata, quel mascalzone, vero?» riprese a dire il baronetto, che s'illudeva di aver capito come stessero le cose. «Allora tornate pure, Becky, se vi fa piacere. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Ad ogni modo la mia proposta era onesta. Volete tornare come istitutrice? Fate pure.» Lei gli porse una mano. I singhiozzi sembravano doverle spezzare il cuore. I riccioli le ricadevano sul volto e sulla mensola marmorea del caminetto al quale si era appoggiata. «E così quel lestofante vi ha abbandonata, eh?» disse Sir Pitt, in un grossolano tentativo di recarle conforto. Non importa, Becky, sarò io a occuparmi di voi!» «Ah, signore, credetemi: sarei felice e orgogliosa di tornare a Queen's Crawley per aver cura di voi e delle bimbe, come quando vi dichiaravate soddisfatto dei servigi della vostra piccola Rebecca. Se penso alla vostra offerta, sento il cuore traboccare di riconoscenza, ve ne do la mia parola. Non posso essere vostra moglie, ma lasciate almeno che sia per voi una figlia!» E nel dir questo fu Rebecca, questa volta, a lasciarsi cadere al suolo in atteggiamento altamente melodrammatico. Poi afferrò la mano nera e callosa di Sir Pitt fra le sue (quelle piccole mani candide e morbide come seta), e stava per levare su di lui uno sguardo carico di dolore e di fiducia quando... quando la porta si aprì e Miss Crawley piombò nella stanza. La Firkin e la Briggs, le quali (guarda caso!) non appena il baronetto e Rebecca erano entrati in salotto si erano trovate a transitare davanti alla porta, dal buco della serratura avevano colto l'immagine del vecchio gentiluomo prostrato davanti all'istitutrice e udito la generosa profferta che lui le aveva rivolto. Tale proposta era appena uscita dalle labbra di Sir Pitt, che già le due donne volavano su per le scale, si precipitavano nel salotto di Miss Crawley, intenta a leggere il romanzo francese, e avevano comunicato alla vecchia dama la sorprendente notizia che Sir Pitt, inginocchiato ai piedi di Miss Sharp, stava chiedendo la sua mano. Ora, calcolando la durata della conversazione sopra riferita, il tempo impiegato dalle due donne per correre di sopra nel salotto di Miss Crawley, quello necessario a quest'ultima per esternare la sua stupefazione, lasciar cadere il libro di Pigault-Lebrun e di scendere da basso, si arriva alla conclusione che Miss Crawley dev'essere comparsa nel salotto proprio nell'istante in cui Rebecca aveva assunto quell'atteggiamento. «A quanto pare è la signorina ad essere in ginocchio, non il signore,» commentò Miss Crawley in tono sprezzante. «Mi avevano riferito ch'eravate in ginocchio, Sir Pitt. Ripetetelo, ve ne prego: voglio contemplare una così bella coppia!» «Ho ringraziato Sir Pitt, Miss Crawley,» disse Rebecca levandosi in piedi, «e gli ho detto che non posso... che non posso diventare Lady Crawley.» «Lo avete rifiutato!» esclamò la Crawley, sempre più esterrefatta. Dalla soglia, la Briggs e la Firkin contemplavano la ragazza con gli occhi sgranati e la bocca spalancata dalla meraviglia. «Sì,» confermò Rebecca con voce mesta e lacrimosa. «E devo veramente credere che voi l'abbiate chiesta in moglie, Sir Pitt?» chiese la vecchia signorina. «Sì,» rispose il baronetto, «è vero.» «Ed essa vi ha rifiutata, né più né meno come asserisce?» «Sì,» disse Sir Pitt, mentre sul suo volto affiorava un sogghigno. «Tuttavia non ho l'impressione che la cosa vi abbia spezzato il cuore» osservò Miss Crawley. «Neanche un po',» rispose Sir Pitt. La sua voce denotava una tale freddezza, un così perfetto buonumore, che Miss Crawley restò trasecolata. Che un anziano gentiluomo potesse cadere ai piedi di un istitutrice squattrinata, per scoppiare a ridere subito dopo perché lei declina la sua profferta di matrimonio, erano misteri che Miss Crawley non riusciva assolutamente a sondare: misteri molto più complessi di tutte le trame più intricate ordite dal suo prediletto Pigault-Lebrun. «Mi compiaccio che troviate divertente una simile situazione, fratello,» disse alla fine, cercando di riaffiorare da quello stato di suprema stupefazione. «Straordinario! Davvero!» esclamò Sir Pitt. «Chi avrebbe mai supposto una cosa simile. Che diavolo! Che prodigio d'astuzia! Una piccola volpe, proprio così.» «Chi avrebbe mai immaginato?... Come sarebbe a dire?» chiese Miss Crawley battendo il piede in terra. «Insomma, Miss Sharp, dal momento che non ritenete la nostra famiglia all'altezza, aspettate che il Principe Reggente ottenga il divorzio per risposarsi con voi?» «Quando voi siete entrata, signora,» disse Rebecca, «il mio atteggiamento non induceva a pensare ch'io spregiassi l'onore fattomi da questo buon... da questo generoso gentiluomo. Dunque, voi tutti mi credereste una donna senza cuore? Tutti avete dimostrato di volermi bene, siete stati prodighi d'ogni gentilezza con questa povera orfana, con questa povera ragazza priva d'ogni appoggio... Ed io non dovrei provare nulla in cambio? Cari amici, miei cari benefattori: forse che il mio amore e la mia vita stessa non debbono servirmi a ripagare la fiducia di cui mi avete dato prova? Non è forse mio preciso dovere tentare di ricambiarvi come meglio posso? Vorreste perfino impedirmi di esternare la mia gratitudine, Miss Crawley? È troppo, il cuore mi scoppia!» E Rebecca si lasciò cadere su una sedia in modo così patetico, che la maggior parte dell'uditorio non poté che unirsi senza riserve a tanto dolore. «Che mi sposiate o no, Becky, siete una brava ragazza, e potete contare sulla mia amicizia,» disse Sir Pitt. Dopo di che si rimise in capo il cappello bordato di crespe e se ne andò, con grande sollievo di Rebecca. Ciò infatti significava che il suo segreto non sarebbe stato rivelato a Miss Crawley, e che quindi le restava il vantaggio di una pausa, di un breve respiro. Si portò il fazzoletto agli occhi, dissuase con un cenno del capo la brava Briggs che di buon grado l'avrebbe seguita di sopra e salì nella sua camera. Poi, mentre la Briggs e Miss Crawley, oltremodo elettrizzate, indugiavano a commentare lo strano caso, la Firkin, non meno turbata, s'inabissava nelle regioni della cucina a diffondere la notizia fra quanti, maschi e femmine, vi si trovavano. Anzi, il fatto la colpì a tal punto, che quella sera stessa si sentì in dovere di scrivere «coi suoi devoti ossequi a Mrs. Bute Crawley e alla sua famiglia al presbiterio», raccontando come Sir Pitt fosse venuto in visita e avesse fatto una proposta di matrimonio a Miss Sharp: proposta che, fra lo stupore generale, non era stata accolta. Frattanto in sala da pranzo (dove Miss Briggs esultava per esser nuovamente ammessa alle confidenze della padrona di casa) le due signore continuarono a far congetture sulla proposta di Sir Pitt e sul rifiuto di Rebecca. Miss Briggs, dando prova di singolare acume, avanzò l'ipotesi che sussistesse un precedente legame affettivo, altrimenti nessuna ragazza sana di mente si sarebbe lasciata sfuggire un'occasione tanto vantaggiosa. «Voi senza dubbio avreste accettato, vero Briggs?» chiese Miss Crawley gentilmente. «Non sarebbe stato un privilegio diventar sorella di Miss Crawley?» rispose l'altra, aggirando la domanda. «Nondimeno occorre dire che Becky sarebbe stata un'eccellente Lady Crawley,» convenne Miss Matilda, addolcita dal rifiuto della ragazza e, come sempre, liberale e generosa (a patto che non le venisse richiesto alcunché). «Non le manca certo il cervello, e in quanto a spirito ne ha più lei nel dito mignolo di quanto ne abbiate voi nella testa, mia povera Briggs! Adesso poi che io l'ho formata, le sue maniere sono irreprensibili. È una Montmorency, e sebbene io non abbia alcuna considerazione per questo genere di cose, il sangue indubbiamente ha il suo valore. Quindi Rebecca avrebbe saputo stare al suo posto tra quegli idioti dello Hampshire molto meglio di quella sciagurata figlia di fabbro ferraio.» Miss Briggs, come di consueto, convenne pienamente col parere di Miss Crawley, e riprese ad almanaccare sull'ipotetico «precedente legame affettivo». «Voialtre, povere creature senza amici, avete sempre qualche sciocco tendre,» osservò Miss Crawley. «Anche voi a suo tempo vi siete innamorata di quel maestro di calligrafia. Suvvia, non piangete, Briggs, non fate che piangere! Del resto, non serve a farlo tornare in vita. Io credo che anche quella povera infelice di Becky sia a sua volta una scioccherellina sentimentale. Ci sarà sotto un farmacista, che sa?, un maggiordomo, un pittore... oppure qualche giovane curato o roba del genere.» «Poverina... povera ragazza!» esclamò Miss Briggs, il cui pensiero era ritornato a ventiquattr'anni innanzi, a quello sclerotico maestro di calligrafia (del quale custodiva gelosamente nel cassetto della sua scrivania una ciocca di capelli biondi e un fascio di lettere illeggibili, ma comunque bellissime). «Poverina, poverina,» ripete la Briggs; e intanto si rivedeva allorché, col viso fresco dei suoi diciott'anni, si recava al Vespro assieme con lo sclerotico maestro di calligrafia, ed insieme leggevano tremanti i salmi dalle pagine dello stesso libro di preghiere. «Dopo simile condotta da parte di Rebecca,» disse Miss Crawley con entusiasmo, «la nostra famiglia dovrebbe far qualcosa. Cercate di scoprire chi è l'individuo in questione, Briggs, ed io gli aprirò un negozio, oppure mi farò fare il ritratto, lo raccomanderò a mio cugino, il vescovo, e provvederò a dôter Becky. Voglio un matrimonio coi fiocchi; voi preparerete la colazione e sarete damigella d'onore.» La Briggs manifestò la sua incondizionata compiacenza, giurò che la cara Miss Crawley si dimostrava anche in questa circostanza profondamente buona e generosa; dopo di che salì in camera di Rebecca per commentare la proposta, il rifiuto, la motivazione di quest'ultimo, nonché accennare ai propositi di Miss Crawley, nel tentativo di scoprire chi fosse l'uomo al quale Miss Sharp aveva fatto dono del suo cuore. Rebecca fu gentilissima e affettuosa, si mostrò commossa e rispose alle profferte della Briggs con un fervore denso di gratitudine. Non esitò ad ammettere che, sì, c'era un dolce mistero... c'era una segreta passione (ah, se Miss Briggs avesse indugiato un solo minuto in più davanti al buco della serratura! Forse avrebbe potuto apprendere ben altro...) Ma erano trascorsi cinque minuti dall'ingresso di Miss Briggs nella camera di Rebecca, che vi fece la sua comparsa Miss Crawley in persona, un onore - questo - assolutamente imprevedibile. Vinta dall'impazienza, aveva rotto gli indugi, incapace di attendere il resoconto della sua lenta ambasciatrice; pertanto era venuta per sapere e ingiunse a Miss Briggs di uscire. Dopo aver manifestata la sua approvazione per la condotta di Rebecca, chiese i particolari di quell'incontro, e quali precedenti giustificassero una siffatta, inaudita proposta da parte di Sir Pitt. Rebecca spiegò come da tempo, ormai, si fosse accorta della stima e della simpatia di cui l'onorava Sir Pitt (che d'altronde usava palesare i propri sentimenti con assoluta franchezza), ma, sorvolando al momento sulle motivazioni personali con le quali non voleva tediare Miss Crawley, l'età, la posizione sociale e le abitudini del baronetto la dissuadevano da un siffatto matrimonio, che si presentava in ogni senso inattuabile. E poi poteva una donna che avesse un minimo senso del decoro e della propria dignità prestare orecchio a discorsi del genere quando le esequie della moglie del pretendente non avevano ancora avuto luogo ? «Queste sono bazzecole, mia cara,» rispose Miss Crawley venendo subito al sodo. «Se non ci fosse stato qualcun altro voi non avreste assolutamente rifiutato. Se dunque avete dei motivi personali, ditemeli. Qualcuno c'è, ne sono certa. Chi vi ha toccato il cuore?» Rebecca chinò lo sguardo e ammise che sì, c'era qualcuno. «Avete indovinato, cara signora,» disse in tono sommesso e con voce tremante. «Forse vi stupisce che una donna povera e derelitta come me possa coltivare un affetto, vero? D'altra parte la povertà non costituisce un usbergo a difesa dagli strali amorosi. Magari lo fosse!» «Piccola mia,» rispose Miss Crawley, sempre incline al sentimentalismo, «forse il vostro amore non è corrisposto? Forse soffrite in silenzio. Dite, confidatevi con me e lasciate che vi conforti.» «Ah, volesse il cielo che poteste farlo, cara signora!» esclamò Rebecca nel medesimo tono lacrimoso, «ne ho tanto bisogno, credete.» Posò il capo sulla spalla di Miss Crawley e prese a piangere con tanta naturalezza che la vecchia dama, colta di sorpresa, l'abbracciò con un impeto di tenerezza quasi materno, le sussurrò parole di consolazione nelle quali erano trasfusi tutto il suo affetto e la sua stima e giurò di volerle bene come a una figlia, di esser pronta a fare tutto quanto era in suo dovere per aiutarla. «Ed ora ditemi chi è, mia cara. È forse il fratello di quella graziosa ragazza... di Miss Sedley? Mi avevate accennato a un flirt con lui. Sono disposta ad invitarlo, se volete. Lo avrete qui, ve lo prometto.» «Non chiedetemi nulla, ora,» rispose Rebecca. «Presto saprete ogni cosa; ve lo assicuro. Cara, cara gentile Miss Crawley... cara amica, se mi è consentito usare quest'espressione...» «Ma certo che potete, bambina cara,» disse la vecchia signorina abbracciandola. «Ora non ve lo posso dire,» ripeté Rebecca fra i singhiozzi, «ma promettete di conservarmi la vostra affezione.» E fra le lacrime delle due donne (giacché l'emozione della giovane aveva contagiato la vecchia), Miss Crawley promise solennemente; poi benedisse la sua piccola protégée, piena com'era di ammirazione per colei che considerava una dolce, ingenua, tenera e insondabile creatura. Così Rebecca rimase sola a meditare sugli strabilianti e inopinati avvenimenti di quella giornata, a ciò ch'era accaduto, a ciò che sarebbe potuto accadere. Quali sentimenti credete che potesse celare nel segreto dell'anima sua Miss (oh, scusate, Mrs.) Rebecca? Se già una volta qualche pagina più indietro, chi scrive si è accollato il diritto di spingere il proprio sguardo nella camera da letto di Miss Amelia Sedley, e di comprendere, con l'onniscienza del romanziere, tutte le dolci pene e le ansie che si agitavano su quel giaciglio virginale, perché non dovrebbe asserire di essere parimenti il confidente di Rebecca Sharp? Perché non dovrebbe essere il depositario dei suoi segreti, il nume tutelare della coscienza della sunnominata fanciulla? Dunque, per prima cosa Rebecca diede sfogo al suo sincero e commovente rammarico per aver sfiorato una simile fortuna ed esser stata costretta a rifiutarla. Chiunque sia dotato di normali capacità di raziocinio non potrà non comprendere una reazione tanto naturale. Quale madre, poniamo, non avrebbe compianto una fanciulla senza beni di sorta, che si fosse vista sfuggire l'occasione di diventare la moglie di un baronetto e spartire con quest'ultimo un patrimonio di quattromila sterline l'anno? Quale fanciulla dabbene, in tutta la Fiera della Vanità, non proverebbe un sentimento di solidarietà nei confronti di una ragazza laboriosa, intelligente, meritevole, che si trovi di fronte ad una proposta così onorevole, vantaggiosa e allettante proprio nel momento in cui essa non è più in condizione di accoglierla? Sono certo che l'amara delusione della nostra amica Becky susciti con pieno motivo la simpatia generale. Ricordo che una sera ebbi a trovarmi di persona alla Fiera, durante un ricevimento. Il mio occhio si posò su Miss Toady, anch'essa presente, che dedicava speciali attenzioni e frasi adulatorie alla piccola Mrs. Briefless, la moglie dell'avvocato, la quale indubbiamente proviene da un'ottima famiglia, ma come tutti sanno è povera in canna. Come mai, mi chiesi, tanti salamelecchi da parte di Miss Toady? Forse Briefless ha ottenuto una promozione ed è assurto alla magistratura, oppure sua moglie ha ereditato una fortuna? Ma poco dopo, con quella franca semplicità che la distingue, fu la stessa Miss Toady a fornirmi la spiegazione. Mi disse che Mrs. Briefless è nipote di Sir John Redhand, il quale si trova a Cheltenham gravemente ammalato e non ha più di sei mesi di vita. Ebbene, a succedergli sarà il padre di Mrs. Briefless, onde lei sarà figlia di un baronetto... Capite? Di conseguenza la Toady invitò a cena i coniugi Briefless per la settimana dopo. Ora, se il semplice fatto di esser figlia di una baronetto può procacciare a una signora il diritto a tanti riguardi in società, non c'è dubbio che si debba guardare con rispetto al dispiacere di una fanciulla che perde l'occasione di sposare un personaggio di pari grado. Chi mai avrebbe potuto aspettarsi che Lady Crawley sarebbe morta tanto presto? «Era una di quelle donne dalla salute perennemente malferma che possono tirare avanti anche dieci anni,» si ripeteva Rebecca, sommersa dal dolore e dal rimorso, «e io che avrei potuto prendere il suo posto! Avrei potuto ottenere dal vecchio tutto ciò che avessi voluto! Avrei potuto ringraziare senza tante storie Miss Crawley per la sua benevola protezione e Mr. Pitt per quella sua insopportabile bonomia mista di sufficienza. Avrei fatto cambiare la mobilia e riattare tutto il palazzo in città. Avrei avuto la più bella carrozza di tutta Londra, un palco all'Opera... e la prossima stagione sarei stata presentata a Corte. Sì, tutto ciò sarebbe potuto essere, e ora... ora invece il futuro è incerto, il futuro è un mistero, per me.» D'altro canto Rebecca era una ragazza troppo energetica e volitiva per abbandonarsi al rimpianto di un passato inattuato e inattuabile; pertanto, dopo aver meditato sulla cosa non più dello stretto necessario, saviamente rivolse il suo pensiero all'avvenire, che per lei era di gran lunga più importante. Fece dunque un rapido esame della situazione in cui versava, delle sue speranze, delle sue perplessità, delle occasioni sulle quali poteva contare. Innanzitutto era sposata, questo era un dato di fatto incontestabile, e Sir Pitt lo sapeva. Quella confessione le era sfuggita non tanto per la sorpresa quanto per un subitaneo calcolo. La cosa, prima o poi, si sarebbe risaputa; dunque, perché non approfittare di quell'occasione anziché rinviare la confessione a un momento successivo? Colui che avrebbe desiderato sposarla, avrebbe quantomeno rispettato il silenzio su quelle nozze. Il problema, semmai, era un altro: come avrebbe reagito Miss Crawley? Rebecca nutriva in seno giustificati timori; d'altro canto ricordava perfettamente tutto ciò che Miss Crawley aveva ripetuto più volte circa il suo disprezzo per la nascita; conosceva le sue idee liberali, la sua naturale inclinazione al romanticismo, il suo incondizionato affetto per il nipote e quello che più di una volta aveva manifestato anche a lei. Al nipote vuol tanto bene che sarebbe pronta a perdonargli qualsiasi cosa, pensava Rebecca. E nello stesso tempo si è così abituata alla mia presenza, che le peserebbe rinunciare a me. Quando verremo all'éclarcissement ci sarà una sfuriata, una scena isterica, una litigata coi fiocchi; ma poi verrà la riconciliazione. E in ogni caso, a che pro rimandare? Il dado era tratto e, oggi o domani, l'esito sarebbe stato il medesimo. Quindi Rebecca decise che Miss Crawley doveva esser messa al corrente, poi meditò sul modo migliore per confessarle la verità: era meglio affrontare coraggiosamente la tempesta che si sarebbe scatenata, oppure fuggire e mettersi il riparo fino a quando si fosse spenta la prima furia? Assorta in queste riflessioni si accinse alla stesura della seguente lettera: Mio caro, la grande crisi della quale tante volte abbiamo discusso insieme è venuta. Metà del mio segreto è ormai noto, e dopo aver riflettuto a lungo ho concluso che il momento di rivelare il mistero sia maturo. Stamani è venuto a farmi visita Sir Pitt, e mi ha fatto - lo crederesti? - una proposta di matrimonio. Figurati! Proprio a me, poverina! Avrei potuto diventare Lady Crawley. Mrs. Bute Crawley ne sarebbe stata felicissima! E ma tante, se avesse dovuto cedermi il passo! Avrei potuto diventare la mamma di chi sai, invece di.. ah, io tremo, tremo al pensiero che presto, molto presto bisognerà confessare tutto! Sir Pitt sa che sono sposata, ma non sa con chi; quindi per il momento non è molto in collera. Quanto a ma tante, è letteralmente furibonda perché ho rifiutato la sua profferta, ma al tempo stesso è tutta gentilezza e bontà. E arrivata al punto di dire che sarei stata una buona compagna per lui e giura che si comporterà come una madre con la tua piccola Rebecca. Certo la notizia la sconvolgerà, ma è il caso di temere il peggio, oltre il prorompere dell'ira che accompagnerà la rivelazione? Non lo credo, anzi, sono certa di no. È così affezionata a te (a quel cattivone, a quel buono a nulla che sei), che ti perdonerebbe qualsiasi cosa. Poi credo che nel suo cuore il secondo posto spetti a me, e che sarebbe molto infelice se io la lasciassi. Mio diletto, qualcosa mi dice che vinceremo. Tu ti congederai da quel detestabile reggimento, rinuncerai alle corse e al gioco per diventare un bravo ragazzo. Abiteremo tutti in Park Lane e avremo in eredità tutto il denaro di ma tante. «Domani farò il possibile per venire al solito posto alle tre. Se Miss B. mi accompagnerà, vieni a cena e recami una risposta. Mettila nel terzo volume dei sermoni di Porteous. Ma in ogni caso vieni dalla tua R.. A Miss Eliza Styles Presso Mr. Barnet, sellaio, Knightsbridge. Immagino non vi sia un solo lettore di questa modesta storia il quale non sia in grado di comprendere che Miss Eliza Styles (una vecchia compagna di scuola, a quanto asseriva Rebecca, con la quale di recente aveva ristabilito una fitta corrispondenza, e che riceveva le lettere presso un sellaio) portava speroni d'ottone, lunghi baffi arricciati e in effetti altri non era se non il capitano Rawdon Crawley. XVI • LA LETTERA SUL PUNTASPILLI Le circostanze nelle quali si erano sposati non rivestono per chicchessia la minima importanza. Chi potrebbe impedire a una ragazza e a un capitano, entrambi maggiorenni, di procurarsi un certificato di matrimonio e celebrare regolari nozze in qualsivoglia chiesa della città? A chi torna utile farsi spiegare che, se una donna vuole davvero qualcosa, trova il modo di ottenerla? Sono convinto che, un giorno in cui Miss Sharp era andata a trascorrere la mattinata in casa della sua amica Amelia Sedley, in Russell Square, una signora in tutto simile a lei fu vista entrare in una chiesa della City, in compagnia di un signore dai baffi tinti, il quale dopo un quarto d'ora l'aveva riaccompagnata ad una carrozza a noleggio che sostava in attesa, e che il tutto altro non era se non un pacifico, normalissimo matrimonio. E chi mai sulla terra, dal momento che oggi ne vediamo d'ogni colore, potrebbe stupirsi che un giovane di nobile casato sposi la prima venuta? Forse che tanti uomini saggi e di profonda cultura non hanno sposato la loro cuoca? Forse che Lord Eldon, uomo oltremodo oculato, non ha addirittura rapito la sua sposa? Forse che Achille ed Aiace non erano innamorati delle loro ancelle? Era dunque lecito attenderci che un corpulento dragone, ardente di desideri e povero di cervello, dall'inveterata incapacità di tenere a freno le passioni, di punto in bianco scoprisse la temperanza e si rifiutasse di pagare qualsiasi prezzo pur di assicurarsi il piacere che desiderava? Se la gente celebrasse soltanto matrimoni di convenienza, l'indice di natalità diminuirebbe in misura notevole. Per quanto mi concerne, sono indotto a ritenere che nella parte della biografia di questo nobiluomo, della quale dobbiamo riferire perché interessa la nostra storia, il matrimonio sia stato proprio una delle azioni più oneste. Nessuno può trovare a ridire sul fatto che un uomo s'innamori di una donna, o che, essendosene innamorato, la sposi. Pertanto l'ammirazione, la gioia, la passione, l'incantato stupore, l'incondizionata fiducia, la cieca adorazione che la piccola Rebecca aveva suscitato in quel prode guerriero sono altrettanti sentimenti che nessuna signora vorrà giudicare deplorevoli. Quando ella cantava, ogni nota aveva un'eco in quell'anima opaca, e faceva correre brividi in quel suo grosso corpo. Quando Rebecca parlava, Rawdon faceva ogni sforzo possibile per captare il significato delle cose meravigliose che lei diceva; e se per caso si trattava di una battuta di spirito, lui continuava a rimuginare nella mente quelle parole scherzose, per poi scoppiare a ridere in piena strada, tra la meraviglia del cocchiere che gli sedeva al fianco a cassetta, oppure del compagno che gli cavalcava accanto nel Rotten Row. Ogni sua parola era per lui oro colato, da ogni gesto di lei trasparivano ineffabili grazia e saggezza. «Come canta! Come dipinge!» pensava. «E come cavalcava quella cavalla capricciosa a Queen's Crawley!» Poi, nei momenti di dolce intimità, le diceva: «Per Giove, Becky, tu sapresti fare anche il comandante d'Armata, o l'arcivescovo di Canterbury! Eh, sì, per Giove!» Un caso eccezionale, forse? Per carità! Se ne vedono ogni giorno di questi onesti Ercoli abbarbicati alle vesti di Onfale, e dei grandi, baffuti Sansoni inginocchiati ai piedi di Dalila! Becky gli aveva detto che il momento cruciale della crisi era ormai prossimo, ch'era giunto il tempo di agire, e Rawdon si dichiarò pronto ad eseguire i suoi ordini, proprio come, su comando del colonnello, avrebbe mosso alla carica con i suoi soldati. Non gli fu necessario andare a infilare il bigliettino nel terzo volume dei sermoni di Portecus. Rebecca non ebbe alcuna difficoltà a sbarazzarsi della Briggs, la sua accompagnatrice, e s'incontrò col fedele amico al «solito posto». Durante la notte non aveva cessato di pensare e ripensare alla situazione, e comunicò a Rawdon le sue decisioni. Naturalmente egli si dichiarò d'accordo su tutto: era certo che ogni cosa sarebbe andata per il meglio, che la soluzione da lei proposta fosse senz'altro la più opportuna. Che Miss Crawley si sarebbe rasserenata e «avrebbe ingoiato il rospo», com'egli disse dopo una pausa. D'altra parte, se le decisioni di Rebecca fossero state diametralmente opposte, egli le avrebbe approvate senza fiatare, seguendole con la stessa cieca ubbidienza. «Tu hai cervello per tutti e due, Becky,» diceva, «e sono certo che riuscirai a toglierci da questo guaio. Non ho mai conosciuto una sola persona che ti possa stare alla pari, sebbene anch'io ne abbia conosciuta di gente in gamba.» E sull'onda di questa candida professione di fede, il dragone innamorato lasciò a Rebecca di decidere quale sarebbe stato il ruolo di sua spettanza nell'esecuzione dei loro piani. Si trattava, molto semplicemente, di prendere in affitto un piccolo alloggio tranquillo nel quartiere di Brompton, o nelle vicinanze della caserma, per Mr. e Mrs. Crawley. Infatti Rebecca aveva deciso di fuggire, dando prova di molta prudenza. Rawdon ne fu felice: da settimane la scongiurava di prendere questa decisione, e si mise in cerca dell'appartamento con tutto l'entusiasmo di un innamorato. Anzi accettò senza discutere di pagare una pigione di due ghinee la settimana, tanto che la padrona si rammaricò in cuor suo di non aver chiesto di più. Rawdon vi fece collocare un pianoforte, riempì di fiori una stanza e ordinò un gran numero di suppellettili eleganti. Quanto poi a scialli, guanti di capretto, calze di seta, orologi d'oro francesi, braccialetti e profumi, ne ordinò con la profusione di chi è sorretto dall'amore cieco e da un'illimitata disponibilità finanziaria. Poi, sollevato lo spirito grazie a questo munifico esercizio di prodigalità, andò al Circolo e attese che giungesse la grande ora della sua vita. Gli eventi del giorno innanzi, il mirabile comportamento di Rebecca nel rifiutare una proposta per lei tanto vantaggiosa, il dolore segreto che le opprimeva il cuore, la silenziosa dolcezza con la quale mostrava di sopportare la sua angoscia accrebbero in Miss Crawley la tenerezza nei suoi riguardi. Un episodio siffatto vale a dire un matrimonio, oppure la proposta o il rifiuto del medesimo - mette le donne di qualunque casa in uno stato di estrema eccitazione e suscita in loro la smania quasi isterica di prodigarsi in attenzioni e iniziative. Avido come sono di studiare la natura umana, frequento spesso la chiesa di St. George, in Hannover Square, nella stagione in cui vi si celebrano i matrimoni dell'aristocrazia. Ebbene, non mi è mai accaduto di cogliere un'ombra di commozione negli amici dello sposo o negli officianti la cerimonia, al contrario non di rado ho constatato come le donne, anche se si tratta di estemporanee spettatrici (magari vecchie dame che da gran tempo hanno superato l'età valida per gli sponsali, o donne mature ingrassate dalle maternità, per non parlare delle giovinette in cuffia rosa che ormai hanno raggiunto l'età idonea e a maggior ragione s'interessano a quello spettacolo), non di rado ho constatato, dicevo, che le donne facilmente piangono, singhiozzano celando il volto nei loro inutili fazzolettini, sconvolte dall'emozione, senza distinzione alcuna fra vecchie e giovani. Quando un mio amico, il ben noto John Pimlico, sposò Lady Belgravia Green Parker, tale e tanta fu l'eccitazione che persino la vecchietta che distribuisce le sedie (ne diede una anche a me) e mastica tabacco in continuazione aveva il viso bagnato di lacrime. Come mai?, mi chiesi. Dopo tutto non è lei che si sposa. Insomma, sta di fatto che, dopo la faccenda della proposta di nozze di Sir Pitt, Miss Crawley e la Briggs si prodigarono in uno sfoggio di teneri sentimenti e per loro Rebecca divenne l'oggetto del più affettuoso interessamento Quando Becky era assente Miss Crawley cercava conforto nella lettura dei libri più sentimentali che avesse in biblioteca. La piccola Miss Sharp, che celava in cuore il suo muto dolore, era il personaggio del momento. Quella sera Rebecca cantò più dolcemente e conversò nel modo più piacevole di quanto le fosse mai accaduto prima di allora nella casa di Park Lane. Il cuore di Miss Crawley era ormai completamente suo. E in quanto alla profferta di Sir Pitt, trovò modo di parlarne in termini scherzosi, di ridicolizzarla tacciandola d'esser stata l'insana fantasia di un povero vecchio. Nondimeno aveva gli occhi pieni di lacrime, e il cuore della Briggs veniva trafitto dagli acuminati strali della gelosia mentre Rebecca dichiarava di non coltivare altro desiderio se non quello di restare per sempre al fianco della sua amata benefattrice. «Mia cara,» rispose la vecchia signora, «non vi permetterò di andarvene. Intendo trattenervi con me per anni, di questo siate pur certa. Quanto poi a tornare nella residenza di quel mio insoffribile fratello, dopo quanto è accaduto non è nemmeno il caso di parlarne. Voi ve ne starete qui insieme con me e la Briggs. La Briggs esprime spesso il desiderio di recarsi a trovare i suoi parenti. Ebbene, Briggs, potete andare a trovarli quando vi pare; quanto a voi, mia cara, dovrete starvene qui e aver cura di questa povera vecchia.» Se in quel momento Rawdon Crawley fosse stato presente, invece di oziare al Circolo bevendo nervosamente del borgogna, la coppia avrebbe potuto inginocchiarsi senza por tempo in mezzo ai piedi della vecchia signorina e ottenerne l'immediato perdono. Ma quell'occasione tanto favorevole andò in fumo, senza dubbio perché la nostra storia potesse esser scritta, storia nella quale vengono riferite alcune delle loro mirabolanti avventure. E tali avventure non sarebbero mai accadute se Rebecca e Rawdon fossero stati accolti e accettati nel confortevole ma poco interessante perdono di Miss Crawley. Alle dirette dipendenze di Miss Firkin c'era, nella casa di Park Lane, una ragazza dello Hampshire la quale, fra altre mansioni, aveva anche quella di bussare all'uscio di Miss Sharp recandole quella brocca d'acqua calda che la Firkin sarebbe morta piuttosto che portarla di persona all'odiata intrusa. La giovane, cresciuta nelle terre di proprietà dei Crawley, aveva un fratello che prestava servizio fra le truppe al comando del capitano Crawley e, se fosse lecito raccontare ogni minima cosa, forse salterebbe fuori che costei era edotta su certi episodi intimamente connessi con la nostra storia. Ad ogni modo un fatto è certo: costei si comperò uno scialle giallo, un paio di stivaletti verdi e un cappello azzurro adorno di una penna rossa, pagando il tutto con tre ghinee donatele da Rebecca; e siccome quest'ultima era tutt'altro che incline a elargire prodigalmente il suo denaro, occorre dedurne che Betty Martin le aveva reso qualche prezioso servigio ottenendo la suddetta ricompensa. Il giorno successivo alla proposta rivolta da Sir Pitt a Miss Sherpa il sole si levò come il solito, e come il solito Betty Martin, la cameriera, picchiò all'uscio della camera da letto dell'istitutrice. Non avendo alcuna risposta, tornò a picchiare. Silenzio. Allora Betty, reggendo la brocca in mano, spinse la porta ed entrò nella stanza. Il bianco lettino era liscio e rifatto con ogni cura, come il giorno innanzi quando Betty aveva aiutato a rassettarlo con le proprie mani. In fondo al locale c'erano due bauletti chiusi e legati, e sul tavolino di fronte alla finestra, su un grosso e grasso puntaspilli foderato di rosa e adorno di un nastro arricciato come quelli delle cuffie da notte delle signore, posava una lettera. Probabilmente attendeva da tutta la notte. Betty si avvicinò in punta di piedi, quasi avesse avuto timore di svegliarla... La guardò, volse lo sguardo attorno con un'espressione mista di stupore e soddisfazione; afferrò la lettera, se la rigirò tra le mani con un sorrisetto compiaciuto e finalmente la portò da basso a Miss Briggs. Come mai Betty intuì che la lettera era destinata a Miss Briggs? Mi piacerebbe proprio saperlo. Infatti l'unica forma d'istruzione che Betty avesse ricevuto in vita sua era quella della scuola di catechismo di Mrs. Bute Crawley, e quindi non sapeva leggere più di quanto sapesse scrivere l'ebraico. «Tenete, Miss Briggs,» disse Betty. «Dev'essere accaduto qualcosa. Nella camera di Miss Sharp non c'è nessuno, nel letto non ci ha dormito. Dev'essere scappata con uno e ha lasciato questa lettera per voi.» «Cosa?» gridò Miss Briggs lasciandosi sfuggire il pettine di mano, mentre il codino di capelli scoloriti le ricadeva sulle spalle. «Scappata con un uomo? Miss Sharp è scappata? Cooosa?» Dopo di che ruppe con gesto ansioso il sigillo di ceralacca e, come si suoi dire, «divorò» il testo della missiva a lei indirizzata. Cara Miss Briggs, scriveva la fuggitiva, il vostro cuore, è il più tenero del mondo, avrà compassione di me, saprà comprendermi e scusarmi. Tra le lacrime, le preghiere, le benedizioni, lascio la casa dove una povera orfana quale io sono altro non trovò che gentilezza d'animo e incondizionato affetto. Diritti superiori perfino a quelli che competono alla mia benefattrice mi sollecitano altrove. Vado da mio marito, spinta dal mio dovere. Sì, sono sposata, e mio marito mi ingiunge di seguirlo nella sua casa. Siate voi, cara Miss Briggs, a darne la notizia alla mia diletta amica e benefattrice col garbo e la discrezione che il vostro tatto sapranno suggerirvi. Ditele che prima di andarmene ho pianto sul suo guanciale, quel guanciale che ho sprimacciato tante volte durante la sua malattia, e accanto al quale anelo tuttora di ritornare. Ah, si bramo di far ritorno nella casa di Park Lane, e come tremo per la risposta che sancirà il mio destino! Quando Sir Pitt si degnò di chiedermi in sposa, onore che secondo la mia beneamata Miss Crawley (la benedico per aver giudicato questa povera orfana degna di diventare sua sorella) io meritavo, confessai a Sir Pitt di essere già sposata. Anch'egli mi accordò il suo perdono, ma in quel momento mi mancò il coraggio di dirgli tutto: e cioè che non potevo essere sua moglie perché ero sua figlia! Sono sposata al migliore e al più generoso degli uomini. Il Rawdon di Miss Crawley è il mio Rawdon. Ora egli mi ha ordinato di rivelare tutto, ed io lo seguo nella nostra modesta casetta, come del resto lo seguirei in qualsiasi parte del mondo. Ottima, gentilissima amica, ve ne supplico: intercedete presso l'amatissima zia del mio Rawdon; intercedete per lui e per la povera fanciulla alla quale tutti i membri della sua nobile famiglia hanno tributato ineguagliabili attenzioni d'affetto. Scongiurate Miss Crawley di voler ricevere i suoi figli. Non posso aggiungere altro, se non invocare infinite benedizioni sulla diletta dimora che lascio. La vostra affezionata e riconoscente Rebecca Crawley Mezzanotte Nel momento stesso in cui la Briggs terminava di leggere questo commovente e memorabile documento che la reintegrava nel suo ruolo di confidente di Miss Crawley, Mrs. Firkin entrò nella stanza. «Mrs. Bute Crawley è arrivata or ora in diligenza e vorrebbe una tazza di tè. Volete scendere e preparare la colazione? Miss Briggs?» Stringendosi la veste da camera attorno al corpo, il codino di capelli sfatto che le sventolava sulle spalle e i diavolini di carta che le incorniciavano la fronte, la Briggs volò al piano di sotto seguita dallo sguardo stupefatto della Firkin. La sua mano impugnava ancora la lettera che conteneva quella strabiliante notizia. «Che pasticcio, Mrs. Firkin!» esclamò Betty. «Miss Sharp è scappata col capitano e sono a Gretney Green!» Volentieri dedicheremmo un capitolo ai sentimenti di Mrs. Firkin, se la nostra più nobile e gentile musa non fosse già impegnata nella descrizione dei sentimenti della sua padrona. Quando Mrs. Bute Crawley che, intirizzita dal viaggio notturno, si scaldava davanti alla fiamma scoppiettante del caminetto acceso poc'anzi in salotto, ebbe dalla Briggs la rivelazione di quel matrimonio clandestino, dichiarò che il suo arrivo era veramente provvidenziale: avrebbe aiutato la povera Miss Matilda a sopportare quel colpo terribile. Aggiunse che Rebecca era una piccola intrigante che aveva sempre suscitato la sua diffidenza; quanto poi a Rawdon, non era mai riuscita a spiegarsi come mai la vecchia zia ne fosse a tal punto infatuata: quell'uomo (lei lo aveva sempre pensato) era un libertino, un essere corrotto e senza timor di Dio. Quell'imperdonabile malefatta, commentò Mrs. Bute Crawley, avrebbe avuto quantomeno l'effetto benefico di squarciare il velo che offuscava gli occhi della povera, cara Matilda, rivelandole la vera natura di quell'individuo perverso. Dopo di che Mrs. Bute Crawley si riconfortò con una buona tazza di tè bollente accompagnata da pane tostato, e dal momento che adesso nella casa c'era una camera a disposizione, decise senz'altro che non valeva la pena alloggiare al Gloster Coffee-House, dove aveva preso alloggio scendendo dalla diligenza di Portsmouth, e ordinò al domestico, primo aiutante di Mr. Bowls, di andare a ritirare i suoi bagagli. Occorre precisare che Miss Crawley non lasciava mai la propria camera prima di mezzogiorno. La mattina sorbiva a letto la sua cioccolata, mentre Becky le leggeva il «Morning Post», oppure indugiava in qualche passatempo, o gironzolava per la stanza. Pertanto, al piano di sotto, le cospiratrici deliberarono di risparmiare tanto strazio alla vecchia dama fino a quando avesse fatto la sua comparsa in salotto. Nel frattempo le annunciarono che Mrs. Bute Crawley era arrivata dallo Hampshire in diligenza, alloggiava al Gloster, porgeva i suoi affettuosi omaggi a Miss Matilda e aveva chiesto di far colazione con Miss Briggs. Questa visita, che in qualsiasi altro momento non sarebbe stata certo salutata con gioia, nella presente circostanza fu invece oggetto del più vivo piacere. Infatti Miss Crawley preconizzava il gusto di conversare con la cognata della defunta Lady Crawley, dei preparativi per le esequie imminenti e dell'inopinata proposta di matrimonio rivolta a Rebecca da Sir Pitt. Solo quando la vecchia dama si fu accomodata per bene nella abituale poltrona e le due signore ebbero scambiato le effusioni di rito e le prime domande di prammatica, le cospiratrici ritennero che fosse giunto il momento di sottoporla all'operazione. Chi di voi non ha avuto occasione di ammirare i «delicati» accorgimenti mediante i quali le donne «preparano» le loro amiche a ricevere una brutta notizia? Le due amiche di Miss Crawley allestirono un tale apparato di mistero prima di rivelarle l'accaduto, da portare la vecchia a un grado indispensabile di dubbio e di allarmata ansietà. «Vedete, ha rifiutato Sir Pitt, mia cara, cara Matilda, perché... perché... dovete prepararvi, mia cara...» balbettava Mrs. Bute Crawley, «... perché non poteva agire altrimenti.» «Una ragione c'era, questo è evidente,» rispose Miss Crawley, «lo dicevo proprio ieri alla Briggs. Ama un altro.» «Ama un altro?» intervenne la Briggs, ansante. «Cara amica, è già sposata.» «Già sposata,» fece eco Mrs. Martha. Poi tacquero, le mani incrociate in grembo, guardandosi a vicenda e spiando le reazioni della loro vittima. «Mandatela da me non appena arriva. Quella piccola, indegna bugiarda! Come ha osato sottacermelo?» esclamò Miss Crawley. «Non verrà tanto presto. È, bene che ve ne rendiate conto, mia cara. Se n'è andata per molto tempo... Se n'è andata per sempre.» «Mio Dio, chi sarà d'ora in poi a prepararmi la cioccolata? Fatela chiamare, presto. Esigo che torni subito!» strillò la vecchia signorina. «È fuggita la scorsa notte...» disse Mrs. Bute Crawley. «E ha lasciato una lettera per me...» aggiunse la Briggs. «Ha sposato...» «Preparatela, cara Miss Briggs... Non torturatela così, per amor del cielo!» «È sposata con chi?» urlò la zitella in un impeto di collera. «Con un parente di... di...» «Ha rifiutato Sir Pitt,» strillò la vittima, «coraggio, parlate se non volete che impazzisca!» «Mia cara... preparatela, Miss Briggs... Ha sposato Rawdon Crawley.» «Rawdon sposato... Rebecca... l'istitutrice... nessuno... fuori dalla mia casa, stupida, idiota, vecchia imbecille di una Briggs... Come vi permettete? E anche voi li avete aiutati Martha! Siete voi che li avete fatti sposare, sperando che non avrei lasciato a lui il mio denaro! Siete stata voi, Martha!» urlò la povera donna a frasi mozze. «Io, signora? Io esortare un membro della nostra famiglia a sposare la figlia di un maestro di disegno?» «Sua madre era una Montmorency!» gridò la vecchia tirando il cordone del campanello con tutte le sue forze. «Sua madre era una ballerina dell'Opera,» replicò Mrs. Bute Crawley, «e anche lei ha battuto le scene, se non ha combinato anche di peggio.» Miss Crawley diede in un altro urlo, poi ricadde svenuta nella poltrona. Fu giocoforza riportarla in camera da letto donde era appena scesa. Fu un susseguirsi incessante di crisi isteriche. Qualcuno andò in cerca del medico; poi venne anche il farmacista. Mrs. Bute Crawley si pose al capezzale. «I parenti debbono aver cura di lei,» disse la squisita signora. Miss Crawley era appena stata trasferita nella sua camera, quando giunse un altro visitatore al quale fu necessario dare la stessa notizia. Era Sir Pitt. «Dov'è Becky?» domandò, nell'atto stesso di entrare. «Dove sono le sue valigie? Deve venire con me a Queen's Crawley.» «Non vi è giunta la straordinaria notizia del suo matrimonio segreto?» «Cosa me ne importa?» rispose Sir Pitt. «Lo so che è sposata, ma questo non cambia niente. Ditele di scendere immediatamente. Non ho intenzione di aspettare.» «Ma non sapete,» continuò Miss Briggs, «che ha lasciato di nascosto la casa, piombando nella disperazione Miss Crawley, la quale per poco non è morta quando è venuta a sapere della sua unione con il capitano Crawley?» Quando Sir Pitt apprese che Rebecca aveva sposato suo figlio, dalla sua bocca uscì un tale diluvio di parole, che certo non possiamo riferire in questa sede, se è vero che la povera Briggs dovette uscire rabbrividendo dalla stanza. E insieme con lei chiudiamo la porta sulla figura di quel vecchio esagitato, reso furente dall'odio e pazzo dal desiderio inappagato. Il giorno dopo, non appena fu di ritorno a Queen's Crawley, piombò come un folle nella camera che Rebecca aveva occupato durante la sua permanenza nella dimora avita dei Crawley, fracassò a calci le valigie e le cappelliere, buttò all'aria tutte le carte, gli abiti, gli oggetti che lei vi aveva lasciato. La figlia di Horrocks, il maggiordomo, si prese qualche vestito, e le bambine s'impadronirono degli altri per travestirsi e giocare al teatro. Pochi giorni erano trascorsi da quando la loro madre giaceva nella sua solitaria sepoltura, dov'era deposta, senza rimpianto e senza una parola di rispetto alla sua memoria, in una cripta popolata da estranei. «E se la vecchia non mollasse?» chiese Rawdon alla mogliettina, mentre se ne stavano seduti l'uno accanto all'altra nell'intimità del loro appartamentino di Brompton. Per tutta la mattina Rebecca aveva suonato il nuovo pianoforte. I guanti nuovi le andavano a pennello, gli scialli nuovi le stavano a meraviglia, gli anelli nuovi le scintillavano alle dita e il nuovo orologio le ticchettava alla vita, appeso al collo con una catenella. «E se non mollasse, eh, Becky?» «Allora ci penserò io a fare la tua fortuna,» rispose Rebecca. E Dalila diede un buffetto alla guancia del suo Sansone «Tu sai fare tutto,» disse lui baciandole la manina: «Per Giove se lo puoi! Ed ora andiamo a cena allo Star and Garter, per Giove!» XVII • COME IL CAPITANO DOBBIN ACQUISTÒ UN PIANOFORTE Se alla Fiera della Vanità esiste uno spettacolo al quale la Satira e il Sentimento si recano a braccetto; dove è dato d'imbatterci nei più curiosi contrasti, nel riso o nel pianto; dove siete affatto liberi di mostrarvi gentili e patetici, rozzi e cinici, si tratta certo di una di quelle pubbliche riunioni i cui annunci riempiono quotidianamente l'ultima pagina del «Times», e alle quali il compianto Mr. George Robins presiedeva con molta dignità. Credo che siano ben pochi i londinesi che, almeno una volta in vita loro, non abbiano assistito ad una di codeste riunioni, e tutti coloro che sono inclini a meditare sulle molteplici congiunture della vita debbono aver pensato (con un subitaneo brivido di sgomento) al giorno in cui sarebbe venuto il loro turno, e Mr. Hammerdown avrebbe venduto per ordine dei commissari di Diogene - in conformità alle istruzioni degli esecutori testamentari -, mettendo all'incanto la mobilia, il vasellame, la biblioteca, il guardaroba e la selezionatissima cantina del defunto Epicuro. Anche il più cinico rappresentante della Fiera della Vanità non può reprimere un moto di compassione e di rimpianto quando gli capiti di presenziare a questa fase particolarmente squallida delle esequie di un amico. I resti di Lord Dives giacciono ormai nella cappella di famiglia e gli scalpellini stanno incidendo l'epigrafe nella quale sono esaltate le virtù del defunto e il dolore dell'erede il quale, nello stesso momento, sta vendendo all'asta quelli che furono i suoi averi. Quanti, fra coloro che in altri tempi conobbero l'abituale ospitalità alla sua tavola, possono passare davanti alla sua casa un tempo così familiare, senza un sospiro di pena? Quella casa tanto familiare ove le luci brillavano allegramente a partire dalle sette di sera, ove le porte si aprivano con assoluta prontezza, ove i domestici compiti e cortesi facevano echeggiare il vostro nome dall'uno all'altro pianerottolo mentre voi salivate l'ampia scalea, fino a giungere nella sala dove l'allegro Lord Dives dava il benvenuto agli amici! Quanti ne aveva, e con quale cordiale, nobile munificenza sapeva accoglierli. E come si mostravano spiritosi, in quella casa, gli stessi uomini che altrove apparivano cupi e imbronciati! E com'erano vicendevolmente amichevoli e cordiali le persone che, fuori da quelle mura, si detestavano e sparlavano le une delle altre! Lui era fatuo e vanesio, ma aveva un cuoco coi fiocchi; quindi c'era forse qualcosa che Tizio o Caio non fossero disposti a tollerare Anzi, diciamo francamente che era piuttosto stupido, ma vini come i suoi non avevano forse il potere di rendere gradevole qualsivoglia conversazione? «Dobbiamo cercare di procurarci un po' del suo Borgogna, a qualsiasi prezzo!» si dicevano al Circolo quanti ne compiangevano la sorte. «Ho comperato questa scatola all'asta del vecchio Dives,» diceva Pincher mostrandola all'uno e all'altra. «Bella, vero? In origine apparteneva ad una delle amanti di Luigi XV. La miniatura è deliziosa.» Poi, eccoli cianciare di come ora il giovane Dives stia sperperando i beni paterni. E la casa! Com'è mutata! La facciata è costellata di manifesti che descrivono a caratteri cubitali le caratteristiche dei singoli mobili. Uno straccio di tappeto è stato appeso ad una delle finestre dei piani superiori, mentre sei o sette facchini attendono sonnecchiando sui gradini sudici. L'atrio è invaso da una turba di curiosi individui d'aspetto orientale che v'infilano tra le mani dei bigliettini di presentazione e s'incaricano di fare le offerte. Vecchie signore e una turba di amatori si aggirano per i locali dei piani superiori e tastano le cortine del baldacchino del letto, infilano la mano tra i piumini, sollevano e premono i materassi, aprono e richiudono i cassetti dei guardaroba. Giovani signore intraprendenti misurano tendaggi e specchiere per vedere se possano essere utilizzati nella casa che stanno allestendo (Mr. Snob menerà vanto per un anno almeno di aver comperato questo o quell'oggetto all'asta del vecchio Dives), mentre Mr. Hammerdown siede alla grande tavola di mogano in sala da pranzo, agitando il martelletto d'avorio e facendo appello a tutte le arti dell'eloquenza: entusiasmo, supplica, forza di persuasione, disperazione, e spronando altresì i suoi aiutanti, dileggiando la lentezza di Mr. Davids, incoraggiando Mrs. Moss a decidersi, invocando, ordinando, urlando. Finché, alla fine, giù! Il martelletto si abbatte sulla tavola e si passa al lotto successivo. Ahimè, Dives, come avremmo potuto immaginare, quando sedevamo attorno alla grande tavola ricoperta di candidi lini e scintillante di bicchieri e caraffe di cristallo, che a capo di quella stessa tavola avremmo visto ruggire quell'esagitato banditore? L'asta volgeva al termine. La splendida mobilia del salotto, opera di provetti artigiani, i vini rari e di gran fama, scelti senza badare a spese e col ben noto gusto di colui che li aveva comperati, il sontuoso servizio di piatti erano già stati venduti il giorno innanzi. Alcuni dei vini migliori (tutti oggetto di gran fama tra i buongustai del vicinato) erano già stati acquistati per conto del suo padrone che li conosceva benissimo, dal maggiordomo del nostro amico Mr. John Osborne, di Russell Square. Una modesta sezione del vasellame di più immediata utilità era stata comperata da un gruppo di giovani agenti di cambio della City. Ora, dato inizio alla vendita delle suppellettili di maggior pregio, ecco che il banditore era più che mai impegnato ad esaltare le preclare virtù di un quadro, caldeggiandone l'acquisto presso il pubblico, assai meno numeroso e scelto che nei giorni precedenti. «Numero 369!» gridò la voce tonante di Mr. Hammerdown. «Ritratto di un gentiluomo su un elefante. Chi fa un'offerta per il gentiluomo in groppa all'elefante. Sollevate il quadro, Blowman, così i signori avranno agio di osservare meglio il dipinto.» Un signore alto, magro, pallido, che sedeva alla tavola di mogano (lo si sarebbe detto un ufficiale) non poté trattenere un sorrisetto alla vista di quel pregevole dipinto che Mr. Blowman mostrava all'inclito pubblico. «Fate vedere l'elefante al capitano Blowman,» disse Hammerdown. «Signore, qual è la vostra offerta?» Ma il signore di colpo si fece rosso e distolse lo sguardo, palesemente turbato, e il banditore ebbe rispetto per il suo turbamento. «Diciamo venti ghinee per quest'opera d'arte? Quindici? Cinque? A voi il prezzo. Il gentiluomo senza elefante vale cinque sterline.» «Non si riesce a capire come mai non siano ruzzolati a terra tutti e due,» disse un tale, facile alle battute di spirito. «Il gentiluomo è un carico tutt'altro che irrilevante.» E questa uscita (dal momento che, in effetti, l'uomo issato sull'elefante era piuttosto corpulento) corse per la sala un breve scoppio di risa. «Non cercate di sminuire questo pezzo agli occhi dello spettabile pubblico, Mr. Moss,» intervenne Mr. Hammerdown, «spetta ai signori apprezzare quest'opera d'arte. Osservino il naturale atteggiamento dell'animale, il signore in giacca di camoscio che regge in mano il fucile, si accinge a recarsi a una partita di caccia. Lontano, una pagoda e un albero di banane, e tale sfondo riproduce fedelmente qualche angolo pittoresco di uno fra i nostri splendidi possedimenti nelle Indie orientali. Quanto offrite per un pezzo simile? Suvvia, signori, non fatemi star qui tutto il giorno!» Qualcuno offrì sei scellini. Al che l'ufficiale guardò nella direzione donde proveniva quella generosissima offerta e scorse un altro militare a braccetto con una giovane signora: a quanto pareva, quella scena li divertiva moltissimo, e il quadro alla fine venne assegnato per mezza ghinea. Il turbamento dell'ufficiale seduto alla tavola aumentò notevolmente quando li riconobbe; pertanto ritrasse il capo nell'ampio colletto dell'uniforme, volse loro le spalle e con tale gesto mostrò in modo irrefutabile la sua precisa intenzione di voler scansare la coppia. Non abbiamo l'intenzione di elencare in questa sede tutti gli altri oggetti che quel giorno Mr. Hammerdown ebbe l'onore di offrire all'incanto, fatta eccezione per un piccolo pianoforte verticale (quello a coda era già stato venduto) che scese dai piani superiori della casa. La giovane signora cui abbiamo accennato lo provò brevemente facendovi scorrere le sue agili dita (cosa che di nuovo fece arrossire e trasalire l'allampanato ufficiale) e il suo agente, quando ebbe inizio la vendita, avanzò un offerta. Ma la cosa non andò per le spicce, poiché l'ebreo che operava per conto dell'ufficiale seduto alla tavola si mise in gara con l'altro ebreo che agiva per conto di chi aveva acquistato l'elefante. Ne derivò una contesa piuttosto vivace per il possesso del piccolo pianoforte, nella quale i due aspiranti alla proprietà dell'oggetto in questione venivano stimolati da Mr. Hammerdown. Alla fine, dopo che la contesa si fu prolungata per un certo lasso di tempo, il capitano e la giovane signora dell'elefante rinunciarono. Il banditore abbatté sulla tavola il martelletto e disse: «A voi, Mr. Lewis. Venticinque.» Pertanto l'incaricato che operava per conto di Mr. Lewis divenne il proprietario del piccolo pianoforte. Assicuratosi l'acquisto, sedette impettito con l'aria di chi trae un gran sospiro di sollievo; fu in quel momento che i due contendenti sconfitti lo notarono e la giovane signora disse al suo compagno: «Rawdon, ma quello è il capitano Dobbin!» Chissà, forse Becky era poco soddisfatta del piano che suo marito le aveva preso in affitto, oppure il proprietario dello strumento era venuto a riprenderselo rifiutando di concederne ulteriormente l'uso a credito, o forse ella era affezionata all'oggetto che aveva tentato di comperare perché le ricordava i giorni in cui era solita suonarlo nel salottino della nostra amica Amelia Sedley. L'asta si svolgeva nella vecchia casa di Russell Square, ove abbiamo trascorso qualche serata nei primi capitoli della nostra storia. Il vecchio John Sedley era rovinato, pover'uomo. In Borsa era stato dichiarato insolvente, al che erano seguiti la bancarotta e il totale fallimento. Il maggiordomo degli Osborne si era recato ad acquistare qualche bottiglia di quel famoso vino di porto, onde trasferirlo nelle cantine della casa di fronte. Una dozzina di forchette e cucchiai d'argento d'ottima fattura venduti a peso, e una dozzina di posate da frutta vendute alla stessa maniera, misero relitto di tanto naufragio, furono inviati coi loro ossequi a Mrs. Sedley da tre giovani agenti di cambio (per l'esattezza si trattava di Dale, Spiggot e Dale, di Threadneedle Street), i quali erano stati in rapporti d'affari con John Sedley e da lui avevano avuto cortesie all'epoca in cui il vecchio signore era cortese con tutte le persone con le quali avesse a che fare. Quanto al pianoforte di Amelia (la quale quasi certamente si doleva di esser costretta a privarsene, perché poteva averne bisogno in futuro), è oltremodo probabile che il capitano Dobbin non lo avesse comperato per sé, visto che non sapeva suonarlo più di quanto sapesse ballare sulla corda. In breve, quella sera stessa il pianoforte giunse in un minuscolo cottage prospiciente una trasversale di Fulham Road, una di quelle viuzze che per lo più hanno un nome romantico (e la stradina in questione si chiamava infatti St. Adelaide Villas, Anna-Maria Road, West), dove le case sembrano case di bambole e la gente affacciata al primo piano sembra sieda in salotto al pianterreno; dove la siepe del piccolo giardino antistante la facciata è sempre fiorita di grembiali di bimbi, di calzini rossi, di cuffiette eccetera (poliandria, poliginia); dove echeggia il suono dei cembali e un canto di voci femminili, il sole riscalda coi suoi raggi piccoli vasi appesi alle ringhiere; dove la sera rincasano stanchi gli impiegati della City. Qui, appunto, si trovava l'abitazione di Mr. Clapp, ex segretario di Mr. Sedley, ed era in questo rifugio ospitale che il buon vecchio era venuto a nascondersi, insieme con la moglie e la figlia, dopo la catastrofe. Quando ebbe la notizia della calamità che aveva colpito la sua famiglia, Jos Sedley si comportò esattamente come si sarebbe comportato un uomo della sua indole. Non tornò a Londra, ma scrisse a sua madre autorizzandola a rivolgersi ai funzionari della sua banca e a prelevare qualunque somma fosse loro necessaria. Pertanto i suoi poveri, vecchi genitori non avevano, per il momento, da temere la povertà. Preso questo provvedimento, Jos Sedley aveva continuato la solita vita, alloggiando come sempre all'albergo di Cheltenham. Continuò imperterrito a bere il suo vino preferito, a guidare il calesse, a giocare a carte, a raccontare fino alla nausea le sue avventure in India e a farsi consolare e lusingare dalla vedova irlandese. Quel regalo in denaro, per quanto necessario, non valse a confortare i suoi genitori, e Amelia ebbe a confidare che il primo giorno in cui vide il padre sollevare il capo dopo il fallimento fu quello in cui arrivò l'involto con le posate, inviategli con un biglietto affettuoso dai giovani agenti di cambio. A quella vista scoppiò in lacrime come un bambino, ed era perfino più commosso di sua moglie alla quale quel dono era personalmente indirizzato. Il più giovane degli agenti di cambio che avevano comperato le posate, Edward Dale, aveva una marcata simpatia per Amelia, e nonostante la situazione chiese la sua mano. Ciò non toglie che nel 1820 finisse con lo sposare Miss Louisa Cutts, figlia di Mr. Cutts della Higham & Cutts (cospicui mercanti di granaglie), la quale gli portò una ingentissima dote, ed oggi costui vive da rajà e con numerosa prole nella sua elegante villa, a Muswell Hill. Ma non dobbiamo consentire a questo degno personaggio di distrarci dal vivo del nostro racconto. Voglio sperare che il lettore si sia fatto, del capitano e di Mrs. Crawley, un'opinione sufficientemente positiva per rendersi conto che non si sarebbero mai sognati di portarsi in un quartiere fuori mano come Bloomsbury, se avessero immaginato che la famiglia che intendevano onorare di una loro visita fosse non solo decaduta dal grado sociale di un tempo, ma addirittura spogliata d'ogni avere e nell'impossibilità di tornare loro utile in qualsivoglia maniera. Rebecca fu oltremodo sorpresa nel vedere la vecchia, confortevole dimora, ove aveva ricevuto tante attenzioni, messa a sacco da agenti e rigattieri, mentre innumerevoli, semplici cose, preziosi ricordi di famiglia, venivano abbandonati alla profanazione e al saccheggio di estranei. Un mese dopo la sua fuga da Park Lane aveva pensato ad Amelia, e Rawdon, con una risata cavallina, aveva manifestato il suo soddisfatto compiacimento all'idea di rivedere il giovane George Osborne. «È uno dei miei conoscenti più simpatici,» aveva commentato tutto allegro, «mi piacerebbe vendergli un altro cavallo, Beck. Mi piacerebbe anche farmi qualche partita a biliardo con lui. Capiterebbe a proposito, in un momento simile, non ti pare, Mrs. C.? Ah! Ah! Ah!» Da siffatti discorsi non si deve concludere che Rawdon Crawley si proponesse di barare ai danni di George Osborne: nemmeno per sogno: voleva solo sfruttare l'occasione propizia di quell'incontro per cavare un lecito profitto: qualsiasi giovanotto della buona società non si aspetta altro dagli abboccamenti col prossimo alla Fiera della Vanità. Quanto alla vecchia zia, era lenta a cedere. Ormai era trascorso un mese, ma Rawdon continuava ad esser messo alla porta da Mr. Bowls. I suoi domestici non venivano ricevuti nella casa di Park Lane e le sue lettere gli venivano rese senza nemmeno esser state dissuggellate. Miss Crawley, indisposta, non usciva mai di casa, e Mrs. Bute Crawley, insediatasi in pianta stabile in Park Lane, non la lasciava un solo istante. Crawley e la moglie non vedevano nulla di buono nel perdurante soggiorno di quest'ultima e covavano in seno sinistri presagi. «Perdio, adesso capisco, finalmente, perché si dava un gran daffare a favorire i nostri incontri a Queen's Crawley!» disse Rawdon. «Che razza d'intrigante, quella donnaccola!» gli fece eco Rebecca. «Se tu non hai rimpianti, io per conto mio non ne ho affatto,» continuò il capitano, che continuava a vivere in uno stato di perenne ammirazione nel confronti della consorte. Lei, anziché rispondergli, lo ricompensò con un bacio, e in effetti nutriva la più viva soddisfazione per l'incondizionata fiducia che le accordava il marito. «Se solo avesse un po' più di cervello,» pensava, «potrei cavarne qualcosa.» Ma evitò sempre col massimo scrupolo di fargli capire quale opinione avesse di lui: ascoltava con instancabile, apparente divertimento le sue storielle da caserma, rideva delle sue facezie, mostrava di interessarsi moltissimo alla disavventura di Jack Spatterdash al quale s'era azzoppato un cavallo, e a quella di Bob Martingale, colto in flagrante in una casa da gioco, nonché a un certo Tom Cinqbars che avrebbe preso parte alla corsa ad ostacoli. Quando il marito rincasava, e lei si faceva sempre trovare d'ottimo umore, quando lui manifestava il desiderio di uscire non tentava di trattenerlo, e quando rimaneva in casa suonava e cantava per lui, gli preparava qualcosa di speciale da bere, gli cucinava la cena, gli scaldava le pantofole, era tutta attenzioni. Anche le donne migliori, diceva sempre mia nonna, sanno essere ipocrite. Non sappiamo mai quel che ci nascondono, quanto siano avvedute nei momenti in cui ci sembrano tutte ingenuità e fiducioso abbandono, quali trappole vengano tese dietro l'ingannevole apparenza di quei sorrisi aperti e spontanei, che in realtà mirano a imbrogliarci, a disarmarci, a svicolare da qualcuno o qualcosa. E non mi riferisco soltanto ai sorrisi delle donne inclini alla civetteria, ma anche a quelli delle signore o signorine che sono altrettanti modelli di saggezza e virtù domestiche. Chi non ha mai avuto l'occasione di vedere una donna ignorare di proposito la stupidità del marito, o calmarne gli eccessi di collera inconsulta? E noi approviamo senza riserve queste amabili virtù e lodiamo la donna che dimostra di possederle; scambiamo per autenticità questa forma di garbato tradimento. D'altro canto una buona moglie non può non essere un'abile diplomatica: il marito di Cornelia si lasciava ingannare come Putifarre... La differenza stava solo nel modo. A furia di attenzioni di questo tipo, Rawdon Crawley subì una vera e propria metamorfosi: dall'inveterato gaudente che era si trasformò in un marito sottomesso e felice. Un paio di volte accadde che qualcuno lo cercasse al suo Circolo, ma in pratica nessuno risentì della sua mancanza. Nei baracconi della Fiera della Vanità accade di rado che la gente senta il vuoto lasciato dai disertori. La sua mogliettina segreta sempre gaia e sorridente, il piccolo appartamento così accogliente, le cenette consumate en tête-à-tête, le serate casalinghe avevano il fascino della novità, della clandestinità. Il matrimonio non era stato reso noto in società, né la notizia del medesimo era apparsa sul «Morning Post»: se avessero scoperto che Rawdon aveva sposato una donna senza dote, i creditori gli sarebbero piombati addosso come avvoltoi. «Io non ho un solo parente che si dolga della mia sparizione,» diceva Rebecca con un malinconico sorriso. Aspettava con pazienza che la vecchia zia accordasse il suo perdono prima di reclamare il posto che le competeva in società. Pertanto viveva tranquilla e riservata nel quartiere di Brompton, senza vedere anima viva, fatta eccezione per qualche amico del marito ch'era stato ammesso in casa loro ed era assolutamente affascinato dalla sua persona. Coloro che partecipavano a quei piccoli parties apprezzavano le cenette, le risate, i piacevoli conversari, la musica dopo il pasto. Il maggiore Martingale si guardava bene dal chiedere il certificato di matrimonio, il capitano Cinqbras lodava la perizia di Mrs. Crawley nel preparare il punch, e il giovane tenente Spatterdash, che giocava volentieri una partita a piquet e che Crawley incontrava con particolare frequenza, era stato immediatamente colpito dalle grazie di Becky. Ma lei non veniva mai meno alla sua abituale modestia e riservatezza, e d'altronde le serviva da usbergo la fama di geloso e abile spadaccino di cui godeva suo marito. Vi sono uomini d'ottima estrazione e appartenenti al bel mondo che non mettono mai piede nei salotti delle signore. Pertanto, sebbene la notizia del matrimonio di Rawdon Crawley, prontamente divulgata da Mrs. Bute Crawley, fosse a tutti nota nello Hampshire, a Londra fluttuava vaga ed incerta e la gente non ne parlava, o quantomeno non mostrava di interessarsene. Rawdon continuava a vivere allegramente di crediti, avendo alle spalle uno di quei capitali basati sul debito che, qualora vengano oculatamente amministrati, permettono a un uomo di tirare avanti benone per anni e anni e grazie ai quali non pochi londinesi riescono a vivere molto meglio di chi è provvisto di quattrini sonanti. Sfido chiunque ad asserire di non conoscere a Londra una mezza dozzina di persone che gli passano accanto in sella a magnifici cavalli mentre lui se ne va a piedi, che sono oggetto della generale adulazione, alle quali s'inchinano i commercianti quando passano in carrozza, che non si privano di nulla, e che peraltro non si sa di cosa vivano? Ecco, per esempio, Jack Thriftless che caracolla lungo i viali di Hyde Park in groppa al suo destriero, o sfreccia per Pall Mall nella sua carrozza. Prendiamo parte alle sue cene servite con gran sfoggio di argenteria. «Che origine ha tutto ciò?» siamo indotti a chiederci. «Come andrà a finire?» «Caro mio, ho debiti in ogni capitale d'Europa,» mi ha confidato Jack, una volta. Un giorno o l'altro la fine verrà, ma nel frattempo Jack conduce vita da nababbo, la gente è onorata di stringergli la mano, simula di ignorare le storielle imbarazzanti che circolano sul suo conto e di lui va dicendo che è un uomo cordiale, infaticabile, di ottimo carattere. Rendiamo onore alla verità, e riconosciamo senz'altro che Rebecca aveva sposato un uomo di questa specie. In casa c'era di tutto, ma il denaro liquido scarseggiava, e ben presto il giovane ménage ne sentì la necessità; e fu leggendo sulla «Gazette» che «il tenente G. Osborne compera il grado di capitano subentrando a Smith, trasferito», che Rawdon aveva espresso il desiderio d'incontrarsi con l'innamorato di Amelia. Di qui la visita dei coniugi Crawley in Russell Square. Quando, nel corso dell'asta pubblica, Rawdon e la moglie cercarono di abboccarsi con Dobbin per informarsi sui motivi di quel disastro, il capitano si era già dileguato, ed essi poterono ottenere solo qualche notizia generica interpellando i facchini o gli agenti. «Guardali con quei loro nasi a becco,» commentò Becky divertita, mentre risaliva sul calesse tenendo il quadro sottobraccio. «Sembrano avvoltoi dopo una battaglia.» «Davvero? Non saprei dirti, cara. Non ho mai preso parte a una battaglia. Devi chiederlo a Martingale. Lui è stato in Spagna, era aiutante di campo del generale Blazes.» «Era proprio una brava persona, il vecchio Sedley,» disse Rebecca. «Sono davvero spiacente che sia andato in malora.» «Poh! Gli agenti di cambio sono abituati ai fallimenti...» rispose Rawdon, mentre con la frusta scacciava una mosca dall'orecchio del cavallo. «Mi sarebbe piaciuto aver denaro abbastanza per poter rilevare un po' di quell'argenteria,» continuò la moglie in tono sentimentale. «Venticinque ghinee per quel piccolo pianoforte sono un prezzo semplicemente pazzesco. L'avevano scelto da Broadwood per Amelia quando ha lasciato il collegio. Costava soltanto trentacinque ghinee.» «Quel tale... sì, come si chiama?... quell'Osborne la pianterà certamente in asso, ora che la famiglia è sul lastrico. Poverina! La tua piccola amica ne soffrirà, vero, Becky?» «Oh, credo proprio che finirà per consolarsi,» rispose Becky con un sorriso. E il calesse si avviò, mentre i due occupanti si affrettavano a cambiare argomento. XVIII • CHI SUONÒ IL PIANOFORTE ACQUISTATO DAL CAPITANO DOBBIN? Stupefatto, il nostro racconto scopre d'essere momentaneamente coinvolto fra personaggi e avvenimenti famosi, e sfiora addirittura eventi storici. Mi domando se per caso le aquile dell'avventuriero corso Napoleone Buonaparte, volando di campanile in campanile dalla Provenza (ove si erano posate dopo la breve permanenza all'isola d'Elba) fino a Notre-Dame, abbiano gettato uno sguardo su un angolino della parrocchia di Bloomsbury, in quel di Londra, in apparenza così tranquilla che persino lo sbattere di quelle ali possenti avrebbe potuto passare inosservato. «Napoleone è sbarcato a Cannes.» Una notizia siffatta poteva seminare il panico a Vienna, obbligare la Russia a mettere le carte in tavola, costringere la Prussia in un vicolo cieco e indurre Talleyrand e Metternich a dar di piglio al loro estro politico, mentre il principe di Hardenberg e perfino l'attuale marchese di Londonderry, il nostro ambasciatore a Londra, potevano trovarsi interdetti, nell'incapacità di giungere a una deliberazione. Ma come poteva una notizia del genere colpire una fanciulla abitante in Russell Square, una fanciulla davanti alla cui abitazione il guardiano notturno scandiva con voce cantilenante le ore mentre lei dormiva, che, se si aggirava per la piazza, era protetta da guardie e inferriate, che se si spingeva non più lontano di Southampton Row per comperare un nastro era seguita dal nero Sambo, armato di un solido bastone? Che era sempre stata oggetto di mille attenzioni, che tanti angeli custodi, con o senza salario, avevano sempre vestito, svestito, messo a letto e tenuto sotto la loro ala tutelare? Bon Dieu, mi vien fatto di dire, non è forse una sorte crudele che l'impeto fatale della grande disputa imperiale non possa svolgersi senza toccare una povera, innocente diciottenne che pensa soltanto al suo amore e a ricamare colletti di mussola fra le mura della sua casa in Russell Square? Dunque, tu pure, esile fiorellin di prato, sarai spazzato dall'impeto fragoroso della tempesta, sebbene tu cerchi rifugio all'ombra protettrice di Holborn? Eppure sì: Napoleone ha giocato l'ultima carta e in certa misura la felicità della povera Emmy Sedley dipende dall'esito del suo gioco. Per cominciare, quella notizia fatale ebbe il potere di vanificare il patrimonio di suo padre. Nell'ultimo periodo tutte le speculazioni erano andate a rotoli, per il pover'uomo perseguitato dalla malasorte. Addio buone occasioni, i fallimenti si erano susseguiti, l'uno dopo l'altro. I titoli di stato erano saliti proprio nel momento in cui egli credeva che sarebbero scesi. Ma a che serve indugiare sui particolari. La fortuna è rara e lenta, mentre tutti sanno quanto facile e rapida sia la disgrazia. Il vecchio Sedley, al colmo dello sconforto, aveva nascosto la verità alla famiglia, tutto sembrava procedere come al solito in quella casa ove regnava la più larga agiatezza. La brava moglie dell'agente di cambio continuava a vivere nel suo ozio consueto, del tutto ignara, impegnata soltanto nelle solite incombenze domestiche, nelle semplici occupazioni quotidiane; mentre la figlia, tutta assorta com'era nell'unico tenero pensiero che la dominava, non s'accorgeva nemmeno di quanto accadeva intorno a lei, quando giunse il colpo spaventoso sotto il quale cadde quella rispettabilissima famiglia. Una sera Mrs. Sedley era intenta a compilare gli inviti per un ricevimento. Gli Osborne ne avevano dato uno e lei non poteva certo essere da meno. John Sedley, rientrato a tarda ora dalla City, sedeva silenzioso davanti al caminetto, mentre sua moglie conversava animatamente. Emmy era salita in camera, sofferente e di pessimo umore. «È depressa,» diceva sua madre. «George Osborne la trascura. Comincio a esser stufa delle arie che si danno, in quella casa. Sono tre settimane che le ragazze non si fanno vive. George è venuto a Londra due volte, ma qui non ha messo piede. Edward Dale lo ha incontrato all'Opera. Edward sposerebbe Emmy, ne sono certa. E poi c'è il capitano Dobbin, certamente lui... Ma francamente i militari, io non li posso soffrire. George è diventato un vero e proprio bellimbusto; crede d'essere un generale, quello lì. Dobbiamo far vedere a questi signori che valiamo né più né meno quanto loro. Se solo incoraggiassimo un poco Edward Dale, vedresti! Dobbiamo dare un ricevimento, Sedley. Perché non mi rispondi, John? Dici che andrebbe bene fra due settimane, l'altro martedì? Perché non parli? Santo Dio, John, cos'è successo?» John Sedley si alzò di scatto dalla sedia e si volse verso la moglie ch'era accorsa verso di lui. La strinse fra le braccia e disse con voce spezzata: «Siamo rovinati, Mary. Tanto vale che tu lo sappia subito.» Mentre parlava era scosso in tutte le sue membra, sembrava che stesse per svenire da un momento all'altro. Temeva che la notizia fosse troppo dura per sua moglie, quella moglie alla quale non aveva mai rivolto una parola aspra. Ma sebbene quel colpo giungesse alla donna del tutto inatteso, il più turbato era lui. E quando di nuovo si lasciò ricadere sulla sedia, fu la moglie che subito si assunse il compito di consolarlo. Gli afferrò la mano tremante e gliela baciò, poi l'appoggiò sulla spalla, gli disse che era il suo John, il suo caro John, il suo caro, vecchio marito, vi riversò su di lui fiumi di parole incoerenti, cariche d'amore e di tenerezza; la sua voce affettuosa e quelle semplici carezze gli colmarono l'animo, pervaso da una profonda tristezza, di un misto ineffabile di diletto e di angoscia, lo rallegrarono e alleviarono un poco il senso di oppressione che gli gravava sul cuore. Una sola volta, durante la lunga notte ch'essi trascorsero alzati e il povero Sedley aprì il suo animo straziato raccontando nei dettagli la storia delle sue perdite e delle sue estreme difficoltà, il tradimento di alcuni amici di vecchia data, la comprensione e la generosità di altre persone dalle quali non si sarebbe mai aspettato nulla, abbandonandosi insomma a uno sfogo generale, una sola volta quella moglie fedele si abbandonò alla commozione. «Mio Dio, mio Dio!» esclamò, «Emmy ne avrà il cuore spezzato.» Il padre aveva dimenticato la sventurata ragazza, che se ne stava al piano di sopra, a letto, sveglia e infelice. A casa sua, circondata da tanti amici, dall'affetto dei suoi genitori, ella si sentiva sola. Quante sono le persone alle quali si può raccontare tutto di noi? Chi si sente incline alla confidenza quando intorno a sé incontra soltanto incomprensione? E viceversa chi desidera parlare con qualcuno che non riuscirebbe mai a capire? Ecco perché la nostra cara Amelia soffriva in solitudine. Da quando aveva nutrito in sé qualcosa da confidare non aveva mai avuto accanto quel genere di persone che, appunto, noi siamo soliti definire «confidenti». Non poteva esternare alla sua vecchia genitrice i suoi dubbi, le sue perplessità. Le future cognate le sembravano ogni giorno più estranee. Rimuginava tra sé dubbi e timori che, per altro verso, non osava confessare pienamente nemmeno a se stessa. Il suo cuore si ostinava a credere che George Osborne fosse degno di lei e le restasse fedele, ma al tempo stesso era sicura del contrario. Quante cose ella gli aveva detto, senza destare in lui la minima eco! Quante volte era insorto in lei il sospetto ch'egli fosse un uomo fatuo ed egoista, e quante volte era riuscita a reprimere quella sua convinzione! A chi poteva parlare, povera piccola martire, di questi suoi quotidiani tormenti e torture? Persino il suo eroe la comprendeva soltanto a metà. Eppure Amelia non osava riconoscere una volta per tutte che l'uomo da lei amato le era inferiore, che troppo presto ella aveva fatto dono del suo cuore. Ed ora che lo aveva dato, era troppo timida, troppo modesta, troppo fiduciosa, troppo debole per riprenderselo. Era troppo donna, in una parola. Per quanto riguarda i sentimenti d'affetto che coltivano le nostre donne, noi ci comportiamo da torelli, e per giunta le abbiamo costrette a soggiacere alla nostra dottrina. Accettiamo di buon grado che le loro sembianze esteriori siano ostentate con una certa libertà, nascoste sotto riccioli, e cuffiette rosa, anziché sotto i veli delle orientali; ma pretendiamo che la loro anima si riveli a un uomo soltanto, ed esse obbediscono senza manifestare aperta riluttanza, ed anzi piegandosi a rimanere nelle nostre case a guisa di schiave, a occuparsi di noi, a faticare per noi. Così dunque soffriva quel cuore torturato e prigioniero, quando nel mese di marzo dell'anno del Signore 1815 Napoleone sbarcò a Cannes, Luigi XVIII fuggì, l'intera Europa fu di nuovo in allarme, i titoli di stato crollarono e il vecchio John Sedley si trovò sul lastrico. Non staremo a seguire le ansie, le agonie, lo strazio attraverso i quali il vecchio agente di cambio dovette passare prima che il suo fallimento commerciale venisse ufficialmente dichiarato. Per cominciare, fu dichiarato insolvibile in Borsa, poi divenne irreperibile alla sede della sua agenzia, le sue cambiali andarono in protesto e il fallimento divenne un dato di fatto. La casa e la mobilia di Russell Square vennero sequestrati e messi all'asta, mentre lui e la sua famiglia ne venivano scacciati ed erano costretti a nascondersi come meglio potevano, nelle circostanze già riferite. John Sedley non ebbe il cuore di rivedere quei suoi domestici affiorati di tanto in tanto nelle pagine del nostro racconto, e dai quali ora l'indigenza lo costringeva a separarsi. Pagò il salario di quelle degne persone con la puntualità di cui in generale danno prova solo i debitori di grosse somme; costoro si dichiararono spiacenti di dover rinunciare al buon posto di cui fruivano, ma francamente non potremmo giurare che si sentissero spezzare il cuore per doversi separare dagli «adorati» padroni. La cameriera di Amelia si profuse in espressioni dolenti che manifestavano il suo rincrescimento, ma se ne andò rassegnata a migliorare il proprio stipendio entrando a servizio presso qualche famiglia residente in quartieri più signorili della città. Il negro Sambo, infatuato com'era del suo mestiere, decise di aprire una bottiglieria; quanto alla vecchia e onesta Mrs. Blenkinsop, che aveva visto nascere Jos e Amelia e conosceva i coniugi Sedley sin dal tempo del loro fidanzamento, aveva messo in disparte durante gli anni trascorsi al loro servizio una discreta somma. Pertanto accondiscese a seguire la famiglia decaduta nel loro nuovo ed umile rifugio e vi rimase per qualche tempo occupandosi di loro e brontolando in continuazione. Fra tutti gli avversari di Sedley, in quelle diatribe coi creditori così mortificanti da farlo invecchiare in sei settimane più di quanto non fosse invecchiato in quindici anni, il più accanito e implacabile si mostrò John Osborne: proprio lui, il vicino di casa, l'uomo che a Sedley doveva la propria posizione, che per innumerevoli ragioni gli doveva gratitudine e il cui figlio avrebbe dovuto sposare la sua figliola. E probabilmente l'una o l'altra di queste due circostanze erano la ragione in cui andava cercata la ragione di tanta avversione. Quando avviene che un individuo abbia contratto forti debiti con un altro con il quale in seguito gli capita di litigare, si direbbe che una regola rigorosa della buona creanza imponga al primo di diventare nemico del secondo, e più spietato di quanto non sarebbe un estraneo. Poi, per motivare la propria crudeltà e la propria ingratitudine, si è costretti a gettare ogni colpa sull'altro. Nessuno è mai disposto a riconoscere il proprio cieco egoismo e ad ammettere di essere furibondo perché una speculazione non è andata a buon fine. Manco per sogno! Le cose sono andate come sono andate perché il socio ha provocato una siffatta situazione a causa della trame più vili e mosso da perfide intenzioni. La sua coerenza induce il persecutore a sostenere che il contrario è vero: il perseguitato è un lestofante; altrimenti lui, il persecutore, non sarebbe che un miserabile. Per giunta, ciò che per solito vale a tranquillizzare ulteriormente la coscienza dei creditori più implacabili, sta nel fatto che in genere chi si trova in difficoltà finanziarie non è caratterizzato da una specchiata onestà. Nasconde sempre qualcosa di non del tutto limpido: o ha esagerato magnificando la consistenza di una fortuna in realtà più modesta, o ha celato l'effettivo andamento dei suoi affari, o ancora asserisce che le sue faccende procedono a gonfie vele quando invece stanno andando a catafascio, e continua a sorridere (quale tragico sorriso!) mentre ormai è sull'orlo del fallimento; inoltre è sempre pronto ad attaccarsi a qualsiasi pretesto pur di rinviare i pagamenti e riuscire a dilazionare anche di pochi giorni la fatale catastrofe. «Basta, basta con questa disonestà!», esclama trionfante il creditore dileggiando il povero derelitto che affonda. «Ma tu, pazzo, perché non ti afferri alla pagliuzza?» propone il signor Buon Senso all'uomo che sta annegando. «E tu, mascalzone, perché non ti decidi ad affrontare la vergogna del Bollettino dei protesti alla quale non ti è più possibile sottrarti?» dice chi s'impingua grazie all'ottimo andamento dei suoi affari al povero diavolo che si dibatte in un pelago in tempesta? Chi non ha avuto modo di osservare con quanta prontezza gli amici più intimi e gli uomini più specchiati si accusano a vicenda di truffa quando intervengono questioni d'interesse? Non c'è uno che sgarri, questa è la regola. Tutti, forse, hanno ragione, e a questo mondo non ci sono che farabutti. Osborne era pertanto assillato e istigato dal pensiero insopportabile dei benefici ricevuti, pensieri che accentuano ulteriormente le cause effettive di ostilità. Voleva ad ogni costo rompere il fidanzamento tra suo figlio e la figlia di Sedley, e dal momento che la cosa era ormai giunta ad uno stadio avanzato, e la felicità, nonché probabilmente la reputazione della povera fanciulla avrebbero risentito delle circostanze in atto, bisognava dimostrare che c'erano validissime ragioni per romperlo. Pertanto John Osborne doveva provare che Sedley era realmente una persona deplorevole. Ecco perché alla riunione dei creditori egli assunse nei confronti di Sedley un atteggiamento così duro e sprezzante che quasi spezzò il cuore al povero fallito. Vietò che i rapporti fra George e Amelia proseguissero ulteriormente, minacciando il figlio di maledirlo se non avesse rispettato le sue ingiunzioni, e prendendosela con la povera ragazza, del tutto estranea all'accaduto, come se fosse stata la più sfacciata e ipocrita delle civette. Una delle peggiori necessità imposte dall'odio e dalla collera consiste nel calunniare quanto più è possibile l'oggetto odiato; e questo per pura e semplice coerenza. Quando sopravvennero lo sfacelo, l'annuncio della loro situazione rovinosa, il distacco da Russell Square e la dichiarazione che tutto era finito tra lei e George, tutto era finito tra lei e l'amore, tra lei e la felicità, tra lei e la fiducia nel prossimo e nella vita (una lettera brutale di poche righe, indirizzatale da John Osborne, le aveva comunicato che la condotta di suo padre era tale da rendere insostenibile la prosecuzione di qualsiasi rapporto tra le due famiglie); quando venne l'ultimo colpo, insomma ella non ne fu sconvolta come i suoi genitori temevano (e soprattutto sua madre, perché John Sedley era interamente assorbito nella squallida contemplazione della sua rovina finanziaria e del suo onore distrutto). Amelia accolse la notizia pallida e calma: si trattava, in fondo, della conferma degli oscuri presentimenti che covava da molto tempo. Non era che la lettura ufficiale della sentenza per una colpa da lei commessa tanto tempo prima: la colpa di essersi abbandonata ad un amore mal riposto, troppo impetuoso, in contrasto con la stessa logica. Non si può dire che ora, perduta ogni speranza, fosse molto più infelice di prima, quando sentiva che la speranza era svanita senza avere il coraggio di ammetterlo apertamente con se stessa. Passò quindi dalla grande casa cui era assuefatta a quella piccola con assoluta naturalezza, quasi il fatto le fosse indifferente, e trascorreva gran parte del suo tempo nella sua stanzetta, morendo poco per volta. Con ciò non oso affermare che tutte le donne siano eguali. Sono convinto, cara Miss Bullock, che voi vi comportereste in modo del tutto diverso. Voi siete forte e sorretta da sani principi, e d'altronde non mi arrischierei ad affermare che il mio stesso cuore si spezzerebbe: è un cuore che ha sofferto, ma nondimeno ha saputo sopravvivere, lo confesso. Ciò non toglie che esistano creature delicate, fragili, vulnerabili, dotate di una tempra meno solida e ferrata. Quando accadeva al vecchio Sedley di ripensare alla liaison fra George e Amelia, oppure vi alludeva, lo faceva con la medesima asprezza con la quale si era comportato Mr. Osborne. Malediceva quell'uomo ingrato, perfido, senza cuore, malediceva lui e tutta la sua famiglia. Nessuno al mondo, nemmeno l'uomo più potente dell'orbe terracqueo, avrebbe potuto indurlo a concedere la propria figliuola al rampollo di un simile miserabile; pertanto ingiunse ad Amelia di cancellare l'immagine di George dalla sua mente e di restituirgli tutte le lettere e i piccoli doni che aveva ricevuto da lui. Amelia promise e si fece forza per ubbidire all'ordine paterno. Preparò i due o tre ninnoli; ma in quanto alle lettere, dopo averle rilette ancora una volta (come se non le avesse sapute a memoria), non ebbe cuore di separarsene. Era un dolore troppo forte. Se le mise in seno, ed ivi le tenne, come certe donne cullano il loro bimbo morto. La povera Amelia era convinta che sarebbe morta o avrebbe perduto il bene dell'intelletto, se le avessero sottratto quell'estremo conforto. Come arrossiva, come raggiava di felicità quando arrivavano quelle lettere! Come si rifugiava in un angolo remoto per poterle leggere indisturbata, il cuore martellante di gioia! E se le lettere erano fredde, quell'anima appassionata sapeva rivestirle di calore. Se erano laconiche e parlavano solo dello scrivente, ella mentalmente sapeva architettare mille pretesti atti a giustificarne il tono distaccato ed egocentrico. Ed era su quei pochi fogli così scarsi di valore ch'ella continuava ad alimentare il suo tormento. Viveva del passato, e ciascuna di quelle lettere sembrava rievocarne la memoria. Le ricordava così bene! Ricordava il suo aspetto, il tono della sua voce, il suo modo di vestire, quello che aveva e non aveva detto. Quelle vestigia, quei ricordi di un affetto estinto erano il suo unico patrimonio a questo mondo. Nella vita, ormai, non le restava che vegliare il cadavere del suo amore. Pensava alla morte e la desiderava ardentemente. «Se morissi,» pensava, «potrei seguirlo ovunque fosse.» Con ciò non voglio approvare il suo atteggiamento o portarla ad esempio a Miss Bullock. Miss Bullock sa amministrare i propri sentimenti con un'oculatezza del tutto ignota a quella fragile fanciulla; Miss Bullock non si sarebbe mai lasciata andare come aveva fatto Amelia, nella sua irresponsabilità: giurare eterno amore, concedere il proprio amore senza nulla in cambio al di fuori di una vaga, inconsistente promessa che in qualsiasi momento poteva esser spazzata via! I fidanzamenti che si trascinano per troppo tempo sono società nelle quali uno dei soci ha facoltà di rompere e di andarsene quando crede, mentre l'altro ci rimette le penne sino in fondo. Perciò siate caute, fanciulle, e state attente ai legami amorosi che stringete. State attente a non palesare troppo il vostro amore; badate a non dire tutto ciò che sentite, o, meglio ancora, cercate di sentire il meno possibile. Vedete che cosa accade ad esser troppo oneste e fiduciose? Non fidatevi né di voi né degli altri; e se vi sposate fate come in Francia, ove gli avvocati fungono da confidenti e damigelle d'onore. Non lasciatevi andare a sentimenti che in un rapido domani possano causarvi sofferenza, e comunque limitatevi alle promesse alle quali siate in grado di venir meno quando vi torna comodo. Questo e il modo di farsi strada, questa è la via da seguire se si vuoi essere stimati, rispettati e virtuosi nella Fiera della Vanità. Se Amelia avesse potuto udire i commenti che si facevano tra le persone dalle quali adesso era esclusa a causa della rovina finanziaria di suo padre, avrebbe avuto modo di apprendere quali erano le sue colpe e in quali acque tempestose navigava la sua «reputazione». Mrs. Smith non aveva mai visto tanta sprovvedutezza, Mrs. Brown aveva sempre stigmatizzato quella soverchia familiarità, pessimo esempio per le sue figliole. Che il capitano Osborne non possa sposare la figlia di un fallito è semplicemente ovvio, osservavano le signorine Dobbin. Bastava esser stati imbrogliati dal padre! Quanto alla piccola Amelia, la sua incoscienza aveva veramente superato... «Superato cosa?» urlò il capitano Dobbin. «Non erano forse fidanzati sin dall'infanzia? Non si trattava forse di un matrimonio combinato da tempo immemorabile? È mai possibile che si osi sparlare di una persona così angelica, della più dolce, della più pura, della più tenera fra le donne?» «Suvvia, William, non assumere un tono così aggressivo con noi,» disse Miss Jane. «Ricordati che stai parlando con delle donne, non con degli uomini; non possiamo sfidarti a duello. Non abbiamo detto niente di male sul conto di Miss Sedley; ci siamo limitate a osservare che il suo comportamento è sempre stato molto imprudente, per non usare espressioni più drastiche. E in quanto ai suoi genitori, non c'è dubbio: quello che gli è capitato se lo meritano.» «Ora che Miss Sedley è libera, non sarebbe una buona idea che fossi tu a chiedere la sua mano?» domandò Miss Ann, sarcastica. «Sarebbe un matrimonio veramente splendido. Ah! Ah! Ah!» «Io sposarla?» rispose Dobbin arrossendo di colpo e parlando con voce sempre più concitata. «Se voi siete così pronte a cambiar bandiera, non è detto che lei vi somigli. Sì, sì, ridete, schernite pure quell'angelo; tanto lei non vi può sentire. È infelice, sfortunata, ma certo non merita il vostro dileggio. Comunque ridi pure, Ann, se ti pare dignitoso; tu sei la spiritosa di famiglia e gli altri si divertono un mondo ad ascoltarti.» «Ti ricordo una volta ancora che non siamo in caserma, William,» disse Ann. «In caserma?» sbottò quel giovane leone britannico, impennandosi. «In caserma, dici? Per Giove, vorrei che in caserma qualcuno si provasse a parlare come parli tu. Davvero: mi piacerebbe proprio che un uomo pronunciasse una sola parola contro di lei, per Giove! Ma gli uomini non fanno questo genere di cose, Ann. Solo le donne sono capaci di far combutta per gracchiare, cianciare o sibilare contro una delle loro simili. E adesso non metterti a piangere, mi sono limitato a dire che siete due ochette,» disse Dobbin accorgendosi che gli occhi sempre arrossati della sorella cominciavano a riempirsi di lacrime. «E va bene, allora diciamo che non siete oche ma cigni. Come preferite. Solo vi prego di lasciar in pace Miss Sedley,» «William è veramente infatuato di quella piccola, sciocca civetta,» pensavano sia la madre che le figlie. «Non si è mai visto niente di simile.» Tremavano all'idea che, rotto il fidanzamento con Osborne, lei accettasse di punto in bianco di sposarsi col capitano Dobbin, suo incondizionato ammiratore. Siffatti timori erano senza dubbio dovuti alle esperienze coltivate dalle degne fanciulle in questione; o, diciamo meglio, non avendo mai avuto sino a quel momento l'opportunità di fidanzarsi né di essere abbandonate, da una loro concezione affatto personale del bene e del male. «È una grazia del Cielo, mamma,» dicevano le ragazze «che il suo reggimento abbia avuto l'ordine di recarsi all'estero. Così nostro fratello sarà al riparo da un rischio del genere!» Era vero, infatti. E a questo punto è di scena l'imperatore dei francesi per recitare il suo ruolo nella commedia familiare della Fiera della Vanità che al presente stiamo recitando: una commedia che non sarebbe mai stata recitata senza la partecipazione di questo augusto e muto personaggio. Fu lui a rovinare i Borboni, e insieme con loro Mr. John Sedley. Fu lui che, giunto nella sua capitale, chiamò alle armi tutta la Francia per potervi restare e, al tempo stesso, tutta l'Europa che voleva sbarazzarsene. E mentre intorno alle aquile popolo ed esercito di Francia giuravano fedeltà nel Campo di Maggio, i quattro eserciti più potenti del continente si mettevano in marcia per la grande chasse à l'aigle. Di questi, uno era costituito dall'armata britannica di cui facevano parte due dei nostri eroi: i capitani Osborne e Dobbin. La notizia della fuga e dello sbarco di Napoleone fu accolta dal prode ...° Reggimento col giubilo guerresco e con l'entusiasmo che non stenta a immaginarsi chiunque conosca questo famoso corpo. Dal colonnello fino al più umile tamburino tutti erano pervasi di speranza di ambizione, di veemente slancio patriottico. Atteso con tanta trepidazione, era alfine giunto, per gli uomini del ...° Reggimento, il momento di dimostrare ai commilitoni ch'essi sapevano battersi come i veterani della campagna d'Italia, e che il loro coraggio, il loro valore, non era stato distrutto dalle Indie Occidentali e dalla febbre gialla. Pertanto essi provavano la più viva riconoscenza per l'imperatore dei francesi, come se avesse fatto loro un favore personale sconvolgendo la pace d'Europa. Stubble e Spooney speravano di ottenere un comando di compagnia senza doverselo comperare, e prima che si chiudesse la campagna, alla quale voleva assolutamente partecipare, la moglie del maggior O'Dowd nutriva fiducia di potersi firmare colonnella O'Dowd, C.B. Da parte loro, Dobbin e Osborne non erano meno elettrizzati degli altri, e ciascuno in conformità ai rispettivi temperamenti (Dobbin in silenzio e con la consueta riservatezza, Osborne, con rumorosa energia) erano decisi a fare il loro dovere per conquistarsi la loro fetta di onori e di ricompense. Queste notizie turbavano e sommuovevano l'esercito e la popolazione a un punto tale, che nessuno volgeva il pensiero ai casi della vita privata. È quindi probabile che George Osborne, al quale era appena stato affidato il comando di una compagnia, tutto assorbito com'era dai preparativi della partenza ormai inevitabile e smanioso di meritarsi una promozione sul campo, non fosse troppo colpito da eventi che in un momento di maggior calma lo avrebbero maggiormente interessato. Pertanto (confessiamolo apertamente) non fu troppo turbato dalla sventura del vecchio Sedley. Il giorno in cui si svolse la prima riunione fra i creditori di quest'ultimo, George andò a provarsi una nuova uniforme e si compiacque di constatare che gli stava a pennello. Suo padre gli illustrò l'abominevole comportamento dell'agente di cambio fallito, gli ricordò quanto già gli aveva detto a proposito di Amelia (cioè che doveva troncare definitivamente ogni rapporto con lei) e quella sera stessa gli regalò un bel gruzzolo per comperarsi le nuove uniformi e le spalline che lo rendevano così attraente ed elegante. E dal momento che quel giovane scialacquatore aveva sempre bisogno di quattrini, non esitò un istante ad accettare quell'elargizione paterna. Già erano stati affissi i manifesti che annunciavano l'asta sulla casa dei Sedley, ove aveva trascorso tante ore serene, ed egli li vide quella sera stessa, biancheggianti sotto la luna mentre usciva per andare all'Old Slaughter, il ritrovo ov'era solito passare la serata quando era a Londra. Dove si erano rifugiati Amelia e i suoi, dal momento che la loro comoda dimora gli era ormai preclusa per sempre? George meditò sulla loro disgrazia, non senza provarne una profonda commozione, sicché trascorse all'Old Slaughter una triste serata e la malinconia come notarono i suoi amici - lo spinse a bere smodatamente. Dopo poco comparve anche Dobbin che lo esortò a limitare quelle soverchie libagioni, ma George rispose che, se beveva, era soltanto perché si sentiva terribilmente giù di morale. Quando però l'amico prese a interrogarlo e a fargli domande più specifiche cercando di sondare i suoi pensieri e i suoi propositi, Osborne rifiutò di essere più esplicito, pur ammettendo senza riserve di essere maledettamente infelice e in preda a una sorta di frustrante malessere. Tre giorni dopo, in caserma, Dobbin entrò nella camera di Osborne e lo trovò col capo appoggiato a un tavolo e un mucchio di fogli sparpagliati intorno a lui. Il giovane capitano si trovava in modo palese in uno stato di grande depressione. «Mi... mi... ha rimandato certe cose che io le avevo regalato,» disse. «Delle sciocchezze, degli oggettini da nulla. Guarda.» E mostrò a Dobbin un pacchetto indirizzato al capitano George Osborne con quella scrittura a lui familiare, oltre ad alcuni oggetti... un anello, un coltellino d'argento che lui le aveva comperato ad una fiera quando erano ancora due adolescenti, una catenina d'oro appeso alla quale c'era un ciondolo con una ciocca di capelli. «È tutto finito,» gemette Osborne, in preda al rimorso. «Guarda, Will, leggi pure se vuoi.» E gli indicò una lettera di poche righe che diceva: Il mio papà esige assolutamente ch'io ti renda questi regali che mi facesti in tempi per me più felici. E questa è anche l'ultima occasione di scriverti che mi viene concessa. Credo, anni sono convinta che anche tu abbia a soffrire per la disgrazia che si è abbattuta su di noi. Voglio essere io a renderti la tua libertà, dato che, nell'attuale miseria in cui versiamo non è possibile che il nostro fidanzamento prosegua oltre. Sono sicura che tu non sia in alcun modo responsabile della nostra situazione e non condivida i crudeli sospetti che nutre tuo padre, causa, per noi, del più cocente fra tutti i dolori che ci affliggono. Addio. Addio. Prego il Signore che mi dia la forza di sopportare questa ed altre sventure, e che ti conceda sempre la sua benedizione. A. Suonerò spesso il pianoforte... il tuo pianoforte. È stato un dono che ha saputo dirmi tutto il tuo amore. Dobbin era un uomo di cuor tenero. Non riusciva a sopportare la sofferenza di donne e di bambini. Il pensiero che Amelia soffrisse in quella sua desolata solitudine colmò d'angoscia quell'anima così umanamente disposta verso il prossimo e suscitò in lui un'emozione che ciascuno è liberissimo di giudicare poco virile. Giurò che Amelia era un angelo, e su questo punto Osborne non poté non trovarsi concorde. Anche lui aveva ripercorso con la mente tutta la loro vita, e rivedeva Amelia sino a quel momento, dolce, dolce, semplice, incantevole nella sua affettuosa e tenera ingenuità. Quale dolore aver perduto tutto questo! Averlo posseduto e non averlo saputo apprezzare a tempo debito! Mille episodi e ricordi familiari gli si affollarono nella mente, e in tutti lei gli appariva soltanto buona, soltanto bella. Poi ripensava a se stesso e arrossiva di rimorso, di vergogna. Il suo egoismo e la sua indifferenza creavano uno spiacevole contrasto con l'assoluta purezza di lei. Per qualche istante ogni pensiero di guerra e di gloria venne messo in disparte, e i due amici parlarono soltanto di Amelia. Parlarono a lungo. Poi, dopo una pausa, Osborne disse: «Dove saranno finiti?» rendendosi conto con rinnovato senso di colpa di non aver fatto il minimo sforzo per rintracciarla. «Dove saranno? Sulla lettera non c'è nessun indirizzo.» Dobbin, quell'indirizzo lo conosceva. Non solo aveva mandato personalmente il pianoforte a Mrs. Sedley, ma le aveva scritto un biglietto chiedendo il permesso di farle una visita. Pertanto l'aveva incontrata, ed aveva visto anche Amelia, il giorno prima di andare a Chatham; anzi, era stato lui a portare in caserma quella lettera di addio e quel pacchetto che li aveva tanto commossi. Mrs. Sedley era parsa lietissima di ricevere la visita di quel bravo giovane, e molto turbata per l'arrivo del pianoforte che, a suo parere doveva riflettere un'iniziativa personale di George, e pertanto era un segno della sua amicizia. Il capitano Dobbin si guardò bene dal rivelare la verità alla degna signora; inoltre ascoltò con grande partecipazione il resoconto dei loro guai e manifestò la sua costernazione per le privazioni alle quali avevano dovuto sottoporsi, dichiarandosi pienamente d'accordo sul fatto che la condotta di Mr. Osborne nei confronti del suo antico benefattore era altamente riprovevole. Poi, quando Mrs. Sedley ebbe sfogato su di lui l'impeto delle sue recriminazioni e un poco dei suoi dolori, Dobbin si arrischiò a domandarle se avrebbe potuto vedere Miss Amelia che al solito se ne stava in camera sua al piano di sopra, e che la madre condusse da basso, tutta tremante. Aveva un aspetto così spettrale, un'espressione così patetica nella sua disperazione, che al solo guardarla il buon William Dobbin ne fu sconvolto, e su quel volto pallido e spiritato lesse i più cupi presentimenti. Rimase seduta accanto a lui per qualche istante, poi gli mise fra le mani il pacchetto e gli disse: «Vi sarò grata se vorrete consegnarlo al capitano Osborne, che... che mi auguro stia bene... siete stato veramente gentile a venirci a trovare... ci troviamo molto bene in questa casa. Forse è meglio che adesso torni di sopra, mamma, perché mi sento poco bene.» Detto ciò, accennò a un sorriso, fece un inchino e uscì dalla stanza. Mentre la riaccompagnava, Mrs. Sedley lanciò a Dobbin un'occhiata carica d'angoscia; ma il bravo ragazzo non aveva bisogno di quel cenno: l'amava troppo perché fosse necessario. Provò un dolore, un sentimento di pietà e di terrore indicibili, e quando si allontanò ebbe la sensazione di fuggire, quasi fosse stato un criminale. Quando Osborne apprese che l'amico l'aveva vista, chiese ansiosamente di Amelia. Come stava? Che aspetto aveva? Che cosa gli aveva detto? Dobbin gli prese una mano e gli rispose: «George, sta morendo.» E non seppe aggiungere altro. Nella piccola casa ove i Sedley avevano trovato rifugio, una prosperosa fantesca irlandese sbrigava tutte le faccende domestiche, e più volte negli ultimi giorni si era sforzata invano di recare ad Amelia aiuto o conforto. Emmy era troppo triste per replicare alle sue parole, o anche solo per accorgersi di quanto la donna cercava di fare a suo beneficio. Quattro ore dopo la conversazione fra Dobbin e Osborne, la servetta in questione entrò nella camera di Amelia, ove quest'ultima, come sempre, sedeva taciturna, sospirando davanti alle sue lettere. La ragazza appariva allegra e sorridente, e si adoperò inutilmente per attirare l'attenzione della fanciulla. «Miss Emmy,» disse la ragazza. «Vengo,» rispose Amelia, senza levare lo sguardo. «È arrivata una lettera...» continuò la domestica, «c'è qualcosa... qualcuno... Una lettera nuova per voi... Smettete di leggere quelle vecchie.» E le porse una lettera. Emmy la prese e lesse: «Debbo vederti. Emmy, mia diletta, debbo vederti. Amore mio, carissima compagna della mia vita, vieni da me.» George e sua madre attendevano fuori della porta ch'ella avesse letto quel messaggio. XIX • MISS CRAWLEY MALATA Abbiamo già visto come Mrs. Firkin, la cameriera di Miss Crawley, ogni qual volta si verificava qualche avvenimento di un certo rilievo per la famiglia si sentisse in dovere di darne notizia a Mrs. Bute Crawley, al presbiterio. E del pari abbiamo accennato al fatto che la buona signora in questione fosse particolarmente gentile e affettuosa con questa domestica di Miss Crawley, la quale fruiva delle confidenze della sua padrona. Inoltre si era procacciata la simpatia di Miss Briggs usandole quel genere di attenzioni e promesse che costano assai poco a chi le elargisce ma fanno molto piacere a chi le riceve. E in effetti ogni brava donna di casa dovrebbe ricordarsi quanto siano economiche, ma al tempo stesso preziosissime, queste promesse, e quale sapore riescano a conferire anche al piatto più insipido. Chi è l'imbecille che ha osato dire: «Le belle parole non servono a condire le rape?» La metà delle rape che vengono servite in società sono rese appetitose proprio dal contributo offerto da quella salsa. Come l'immortale Alexis Soyer riesce a rimediare con quattro soldi una minestra più prelibata di quella che una cuoca inetta riesce a preparare con chili di carne e verdura, così un abile artista riesce ad approdare allo scopo, in contrasto con uno sciocco, per quanto provvisto di beni molto più tangibili. Anzi, è noto che certi beni tangibili riescono talvolta a dar di stomaco. Invece la maggior parte della gente è sempre disponibile quando si tratti di ingurgitare un'iradiddio di paroloni inutili, ed è sempre pronta a cacciarne giù una dose ancora maggiore. Mrs. Bute Crawley aveva ripetutamente esternato alla Firkin e alla Briggs il grande affetto che nutriva per loro, e aveva loro espresso in termini così eloquenti quanto sarebbe stata pronta a far per loro se avesse avuto le disponibilità finanziarie di Miss Crawley, che le suddette signore la trattavano con estrema deferenza, e provavano per lei una gratitudine e una fiducia concrete, proprio come se fossero state colmate di fatto dei più singolari favori. Invece Rawdon Crawley, da quel dragone rozzo ed egoista che era, non si era mai curato di attirarsi la simpatia delle giannizzere di sua zia, ed anzi non celava il disprezzo che provava per entrambe. Una volta si era fatto sfilare gli stivali dalla Firkin, un'altra volta l'aveva mandata a recapitare certe lettere licenziose sotto una pioggia torrenziale, e se per caso si lasciava andare a darle una ghinea di mancia lo faceva con la stessa buona grazia con la quale si assesta un pugno in pieno viso. E dal momento che anche la zia si divertiva a dileggiare la Briggs, il nipote trovava più che logico seguirne l'esempio, e la prendeva di mira con certe burle delicate quanto può esserlo la pedata di un cavallo. Al contrario Mrs. Bute Crawley la consultava su questioni di gusto, o quando aveva problemi di qualsiasi genere, mostrava di apprezzare le sue poesie e con una varia gamma di attenzioni le dava prova della sua stima. Se poi faceva alla Firkin un regalo da nulla, lo accompagnava con una tale profluvio di complimenti, che quei due soldi si trasformavano per magia in monete d'oro, nel cuore della cameriera ricolma di gratitudine, la quale inoltre già preconizzava il piacere di fruire dei vantaggi di cui sarebbe stata beneficiaria il giorno in cui Mrs. Bute Crawley avesse ereditato da Miss Matilda. Mi permetto rispettosamente di attirare l'attenzione di coloro i quali danno inizio al loro cammino nel mondo sui contrastanti stilemi che caratterizzano i personaggi in questione. Vi consiglio di lodare tutti; non siate mai avari di complimenti, e prodigateli sia in faccia agli interessati che dietro le loro spalle, se sapete che vi è qualche probabilità che l'elogio venga comunque recepito. Non lasciatevi sfuggire l'occasione di pronunciare una frase gentile. Fate come l'ammiraglio Collingwood che, se scopriva uno spazio libero nei suoi possedimenti, subito levava di tasca una ghianda e la piantava. Ebbene, fate altrettanto nella vita quando avete modo di esser complimentosi: una ghianda è cosa da nulla, ma può trasformarsi in una quercia enorme e regalarvi tanto legname. A farla breve, Rawdon Crawley, che quando era sulla cresta dell'onda si era visto ubbidito a malincuore, una volta caduto in disgrazia non fu aiutato né compatito da nessuno. Per contro, quando Mrs. Bute Crawley assunse la direzione delle faccende domestiche, tutto il servitorame fu lietissimo di mettersi ai suoi ordini, convinto com'era che tante gentilezze e accattivanti promesse fossero il prologo di consistenti vantaggi. D'altra parte Mrs. Bute Crawley si guardò bene dal pensare che Rawdon si desse per vinto dopo una sola battaglia perduta, e che rinunciasse a fare qualche tentativo di rivincita. Sapeva che Rebecca era una donna troppo abile, troppo astuta, troppo disposta a qualsiasi passo per alzare bandiera bianca senza prima dar combattimento, e sentiva di dover stare all'erta, onde difendersi da eventuali attacchi inopinati e proditori. Prima di tutto, è vero che la città era in sua mano ma... il primo cittadino? Miss Crawley avrebbe perseverato nel suo attuale atteggiamento? Chissà se nel suo intimo non desiderava riconciliarsi con l'avversario, dopo averlo respinto da sé e dai suoi affetti? L'anziana signorina apprezzava Rawdon, e in quanto a Rebecca la trovava divertente. Mrs. Bute non poteva nasconderselo: nessuno dei suoi familiari era in grado di recare un simile e adeguato contributo al divertimento della suddetta, prima cittadina. «Lo so, lo so,» ammetteva fra sé con assoluto candore la moglie del vicario, «in confronto a quell'abominevole istitutrice le mie figlie cantano di peste. Quando Martha e Louisa cantavano e suonavano i loro duetti. Matilda si affrettava ad andarsene a letto. Quanto alla goffaggine puerile di Jim e ai discorsi di Bute sui cani e sui cavalli l'hanno sempre fatta sbadigliare di noia. Se la conducessi ai presbiterio, se la prenderebbe con tutti noi, ne sono sicura, e si affretterebbe a ripartirne, disgustata. Eh, sì, potrebbe ricadere vittima del fascino che esercitano su di lei sia quel mostro di Rawdon, sia quella vipera della Sharp. Adesso peraltro sta molto male e per qualche settimana non avrà la possibilità di muoversi: bisogna approfittarne e tramare qualche piano per metterla al riparo da quella coppia priva d'ogni scrupolo.» Nei momenti migliori, se qualcuno diceva a Miss Crawley che era (o che sembrava) malata, lei, terrorizzata, convocava immediatamente il medico. Adesso, poi, dopo quei frangenti familiari che avrebbero scosso un sistema nervoso molto più saldo del suo, le sue condizioni potevano, in effetti, esser giudicate critiche. Ad ogni modo Mrs. Bute Crawley ritenne doveroso avvisare il medico, il farmacista, la dame de compagnie e la servitù che lo stato di salute di Miss Matilda era veramente precario, e che di conseguenza tutti dovevano tenerne il massimo conto. Aveva fatto spargere uno strato di paglia sul marciapiede antistante l'ingresso, fatto levare il batacchio dalla porta e proibito a Mr. Bowls di usare il vasellame d'argento. Pretese ad ogni costo che il dottore si recasse a visitare l'inferma due volte al giorno e ogni due ore le faceva ingurgitare un orribile beverone. Quando qualcuno osava varcare la porta della camera da letto, dalle sue labbra usciva un sssss così sibilante, severo e minaccioso, che la povera vecchia obbligata a letto, provava un brivido di terrore. Non poteva levare lo sguardo senza veder fissi su di sé gli occhietti penetranti di Mrs. Bute Crawley, che sedeva immobile in una poltrona di fianco al giaciglio padronale. Nell'oscurità brillavano, quasi fossero stati fosforescenti. Teneva le tende perpetuamente tirate, e si aggirava per la stanza a passi felpati come quelli di un gatto. Così Miss Crawley giacque per giorni e giorni, cullata dal suono della voce di Mrs. Bute Crawley che le leggeva testi religiosi. Per tante, tante notti, non udì altro che la nenia cadenzata del contaore e lo sfrigolio del lumino da notte. Dopo la rapida visita del farmacista, verso la mezzanotte, era costretta a restarsene in quel letto a guardare gli occhi pungenti della cognata e le strisce gialle che il lume proiettava contro il tetro soffitto. Costretta a un regime del genere, anche Igea si sarebbe ammalata. Com'era possibile che quella povera vittima non diventasse suo malgrado un'ipocondriaca? Abbiamo già avuto agio di constatare come quella veneranda abitatrice della Fiera della Vanità, quando era sana ed arzilla nutriva, in fatto di religione e di morale, idee non meno spregiudicate di quelle del Signor di Voltaire. Ma quando si ammalò il terrore panico della morte e la sua indomabile pusillanimità s'impadronirono, impietosi, della vecchia peccatrice, e ne aggravarono ulteriormente i malanni. Omelie e considerazioni edificanti ci sembrano fuori luogo in un libro siffatto, che dopotutto è semplicemente un romanzo; e noi, a differenza di quanto avviene nelle pagine di molti romanzi attuali, non vogliamo inchiodare i lettori a un sermone, visto che il pubblico ha pagato per assistere solo e soltanto ad una commedia. Ma, pur mettendo al bando le omelie, non possiamo sottacere la verità: non sempre la vivacità, l'allegria, le tronfie apparenze di cui si rivestono i nostri personaggi alla Fiera della Vanità, li accompagnano anche nell'intimità. Al contrario, accade non di rado ch'essi siano vittime di crisi depressive e rosi da cupi pentimenti. È raro che un gaudente per natura, quando si ammala, ritrovi l'allegria al solo pensiero di un prelibato banchetto. Una donna sfiorita, quand'anche rievocasse le sue più sfarzose toilettes e il successo che riscuoteva alle feste, non riuscirebbe egualmente a consolarsi della bellezza perduta. Forse, anche nella vita degli uomini politici subentra una fase in cui non riescono più a compiacersi dei successi elettorali a suo tempo riscossi; e i piaceri goduti ieri contano ben poco quando all'orizzonte spunta quel certo (o incerto) giorno nel quale tutti, indistintamente, ci vediamo costretti a meditare su noi stessi. O tu, fratello, che al pari di me indossi la casacca del buffone: devi pur ammetterlo! Ci sono momenti nei quali ci si stanca di lazzi e di risate, di far tintinnare i sonagli del borsetto e del bastone! Ecco, cari amici: ciò che mi propongo è di attraversare la Fiera della Vanità, sostando a contemplare baracche e baracconi, per poi ritornare a casa lasciandomi alle spalle quel frastuono, quella baldoria, quella luminaria e assaporare in totale solitudine la più profonda infelicità. «Se quel pover'uomo di mio marito avesse la testa sulle spalle,» pensava Mrs. Bute Crawley, «di quale utilità potrebbe essere alla povera vecchia in simili frangenti! Potrebbe esortarla a pentirsi dei suoi trascorsi licenziosi, potrebbe indurla a fare una volta per tutte il suo dovere, cacciando quel libertino, quel repellente individuo, che ha disonorato se stesso e la sua famiglia, e convincerla a ricordarsi delle mie figliuole, dei miei ragazzi, comportandosi nei loro confronti come Giustizia esige. Essi hanno bisogno, anzi si meritano, tutto l'aiuto che può venirgli dai loro parenti.» E dal momento che l'odio per il vizio serve a instradare lungo la via della virtù, Mrs. Bute Crawley faceva tutto il possibile per inculcare in Miss Matilda l'avversione per Rawdon, per quel coacervo di peccati ch'ella sciorinava in un elenco così lungo, che sarebbe bastato a provocare la condanna di un intero reggimento di giovani ufficiali. Quando accade che un uomo commetta qualche errore nella vita, i moralisti più smaniosi di richiamare l'attenzione del prossimo sulle sue pecche sono sempre i parenti. Per questo Mrs. Bute Crawley mostrava una così viva partecipazione familiare, una così cieca consapevolezza dei torti di Rawdon. Era edotta in ogni minimo dettaglio circa la disputa di Rawdon col capitano Mapker: lite nella quale quest'ultimo, pur essendo dalla parte della ragione, aveva perso la vita per mano dell'abietto suo camerata. E del pari sapeva come lo sventurato Lord Dovedale, la cui madre era arrivata al punto di acquistare una casa ad Oxford perché egli potesse studiare in quella università, e che non aveva mai toccato un foglio di carta in vita sua fino al giorno in cui aveva messo piede a Londra, era stato traviato da quel corruttore di minorenni di Rawdon, il quale lo aveva trascinato al Coca Tree, lo aveva fatto ubriacare e finalmente gli aveva pelato al gioco nientemeno che quattromila sterline. Descriveva con dovizia di minuti, scottanti particolari le sciagure di tante ignare famiglie dello Hampshire, i cui figli erano stati corrotti da quel pessimo soggetto che li aveva piombati nel disonore e nell'indigenza, le cui figlie erano state da lui sedotte e sospinte sulla strada della perdizione. Sapeva vita, morte e miracoli dei poveri commercianti ridotti a malpartito a causa delle sue truffe, del suo scialacquio inconsulto, le imprese furfantesche con le quali li aveva turlupinati, l'impostura e la sfrontata ipocrisia con la quale aveva ingannato la più generosa delle zie, l'ingratitudine e la sconcia condotta con la quale ne aveva ricompensato i sacrifici. Mrs. Bute propinava questa sequela di episodi a Miss Matilda somministrandoglieli a piccole dosi, onde sortissero più efficacemente il loro effetto. Questo (ne era assolutamente convinta) era il suo cristiano dovere di moglie e di madre: un dovere inderogabile che le impediva di provare il più piccolo rimorso per la vittima immolata dalla sua lingua calunniatrice. Anzi, probabilmente giudicava il proprio comportamento degno di ogni lode e in cuor suo si compiaceva di tanta decisione. Eh, sì, pensatela pure come vi pare; ma nessuno sa rovinare la reputazione di una persona quanto un parente. Per altro verso, occorre ammettere che nel caso di quel poveraccio di Rawdon Crawley, la pura e semplice verità sarebbe bastata a condannarlo, e quando i suoi amici si affannavano ad attribuirgli la paternità di tante azioni disdicevoli, la loro fatica era del tutto inutile. Anche Rebecca, che ormai faceva parte della parentela, aveva diritto ad una quota di sua stretta spettanza nelle benevole investigazioni condotte da Mrs. Bute Crawley. Costei, impegnata con tanto accanimento a cavare la Verità dal pozzo, dopo aver dato ordini perentori onde fosse respinto qualsiasi inviato, rifiutata qualsiasi lettera di Rawdon Crawley, un giorno salì sulla carrozza di Miss Crawley e si recò a far visita alla sua diletta amica Miss Pinkerton, Minerva House, Chiswick Mall, per comunicarle la ferale notizia: il capitano Rawdon Crawley era stato circuito e sedotto da Rebecca Sharp! Quale migliore occasione per apprendere una miriade di particolari stuzzicanti e affatto inediti sulla nascita e la primissima giovinezza dell'istitutrice! L'amica del Lessicografo disponeva di un numero incredibile di notizie, tutte pronte per l'uso. Miss Jemima ebbe l'incarico di andare a prendere le lettere e le ricevute del maestro di disegno: una era stata spedita da una prigione provvisoria per debitori, un'altra era piena di frasi supplichevoli per ottenere un anticipo, un'altra ancora trasudava riconoscenza per avere le degne signorine del Chiswick accolto Rebecca nel loro istituto. Per finire, l'ultima missiva vergata dal disgraziato artista sul letto di morte scongiurava Miss Pinkerton di aver cura della sua figliola. Ma la collezione includeva anche lettere e richieste di Rebecca in persona, nelle quali ella esternava la propria riconoscenza o avanzava suppliche a favore del padre. Forse, alla Fiera della Vanità, le satire più mordaci s'identificano proprio con le lettere. Prendetene un fascio, scritto dieci anni fa da un vostro amico che ora onorate del vostro odio implacabile. Prendete quelle di vostra sorella! Come vi volevate bene! Se più tardi non aveste litigato a sangue per quell'eredità di venti sterline!... Prendete gli scarabocchi infantili di vostro figlio, che, fattosi adulto e mostruosamente egoista, vi ha causato atroci dispiaceri! Oppure prendete le vostre lettere: quelle che, traboccanti di attestazioni d'amore imperituro, avete indirizzato alla vostra bella, e che la stessa vi restituì quando si sposò con un tizio ricco sfondato: un'innamorata della quale oggi non v'importa più di quanto v'importi della regina Elisabetta! Promesse, giuramenti, trepide confidenze, tenere espressioni ricolme d'amore e di gratitudine! Che strano affetto produce queste parole, se ci avviene di rileggerle dopo un certo lasso di tempo! Nella Fiera della Vanità un'apposita legge dovrebbe imporre nel modo più categorico di distruggere - trascorso un certo lasso di tempo - qualsiasi scritto che non sia una fattura quietanzata. Quei cialtroni che esaltano le preclare virtù dell'inchiostro di China indelebile sono dei nemici del genere umano, e dovrebbero essere cancellati dalla terra insieme con le loro turpi invenzioni. Alla Fiera della Vanità dovrebbe essere di rigore l'uso di un inchiostro che sbiadisce nel giro di due o tre giorni, e lascia il foglio perfettamente pulito e intatto, pronto per una nuova lettera. Lasciata Miss Pinkerton, l'inesorabile Mrs. Bute Crawley seguì le tracce di Rebecca Sharp e di suo padre fino al loro alloggio di Greek Street, dove il defunto pittore era vissuto, e dove le pareti del salotto si ornavano tuttora dei ritratti della padrona di casa in abito di raso bianco, e del padrone di casa in giacca dai bottoni dorati, dipinti da Sharp a titolo di pagamento per un trimestre d'affitto. Mrs. Stokes era una donna loquace e non si fece pregare; pertanto raccontò tutto ciò che sapeva sul conto di Mr. Sharp: che era un poveraccio tanto dissipato quanto simpatico e spiritoso; ch'era sempre tallonato dagli ufficiali giudiziari; che (e lei ne era stata scandalizzata) aveva sposato quella detestabile sua moglie poco prima ch'ella morisse, che la figlia era una specie di strano animaletto selvatico, capace peraltro di farli ridere con i suoi scherzi e le sue comiche mossette; che andava a comperare il gin in un osteria e frequentava tutti gli ateliers del quartiere... In poche parole, Mrs. Bute Crawley ebbe agio di farsi un'idea così compiuta circa la parentela e i precedenti della nuova nipote, della sua condotta e della sua educazione, che Rebecca non sarebbe stata niente affatto contenta di scoprire come qualcuno stesse svolgendo questa sorta d'indagini sul suo conto. Di queste zelanti ricerche, Miss Crawley ebbe poi l'onore di beneficiare senza riserve. La moglie di Rawdon Crawley era la figlia di una ballerina dell'Opera, e lei stessa aveva fatto la ballerina. Aveva fatto la modella, e in quanto all'educazione ricevuta era né più né meno quella che ci si poteva attendere da una madre del genere. Inoltre beveva gin come il padre, e via discorrendo. Era una donna perduta, degna moglie di un uomo perduto. E la conclusione alla quale era fatale arrivare, sull'onda del resoconto di Mrs. Bute Crawley, era che la perfidia di una coppia siffatta non aveva limiti: qualunque persona dabbene aveva lo stretto dovere d'ignorarla. Era questo, dunque, il materiale che l'oculata Mrs. Bute Crawley andava collezionando nella casa di Park Lane: raccoglieva, potremmo asserire, le provviste e le munizioni con le quali si apprestava ad affrontare l'assedio di cui, prima o poi, il capitano Rawdon e sua moglie avrebbero cinto la casa di Miss Crawley. Se peraltro questa ridda di procedimenti precauzionali presentava un neo, dobbiamo convenire che Mrs. Bute Crawley peccava per eccesso di zelo, per soverchio perfezionismo. Non c'è dubbio che riuscisse ad aggravare artatamente la malattia di Miss Matilda; ma sebbene la vecchia cedesse di fronte all'esercizio implacabile di tanta autorità, questo era così tormentoso e severo che la vittima guatava la prima occasione per sfuggirgli. Le donne autoritarie (onore del loro sesso), quelle che amano comandare tutto e tutti, quelle che sanno sempre quale sia il bene dell'uno e dell'altra assai più dei diretti interessati, talora non prevedono il pericolo di una ribellione domestica, o altre perniciose conseguenze di tanto implacabile spirito dominatore. Fu così che Mrs. Bute Crawley, animata dalle migliori intenzioni e mezzo morta di stanchezza perché rinunciava al sonno, al cibo, alle passeggiate pur di assistere la cognata, si convinse che Miss Crawley era davvero malatissima e i suoi funerali erano ormai prossimi. Un giorno, conversando con Mr. Clump, lo zelante farmacista, parlò dei sacrifici e si diffuse sui risultati ai quali era pervenuta. «Per esser sincera, caro Mr. Clump, non ho lesinato il minimo sforzo per guarire la cara ammalata ridotta in un simile stato dall'ignobile contegno di suo nipote. Sopporto i sacrifici, non mi tiro indietro, accetto serenamente qualsiasi disagio.» «La vostra devozione è veramente encomiabile» rispose il farmacista, «tuttavia...» «Si può dire che non abbia mai chiuso occhio da quando sono arrivata. Al senso del dovere ho sacrificato il sonno, la salute, le comodità alle quali ero assuefatta... Quando il povero James ha avuto il vaiolo non ho certo permesso che persone estranee lo curassero... ,» «Avete agito come solo può agire la più affettuosa, la migliore delle madri, ma... ,» «Nella mia qualità di madre di famiglia e di moglie di un ecclesiastico, voglio credere che le mie azioni siano guidate da umili e sani principi,» continuò imperterrita la Crawley, con un tono di pacata e solenne convinzione. «Fino a quando ne avrò la forza non abbandonerò il posto al quale mi esorta il senso del dovere. Mai vi rinuncerò, Mr. Clump. Altri abbandoneranno quella povera testa grigia in un letto di dolore.» E nel dir questo accennò ad una delle parrucche color caffè che usava indossare la vecchia dama ed era posata sull'apposito sostegno del camerino da toeletta. «Per conto mio non la lascerò mai. Ah, caro Mr. Clump, temo proprio che a questo punto la nostra malata abbia bisogno di un soccorso spirituale, oltre che dell'ausilio della medicina.» «Ciò che volevo dire, signora,» intervenne Mr. Clump con voce risoluta, pur non rinunciando all'abituale tono di deferenza, «ciò che volevo dire poc'anzi, quando avete espresso quei vostri lodevolissimi sentimenti, è che a mio parere voi vi allarmate senza ragione circa la salute della nostra cara amica, e vi sacrificate per lei con eccessiva prodigalità.» «Darei la vita per compiere il mio dovere, o per qualunque membro della famiglia di mio marito,» interruppe la Crawley. «Certo, certo, se fosse necessario... Noi però non vogliamo fare di Mrs. Bute Crawley una martire» proseguì Clump, galante. «Senza dubbio voi non dubitate che il dottor Squills ed io abbiamo esaminato il caso di Miss Crawley con la maggior cura ed ogni possibile zelo. Notiamo che è depressa, nervosa. Gli eventi familiari l'hanno profondamente turbata...» «Suo nipote è condannato alla perdizione!» esclamò Mrs. Bute Crawley. «È turbata, non c'è dubbio, e il vostro arrivo qui è stato come l'arrivo di un angelo custode, cara signora. L'avete confortata nel momento cruciale della disgrazia. Nondimeno il dottor Squills ed io riteniamo che le condizioni della nostra amica non siano così gravi da costringerla a letto. La permanenza a letto non fa che accentuare il suo stato di depressione. Bisogna che cambi vita, abbia modo di uscire, di distrarsi: queste, credete, sono le medicine più straordinarie di tutta la farmacopea,» disse Mr. Clump con un sorriso che rivelò la chiostra dei suoi denti smaglianti. «Convincetela ad alzarsi, signora. Toglietela da quel letto, fatela uscire da quello stato di prostrazione. Insistete perché faccia qualche breve passeggiata in carrozza. Ciò varrà altresì a ridare un bell'incarnato alle vostre gote, se posso osare di parlare così a Mrs. Bute Crawley.» «Pare che quel suo odioso nipote si rechi spesso a cavalcare ad Hyde Park con quella sua sfrontata compagna,» disse Mrs. Bute Crawley, lasciando cadere la maschera che fino a quel momento aveva celato il volto dell'egoismo. «Se Miss Matilda lo incontrasse, ne avrebbe un colpo tale che dovremmo riportarla a letto. No, Mr. Clump, non può, non deve uscire. Fino a quando resterò in questa casa non uscirà. Quanto alla mia salute, che importa? Me ne privo con gioia, lieta di immolarla sull'altare del dovere compiuto.» «Signora,» riprese il farmacista in tono un po' più brusco, «se continua a restarsene in quella stanza buia, vi giuro che non rispondo della sua vita. Il suo stato di estremo nervosismo potrebbe perderla da un momento all'altro, e se voi desiderate che il capitano Crawley diventi l'erede di Miss Matilda, vi avverto: state facendo del vostro meglio per servirlo, signora!» «Bontà divina! Dunque la sua vita sarebbe in pericolo?» esclamò Mrs. Bute Crawley. «Ma perché non mi avete avvertita prima, Mr. Clump?» La sera precedente Mr. Clump e il dottor Squills, davanti a una bottiglia di vino, si erano consultati sulle condizioni di Miss Crawley in casa di Lord Lapin Warren, la cui moglie stava per regalargli il tredicesimo figlio. «Che arpia è quella donna dello Hampshire che ha messo le mani sulla vecchia Tilly Crawley, vero Clump?» aveva detto il dottor Squills. «Fantastico questo madera, perdio!» «Rawdon è stato proprio un imbecille a prendere in moglie un'istruttrice. Però bisogna riconoscere che quella ragazza aveva un non so che...» «Occhi verdi, carnagione bianca, fronte alta, una figuretta flessuosa...» aveva commentato Squills. «Sì, è vero, quella ragazza ha un non so che; tuttavia Rawdon è stato proprio sciocco, Clump.» «Sciocco lo è sempre stato,» aveva ribattuto quest'ultimo. «Inutile dire che la vecchia lo diserederà,» aveva proseguito il medico. E dopo una pausa: «Lascerà un mucchio di quattrini, immagino.» «Lasciamo perdere,» aveva risposto Clump, con un sogghigno, «visto che per me la sua morte significherà perdere duecento sterline all'anno!» «Se continua a restare con lei, quella strega dello Hampshire la spedirà al Creatore nel giro di due mesi, caro mio. La vecchia mangia troppo, ha la pressione alta, è molto nervosa: finirà per venirle un colpo e andrà all'altro mondo. Bisogna farla alzare, farla uscir di casa, o non darei il mio guadagno di due settimane per le vostre duecento sterline annue.» Questo, dunque, era stato il colloquio che aveva indotto il farmacista a parlare in termini tanto espliciti a Mrs. Bute Crawley. Costei, avendo in pugno Miss Crawley, costretta a letto, e senza testimoni ingombranti, aveva già messo in atto ripetuti tentativi per convincerla a modificare il testamento. Ma questi discorsi funerei aumentavano con le loro implicazioni il terrore panico che la vecchia aveva della morte, e la signora comprese che, se voleva pervenire ai risultati edificanti che si era prefissa, doveva rinverdire il buonumore della malata migliorandone lo stato di salute. Ciò premesso, occorreva scegliere il posto ove condurla. L'unico luogo ove difficilmente si sarebbero imbattuti nell'odiato Rawdon era la chiesa, ma Mrs. Bute Crawley si rendeva conto (e non a torto) che una simile prospettiva non presentava nulla di divertente per sua cognata. «Dobbiamo andare a vedere i bellissimi dintorni di Londra,» pensò, «dicono tutti che siano fra i più pittoreschi del mondo.» Pertanto manifestò di punto in bianco un subitaneo interesse per Hampstead, per Hornsey, per Dulwich che - decise esercitava su di lei un grande fascino. Di conseguenza fece salire la sua vittima in carrozza e rallegrò quelle gite in campagna con ripetuti discorsi sul conto di Rawdon e consorte, fregiandoli di ogni sorta di particolari atti ad accrescere l'indignazione della vecchia dama nei confronti di quella coppia fedifraga. Forse Mrs. Bute Crawley aveva teso troppo la corda. Infatti, se da un lato era riuscita a suscitare in Miss Crawley un'autentica avversione per quel suo disobbediente nipote, dall'altro la malata sentiva altresì un vero e proprio odio e un segreto terrore per la sua aguzzina, e desiderava ardentemente di sfuggirle. Ben presto si ribellò contro le scarrozzate ad Highgate e a Hornsey. Voleva andare a Hyde Park e basta. Da parte sua Mrs. Bute Crawley era certa che ivi avrebbero fatalmente incontrato l'aborrito Rawdon. E così avvenne infatti. Un giorno, durante la passeggiata, ecco apparire il calesse di Rawdon. Accanto a lui sedeva Rebecca. Nell'equipaggio nemico Miss Crawley sedeva al solito posto, avendo a sinistra la cognata e il barboncino, e sul sedile posteriore Miss Briggs. Il momento fu veramente drammatico e Rebecca sentì battere il cuore all'impazzata quando riconobbe la carrozza. Non appena le due vetture s'incrociarono, congiunse le mani e rivolse alla vecchia signorina un'espressione improntata alla più viva devozione, al più dolente affetto. Anche Rawdon tremò, e il viso gli si coprì di rossore sotto i mustacchi e i favoriti tinti. Nell'altra carrozza solo la Briggs si sentì commossa, e i suoi grandi occhi lanciarono ai vecchi amici un'occhiata carica di nervosismo. La cuffia di Miss Crawley era invece rivolta pervicacemente in direzione della Serpentina. Quanto a Mrs. Bute Crawley, chissà perché sembrava bearsi della presenza del Carboncino: giocava con lui e lo chiamava tesoro, cocchino, cagnolino mio bello. Dopo di che le carrozze si mossero, ciascuna proseguendo nella propria direzione. «È finita, per Giove,» disse Rawdon alla moglie. «Proviamo un'altra volta,» disse Rebecca. «Caro, non potresti fare in modo che una ruota della nostra carrozza s'incastrasse nelle loro?» Rawdon non ebbe l'ardire di tentare quella manovra, ma quando le carrozze tornarono ad incrociarsi, si levò in piedi e alzò la mano nell'atto di chi è pronto a togliersi il cappello guardando fisso con gli occhi bene aperti. Questa volta Miss Crawley non volse il capo dall'altra parte: al contrario, sia lei che Mrs. Bute Crawley lo guardarono ostentatamente senza salutarlo. Il nipote si lasciò sfuggire una bestemmia, ricadde sul sedile e a folle corsa si diresse verso casa. Per Mrs. Bute Crawley era un palese e clamoroso successo. Ma ella ritenne che il ripetersi di simili incontri poteva essere pericolosa. Miss Crawley, infatti, era nervosissima. Pertanto decise che fosse assolutamente indispensabile lasciare Londra per qualche tempo, e caldeggiò vivamente un soggiorno a Brighton. XX • IL CAPITANO DOBBIN MESSAGGERO DI IMENE Il capitano Dobbin non avrebbe saputo dire come e perché, ma sta di fatto che si trovò a porre le basi del matrimonio fra George Osborne ed Amelia, a combinarlo, ad organizzarlo. Se non fosse stato per lui, quelle nozze non avrebbero mai avuto luogo. Doveva ammetterlo, e sorrideva con una certa amarezza al pensiero che proprio a lui, fra tutti gli uomini del mondo, spettasse il compito di presiedere a quegli sponsali. Ma, se quelle trattative costituivano l'impegno più arduo che mai gli fosse stato affidato, quando aveva un dovere da compiere il capitano Dobbin non mancava di assolverlo sino in fondo, senza esitare, senza tergiversare. Per giunta si era convinto che se Miss Sedley non avesse sposato George sarebbe morta di sconforto, cosicché aveva deciso di porre in atto ogni sforzo per tenerla in vita. Tralascio la descrizione dei particolari dell'incontro fra Amelia e George, quando quest'ultimo fu ricondotto ai piedi (ma forse sarebbe meglio dire: tra le braccia) della sua innamorata, grazie ai buoni uffici del suo ottimo amico William. Un cuore assai più duro di quello di George si sarebbe commosso alla vista di quel dolce visino, sconvolto dall'angoscia e dalla disperazione, e nell'udire le semplici, tenere parole con le quali ella raccontò la pena che le aveva spezzato il cuore. Dopo aver constatato che Amelia non era svenuta quando, tutta tremante, aveva condotto Osborne al suo cospetto, e la fanciulla si era limitata a dar sfogo al suo dolore reclinando il capo sulla spalla dell'innamorato e versando innumerevoli lacrime di sollievo, l'anziana Mrs. Sedley, a sua volta profondamente sollevata, ritenne doveroso lasciar soli i due giovani, e pertanto se ne andò mentre Emmy piangeva stringendo la mano di George e la copriva umilmente di baci quasi lui fosse stato il suo assoluto signore e padrone, e lei un'indegna colpevole che lo supplicava di grazie e di favori. Quell'atteggiamento sottomesso e devoto colmò George di commozione e al tempo stesso di legittima compiacenza. In quella semplice fanciulla, a lui ciecamente fedele, egli vedeva una specie di schiava, e si sentì segretamente lusingato all'idea di disporre di un simile potere. Anche se era il Sultano si sarebbe mostrato magnanimo, avrebbe rialzato fino a se Ester prostrata per farne la sua regina. Inoltre la tristezza e la bellezza di Amelia lo commuovevano al pari della sua sottomissione. Per questo cercò in ogni modo di consolarla, di rianimarla, oserei dire di «perdonarla». Tutte le speranze, tutti i sentimenti di Amelia, che sembravano morti, appassiti dentro di lei quando il suo sole si era allontanato, rifiorirono come per magia quando la luce della sua vita tornò a raggiare su di lei. Nessuno avrebbe potuto riconoscere, nel radioso faccino di Amelia che quella notte poggiò sul guanciale del letto, lo stesso volto pallido e assente che vi aveva riposato la notte innanzi. La brava servetta irlandese, tutta contenta di quella trasformazione, le chiese il permesso di darle un bacio su quelle gote fattesi improvvisamente rosee. Allora Amelia pose un braccio al collo della ragazza e la baciò con trasporto quasi fosse stata una bimba. Quella notte aveva finalmente goduto di un lungo sonno ristoratore, e la mattina, destandosi, aveva gioito di una ragione d'inesprimibile felicità. «Oggi tornerà!» pensò Amelia. «È il più bello, è il più meraviglioso degli uomini!» E non c'è dubbio che, per parte sua, George fosse convinto di essere uno degli uomini più magnanimi della terra, e che sposare Amelia significasse compiere un sacrificio senza eguali. Mentre al piano di sopra era in corso quel delizioso tête-à-tête, Mrs. Sedley e il capitano Dobbin affrontavano i problemi pratici relativi alle varie possibilità di sistemazione del giovane ménage. Infatti, sebbene Mrs. Sedley avesse lasciato i due giovani avvinghiati in uno stretto abbraccio, era sicura che nessuno al mondo avrebbe potuto far leva sul marito onde acconsentisse alle nozze tra sua figlia e il figlio dell'uomo che l'aveva trattato in modo così perverso, indegno, mostruoso. Indugiò a raccontare in minuti dettagli dei giorni felici della loro piena agiatezza, quando per contro Osborne viveva in un alloggio oltremodo modesto in New Road, e sua moglie era stata ben lieta di accettare qualche vestituccio di Jos, allora bambino, che lei, la Sedley, le aveva regalato in occasione della nascita di uno dei figli Osborne. Sì, l'ingratitudine di quell'uomo aveva spezzato il cuore di suo marito, ne era certa. Mai, mai Mr. Sedley avrebbe potuto accondiscendere di buon grado a quel matrimonio. «E allora non rimane che una soluzione, signora,» esclamò il capitano ridendo. «Debbono fuggire insieme sull'esempio del capitano Rawdon Crawley e di quella piccola istitutrice, l'amica di Emmy.» «Come, come? Ma davvero? E chi avrebbe immaginato un fatto simile?» Mrs. Sedley parve subito elettrizzata da quella notizia. Ah, se anche la Blenkinsop fosse stata lì ad ascoltare! Eh, già, lei aveva sempre diffidato di quella Miss Sharp. Jos l'aveva scampata bella! E prese a diffondersi sui ben noti approcci amorosi tra Rebecca e il ricevitore di Boggley Wollah. D'altro canto Dobbin non temeva tanto l'ira di Mr. Sedley quanto la collera dell'altro genitore, e confessava di essere alquanto incerto e ansioso circa la reazione di quel vecchio, burbero tiranno, il facoltoso mercante di pellami di Russell Square. Pensava al veto perentorio che quest'ultimo aveva posto al matrimonio, ed egli sapeva che la rabbiosa testardaggine di Osborne non aveva limiti: una volta presa una decisione a nessun patto era disposto a tornare sui suoi propositi. «L'unica possibilità che a George sia offerta per riconciliarsi col padre,» pensava Dobbin, «è che George dia prova di valore nel corso dell'imminente campagna di guerra. Se muore, morrà anche Amelia. Ma se non riuscisse a distinguersi? Se non vado errato ha avuto una piccola eredità da sua madre sufficiente a comperarsi il grado di maggiore. Altrimenti, che altro gli rimarrebbe da fare salvo trasferirsi in campagna a fare il contadino, oppure in Canada, a fare il cercatore d'oro.» In effetti, Dobbin pensava che, con una moglie simile, qualunque uomo sarebbe stato pronto a stabilirsi anche in Siberia, e per quanto sembri assurdo, quel giovanotto spericolato e imprudente non si rendeva conto che la mancanza dei mezzi necessari per dare un ricevimento o per mantenere carrozza e cavalli costituisse un valido impedimento al matrimonio di George Osborne. Tali considerazioni lo spingevano a pensare che fosse opportuno affrettare le nozze. Chissà che anche lui, dopo tutto, non desiderasse veder la cosa conclusa entro il più breve termine possibile, come talvolta accade che dopo la morte di una persona cara si desidera celebrare i funerali senza indugio, o come si vuole affrettare una separazione, una volta decisa. Ad ogni modo un fatto è certo: una volta presa in mano la cosa, Dobbin vi si dedicò con il massimo impegno. Illustrò a George l'opportunità di agire senza indugio, gli fece balenare l'eventualità di una successiva riconciliazione col padre in virtù di una citazione sulla «Gazette»... Se fosse stato necessario, era pronto a recarsi di persona a sfidare i due padri, ma nel frattempo scongiurava George di celebrare il matrimonio prima che al Reggimento giungesse l'ordine, da tutti atteso, di partire per l'estero. Assorbito totalmente da questi preparativi nuziali, accompagnato dalla piena approvazione di Mrs. Sedley la quale tutto desiderava tranne di parlarne direttamente al consorte, Dobbin si recò da John Sedley nella sua nuova agenzia che aveva quale recapito il Tapioca Coffee-House: infatti, da quando aveva dovuto chiudere il suo ufficio e il destino lo aveva travolto, il povero fallito si recava giornalmente a scrivere e a ricevere certe lettere che poi riuniva in fasci misteriosi e infilava nella tasca posteriore della sua finanziera. Non c'è spettacolo più squallido e miserando di quello offerto da un fallito che si dà tanto da fare, inseguendo affari inesistenti: delle lettere che ha ricevuto da un ricco mittente e che mostra a chicchessia; dei documenti unti e stazzonati coi quali Tizio o Caio si dichiarano pronti ad aiutarlo, ed altri gli esprimono solidarietà, e che il poveraccio legge con estrema compunzione, fondando sugli stessi tutta la sua speranza di rimpannucciarsi e rifarsi una posizione. Senza dubbio il cortese lettore sarà stato abbordato, nella sua vita, da qualcuno di codesti sventurati. Il pover'uomo vi sospinge in un angolo, estrae dalla tasca sbottonata il fascio di lettere, lo slega, si infila lo spago fra i denti e dopo aver scelto le lettere più «convincenti» ve le mette sotto il naso. Chi non ha visto lo sguardo triste, ansioso, stralunato di quegli occhi che vi scrutano, senza più un'ombra di speranza? Dobbin scoprì un uomo siffatto in colui che un tempo era stato il florido e cordiale Mr. John Sedley. La sua casacca, una volta sempre linda e impeccabile, era lisa e mostrava il bianco delle cuciture. I bottoni spostati avevano perso la doratura. Aveva le gote scavate, la barba lunga. Intorno al collo la gala della cravatta pendeva floscia sotto il panciotto sgualcito. Un tempo, quando era solito invitare i suoi dipendenti al caffè, vociava e rideva più di ogni altro, e tutti i camerieri si affannavano a dargli retta. Adesso era penoso notare come osservasse un atteggiamento di umile, sottomessa cortesia nei confronti di John, un vecchio cameriere del Tapioca Coffee-House dagli occhi cisposi, le calze sporche e certe scarpette sformate, cui spettava il compito di recare bicchieri pieni di cialde per suggellare i fogli, recipienti di peltro pieni d'inchiostro e fogli di carta ai frequentatori di quel locale deprimente nel quale si sarebbe detto che non si consumasse nient'altro. Il vecchio Sedley, che tante volte quando Dobbin era un bambino gli aveva fatto dei regalucci ed era solito prenderlo di mira con mille burle innocenti, ora gli porse la mano con fare umile e gesto incerto, chiamandolo «signore». Al che Dobbin provò un sentimento di vergogna, di rimorso come se, in una forma o in un'altra, risalisse a lui la responsabilità degli eventi funesti che avevano ridotto Sedley in quello stato. «Sono veramente lieto di vedervi, capitano Dobbin... signor Capitano,» gli disse dopo aver lanciato una rapida occhiata al visitatore che, con la sua alta figura dinoccolata e la sua baldanza militare, aveva suscitato l'interesse del cameriere in scarpini da ballo, i cui occhi ebbero un fuggevole baleno, e risvegliato l'attenzione della vecchia signora vestita di nero che sonnecchiava dietro il banco tra le vecchie tazzine da caffè. «Come sta il distinto signor Consigliere, e Sua Signoria... vostra madre?» E mentre diceva «Sua Signoria», gettò uno sguardo al cameriere, quasi volesse dirgli: «Vedi, John, che conto ancora delle amicizie fra le persone d'alto rango ?» «Siete venuto per qualche affare?» continuò. «Ora i miei affari sono in mano a due giovani amici, Dale e Spiggot. Aspetto che sia pronto il mio nuovo ufficio. Come certo immaginate, questa per me è solo una sistemazione provvisoria. Posso fare qualcosa per voi? Gradite qualcosa?» Dobbin esitante, balbettante, gli rispose che no, proprio non aveva fame né sete. Non aveva nemmeno alcun affare da trattare, ma la sua visita era dovuta al semplice desiderio di rivedere Mr. Sedley, per constatare che stava bene e per stringere la mano a un vecchio amico. Poi aggiunse, falsificando spudoratamente la verità: «Mia madre sta benissimo cioè, sta molto male, e aspetta solo una bella giornata per far visita a Mrs. Sedley. Come sta Mrs. Sedley? Voglio sperare che stia bene.» Sul che s'interruppe perché gli venne fatto di meditare sulla sua sfacciata ipocrisia. Infatti era una giornata radiosa e splendeva un magnifico sole, almeno come può splendere in Coffin Court dove si trova il Tapioca CoffeeHouse. Quanto a Mrs. Sedley, basterà dire che l'aveva vista un'ora prima, quando aveva condotto Osborne a Fulham a bordo della sua carrozza e ve lo aveva lasciato in tête-à-tête con Amelia. «Mia moglie sarà felicissima di rivedere Sua Signoria,» rispose Sedley, tirando fuori le sue scartoffie. «Ho ricevuto una lettera veramente cortese di vostro padre, signore, e vi prego di volergli recare i miei rispettosi ossequi. Lady Dobbin ci troverà in una casa assai più piccola di quella nella quale eravamo soliti ricevere i nostri amici, ma è molto confortevole e il cambiamento d'aria giova a mia figlia, che in città non stava affatto bene (Vi ricordate, vero, della mia piccola Emmy?). Eh, sì, a Londra non si sentiva molto bene.» Mentre il vecchio parlava il suo sguardo vagava in ogni direzione senza scopo apparente, e con le dita tamburellava sulle carte o giocherellava col nastrino rosso sgualcito che le legava. Era evidente che il suo pensiero vagava altrove. «Voi siete un militare,» continuò Sedley. «Ebbene, William Dobbin, io vi faccio una domanda: era mai possibile prevedere che quello scellerato Corso potesse fuggire dall'isola d'Elba? Quando i sovrani alleati si radunarono qui l'anno scorso e noi offrimmo loro una cena nella City, e vedemmo il Tempio della Concordia, i fuochi d'artificio e il ponte cinese in St. James's Park, quale uomo sensato avrebbe potuto dubitare che la pace non fosse ormai definitivamente ripristinata, dopo che avevamo addirittura cantato un Te Deum? Un'altra domanda, William: potevo mai immaginarmi che l'imperatore d'Austria fosse un traditore, niente di più e di diverso da un volgare traditore? Sì, sì, un traditore, un maledetto traditore, un voltabandiera; non ho paura delle parole, io. Un intrigante bugiardo che fin dalle prime mosse aveva in animo di far risalire suo genero sul trono. Per conto mio la fuga di Napoleone dall'Elba non è stata altro che un complotto, una trama ordita da metà delle potenze straniere, un imbroglio posto in atto per far crollare i titoli di stato e mandare in malora il nostro paese. È per questo che sono finito qui, William; è per questo che sono finito nella «Gazette». Tutto per aver riposto la mia fiducia nell'imperatore di Russia e nel Principe Reggente. Guardate, date un'occhiata alle mie carte. Ecco le quotazioni dei titoli al 1° marzo ed ecco le quotazioni della rendita francese al 5 per cento quando io ho comperato! Senza un complotto quel lestofante non sarebbe mai riuscito ad evadere! Dov'era il commissario inglese che se lo è lasciato fuggire? Bisognerebbe fucilarlo. Bisognerebbe trascinarlo davanti ad una corte marziale e fucilarlo.» «È questione di giorni e poi ci metteremo in moto per andare a stanare Buonaparte,» esclamò Dobbin, alquanto allarmato dalla collera scatenata del vecchio Sedley, cui cominciavano a gonfiarsi le vene sulla fronte, mentre col pugno percuoteva le sue carte. «Il duca è già in Belgio e attendiamo da un momento all'altro l'ordine di partire.» «Non dovete dargli respiro. Uccidetelo, quel mascalzone, quel vile furfante!» strillò Sedley. «Potessi partire volontario anch'io... ma sono un povero vecchio rovinato da quel farabutto, e da tanti ladri, da tanti truffatori che qui, sul suolo d'Inghilterra, devono la loro fortuna a me, a me in persona, e che oggi se ne vanno a spasso in carrozza,» continuò, mentre la voce gli s'incrinava. Dobbin fu vinto dalla commozione, nel contemplare lo spettacolo doloroso del vecchio amico, un tempo così garbato ed ora quasi impazzito sotto i colpi della sventura al punto da prorompere in discorsi deliranti e in attacchi di rabbia senile. Abbiate pietà di quel povero fallito, o voi per i quali nulla ha importanza se non il denaro e la reputazione, in ossequio a una norma fondamentale nella Fiera della Vanità. «Proprio così,» continuò Sedley. «Ti allevi delle serpi in seno e poi ti mordono. Certi mendicanti uno li aiuta, li fa montare a cavallo... e poi, eccoli a darti addosso per primi. Eh, voi capite benissimo a chi alludo, Dobbin, ragazzo mio. Mi riferisco a quell'immondo individuo, a quell'arricchito di Russell Square che ho conosciuto quando in tasca non aveva un penny, e che mi auguro con tutto il cuore di ritrovarlo un giorno ridotto un pezzente, il miserabile che era quando l'ho aiutato.» «Me ne ha accennato il mio amico George,» disse Dobbin, cui premeva arrivare al tema focale della conversazione. «I dissidi tra voi e suo padre lo hanno molto addolorato; anzi, vi porto un suo messaggio.» «Ah, dunque era questa la vostra commissione, vero?» esclamò il vecchio balzando in piedi. «A quanto pare vuoi mandarmi le condoglianze! Molto gentile davvero, quel damerino in ghingheri, con quelle arie da bellimbusto e tutta quella sua spocchia da West End. Fa ancora la ronda intorno a casa mia? Se mio figlio fosse un uomo degno di questo nome gli avrebbe già sparato una revolverata. È un farabutto come suo padre e non voglio più sentir pronunciare il suo nome in casa mia. Maledetto sia il giorno in cui ve l'ho lasciato entrare. Preferirei veder mia figlia morta ai miei piedi che sposata a un individuo simile.» «George non è in alcun modo responsabile dell'atteggiamento spietato di suo padre, signore. L'amore di vostra figlia per lui è opera vostra quanto sua. Con quale diritto potete disporre a piacere dei sentimenti di due giovani, e per puro arbitrio spezzar loro il cuore?» «Non dimenticatevi che non è stato suo padre a vietare il matrimonio. Sono stato io!» gridò il vecchio Sedley. «Tra quella famiglia e la mia non sussiste più alcun legame. Io sono caduto in basso, è vero, ma non ho raggiunto un tal grado di abiezione. E questo raccontatelo pure a tutta la loro progenie: figlio, padre, sorelle, tutti quanti!» «Signore, persevero nella mia convinzione che voi non abbiate alcun diritto di separare quei due,» replicò Dobbin a bassa voce, «e se non intendete accordare a vostra figlia il consenso di sposarsi, sarà suo dovere sposarsi rinunciando a ottenerlo. Per qual motivo Amelia dovrebbe morire o vivere col cuore infranto solo perché avete la testa piena di stolte ubbie? Secondo me, ormai è come se lei fosse sposata, proprio come se le pubblicazioni fossero state lette in tutte le chiese di Londra. E se Osborne vi accusa, quale miglior risposta alle sue accuse del fatto che suo figlio intende sposare la vostra figliola ed entrare così a far parte della vostra famiglia?» Quell'argomento fece balenare di soddisfazione gli occhi del vecchio Sedley. Ma ciò non gl'impedì di continuare a ripetere che le nozze tra George e Amelia non potevano essere celebrate senza il suo consenso. «Vuol dire che saremmo costretti a farne a meno,» disse Dobbin. E come aveva fatto il giorno prima con Mrs. Sedley, raccontò al marito di quest'ultima della fuga di Rebecca col capitano Crawley. Il vecchio parve divertito. «Siete terribili, voialtri capitani,» disse legando i suoi scartafacci mentre sul volto gli si dipingeva un'espressione quasi ilare che lasciò esterrefatto il cameriere dagli occhi acquosi, il quale non gliel'aveva mai vista da quando il vecchio aveva cominciato a frequentare quello squallido locale e servirsene come recapito. Tutto sommato, l'idea di sferrare a Osborne, il suo nemico, un colpo simile, recava a Sedley una sorta di sollievo. E alla fine il vecchio e Dobbin si separarono da ottimi amici. «Le mie sorelle dicono che ha dei brillanti grossi come uova di piccione,» raccontava George ridendo. «Chissà come splendono sulla sua carnagione! Quando se li metterà intorno al collo sarà come accendere un lampadario! Con quei capelli neri e crespi... sembrano quelli di Sambo! Scommetto che quando è stata presentata a Corte si è messa un anello al naso! Avrebbe dovuto infilarsi un ciuffo di piume nella crocchia: sarebbe stata l'immagine calzata e vestita della Belle Sauvage!» George stava dileggiando una ragazza che il padre e le sorelle avevano conosciuto di recente ed era motivo di speciale attenzione da parte di tutti i membri della famiglia. Correva voce che possedesse non so quante piantagioni nelle Indie Occidentali e un sacco di denari investiti in titoli di stato. Nell'elenco degli azionisti della Compagnia delle Indie, dicevano, il suo nome era indicato con tre asterischi. Possedeva una residenza di campagna nel Surrey e una casa in Portland Place. Il nome di questa facoltosa ereditiera americana era stato menzionato con particolare risalto nel «Morning Post». Una sua parente, certa Mrs. Haggistoun, vedova di un colonnello, le faceva da chaperon e badava alla sua casa. Era appena uscita di collegio, un'eletta scuola ove aveva completato gli studi, e George e le sorelle l'avevano conosciuta in occasione di un ricevimento dato dal vecchio Hulker (Huller, Bullock & Co. erano da gran tempo corrispondenti della sua ditta nelle Indie Occidentali) nella casa di Devonshire Place. Le ragazze le avevano riservato un'accoglienza improntata alla massima cordialità, che l'ereditiera aveva ricambiato con molto garbo. Un'orfana con tutto quel denaro e una posizione sociale del genere era un personaggio da considerare col massimo interesse, avevano commentato le Osborne. Tornate dal ballo, non avevano più smesso di parlare con Miss Wirt; si erano accordate per rivedersi di frequente, senza por tempo in mezzo il giorno dopo avevano ordinato una carrozza ed erano andate a trovarla. Mrs. Haggistoun, che oltre ad esser vedova del sopraccitato colonnello era parente di Lord Binkie (e ne parlava in continuazione) parve un po' altezzosa alle nostre care, semplici fanciulle, e un po' troppo smaniosa di parlare dei suoi parenti altolocati. Ma Rhoda era veramente la persona più simpatica che si potesse immaginare, così espansiva, cortese, affabile... Forse non aveva molta classe, ma dava prova di avere un ottimo carattere. Le ragazze decisero subito di chiamarsi col nome di battesimo. «Avresti dovuto vedere il vestito che si è fatta per essere presentata a Corte, Emmy,» esclamò Osborne ridendo. «È venuta apposta a farsi vedere dalle mie sorelle prima di essere presentata in pompa magna da Lady Binkie, sai, quella parente della Haggistoun. Aveva indosso certi diamanti che brillavano come le lampade di Vauxhall la sera in cui ci siamo andati (ricordi, Emmy, Vauxhall? E Jos che cantava al tesoruccio suo bello?) Diamanti e mogano, mia cara: te l'immagini? Quale stupendo contrasto! E le piume bianche nei capelli... cioè... volevo dire nella lana. Senza contare gli orecchini: due candelabri! Veniva voglia di accenderli, per Giove! E dietro una coda di seta gialla che strisciava... sembrava una cometa!» «Quanti anni ha?» chiese Emmy a George che, la mattina stessa in cui si erano rivisti, non la smetteva più di cianciare di quella nera effigie e di illustrarla con quello spiritoso senso dell'esagerazione che nessuno al mondo (su questo non v'era dubbio) possedeva al par di lui. «È appena uscita di collegio, ma quella nera principessa deve avere almeno ventidue o ventitré anni. E dovresti vedere come scrive... Certi errori d'ortografia! Di solito è la vedova Haggistoun a scrivere le lettere per conto suo, ma alle mie sorelle, data la confidenza, scrive personalmente: per farti un esempio, invece di satin scrive sating e per St. James scrive St. Jams.» «Ma allora questa è Miss Swartz, l'allieva di riguardo,» disse Emmy, la mulatta di cuor tenero che era stata colta da una crisi isterica quando lei aveva lasciato il convitto della Pinkerton. «È proprio lei,» rispose George. «Suo padre era un ebreo tedesco (un mercante di schiavi, a quanto si dice) e aveva qualcosa a che fare con l'isola dei Cannibali, in un modo o nell'altro. E morto l'anno scorso e lei ha studiato nel collegio di Miss Pinkerton. Adesso tutto quel che sa fare è suonare due brani al pianoforte, cantare tre canzoni e scrivere, sempre a patto che la Haggistoun le stia accanto per suggerirle l'ortografia esatta. Quanto a Jane e a Mary, le vogliono già bene come se fosse una sorella.» «Vorrei avessero amato me, piuttosto,» disse Emmy pensierosa. «Invece con me sono sempre state piuttosto fredde.» «Tesoro mio, se avessi posseduto duecentomila sterline avrebbero amato anche te,» rispose George. «Sono state allevate con questa mentalità. Il nostro è un ambiente ove tutto è valutato a suon di denari. Viviamo circondati da banchieri, dai pezzi grossi della City, tutta maledetta gente che mentre ti parla fa tintinnare in tasca le sue ghinee. Quel somaro di Fred Bullock, che sposerà Mary, è un esemplare di questa specie. E altrettanto si può dire di Goldmore, il direttore della Compagnia delle Indie Occidentali; e di Bipley, quel mercante di sego... sì, uno che fa il nostro stesso mestiere,» disse George arrossendo, con un risolino imbarazzato. «Tutto un mucchio di volgari quattrinai, che gli prenda un accidente! Casco sempre dal sonno a quei loro noiosissimi pranzi, per non dire dei ricevimenti che si danno in casa mia: mi fanno quasi vergognare. Mi sono abituato a vivere tra gente moderna, tra gentiluomini, tra persone di mondo, non fra un branco di mercanti pancioni! Mia cara, tu sei l'unica, fra tutti costoro, che sappia parlare, che abbia il tratto di una vera signora. Ma tu sei un angelo, e pertanto non potresti essere diversa. No, non lo negare. Tu sei l'unica signora degna di questo nome. Del resto l'ha detto anche Miss Crawley, che ha sempre vissuto in mezzo a persone appartenenti alla più alta aristocrazia europea. Quanto a Crawley, quel capitano delle Guardie, è un giovanotto che mi va a genio, perché non ha esitato a sposare la fanciulla che amava. Anche Amelia provava la stessa simpatia per Mr. Crawley e per le stesse ragioni: pensava che Rebecca sarebbe stata felice al suo fianco e sperava aggiunse ridendo - che Jos si sarebbe consolato. Così Amelia e George continuarono a chiacchierare, proprio come ai vecchi tempi. Amelia ormai aveva ritrovato la fiducia nel suo giovane innamorato, anche se fingeva (ipocrita!) di essere gelosissima di Miss Swartz e ostentava di essere spaventatissima all'idea che George la dimenticasse per quell'ereditiera, i suoi quattrini e i possedimenti di St. Kitt's. Ma in realtà si sentiva troppo felice per coltivare timori o apprensioni di qualsiasi genere. Ora che George le era di nuovo accanto non temeva né ereditiere, né bellezze, né altri pericoli di sorta. Quando nel pomeriggio il capitano Dobbin ritornò da loro, in uno stato d'animo che esprimeva tutta la più affettuosa solidarietà nei confronti della coppia, fu felice e sollevato nel trovare Amelia che, raggiante come un tempo, rideva, cinguettava e cantava vecchie canzoni, seduta al pianoforte. E questi canti vennero interrotti solo quando il suono di un campanello annunciò il ritorno di Mr. Sedley dalla City, segnale che per George era giunto il momento di ritirarsi. Occorre dire che Amelia, dopo un sorrisetto di benvenuto alquanto ipocrita (giacché la sua intrusione l'aveva indispettita) per tutta la serata ignorò completamente il capitano Dobbin. Ma lui non se ne dolse: le bastava vederla felice. Ed era lieto di esser stato lui lo strumento di tanta felicità. XXI • LITE PER UN'EREDITIERA Qualsiasi ragazza con le doti di Miss Swartz può far esplodere una passione, onde il vecchio Osborne prese ad accarezzare un sogno che avrebbe potuto realizzarsi per mezzo della suddetta. In termini entusiastici e con la miglior disposizione d'animo esortò le figlie a coltivare la loro amicizia per l'ereditiera e dichiarò che per lui era motivo d'intima soddisfazione veder l'affetto delle sue figliole rivolto verso persone tanto degne. «Cara signorina,» diceva, «voi non troverete nella nostra modesta casa di Russell Square il fasto e gli agi ai quali siete assuefatta nel West End. Le mie figliole sono ragazze semplici, ingenue, e hanno concepito per voi un sentimento d'affetto che fa loro onore... sì, proprio così, onore. Io non sono altro che un modesto, un onesto mercante inglese... ve lo potranno confermare i miei amici Hulker & Bullock, due degne persone che a suo tempo furono corrispondenti del vostro defunto padre. Qui troverete in noi una famiglia unita, semplice, felice e, se mi è concesso l'ardire di affermarlo, rispettabile. Una tavola frugale intorno alla quale siede gente semplice, la quale peraltro vi dà di tutto cuore il suo benvenuto, cara Miss Rhoda... anzi, lasciate che vi chiami semplicemente Rhoda, dal momento che il mio cuore è già traboccante d'affetto per voi. Sono un uomo franco che ama dire la verità, dunque vi dico chiaro e tondo che mi piacete. Un bicchiere di champagne! Hicks, portate dello champagne a Miss Swartz!» Non c'è dubbio: le espressioni del vecchio Osborne erano sincere, ed anche le sue figlie lo erano (o quasi) quando protestavano il loro affetto per Rhoda. Per i frequentatori della Fiera della Vanità coltivare affetto per i danarosi è un moto del tutto spontaneo. Se la gente semplice considera con occhio benevolo la grande Agiatezza (giacché io sfido un qualsiasi cittadino inglese a negare che per lui l'idea della Ricchezza non sia straordinariamente gradevole, come sfido il lettore a non guardare con interesse compiaciuto il suo vicino di tavola, se qualcuno gli sussurra che possiede mezzo milione di sterline), se dunque la gente comune guarda al denaro con tanto lieta disposizione d'animo, figuriamoci come lo guardano gli scaltri uomini di mondo! L'unica cosa che bramano è il denaro: fan festa solo ai quattrini, ai quali va incondizionatamente il loro affetto. I loro delicati sentimenti affiorano solo quando si trovano a tu per tu con le persone «interessanti» quelle, cioè, munite di palanche. Conosco persone in tutto e per tutto rispettabili che mai si permetterebbero di esternare la loro amicizia nei confronti di persone che non si distinguano per ceto e per censo. Lasciano affiorare i loro sentimenti solo nelle occasioni che loro reputano «opportune». Basti a provarlo il fatto che la famiglia Osborne al completo, cui non erano bastati sedici anni per riuscire a guardare con affetto ad Amelia, in una sola serata si sentì di provare la più viva e affettuosa simpatia per Miss Swartz: proprio in conformità ai desideri dei più romantici sostenitori dell'amicizia a prima vista. Quale strepitoso partito sarebbe stata per George, pensavano, perfettamente concordi, le sorelle e la Wirt! E come di gran lunga preferibile a quella piccola, insulsa Amelia! Un giovanotto brillante, aitante, con una buona posizione sociale, sarebbe stato il marito su misura per Rhoda! La mente delle fanciulle era in subbuglio, gremita com'era della visione di balli in Portland Place, di presentazioni a Corte, di rapporti amichevoli con ampi strati dell'aristocrazia: alla loro nuova, adorata amica non parlavano altro che di George e delle sue sceltissime amicizie! Anche il vecchio Osborne era dello stesso parere. In Miss Swartz vedeva una moglie perfetta per il figlio, il quale avrebbe potuto lasciare l'esercito, entrare in Parlamento e diventare un uomo politico, oltre che un personaggio alla moda. Il sangue gli ribolliva di giusta esultanza britannica al pensiero che il nome degli Osborne assurgesse ai fastigi della nobiltà grazie alla persona del figlio, e già si vedeva progenitore di una cospicua serie di baronetti. Si diede da fare nella City e in Borsa fino a quando non riuscì a scoprire per filo e per segno tutto quanto concerneva la fortuna dell'ereditiera, come fosse investito il suo denaro e ove si trovassero le sue proprietà terriere. Il giovane Fred Bullock (uno dei suoi «informatori») avrebbe fatto di persona un'«offerta» (fu questa, né più né meno, l'espressione alla quale ricorse il giovane banchiere) a proprio uso e consumo; se non avesse già dato la sua parola a Maria Osborne. Per altro verso, non potendosela assicurare come moglie, il disinteressato Fred si accontentava di avere Rhoda quale cognata. «George deve darsi da fare e conquistarla,» consigliava Fred. «È bene battere il ferro finché è caldo, e il personaggio non è ancora troppo noto a Londra; altrimenti nel giro di qualche settimana uno squattrinato qualsiasi del West End si farà avanti coi suoi modestissimi averi e col suo titolo nobiliare, e taglierà fuori tutti noi della City, come ha fatto l'anno scorso Lord Fitzrufus con Miss Grogram, che era già fidanzata con Podder della Podder & Brown. Prima si fa, meglio è, caro Mr. Osborne. Questa, per lo meno, è la mia opinione.» Così disse quel bell'esemplare di Fred. Ciò non toglie che, quando il vecchio uscì dalla banca, il giovane Bullock si ricordasse di Amelia e di quanto era carina e per una decina di secondi del suo preziosissimo tempo indugiasse a rammaricarsi della disgrazia che aveva colpito la sventurata fanciulla. È così che, mentre il buon cuore di George e il suo fedele amico e saggio consigliere Dobbin avevano riportato il fuggitivo ai piedi di Amelia, i genitori e le sorelle del promesso sposo stavano architettando in suo favore un «magnifico» matrimonio, senza prendere nemmeno lontanamente in considerazione l'ipotesi che lui potesse dissentire. Quando il vecchio Osborne «lasciava capire» (secondo la sua espressione) qualcosa, nemmeno l'ultimo degli imbecilli avrebbe potuto fraintendere ciò che voleva. Dare una pedata a un domestico o farlo ruzzolare giù per le scale, significava che intendeva licenziarlo. Così, con la stessa delicatezza e lo stesso gusto per la perifrasi, disse chiaro e tondo in faccia a Mrs. Haggistoun che avrebbe firmato un assegno di cinquemila sterline il giorno in cui suo figlio avesse impalmato la sua pupilla; e dopo averle «lasciato capire» questa sua intenzione, ritenne di aver agito da perfetto e sottile diplomatico. Infine fu la volta di George: gli «fece capire» quali fossero i suoi propositi e gli ordinò di sposare senza por tempo in mezzo l'ereditiera, così come avrebbe ordinato al suo maggiordomo di sturare una bottiglia di vino, o al suo segretario di scrivere una lettera. Questo tono di comando irritò profondamente George, entusiasta e felice com'era di aver ripreso a far la corte ad Amelia, il cui affetto incondizionato lo rallegrava intimamente. Per giunta il contrasto fra i modi e l'aspetto di Emmy e quelli dell'ereditiera rendevano tanto più incongrua e sgradevole l'ipotesi di un matrimonio con quest'ultima. Carrozze e palchi all'opera, pensava. Sarebbe proprio fantastico mostrarsi in giro con una bellezza color cioccolata! Non dimentichiamo, poi, come il giovane Osborne fosse ostinato quanto suo padre: se voleva una cosa, era altrettanto deciso a ottenerla, e quando si inquietava la sua violenza non era da meno di quella di suo padre nei momenti di pessimo umore. La prima volta in cui il padre gli lasciò intendere che avrebbe dovuto mettere il suo cuore a disposizione di Miss Swartz, George cercò di guadagnar tempo. «Avreste dovuto pensarci prima, signore,» disse. «Ora non è possibile: siamo in attesa dell'ordine, ormai imminente, di partire per il Continente. Rinviamo tutto al mio ritorno, se ritornerò.» Dopo di che si sforzò di fargli capire che un momento come quello, mentre il Reggimento era sul piede di partenza, non poteva essere meno adatto, che i pochi giorni (o le poche settimane) in cui si sarebbe ancora trattenuto in patria avrebbe dovuto dedicarli agli affari, e non a far la corte a una ragazza. Per cose del genere avrebbe avuto tutto il tempo che voleva una volta tornato in patria col grado di maggiore. «Sì,» aggiunse con aria soddisfatta, «vi prometto che un giorno o l'altro la "Gazette" riporterà il nome di George Osborne.» Il padre rispose facendo leva sulle informazioni ricevute alla City: se George avesse perso del tempo prezioso, qualcuno nel West End ne avrebbe approfittato per circuire l'ereditiera. Anche se non poteva sposare Miss Swartz subito, doveva fidanzarsi con lei senza por tempo in mezzo. Il matrimonio poteva benissimo esser celebrato al ritorno (a parte il fatto che, potendo disporre di diecimila sterline all'anno standosene tranquillamente a casa, era da imbecilli andare in guerra e mettere a repentaglio la propria vita). «Quindi vorreste che venissi segnato a dito come un pusillanime e sareste disposto a vedere il nostro nome disonorato solo per assicurarci il denaro di Miss Swartz?» Il vecchio fu profondamente colpito da questa osservazione; ma doveva pur rispondere qualcosa, e siccome non era solito derogare dalle sue decisioni, rispose al figlio: «Domani pranzerai a casa, ed ogni volta che Miss Swartz sarà da noi ti troverai qui per porgerle i tuoi omaggi. Se ti servono quattrini, puoi benissimo andare da Chopper.» Ed ecco che un nuovo ostacolo ostruiva la strada di George intralciando i suoi progetti nuziali con Amelia, dei quali lui e Dobbin avevano segretamente discusso in disparate occasioni. Conosciamo già quel che ne pensava Dobbin circa la linea di condotta che George avrebbe dovuto seguire. Quanto a Osborne, una volta presa una decisione, qualsiasi impedimento gli si parava dinanzi non faceva che render più ferma la sua determinazione. Il bruno oggetto della cospirazione messa in atto dai principali membri della famiglia Osborne era, dal canto suo, affatto all'oscuro dei progetti che venivano tramati a suo riguardo (progetti che, circostanza invero assai strana, Mrs. Haggistoun le aveva sottaciuto). Pertanto continuava a scambiare i complimenti e l'adulazione di cui era oggetto da parte delle Osborne come attestazioni di un sentimento d'affetto veramente spontaneo, ed essendo (come già abbiamo avuto modo di osservare) di temperamento espansivo e passionale, replicava alle smancerie delle ragazze con ardore veramente tropicale. Del resto, per esser sinceri fino in fondo, anche lei aveva trovato qualcosa di attraente nella casa di Russell Square: in una parola, le sembrava che George fosse un giovanotto molto simpatico. Le sue basette avevano fatto breccia nel suo cuore fin dalla prima sera in cui le aveva viste al ballo degli Hulcker, e come ben sappiamo non era la prima ad esserne stata affascinata. George aveva quell'espressione al tempo stesso arrogante e melanconica, languida e altera... Dava l'impressione di esser uomo dalle passioni segrete, dalle avventure e dai dolori nascosti. E poi aveva quella voce roca e profonda... Sapeva dire che faceva tanto caldo quella sera, oppure offrire un gelato alla sua partner di ballo in tono mesto e confidenziale, quasi le stesse dando notizia della morte di sua madre, o si apprestasse a farle una dichiarazione d'amore. Passava da conquistatore in mezzo alla fitta schiera di giovanotti alla moda dell'ambiente cui apparteneva suo padre, e tra queste figure affatto mediocri gli era facile primeggiare. Alcuni di costoro lo odiavano; altri lo schernivano; altri ancora, come Dobbin, lo ammiravano senza riserve, e i suoi mustacchi avevano cominciato ad esercitare il loro fascino e a fare breccia nel cuore di Miss Swartz. Ogni qual volta si presentava l'occasione d'incontrarlo in Russell Square, quella semplice e cordiale fanciulla si affrettava a correre in casa delle sue amiche Osborne. Spendeva un mucchio di quattrini in abiti, braccialetti, cappelli e vistosissime piume. Faceva appello a tutta la sua abilità per adornarsi e piacere a colui che l'aveva conquistata, e metteva in atto tutto il modesto patrimonio dei suoi vezzi per assicurarsene i favori. Le ragazze con la massima compunzione la supplicavano di cantare, e lei cantava le tre canzoni che conosceva, di buon grado suonava al pianoforte i tre brani che conosceva ogni qual volta le venivano richiesti, ed ogni volta ci provava più gusto. Durante questi piacevoli trattenimenti, Miss Wirt e Mrs. Haggistoun stavano in disparte, a discorrere su un canapè. Il giorno successivo a quello in cui il padre gli aveva «fatto capire» i suoi propositi, un po' prima di pranzo George se ne stava seduto su un divano in un atteggiamento alquanto languido e malinconico che riusciva oltremodo attraente e spontaneo. Era stato da Mr. Chopper nella City, seguendo il suggerimento del padre il quale, pur concedendogli senza batter ciglio somme ragguardevoli, non gli aveva mai voluto assegnare un vero e proprio mensile e gli accordava del denaro di tanto in tanto, a suo piacimento; poi era stato a Fulham e aveva trascorso tre ore con la sua cara piccola Amelia, e finalmente era rientrato a casa dove, in salotto, aveva trovato le sorelle in crinolina sorretta da un guardinfante, le due vecchie dame che cianciavano in un angolo appartato e la brava Miss Swartz vestita del suo prediletto color ambra, oltre che adorna di braccialetti di turchese, anelli a profusione, fiori, piume e ogni sorta di fronzoli: sembrava uno spazzacamino alla Festa di Maggio. Le ragazze, dopo aver tentato invano di indurlo a prender parte alla conversazione, cominciarono a parlare fra loro di moda e a far pettegolezzi, al punto da nausearlo con le loro stupide chiacchiere. George paragonava il loro contegno a quello di Emmy; le loro voci ciangottanti alla sua tenera vocina; le loro smancerie, i loro gemiti e la loro affettazione con le sobrie movenze e la soave grazia di lei. La Swartz sedeva nella poltrona ove un tempo era solita sedere Emmy: teneva le mani cariche di gioielli raccolte in grembo, sul vestito di raso color ambra, le spille e gli orecchini che baluginavano mentre lei girava gli occhi tondi per la stanza. Era felicissima di starsene lì a far nulla, e sicurissima di esercitare su tutti un fascino irresistibile. Le Osborne non avevano mai visto nulla che le stesse meglio del raso. «Maledizione!» avrebbe detto George più tardi, parlando in confidenza con un amico. «Sembrava una bambola di porcellana, di quelle che passano la loro giornata a sorridere e a scuoter la testa. Per Giove, Will, non so proprio che cosa mi abbia trattenuto dal tirarle addosso uno dei cuscini del divano!» Per fortuna era riuscito a trattenersi... Le sorelle cominciarono a suonare The Battle of Prague. «Piantatela con quella lagna, accidenti!» urlò George dal suo divano, furibondo. «Mi fa impazzire. Suonateci voi qualcosa, Miss Swartz, cantate qualcosa, qualsiasi cosa. Basta che non sia The Battle of Prague.» «Devo cantare Blue-Eyed Mary? O preferite l'aria del Cabinet?» chiese la Swartz. «Oh, sì, l'aria del Cabinet! È deliziosa!» esclamarono le sorelle. «Ma se l'abbiamo già sentita!...» esclamò in tono di noia irritata il misantropo seduto sul divano. «Potrei cantare Fluvy du Taji,» propose Miss Swartz in tono molto umile, «però non ricordo le parole.» Era l'ultima canzone entrata nel suo repertorio. «Oh, Fleuve du Tage,» esclamò Miss Maria, «l'abbiamo, l'abbiamo.» E corse a cercare l'album nel quale si trovava la canzone. Il caso volle che quella canzone, allora in gran voga, fosse stata regalata alle Osborne da una loro giovane amica la quale aveva scritto il proprio nome sul frontespizio. Fu così che Miss Swartz, quand'ebbe terminato il suo brano tra gli applausi di George (il quale rammentava come Fleuve du Tage fosse una delle canzoni predilette da Amelia) e sperava nella richiesta di un bis, sfogliando a caso le pagine dell'album posò per un istante lo sguardo sul titolo e vide scritto in un angolo «Amelia Sedley». «Mio Dio!» esclamò rigirandosi con moto subitaneo sullo sgabello del pianoforte. «Ma questa è la mia Amelia! Sì, sì, è lei, la mia compagna di studi da Miss Pinkerton, a Hammersmith! Ma certo, è proprio lei! Oh, parlatemi di lei, ve ne prego!» «Non devi nemmeno nominarla!» rispose Miss Maria con voce concitata, «la sua famiglia è disonorata. Suo padre si è comportato con papà in modo estremamente scorretto, e in quanto a lei, qui dentro non deve essere nominata.» Questa era la risposta di Maria allo sgarbo usatole da George con «The Battle of Prague.» «Siete amica di Amelia?» esclamò quest'ultimo balzando in piedi. «Che Dio vi benedica, Miss Swartz. Non dovete credere una sola parola di quanto dicono le mie sorelle. E in ogni caso a lei non va rimproverato nulla. È la migliore...» «Sai perfettamente che non devi parlare di Amelia,» intervenne Jane. «Papà non vuole.» «E chi me lo può impedire? Parlo di Amelia quando voglio, io! E ripeto che è la migliore, la più soave fanciulla, la più gentile creatura di tutta l'Inghilterra. E anche se suo padre è un fallito, le mie sorelle non valgono un'unghia del suo piede. Se davvero siete sua amica, andate a trovarla, Miss Swartz: ha bisogno di avere amici accanto a sé, in questo momento. Dio benedica tutti coloro che le sono amici. Chiunque parla bene di lei è mio amico e chiunque ne parla male è mio nemico. Grazie, Miss Swartz, grazie di cuore.» E George si alzò per andare a stringerle la mano. «George! George!» esclamò in tono implorante una delle sorelle. «Lo ripeto ancora una volta: ringrazio chiunque sia amico di Amelia Sed...» prese a dire George fieramente. Ma s'interruppe: in quell'istante il vecchio Osborne era entrato nella stanza col volto livido e gli occhi simili a due carboni ardenti. George si era interrotto a metà di quella frase, ma sentiva ribollirglisi il sangue e nemmeno l'intera progenie di Osborne sarebbe riuscito a piegarlo. Pertanto si riprese subito e rispose allo sguardo incollerito del padre con un altro così deciso e pieno di sfida, che il vecchio non seppe reggerlo e distolse gli occhi per rivolgersi ad un'altra persona. «Mrs. Haggistoun,» disse, sentendo che la lotta stava per avere inizio, «permettete che vi conduca a cena. Tu, George dà il braccio a Miss Swartz,» aggiunse, mentre si avviavano verso tavola. «Vedete, Miss Swartz,» disse George a costei, «io ed Amelia siamo fidanzati si può dire dalla nascita.» E per tutta la durata della cena continuò a chiacchierare con tale brio da stupirsene lui per primo, ed ebbe l'ulteriore effetto di accentuare vieppiù il nervosismo del padre, in vista dello scontro che senza dubbio si sarebbe verificato non appena le signore si fossero ritirate. La differenza tra i due uomini stava nel fatto che, sebbene il padre fosse violento e prepotente, il figlio aveva tre volte il coraggio e la saldezza di nervi dell'altro, ed era in grado non solo di attaccare ma di resistere a un attacco. Avendo capito che era ormai giunto il momento in cui la disputa con suo padre andava affrontata a viso aperto, prima che la lite avesse inizio si godette la cena mangiando di ottimo appetito. Al contrario, il vecchio Osborne era palesemente nervoso e bevve troppo. Mentre chiacchierava con le sue vicine di tavola la parola gli s'inceppò, mentre l'atteggiamento freddo e sprezzante del figlio non faceva che accentuare la sua collera. La calma con la quale George, agitando il suo tovagliolo e piegandosi in un profondo inchino, aprì la porta per far uscire le sorelle e Miss Swartz, lo fece quasi impazzire. E con la stessa calma, subito dopo si versò un bicchiere di Borgogna e ne bevve un sorso guardando suo padre con l'espressione di chi dica: «Signori della Guardia, sparate per primi.» Anche il vecchio si rifornì di munizioni, ma la bottiglia tintinnò urtando contro il bordo del bicchiere, mentre lui cercava di riempirlo. Alla fine trasse un profondo respiro, e col volto cianotico quasi stesse per scoppiare prese a dire: «Come vi permettete, signor mio, di menzionare una persona simile nel mio salotto alla presenza di Miss Swartz? Mi avete inteso? Vi sto chiedendo come avete osato farlo.» «Basta così, signore,» rispose George. «E non pronunciate la parola "osato". Non è il verbo al quale vi sia consentito ricorrere rivolgendo la parola a un capitano dell'esercito britannico.» «Per vostra regola a mio figlio dico quello che mi va a genio. E se mi va a genio non gli lascio nemmeno un centesimo. Ne faccio un mendicante, se mi va di farlo» «È vero, sono vostro figlio,» rispose George in tono altero, «ma sono anche un gentiluomo. Di conseguenza vi prego di dirmi tutto ciò che avete da comunicarmi, o di darmi gli ordini che vi proponete usando il linguaggio al quale sono avvezzo.» Ogni qual volta il giovane assumeva quel tono albagioso, il padre era sopraffatto da un sentimento misto di timore e di esasperazione. In segreto, il vecchio temeva che il figlio fosse più signore di lui, e forse i miei lettori avranno avuto modo di constatare come in questa Fiera della Vanità è soprattutto l'uomo volgare a diffidare delle persone di qualità. «Da mio padre io non ho avuto tutto ciò di cui voi, invece avete potuto usufruire: istruzione, denaro e ogni altro vantaggio. Se io avessi potuto frequentare la società che certuni, invece, hanno potuto frequentare grazie al mio denaro, forse mio figlio non avrebbe modo di vantarsi della sua superiorità e di permettersi quelle sue arie da West End (e il vecchio Osborne pronunciò queste parole nel tono più sarcastico). Tuttavia ai miei tempi un gentiluomo non si sarebbe permesso di insultare il proprio padre. Se io avessi fatto una cosa simile, il mio mi avrebbe scaraventato giù per le scale a calci.» «Io non vi ho affatto insultato, signore. Semplicemente, vi ho pregato di ricordarvi che sono un gentiluomo come lo siete voi. So benissimo che mi date un mucchio di quattrini,» continuò rigirandosi tra le mani il rotolo di banconote che quella mattina stessa aveva ritirato da Mr. Chopper, «è difficile che possa dimenticarmene, dal momento che me lo ricordate abbastanza spesso.» «Vorrei che non dimenticaste altre cose,» rispose il padre. «vorrei che ricordaste che fino a quando vi degnerete di onorare questa casa della vostra ambita presenza, io sono il padrone, e quel nome... quel... quella che voi... quella, dico...» «Qualche cosa, signore?» chiese George con un vago sorriso, mentre tornava a colmare il proprio bicchiere di borgogna. Il padre proruppe in una bestemmia. «Quel nome, il nome dei Sedley intendo! Il nome di quella maledetta gente non dov'essere pronunciato, in questa casa. Mai! A nessun patto!» «Non sono stato io a pronunciare per primo il nome di Miss Sedley, signore. È stata mia sorella, che si è espressa sul suo conto in termini irriguardosi parlandone a Miss Swartz. E per Giove, siate certo che io la difenderò ovunque! Nessuno potrà permettersi di sparlare di lei al mio cospetto! La mia famiglia l'ha già offesa abbastanza, direi, perché le sia concesso di insevire continuando a ingiuriarla ora che è caduta in miseria. Sono pronto a uccidere qualsiasi persona, eccetto voi, che osi dirne male.» «Continuate, continuate pure,» disse il vecchio con gli occhi che sembravano volergli schizzare dalle orbite. «Continuare che cosa? A parlare del modo in cui abbiamo trattato quell'angelo di ragazza? Chi mi ha ordinato di amarla? Non siete stato voi, forse? Avrei anche potuto sceglierne un'altra, magari di estrazione sociale superiore alla nostra. E invece no: ho preferito obbedirvi. Ed ora che il suo cuore è mio voi mi ingiungete di buttarlo, di castigarla, fors'anche di condannarla a morte! E tutto questo per colpe commesse da altri! È vergognoso!» esclamò George riscaldandosi sempre più a mano a mano che procedeva nel discorso. «È indegno venir meno alla parola data a una fanciulla che è un angelo: una fanciulla che è di gran lunga superiore alle persone in mezzo alle quali vive, e certo susciterebbe l'invidia generale se non fosse anche così dolce, così garbata. Davvero non riesco a capacitarmi come qualcuno possa odiarla. Se io l'abbandonassi, signore, credete forse che lei saprebbe dimenticarmi?» «In casa mia non voglio sentire queste stupidaggini, questi maledetti, stupidi sentimentalismi!» strillò il vecchio. «Nella mia famiglia, niente matrimoni con dei pezzenti! Se preferite sacrificare ottomila sterline all'anno, siete liberissimo di farlo. Ma in tal caso, per Giove, non avete da fare che una sola cosa: prender la vostra roba e andarvene. Una volta per tutte, signor mio: volete obbedire e fare quello che dico, oppure no?» «Sposare quella mulatta?» chiese George tirandosi il colletto della camicia. «Non mi piace il colore dei mulatti, signore. Proponetela in moglie al negro che fa lo spazzino in Fleet Market. Io, una Venere ottentotta non la sposo di certo.» Con gesto frenetico Mr. Osborne tirò il cordone del campanello come quando chiamava il maggiordomo per avere del vino; poi, col volto stravolto e paonazzo gli ordinò di cercare una carrozza per il capitano Osborne.» «È fatta!» esclamò George, quando un'ora più tardi entrò da Slaughter, pallidissimo in volto. «Che cosa, vecchio mio?» gli chiese Dobbin. George raccontò per esteso il colloquio tra lui e suo padre. «La sposerò domani stesso,» disse con un'imprecazione, «l'amo ogni giorno di più, Dobbin.» XXII • UN MATRIMONIO E UN PEZZETTO DI LUNA DI MIELE Anche il nemico più coraggioso e tenace cede al morso della fame: per questo il vecchio Osborne si sentiva abbastanza tranquillo circa l'esito del burrascoso incontro col figlio che abbiamo riferito poc'anzi. In cuor suo era convinto che, non appena George si fosse trovato a corto di quattrini, si sarebbe arreso senza condizioni. In effetti, era seccante che il giovanotto si fosse rifornito ben bene di denaro il giorno stesso in cui aveva avuto luogo il loro primo litigio; ma anche quel rifornimento poteva costituire un cespite solo temporaneo, e tutt'al più avrebbe ritardato la resa di George senza assolutamente escluderla. Per qualche giorno padre e figlio s'ignorarono completamente: il primo era tetro e silenzioso, ma per nulla inquieto, dal momento che, come abbiamo detto, riteneva di avere in pugno un'arma infallibile per piegare George e gli bastava attendere fiducioso l'esito di quella sua tattica. Riferì alle figlie della disputa insorta fra lui e George, ma ordinò di non dare la minima importanza alla cosa; anzi, impose che il figlio, qualora si fosse presentato a casa, venisse accolto come se nulla fosse. Ogni giorno, a tavola, veniva apparecchiato il suo posto, e può darsi che il vecchio anelasse con una certa ansia di vederlo ricomparire. Ma George non si fece vedere. Qualcuno si recò da Slaughter a chieder di lui, e seppe che tanto il capitano quanto il suo amico Dobbin avevano lasciato Londra. In una gelida e ventosa mattina d'aprile, mentre la pioggia percuoteva il selciato della strada ove si trovava il vecchio Slaughter, George Osborne entrò nella sala col volto pallidissimo e contratto. Indossava un elegante vestito blu dai bottoni di ottone e un panciotto di pelle di daino, in conformità alla moda di quel tempo. All'interno, già si trovava ad attenderlo l'amico Dobbin, anch'egli in abito blu coi bottoni d'ottone. Per l'occasione aveva rinunciato alla casacca militare e ai calzoni grigi alla francese dei quali era solito rivestire la sua allampanata figura. Dobbin lo attendeva da oltre un'ora. Aveva sfogliato tutti i giornali, ma senza riuscire a leggerne una riga. Almeno venti volte aveva sbirciato l'orologio, poi aveva posato lo sguardo sul lastricato sferzato dalla pioggia, sulla gente che passava facendo risuonare con fragore la suola delle soprascarpe di legno e proiettando lunghe ombre sulla strada lucente. Aveva tamburellato con le dita sul tavolo, si era mangiucchiato le unghie fino a far quasi sanguinare le dita, giacché aveva la deplorevole abitudine di «abbellire» in tal modo le sue lunghe mani; aveva tentato di tenere in equilibrio il cucchiaio da tè sull'orlo della lattiera, l'aveva rovesciata... e via dicendo. Insomma, aveva palesato in ogni possibile modo la sua irrequietezza, e con disperato accanimento aveva posto in atto tutti gli espedienti ai quali si ricorre in caso di attese lunghe e snervanti. Alcuni frequentatori del caffè, suoi commilitoni, lo burlavano a causa di quell'insolito, elegante abbigliamento, e del suo stato di agitazione. Uno di essi, il maggiore del Genio Wagstaff, gli domandò se stava per sposarsi. Dobbin sorridendo gli rispose che in caso di simile lieto evento gli avrebbe mandato una fetta della torta nuziale. Alla fine comparve il maggiore Osborne, vestito con molta eleganza ma, come abbiamo detto, molto pallido e agitato. Si deterse il volto con un ampio e olezzante fazzoletto di seta gialla, strinse la mano a Dobbin, diede un'occhiata all'orologio e disse a John, il cameriere, di portargli la bottiglia del curaçao. Quando ebbe davanti a sé il liquore, ne tracannò più d'un bicchiere con gesti avidi e nervosi, mentre l'amico si affrettava a informarsi sulla sua salute. «Non ho chiuso occhio fino all'alba,» rispose George. «Ho avuto la febbre e un dannato mal di testa. Alle nove mi sono alzato e sono andato da Hummums a fare un bagno turco. Sai, mi sento proprio come la mattina in cui ho fatto la sortita con Rocket a Quebec.» «Anch'io,» disse Dobbin, «ma quella mattina ero molto più agitato di te. Ricordo che ti eri fatto una lauta colazione. Suvvia, manda giù un boccone.» «Sei proprio un caro amico, Dob. Proprio. Bevo alla tua salute. E addio...» «No, no, due bicchieri sono fin troppi. John, porta via il curaçao. Metti un po' di pepe sulla faraona; però sbrigati perché dovremmo essere già là.» Questo breve incontro fra i due ufficiali si svolgeva intorno alle undici e mezzo del mattino. Da tempo, fuori del caffè attendeva una carrozza chiusa nella quale un domestico del capitano Osborne aveva collocato i bagagli di quest'ultimo. Dobbin e George si affrettarono ad entrarvi riparandosi con un ombrello, mentre il domestico sedeva a cassetta imprecando contro la pioggia e contro l'umidità che sprigionava la persona del cocchiere sistemato accanto a lui. «Meno male,» si disse, «che davanti alla chiesa troveremo una carrozza migliore di questa. È già qualcosa.» La carrozza percorse Piccadilly, dove a quel tempo la Apsley House e il St. George's Hospital erano ancora in giubba rossa, i lampioni erano a petrolio, Achille non era ancora nato, né era stato eretto l'arco di Pimlico coronato da quell'orrendo monumento equestre che domina tutt'attorno. Poi attraversò Brompton e giunse davanti a una piccola chiesa nelle adiacenze di Fulham Road. Quivi attendeva un tiro a quattro, ed una di quelle carrozze cosiddette «di cristallo». Pioveva a dirotto, cosicché si erano raccolti ben pochi curiosi. «Perdio, avevo detto due cavalli, non quattro!» esclamo George. «È stato il mio padrone a volerne quattro,» rispose il domestico di Mr. Joseph Sedley, che li stava aspettando. E mentre entravano in chiesa sul passo dei loro padroni, tanto il servitore di Osborne quanto il lacchè di Sedley convennero che quel matrimonio senza un ricevimento e senza nemmeno l'ombra di un regalo era roba da miserabili. «Ah, finalmente!» disse il nostro vecchio amico Jos facendosi avanti. Siete in ritardo di ben cinque minuti, caro George. Che giornata orribile! Maledizione, sembra proprio l'inizio della stagione delle piogge nel Bengala. Ma la mia carrozza non lascia filtrare l'acqua. Venite, dunque: mia madre ed Emmy vi stanno aspettando in sacristia.» Jos Sedley era al massimo della sua venustà: aveva il collo della camicia più alto del solito, e le guance accese, sopra le gale che ondeggiavano vistosamente sulla camicia variegata. Gli stivali di vernice non esistevano ancora, ma le belle gambe di Jos splendevano a tal punto, fasciate com'erano dai suoi bellissimi stivali di cuoio ungherese, che sembravano proprio quelli su cui, in una vecchia raffigurazione, un uomo si specchia nell'atto di radersi. Sulla sua giacca verde lino spiccava una coroncina nuziale di fiori, simile a un grande, candido fiore di magnolia. Insomma, George aveva gettato il dado: era in procinto di sposarsi. In ciò risiedeva la causa del suo pallore, del suo nervosismo, della sua notte insonne, della sua agitazione mattutina. Fra quanti hanno vissuto la stessa esperienza, molti ammettono di aver provato la stessa emozione. Dopo tre o quattro cerimonie, ci si fa l'abitudine; ma il primo tuffo (tutti ne convengono) è spaventoso. La sposa - ebbe a riferirmi in seguito il capitano Dobbin - indossava un lungo manto di seta marrone, e in testa aveva una cuffietta di paglia adorna di un nastro rosa. Dalla cuffia pendeva un velo di pizzo bianco di Chantilly, regalatole da Jos Sedley, suo fratello. Anche il capitano Dobbin, dopo aver chiesto il suo consenso le aveva fatto dono di un orologio con una catena d'oro, ed ella in quell'occasione aveva desiderato adornarsene. Quanto alla madre, le aveva regalato l'unico gioiello che le fosse rimasto: una spilla di brillanti. Durante il servizio religioso Mrs. Sedley, seduta in un banco, pianse ininterrottamente, consolata da Mrs. Clapp, la padrona di casa, e dalla cameriera irlandese. Quanto al vecchio Sedley, non aveva voluto presenziare: le sue veci erano svolte da Jos, che pertanto accompagnò la sposa all'altare, mentre Dobbin fungeva da testimone dello sposo. In chiesa, oltre ai celebranti e al piccolo gruppo costituito dagli sposi, dai testimoni e dai parenti, non c'era anima viva. I due camerieri sedevano sdegnosi in un angolo distante. La pioggia percuoteva con fragore i vetri delle finestre, chiaramente percepibile, nei momenti di pausa della funzione, insieme con i singhiozzi della vecchia Sedley. Le parole del vicario echeggiavano cupe e sonore nella chiesa deserta. Il «sì» di Osborne fu pronunciato con voce bassa e profonda, ma nessuno udì quello di Amelia, salito dal cuore alle labbra in un soffio impercettibile. Terminata la cerimonia, Jos si fece avanti e diede un bacio alla sorella, e doveva essere la prima volta che lo faceva da molti mesi a quella parte. Quanto a George, aveva perso la sua aria smarrita ed appariva fiero e raggiante. «Adesso tocca a te, William» disse, posando una mano sulla spalla dell'amico Dobbin. Questi si avvicinò e sfiorò una guancia di Amelia. Poi tutti passarono in sacristia a firmare il registro. «Dio ti benedica, Dobbin,» disse George serrandogli la mano, mentre gli occhi gli si facevano umidi. William annuì in segno di risposta. Era troppo emozionato per poter parlare. «Scrivi subito, e appena puoi vieni a trovarci,» disse George. Poi, quando Mrs. Sedley ebbe preso congedo dalla figlia con un abbraccio isterico, gli sposi si avviarono verso la carrozza. «Levatevi di torno, monelli!» gridò George a un gruppetto di ragazzi che, fradici di pioggia, indugiavano davanti alla porta della chiesetta. Mentre si dirigevano alla carrozza, la pioggia bagnò il volto degli sposi. Le ghirlande nuziali pendevano flosce sul risvolto delle casacche dei postiglioni. I pochi ragazzi radunatisi sul posto gridarono un evviva con scarso entusiasmo, dopo di che la carrozza si mise in moto e partì schizzando fango tutt'attorno. William Dobbin rimase a guardarla dall'ingresso della chiesa, offrendo uno spettacolo alquanto buffo ai pochi spettatori, che apertamente risero di lui; ma egli non si curò di loro. «Suvvia, venite a casa a prender qualcosa, Dobbin,» disse una voce, mentre una mano grassoccia si posava sulla sua spalla. Al che il bravo giovane smise di fantasticare, ma il capitano non aveva la minima voglia di andare a fare un brindisi insieme con Jos Sedley. Pertanto aiutò Mrs. Sedley a salire in carrozza insieme con le sue accompagnatrici e a Jos, e li salutò senza aggiunger altro. Così anche la seconda carrozza si mise in moto, salutata da un altro ironico evviva dei monelli. «Venite qui, ragazzacci,» disse Dobbin. Diede loro qualche sixpence e poi s'avviò tutto solo sotto la pioggia. Dunque, era finita. Eccoli sposati e felici, se Dio vuole. Mai, da quando era ragazzo, si era sentito così triste, così solo; e con tutto il suo cuore dolente desiderò che quei primi giorni passassero presto, per poterla rivedere di nuovo. Circa dieci giorni dopo la cerimonia testé descritta, tre giovanotti di nostra conoscenza stavano godendosi l'attraente spettacolo offerto dalla lunga fila di verande su un lato, e dal mare azzurro sull'altro, che Brighton elargisce ai visitatori. A volte è verso il mare baluginante di mille riverberi e punteggiato di candide vele, con cento e cento cabi, e disposte sull'orlo del manto d'acque turchine, che si posa lo sguardo estatico del londinese; altre volte lo sguardo dello spettatore curioso delle cose umane trascura il paesaggio e preferisce volgersi alle verande e alla folla. Da una di esse giungono le note di un pianoforte, che una fanciulla dal capo incorniciato di boccoli suona per sei ore al giorno, con gran gioia dei vicini. In un'altra siede Polly, la graziosa bambinaia, che culla tra le braccia il signorino Omnium: alla finestra sottostante è affacciato Jacob, il papà del bimbetto, che fa colazione divorando contemporaneamente una pozione di scampi e le pagine del «Times». Più in là le signorine Leery cercano con lo sguardo i giovani ufficiali di artiglieria che certamente passeggiano su e giù lungo la scogliera; e c'è anche qualche esponente del mondo della City, impegnato a puntare un cannocchiale più grande di un telescopio verso il mare aperto, onde non perdersi nemmeno un'imbarcazione da diporto o un natante che si avvicini alla riva o se ne allontani. Ma ci è forse concesso il tempo per descrivere Brighton? Brighton, una Napoli pulita con Lazzaroni per bene, quella Brighton che ha sempre un aspetto allegro, vivace e variopinto come la casacca di Arlecchino, e che al tempo della nostra storia distava da Londra sette ore di viaggio (mentre ora bastano poco più di un'ora e mezzo), e che potrà avvicinarsi a Londra ancor di più, a meno che Joinville non sopravvenga a bombardarla. «Che fior di ragazza c'è nell'appartamento sopra la modista,» disse uno dei tre giovanotti a zonzo lungo il mare. «Per Giove, Crawley, avete visto? Quando sono passato mi ha fatto l'occhiolino!» «Non le spezzate il cuore, vecchia canaglia,» disse un altro dei tre, «non scherzare col suo amore, brigante d'un Don Giovanni!» «Suvvia!» disse Jos Sedley, tutto soddisfatto, mentre lanciava alla servetta un'occhiata che, secondo lui, avrebbe dovuto tramortirla di piacere. Jos, a Brighton, appariva ancora più elegante e vistoso che al matrimonio di sua sorella. Portava certi panciotti all'ultimissima moda, così originali e chiassosi che sarebbero bastati a dar la fama di elegantone a qualsiasi bellimbusto di minori pretese. Indossava una giubba di taglio militare adorna di alamari, bottoni neri, guarnizioni e greche ricamate. Da qualche tempo indulgeva sempre più ostentatamente a queste pose militaresche. Camminava a fianco dei suoi due amici (veri ufficiali, questi ultimi) facendo tintinnare gli speroni, dandosi un mucchio d'arie e lanciando occhiate dense di passione a tutte le servette che gli sembravano meritevoli della sua attenzione. «Che cosa facciamo fino al ritorno delle signore?» chiese il nostro dandy. Le signore avevano fatto una passeggiata sulla sua carrozza fino a Rottingdean. «Potremmo fare una partita a biliardo,» propose uno degli amici, quello con le basette impomatate. «No, no, niente biliardo, caro capitano Crawley,» rispose Jos, spaventatissimo. «Ne ho avuto abbastanza ieri.» «Ma se siete un ottimo giocatore!» rispose Crawley ridendo. «Non trovi, Osborne? Quando ha beccato quelle cinque palle! Un colpo da maestro!» «Formidabile, veramente!» confermò Osborne. «Jos al biliardo è un vero demonio. Peccato che non ci siano tigri, da queste parti: potremmo ammazzarne un paio prima di cena! (Guarda che bella ragazza, Jos: che caviglie, eh?...) Raccontaci quell'episodio della caccia alla tigre, Jos, spiegaci come hai fatto a cavarla dalla giungla. È una storia veramente esaltante,» continuò con uno sbadiglio. «Tutto sommato ci si annoia, in questo posto. Che cosa possiamo fare?» «Se andassimo a vedere i cavalli che Snaffler ha appena portato dalla fiera di Lowes?» propose Crawley. «Oppure potremmo andare a mangiare della gelatina di frutta da Dutton. C'è una camerierina...» disse quel brigante di Jos, nella speranza di prendere due piccioni con una fava. «E perché non andare invece ad assistere all'arrivo del "Lightning"? È quasi l'ora,» disse George. Questa proposta ebbe migliore accoglienza di quelle relative alla gelatina di frutta e ai cavalli; onde i tre si diressero verso la stazione di posta per attendere l'arrivo del «Lightning». Mentre s'incamminavano, incrociarono la splendida carrozza aperta di Jos: un sontuoso veicolo adorno di un bellissimo stemma, su cui era solito percorrere le vie di Cheltenham, guidare tutto solo, in atteggiamento pomposo, con le braccia incrociate e il cappello sulle ventitré (ma era più soddisfatto se aveva modo di portarvi a spasso qualche bella signora seduta al suo fianco). In quel momento la carrozza ospitava due signore: una, piuttosto bassa di statura, dai capelli castano chiari, vestita all'ultima moda; l'altra con un mantello di seta marrone e una cuffietta di paglia adorna di un nastro rosa, e un visino tondo, roseo, soffuso di felicità, che dava gioia a guardarlo. Quando la carrozza giunse all'altezza dei tre uomini, quest'ultima fece fermare la carrozza, ma dopo questo gesto di autorità parve vergognarsene, e arrossì al colmo dell'imbarazzo. «Abbiamo fatto una magnifica passeggiata, George,» disse, «ma... siamo felici di esser di ritorno... Joseph, ti prego, non farlo tardare!» «Non portate i nostri mariti alla perdizione, Mr. Sedley, perfido che non siete altro,» esclamò Rebecca. E in segno di monito agitò davanti agli occhi di Jos un ditino ricoperto da un raffinatissimo guanto di capretto francese. «Niente biliardo, niente fumo, niente sregolatezze, mi raccomando!» «Ma... Mrs. Crawley, vi pare! Vi giuro che...» fu tutto quanto Jos riuscì a farfugliare a guisa di risposta. E assunse un atteggiamento vezzoso piegando il capo da un lato con una specie di risolino rivolto alla sua vittima, mentre con una mano si appoggiava al bastone da passeggio che teneva nascosto dietro la schiena, e con l'altra (quella adorna del diamante) si gingillava con le gale della camicia sotto il panciotto. La carrozza si rimise in moto, ed egli con la mano adorna del gioiello lanciò un bacio alle signore. Come gli sarebbe piaciuto se tutta Cheltenham, tutta la Chowingree, tutta Calcutta lo avessero visto mentre, in compagnia di un notissimo dandy come Rawdon Crawley, ufficiale delle Guardie, salutava con gesto familiare una così incantevole esponente del sesso femminino! I nostri giovani sposi avevano scelto Brighton per trascorrervi i primi giorni di matrimonio, ed erano scesi allo Ship Inn soggiornandovi in pace e a loro agio fin quando vi era giunto Jos. Ma non era la loro unica conoscenza. Ecco che un giorno, di ritorno da una passeggiata sul lungomare, chi mai incontrarono all'albergo? Nientemeno che Rebecca e consorte! Subito si riconobbero, e senza un attimo di esitazione Becky si gettò fra le braccia dell'amica. Crawley e Osborne si strinsero la mano con moderata cordialità, e Becky, nel giro di poche ore, trovò il modo di far scordare a Osborne la spiacevole discussione che avevano avuto. «Certamente ricorderete il nostro ultimo incontro in casa di Miss Crawley. Fui veramente scortese con voi, capitano Osborne. Mi era parso che il vostro contegno nei confronti di Amelia non fosse dei più affettuosi. Di qui la mia irritazione. Mi sono mostrata sgarbata, impertinente, ingrata. Me ne scuso davvero e vi prego di perdonarmi. Rebecca gli tese la mano con una grazia così spontanea e commovente, che Osborne non poté esimersi dallo stringerla. Miei cari, avviene di rado che non si ottenga una cosa riconoscendo francamente e umilmente il proprio torto. Una volta mi accadde di conoscere un tale; degnissimo esponente della Fiera della Vanità, che usava deliberatamente piccoli torti al prossimo per avere successivamente il destro di scusarsene. E con quale esito? Semplicissimo: il mio amico Crocky Doyle era amato da tutti, e se veniva giudicato impulsivo, è altrettanto vero che passava per uomo oltremodo onesto e sincero, il più sincero che si potesse trovare. Onde anche George ritenne sincero l'atto di contrizione di Rebecca. Le due giovani coppie avevano infinite cose da raccontarsi, a cominciare dai loro matrimoni. Con reciproco interesse e assoluta schiettezza si confidarono le loro immediate prospettive per l'avvenire. Per quanto concerneva il matrimonio di George, sarebbe spettato all'amico capitano Dobbin renderne edotto il padre; e il giovane Osborne non nascondeva la sua inquietudine, quando pensava alle conseguenze che avrebbe potuto suscitare quella notizia. Per altro verso Miss Crawley, su cui riposavano le speranze di Rawdon Crawley, non mostrava ancora di cedere. Vista l'impossibilità di rimetter piede nella casa di Park Lane, gli affezionati nipoti l'avevano seguita fino a Brighton, ove avevano piazzato i loro emissari davanti alla sua porta, a montarvi la guardia in permanenza. «Se vedessi la faccia di certi amici di Rawdon che fanno la guardia alla nostra porta!» disse Rebecca ridendo. «Ti è mai capitato di vedere la faccia di un creditore, mia cara? Oppure quella di un ufficiale giudiziario e del suo assistente? Per tutta la settimana due di quei poveri diavoli non si sono mossi dalla porta dell'erbivendolo dirimpetto a casa nostra. Non abbiamo potuto muoverci fino alla domenica. Se la zietta non cede, che cosa sarà di noi?» Rawdon, scoppiando a ridere ogni momento, raccontò innumerevoli aneddoti circa l'abilità di sua moglie nello sbarazzarsi dei loro creditori. Coi creditori, giurava Rawdon, non c'era una donna in tutta Europa che sapesse destreggiarsi come Rebecca. Subito (o quasi) dopo le nozze aveva dovuto impratichirsi in questo genere di schermaglie, e Rawdon aveva avuto modo di apprezzare il valore inestimabile di una moglie del genere. Disponevano di ampio credito, ma avevano anche un numero incredibile di conti da pagare e pochissimo denaro liquido. Ma Rawdon si guardava bene dal lasciarsi condizionare da una simile situazione e non perdeva il suo buonumore. Chiunque conosca a fondo la Fiera della Vanità sa con quanta disinvoltura vi guazzino coloro che sono impegolati nei debiti fino al collo. Non si privano di nulla e sono sempre contenti come pasque. Prova ne sia che nell'albergo di Brighton Rawdon e Rebecca erano ospitati nelle stanze migliori, e l'albergatore, servendo loro il primo piatto, si piegava nell'inchino riservato ai clienti di speciale riguardo. Rawdon, con molto sussiego, si permetteva di criticare il vino, di far commenti poco lusinghieri sul cibo. L'aspetto altezzoso, certe consuetudini acquisite, gli stivali, gli abiti eleganti, producono talvolta il medesimo effetto di un pingue conto in banca. Le due coppie di sposi si scambiavano frequenti visite nelle loro camere. Poi, una sera, due o tre giorni dopo il loro incontro, mentre le signore chiacchieravano fra loro, gli uomini si misero a giocare a carte. Questo passatempo (oltre alle partite a biliardo con Jos Sedley, che subito dopo il suo arrivo a bordo dell'elegante carrozza si era cimentato nel gioco in questione insieme con Rawdon) avevano rimpannucciato un poco il nostro Crawley, accordandogli certi vantaggi offerti solo dalla moneta sonante, senza di cui talvolta anche gli spiriti più eletti non possono fare a meno. Dunque, i tre amici andarono ad assistere all'arrivo del «Lightning»; puntualissima, gremita dentro e sul tetto, la diligenza giunse a grande velocità mentre echeggiava il corno del postiglione, e si fermò davanti alla stazione di posta. «Evviva, ecco il vecchio Dobbin!» gridò George felicissimo di vedere, issato in cima all'imperiale, il suo caro amico che aveva rinviato sino a quel momento la promessa visita a Brighton. «Come va, vecchio mio? Sono felicissimo che tu sia venuto. Ed anche Emmy sarà molto lieta di vederti,» disse Osborne stringendo calorosamente la mano di Dobbin quando questi riuscì a districarsi e a scendere dal tetto della diligenza. Poi a voce bassa e agitata aggiunse: «Quali nuove? Sei stato in Russell Square? Che cosa ha detto il vecchio? Su raccontami tutto!» Dobbin era molto pallido e grave «Sì,» rispose, «ho visto tuo padre. Come sta Amelia? Cioè, volevo dire... come sta Mrs. Osborne? Fra poco ti dirò tutto, ma per ora mi limito alla notizia più importante...» «Coraggio, parla, vecchio mio...» «Abbiamo ordine di partire per il Belgio: l'esercito al completo, le Guardie e tutti gli altri. Heavytop ha un attacco di gotta ed è furibondo perché non può muoversi. Sarà O' Dowd ad assumere il comando. C'imbarcheremo a Chatham la settimana prossima.» Quelle notizie di guerra caddero sui nostri giovani innamorati come un colpo di fulmine, e sul volto di tutti si dipinse un'espressione grave ed assorta. XXIII • IL CAPITANO DOBBIN CONTINUA A TESSERE LA SUA TRAMA Quale segreto ipnotismo ha il potere di trasformare uomini solitamente pigri, o indifferenti, o schivi, in persone sagge attive e risolute, quando si tratti di agire nell'interesse altrui? Come Alexis, dopo qualche seduta dal dottor Elliotson diventa insensibile al dolore, legge con la nuca, vede a miglia di distanza, prevede ciò che avverrà la settimana successiva ed è capace di altre azioni sorprendenti che non potrebbe assolutamente compiere in condizioni normali, così, nelle cose di questo mondo, per magico effetto dell'amicizia il pavido si trasforma in ardimentoso, il timido acquista fiducia in se stesso, il pigro diventa attivo, e l'impetuoso scopre la prudenza, la ponderazione. E come si spiega, per contro, che un avvocato non intenda occuparsi di una causa che lo riguarda, e lo induca a chiedere l'intervento di un dotto collega? Cosa spinge un medico, quando si sente male, a convocare un suo rivale anziché sedersi, tirar fuori la lingua davanti alla specchiera appesa sopra il caminetto, ed esaminarla per conto proprio, o ad autoprescriversi una medicina, seduto alla scrivania del suo studio? A queste domande sapranno come rispondere i miei avveduti lettori, i quali non ignorano che noi siamo al tempo stesso creduli e scettici, arrendevoli e ostinati: decisi in tutto ciò che riguarda gli altri, ma sempre incerti in ciò che riguarda noi stessi. Ad ogni modo, una circostanza è indubbia: il nostro amico William Dobbin, sempre perplesso in tutto ciò che lo concerneva di persona (al punto che, se i suoi genitori glielo avessero chiesto, non avrebbe esitato a scendere in cucina e a sposare la cuoca, e capacissimo, quando si trattava dei suoi interessi, di giudicare una difficoltà insormontabile l'attraversamento di una strada) si occupò dei casi personali di George Osborne con una dedizione e uno zelo simili a quelli con cui il più rabbioso e avvertito egoista si sarebbe occupato dei propri. Pertanto, mentre George e la sua giovane consorte se ne stavano a Brighton godendosi i primi giorni della loro luna di miele, il bravo William era rimasto a Londra in veste di procuratore generale di George per occuparsi di tutte le vertenze pratiche legate a quelle fresche nozze. Suo compito era quello di andare a trovare Mr. Sedley e sua moglie, cercando di tenere il primo di buon animo; migliorare i rapporti fra Jos e suo cognato, e fare in modo che la posizione e la dignità di cui godeva Jos nella sua qualità di ricevitore di Boggley Wollah valessero in certo qual modo a compensare la perdita di prestigio e di ruolo economico patita dal padre, inducendo così il vecchio Osborne a riconciliarsi con l'idea di quell'unione; infine doveva comunicare la notizia a quest'ultimo nel meno indisponente dei modi. Prima di affrontare il vecchio Osborne e farlo partecipe delle novità che spettava a lui riferirgli, Dobbin ritenne opportuno cercare di accattivarsi la simpatia degli altri membri della famiglia, onde avere - se appena fosse stato possibile - tre alleate nelle sorelle di George. In cuor loro, pensava, non possono essere in collera. Nessuna donna può inquietarsi al cospetto di un matrimonio d'amore. Strilleranno un poco, ma poi finiranno per sentirsi alleate del fratello, e allora tutti e tre cingeremo d'assedio il vecchio Osborne. Così il nostro machiavellico capitano cercò di architettare una varia gamma di espedienti e stratagemmi per rivelare alle Osborne il segreto del fratello, naturalmente procedendo per gradi, con tutta la cautela possibile. Svolse una piccola indagine sugli impegni mondani della madre e venne a sapere quali ricevimenti sarebbero stati dati durante la stagione dagli amici di Mrs. Dobbin, e dove avrebbe avuto maggiori probabilità d'imbattersi nelle sorelle di George; e sebbene Dobbin, non diversamente da tanti uomini di buon senso, detestasse le feste da ballo e i trattenimenti mondani, ben presto riuscì ad accertare che le sorelle Osborne erano invitate in casa di certi conoscenti. Dopo essersi presentato alla festa in questione ed aver danzato con ciascuna di loro almeno un paio di volte mostrandosi con entrambe estremamente gentile, osò chiedere a Miss Jane Osborne di concedergli qualche minuto la mattina seguente per una breve conversazione: aveva da comunicarle, le disse, notizie di grandissima importanza. Cosa fu a spingere Jane a fare un passo indietro, a posare istante lo sguardo su di lui per poi chinarlo al suolo? Come mai per poco non svenne tra le sue braccia, come sicuramente sarebbe accaduto se lui, con mossa oltremodo opportuna e tempestiva, non le avesse pestato un piede costringendola a ritrovare il proprio controllo? Perché parve tanto agitata davanti a quella richiesta di Dobbin? Impossibile saperlo. Sta di fatto, comunque, che quando l'indomani il capitano entrò in salotto, Maria non c'era e Miss Wirt uscì dalla stanza per andare a chiamarla, onde il capitano e Jane rimasero a tu per tu. Tacevano entrambi, cosicché il tic-tac della pendola sul caminetto (quella adorna del gruppo col Sacrificio di Ifigenia) echeggiava in modo quasi sfrontato. «Splendida festa, ieri sera!» disse alla fine Miss Osborne, in tono incoraggiante. «E... quanti progressi avete fatto come ballerino, capitano Dobbin. Immagino che qualcuno vi abbia insegnato...» aggiunse poi con garbata civetteria. «Dovreste vedermi quando ballo il reel con la moglie del maggiore O'Dowd; e quando ballo la giga... Avete mai visto ballare la giga? D'altra parte con voi ballerebbe bene chiunque, Miss Osborne; siete bravissima in qualsiasi danza!» «È forse giovane e bella la moglie del maggiore?» chiese la vezzosa interlocutrice. «Ah, dov'essere difficile essere la moglie di un militare! C'è da stupirsi che abbiano ancora voglia di ballare, e soprattutto in questo periodo di guerra. Vi confesso, capitano Dobbin, che quando penso ai pericoli che corre il nostro George, ai rischi cui si trova esposto un povero militare, mi vien da tremare. Sono molti gli ufficiali sposati nel ...mo Reggimento, capitano Dobbin?» «Parola mia, sta giocando a carte troppo scoperte,» bisbigliò la Wirt. Ma questa breve osservazione, pronunciata a titolo di intermezzo, non venne udita attraverso lo spiraglio della porta dietro la quale la governante spiava la coppia. «Proprio di recente uno dei nostri ufficiali si è sposato,» rispose Dobbin cogliendo la palla al balzo. «Era un amore che durava da molti anni e i due coniugi non hanno un centesimo.» «Oh, che cosa deliziosa, che cosa romantica!» esclamò Miss Jane, nell'udire il capitano parlare di amore «che durava da molti anni» e di quell'assoluta povertà. Questa calorosa partecipazione all'evento incoraggiò il capitano. «È, il migliore del reggimento,» continuò Dobbin. «In tutto l'esercito non ce n'è un altro bello e ardimentoso quanto lui. Anche la sposa, del resto, è graziosissima. Sono certo che vi piacerà moltissimo, quando la conoscerete, Miss Osborne!» Jane pensò che fosse ormai giunto il momento; che il nervosismo di Dobbin (chiaramente rivelato dalle contrazioni del volto, dai brevi colpi che il suo piede batteva sul pavimento dai gesti concitati coi quali si abbottonava e sbottonava la giubba) fosse dovuto semplicemente al fatto che il capitano non riusciva ancora a trovare il coraggio per spiegarsi del tutto. Di conseguenza si apprestò, trepidante, ad ascoltarlo. E siccome proprio in quel momento la pendola col gruppo di Ifigenia si preparava, dopo una convulsione preliminare, a battere dodici colpi, all'ansiosa zitella quei rintocchi parvero durare fino all'una, tanto le sembrarono lunghi «Ma non è di matrimoni che sono venuto a parlare... o meglio, di quel particolare matrimonio... cioè, volevo dire... cara Miss Osborne, si tratta del nostro caro amico George,» riuscì a profferire Dobbin. «Di George?» rispose la ragazza, esternando così palesemente la propria delusione che dietro la porta Maria e Miss Wirt scoppiarono a ridere, e persino quel mascalzoncello di Dobbin fu tentato di sorridere, poiché non era del tutto all'oscuro della situazione. Spesso infatti George lo aveva preso in giro dicendogli: «Maledizione, Will, ma perché non ti sposi la vecchia Jane. Se glielo proponessi, non esiterebbe ad accettare: scommetto cinque contro due che ti accetta.» «Sì, di George,» continuò Dobbin. «Tra lui e Mr. Osborne c'è stato uno screzio; ma io nutro per lui la massima stima; siamo sempre stati come due fratelli, perciò mi auguro di tutto cuore che tutto possa appianarsi. La nostra partenza per il fronte è ormai imminente, Miss Osborne, l'ordine può giungere da un momento all'altro. Il campo di battaglia, lo si sa, è un'incognita... Per carità, non è il caso che vi agitiate, Miss Osborne, tuttavia vorrei che padre e figlio si congedassero l'uno dall'altro da bravi amici.» «Non c'è stato nessuno screzio, capitano,» disse Jane. «Si è trattato piuttosto di una delle solite scenate di papà. Papà agisce soltanto per il bene di George: basterebbe che lui tornasse e tutto si aggiusterebbe per il meglio, ne sono certa. Come sono certa che avrebbe il perdono della nostra cara amica Rhoda, che se n'è andata di qui rattristata e in collera. Le donne, capitano, hanno forse un difetto: sono sempre disposte al perdono!» «Voi siete un angelo, e lo fareste certamente,» replicò Dobbin, con crudele astuzia. «D'altro canto nessun uomo potrà mai perdonarsi di far soffrire una donna. Voi cosa provereste, se un uomo vi fosse infedele?» «Morirei... mi getterei dalla finestra... mi avvelenerei... soffrirei, morirei, ne sono certissima,» proruppe la donzella, la quale era passata attraverso due o tre delusioni d'amore senza che mai un pensiero del genere le avesse sfiorato il cervello. «Ebbene,» continuò Dobbin, «esistono altre fanciulle non meno felici di voi, e dotate di pari sensibilità. Non alludo a quell'ereditiera delle Indie Occidentali, Miss Osborne, ma ad una povera fanciulla che George ha sempre amato, e che sin dall'infanzia è cresciuta nella convinzione di dover votare a lui i suoi più teneri pensieri. L'ho vista prostrata dalla miseria, ma incapace di lamentarsene. Tuttavia ha il cuore spezzato, ed è del tutto innocente. Mi riferisco a Miss Sedley. Cara Miss Osborne, mi rifiuto di pensare che un cuore generoso come il vostro possa mettersi in urto con vostro fratello per esserle stato fedele. Credete forse che la sua coscienza gli avrebbe dato requie se lui l'avesse abbandonata? Vogliate conservarle la vostra amicizia; lei, dal canto suo, vi ha sempre voluto bene. Io... io sono appunto venuto per incarico di George; per dirvi ch'egli considera un sacro dovere il fidanzamento con Amelia, e per scongiurarvi di essere solidale con lui.» Quando Dobbin era in preda a una forte emozione, dopo un attimo d'incertezza rivelava una sorprendente facondia. Del resto, s'intuiva che, in quell'occasione, la sua eloquenza aveva prodotto un certo effetto sulla sua interlocutrice. «Ma...» rispose quest'ultima... «si tratta di una cosa molto... molto sorprendente... penosa, davvero inconcepibile... Papà dirà che George ha sprecato la straordinaria occasione che gli si era offerta... Nondimeno riconosco ch'egli ha trovato in voi un coraggioso paladino, capitano Dobbin. Anche se non può essergli di grande utilità,» concluse dopo una pausa. «Credetemi, provo per Miss Sedley una pena sincera. Nondimeno, pur essendo sempre stati gentili con lei, non abbiamo mai visto di buon occhio il suo matrimonio con mio fratello, e papà non darà mai il suo consenso, ne sono assolutamente certa. Senza contare che una ragazza di buona educazione, e con la testa sulle spalle, deve... voi mi capite... deve rendersi conto... È necessario che George rinunci ad Amelia, caro capitano; deve proprio farlo.» «Dunque, un uomo dovrebbe abbandonare la donna amata nel momento in cui questa è colpita dalla sventura?» chiese Dobbin porgendo la mano alla ragazza. «È proprio questo il vostro consiglio, Miss Osborne? Cara Miss Osborne, voi dovete esserle amica, George non può lasciarla. Secondo voi, un uomo dovrebbe lasciarvi se voi foste povera?» Questa domanda insinuante turbò Miss Jane, che accusò il colpo. «Mi domando,» rispose «se noi donne si debba credere a tutto ciò che dite voi uomini. Il cuore femminile è molto vulnerabile, e pecca facilmente di soverchia credulità. Temo che voi siate dei perfidi ingannatori...» E su queste parole Dobbin avvertì nettamente la mano di Jane che stringeva la sua. Allarmato, la lasciò cadere. «Ingannatori, voi dite! Ebbene, no, miss Osborne, non tutti gli uomini meritano un simile epiteto. Vostro fratello meno che meno. George ama Amelia sin da quando era bambino e nessuna ricchezza potrebbe mai indurlo a sposare un'altra. Dovrebbe abbandonarla? Osereste dargli un consiglio del genere?» Cosa avrebbe potuto rispondere Miss Jane, tenuto conto dei pensieri che in quel momento aveva per la testa. Non poteva rispondere in modo esplicito a quella domanda, onde per aggirare il discorso uscì a dire: «Se non siete un ingannatore, certo siete dotato di un temperamento molto romantico, capitano.» Dobbin non volle o non seppe ribattere. Finalmente, quando ritenne, grazie all'ausilio di altri discorsi gentili, che Miss Osborne fosse adeguatamente preparata ad accogliere la notizia per intero, gliela riversò nell'orecchio: George non poteva assolutamente abbandonarla, cosicché l'ha sposata. Dopo di che raccontò nei dettagli il matrimonio; riferì come la povera ragazza sarebbe morta di dolore se il suo fidanzato non avesse mantenuto la parola data; come il vecchio Sedley non avesse accondisceso a quelle nozze, circostanza che aveva reso necessario procurarsi una licenza matrimoniale; come Jos fosse venuto appositamente da Cheltenham per condurre la sposa all'altare, e come si fossero poi recati a Brighton in luna di miele col tiro a quattro di quest'ultimo; e come George facesse affidamento sulle dilette sorelle per riconciliarsi col padre, nella certezza che loro, donne affettuose e fedeli, sarebbero state pronte a intervenire a suo favore. Infine chiese il permesso (ottenendolo all'istante) di tornare a trovarla, e ritenendo, non senza fondamento, che le notizie da lui recate sarebbero state comunicate alle altre signore nel giro di pochi minuti, si piegò in un inchino e prese congedo. Non aveva ancor messo piede fuori di quella casa che Miss Maria e Miss Wirt si precipitarono verso Miss Osborne, la quale rivelò per intero la segreta notizia. Ebbene: rendiamo atto alle due sorelle che né l'una né l'altra si dolsero troppo della cosa. È raro che una donna provi un autentico moto d'indignazione perché due giovani fuggono col proposito di sposarsi, e in loro crebbe l'ammirazione per Amelia, dato il coraggio di cui aveva dato prova acconsentendo a un'unione del genere. Mentre commentavano diffusamente tra loro la notizia, e soprattutto si domandavano cosa avrebbe detto e fatto il loro padre, un colpo fragoroso come l'esplodere di un tuono d'estate venne battuto alla porta, facendo sussultare le cospiratrici. Sarà papà, pensarono. Ma non era lui, bensì Mr. Bullock, che giungeva apposta dalla City per condurle a un'esposizione floreale, com'era stato precedentemente convenuto. Com'è logico, il signore non tardò molto ad esser messo al corrente di quel segreto Ma nell'apprenderlo il suo volto espresse uno stupore d'indole assai diversa dall'estatica e sentimentale meraviglia che era affiorata sul viso delle due Osborne. Mr. Bullock era un uomo di mondo, uno dei soci più giovani di una banca assai importante, sapeva attribuire al denaro il suo giusto valore. Per questo un vago sentimento d'ansia e di piacere illuminò i suoi occhietti e lo indusse a sperare che, grazie al gesto inconsulto di George, la sua Maria poteva valere trentamila sterline di più di quanto avesse mai sperato di ottenere sposandola. «Perdio, Jane,» esclamò, osservando anche la sorella maggiore con rinnovato interesse. «Adesso Eels recriminerà di avervi piantato. Forse ora siete un'ereditiera da cinquantamila sterline!» Fino a quel momento le due sorelle avevano mentalmente ignorato il fattore denaro; ma durante l'intera passeggiata mattutina Bullock continuò a solleticarle sull'argomento con una sorta di grazia mista ad arguzia, e quando rientrarono a casa per il pranzo sentirono di avere ormai un più elevato concetto di sé. Il mio distinto lettore si guardi bene dal protestare, sostenendo che tanta avidità, tanto egoismo sono contro natura. Stamani stesso, mentre di ritorno da Richmond venivano sostituiti i cavalli della diligenza, il cronista di questa storia, che sedeva sull'imperiale, ha posato l'occhio su tre frugolette che, sporche luride ma felici, giocavano diguazzando in una pozzanghera. A costoro poco dopo si avvicinò una quarta. «Polly,» disse, «tua sorella ha un penny.» Subito le tre si alzarono e andarono a rendere omaggio a Peggy. Mentre la diligenza si rimetteva in moto, scorsi Peggy che, seguita dalla scorta delle tre bimbette, s'avviava con molta dignità verso la bancarella della venditrice di dolciumi. XXIV • MR. OSBORNE PRENDE LA BIBBIA DI FAMIGLIA Dopo aver preparato le sorelle nel modo testé riferito, Dobbin si affrettò a recarsi nella City per accingersi ad assolvere la parte restante dell'impegno che si era assunto, ed anche la più gravosa. Il pensiero di trovarsi a tu per tu col vecchio Osborne lo innervosiva alquanto, e più di una volta fu tentato di lasciare che fossero le ragazze a rivelare il segreto al padre, dal momento che non avrebbero saputo tenerlo a lungo per sé, di questo erano certe. Ma aveva promesso di riferire a George le reazioni del vecchio al momento in cui avesse appreso la notizia. Di conseguenza si recò nell'ufficio di suo padre in Thames Street, e di lì inviò a Mr. Osborne un biglietto, nel quale gli esternava la propria intenzione di parlargli di George e chiedendogli, a tale scopo, mezz'ora di conversazione. La persona inviata da Dobbin col suo messaggio fece ritorno dallo studio di Mr. Osborne recando gli ossequi di quest'ultimo, il quale si dichiarava felicissimo di ricevere senza indugio il capitano. Di conseguenza Dobbin non perse altro tempo e si avviò per affrontarlo. Entrò negli uffici di Mr. Osborne con espressione contrita e passo incerto: quel segreto quasi peccaminoso che celava in seno e la prospettiva di quell'abboccamento sicuramente sgradevole e tempestoso giustificavano la sua agitazione. Quando attraversò il primo locale ove si trovava Mr. Chopper, e questi gli elargì un saluto vivace e cordiale, si sentì ancora più desolato. Ma Chopper gli fece l'occhiolino; poi con un cenno del capo e della penna gli indicò la porta del capo dicendogli in tono baldanzoso e irritante: «Il capo è in gran forma, vedrete!» Osborne si alzò, strinse con calore la mano di Dobbin e con una espansività che accentuò il senso di colpa dell'ambasciatore di George gli disse: «Come state ragazzo mio?» La mano del capitano giacque inerte nella stretta di quella del vecchio. Aveva la sensazione di esser lui, in misura più o meno accentuata, la causa di quanto era avvenuto. Era stato lui, infatti, a riportare George da Amelia; era stato lui ad approvare, a incoraggiare, si potrebbe quasi dire a celebrare le nozze che ora si accingeva a rivelare al padre di George. E questi, peraltro, lo accoglieva col più garbato e sorridente dei benvenuto; lo chiamava con l'appellativo di «ragazzo mio» battendogli una manata sulla spalla. Logico che l'ambasciatore, imbarazzato, chinasse lo sguardo al suolo. Osborne non aveva dubbi: era certo che Dobbin venisse ad annunciargli la resa del figlio. Quando era sopraggiunto l'inviato di Dobbin, Chopper e il suo principale stavano appunto parlando della discussione avvenuta tra George e il padre, ed entrambi erano convinti che George volesse fare atto di contrizione. Entrambi attendevano da giorni quel momento. «Buon Dio, Chopper, faremo un matrimonio coi fiocchi!» aveva esclamato Mr. Osborne in tono di trionfo, facendo schioccare le dita e tintinnare le ghinee e gli scellini nella saccoccia rigonfia. Ripetendo l'operazione in entrambe le tasche, Osborne dalla sua sedia guardava Dobbin che gli sedeva di fronte, tetro in volto e silenzioso. Al contrario il vecchio aveva dipinta in viso un'espressione soddisfatta e di compiaciuta pregustazione. «Per essere un capitano dell'esercito è un fior di zotico,» pensava il vecchio. «George avrebbe dovuto insegnargli cosa siano le buone maniere.» Alla fine Dobbin si fece coraggio e prese a parlare. «Vi porto notizie molto gravi, signore,» disse. «Stamani sono stato al comando delle Guardie a cavallo e ho saputo che il nostro reggimento deve trasferirsi in Belgio. La notizia è di fonte sicura. Partiremo entro la settimana, e come voi sapete non torneremo in patria prima di una battaglia nella quale molti di noi potrebbero perdere la vita.» Osborne assunse un'espressione grave: «Mio fi... il reggimento farà il suo dovere, oso sperare.» «I francesi sono molto forti,» continuò Dobbin. «Ci vorrà parecchio tempo prima che i russi e gli austriaci possano inviare le loro truppe in una località tanto lontana, signore. Il primo urto dovremo sostenerlo da soli, e Boney farà di tutto per darci del filo da torcere.» «Che cosa vorreste dire?» chiese il vecchio, aggrottando le sopracciglia e cominciando a manifestare un certo disagio. «Voglio sperare che nessun inglese abbia paura di quei maledetti francesi, sì o no?» «Volevo solo dire che prima della nostra partenza, e in vista del grave pericolo che senza dubbio incombe su ciascuno di noi, se per caso vi fosse qualche malinteso fra George e voi, ebbene... sarebbe giusto che vi stringeste la mano: non vi pare? Se dovesse accadergli qualcosa, sicuramente non vi perdonereste di esservi separato da lui senza aver prima sanato i vostri contrasti.» Mentre parlava, Dobbin arrossiva; era convinto di essere un vero e proprio traditore. Se non fosse stato per causa sua, forse tra padre e figlio non sarebbe nato il minimo dissapore. Forse avrebbe dovuto indurre George a rinviare il matrimonio. Era proprio indispensabile tanta urgenza? Sapeva che George avrebbe saputo sopportare senza sforzo soverchio la separazione da Amelia, e forse anche Amelia avrebbe saputo riprendersi dall'amara delusione di averlo perduto. Invece, proprio per aver seguito il suo consiglio erano giunti al matrimonio, con tutte le conseguenze che fatalmente ne sarebbero derivate. E perché era avvenuto tutto ciò? Perché lui l'amava, e amandola non sopportava di vederla infelice; o fors'anche perché la sofferenza che lui, Dobbin, provava in quello stato di perenne incertezza era così frustrante da essere addirittura intollerabile. Per questo aveva voluto allontanarla al più presto, proprio come si desidera affrettare i funerali quando ci viene a mancare una persona cara. E quando ci si deve separare da una persona cara, non si riesce ad aver pace fino a quando la partenza non è avvenuta. «Siete una brava persona, William,» disse il vecchio Osborne con voce raddolcita.» In effetti non è giusto che io e George ci separiamo in collera l'uno contro l'altro. Ebbene, statemi a sentire: per lui ho fatto tutto ciò che un padre può fare per un figlio. Sono certo di avergli accordato il triplo del denaro che vostro padre vi abbia dato nel corso di tutta la vostra esistenza, eppure mi guardo bene dal vantarmene. Né dirò quanto abbia sgobbato per lui, quanto abbia messo in pratica tutte le mie risorse ed energie a suo vantaggio. Chiedetelo a Chopper. Chiedetelo a lui stesso. Chiedetelo nella City. Ora gli ho proposto un matrimonio del quale qualsiasi aristocratico inglese andrebbe fiero. È la sola cosa che gli abbia mai chiesto, e lui rifiuta. Ho forse torto? Sono forse io ad aver suscitato il litigio? Che cosa voglio se non il suo bene, per il quale ho lavorato tutta la vita come un negro? Chi oserebbe darmi dell'egoista? Che venga pure, desidero rivederlo e dirgli: stringiamoci la mano, perdoniamoci e dimentichiamo ogni rancore. Quanto al matrimonio, non è certo il caso di celebrarlo ora. Basta che lui e Miss Swartz si mettano d'accordo: ci penseremo alla fine della campagna, quando lui ritornerà col grado di colonnello. Certo che diventerà colonnello, perdio, se i soldi varranno ancora qualcosa. Sono contento che lo abbiate indotto a riflettere. So che più di una volta lo avete tolto voi dai pasticci, caro Dobbin. George può dunque venire, non mi mostrerò duro con lui. Perché oggi stesso non venite a pranzo tutti e due in Russell Square? Alla solita ora, nella solita vecchia casa. Ci sarà dell'ottima selvaggina e nessuno vi farà delle domande.» Il cuore di Dobbin fu profondamente colpito dalle parole di lode del vecchio e dalle sue attestazioni di fiduciosa confidenza. E a mano a mano che la conversazione procedeva su quel tono egli sentiva aumentare quel suo sentimento di colpevolezza. «Signore» disse, «temo che vi facciate delle illusioni. Sì temo proprio che v'inganniate. George ha un animo troppo nobile per piegarsi a un matrimonio suggerito dal denaro. D'altro canto, se minacciaste di diseredarlo qualora disobbedisse ai vostri ordini, non fareste che accentuare la sua resistenza.» «Maledizione, non chiamerete minaccia offrirgli otto o diecimila sterline all'anno, spero!» continuò Mr. Osborne imperterrito nel mantenere il suo ottimo umore. Caspita, se Miss Swartz mi volesse, non opporrei certo delle difficoltà perché ha la pelle un po' scura!» E il vecchio proruppe in una risata volgare accompagnata dall'espressione sardonica di chi la sa lunga. «Voi, signore, dimenticate i precedenti impegni che vostro figlio si era assunto,» disse l'ambasciatore in tono grave. «Quali impegni? Cosa diavolo intendete dire? Non vorrete dire,» continuò Mr. Osborne nella cui mente per la prima volta si affacciava un simile pensiero, accentuando di momento in momento il suo stupore e la sua collera, «non vorrete dire che è così maledettamente imbecille da correre ancora dietro alla figlia di quel vecchio imbroglione fallito? Non sarete venuto a dirmi, spero, che vuole sposare quella donna? Sposare quella là! Bella idea davvero! Mio figlio, il mio erede; sposare la figlia di uno straccione, una che viene dai bassifondi! Se lo farà, può anche andare ad impiccarsi! Si comperi una scopa e vada a fare lo spazzino! Sì, sì, me ne ricordo benissimo: lei gli è sempre corsa appresso, gli ha sempre fatto mille moine: senza dubbio seguiva le istruzioni di quella buona lana di suo padre.» «Non dimenticatevi che Mr. Sedley intratteneva con voi rapporti di amicizia,» disse Dobbin, quasi piacevolmente sorpreso di constatare che il vecchio si andava irritando sempre più. «In altri tempi voi vi riferivate a lui con epiteti assai diversi da mascalzone e imbroglione, così come siete stato voi a combinare quel matrimonio... George non aveva il diritto di venir meno alla parola data!» «Venir meno alla parola data!» urlò il vecchio Osborne. «Venir meno! Ma queste, maledizione, sono le parole che ha usato quindici giorni fa questo bel signorino quando si vantava di essere un ufficiale inglese e si dava un mucchio d'arie con suo padre, che lo ha messo al mondo! Dunque siete stato voi a montarlo, vero? Vi ringrazio davvero, capitano: a quanto pare siete voi che volete introdurre dei pezzenti nella mia famiglia! Grazie tante!... Sposare quella... Lui! E perché, poi, dovrebbe farlo? Sono sicuro che quella non esiterebbe ad andare con lui anche senza essere sposata!» «Signore,» esclamò Dobbin alzandosi in piedi, e senza più riuscire a frenare la sua ira, «nessuno può permettersi di insultare quella signora in mia presenza, e voi meno di ogni altro!» «Ah, sì? Vorreste sfidarmi, a quanto pare. Ebbene, aspettate un momento: suono il campanello e faccio portare un paio di pistole. George vi ha mandato qui a insultare suo padre, vero?» disse Mr. Osborne dando uno strattone al cordone del campanello. «Mr. Osborne» disse Dobbin con un filo di voce, «voi, piuttosto, state insultando la creatura più incantevole che esista sulla faccia della terra. Ma fareste meglio a risparmiarvi le vostre ingiurie perché si tratta della moglie di vostro figlio.» Dopo di che, rendendosi conto che non avrebbe assolutamente potuto aggiungere una sola parola, Dobbin se ne andò, mentre il vecchio si accasciava sulla sua seggiola guardandolo con odio. In quella un impiegato, rispondendo alla perentoria scampanellata di poc'anzi, entrò nell'ufficio; poi, mentre il capitano Dobbin non era ancora uscito dal cortile per il quale si accedeva agli uffici di Mr. Osborne, Chopper, senza nemmeno essersi infilato il cappello, lo raggiunse di corsa. «Per amor del cielo, cos'è successo?» domandò trattenendo il capitano per la giacca. «Il capo è sconvolto. Che cos'ha fatto Mr. George?» «Ha sposato Miss Sedley cinque giorni fa,» rispose Dobbin. «Io sono stato testimone alle nozze e voi dovete schierarvi dalla sua parte, Mr. Chopper.» Il vecchio impiegato scosse il capo. «Avete portato una bruttissima notizia,» rispose, «la peggiore che mai potesse arrivare al mio padrone. Lui non perdonerà mai.» Dobbin invitò Chopper a raggiungerlo più tardi nell'albergo dov'era sceso per riferirgli gli sviluppi della situazione; poi s incamminò verso il West End, oltremodo preoccupato per il passato e per l'avvenire. Quella sera stessa, quando in Russell Square la famiglia Osborne si radunò come di consueto per la cena, il padrone di casa sedette al posto consueto; ma il suo volto era atteggiato a un'espressione così cupa da indurre tutti al silenzio. Le sorelle e Mr. Bullock, invitato a cena, compresero immediatamente che il vecchio sapeva tutto. Il pessimo umore di Mr. Osborne colpì a tal punto Mr. Bullock, da renderlo estremamente queto e riservato: anzi, fu insolitamente gentile e premuroso nei riguardi di Miss Maria, che gli sedeva al fianco, e di Miss Jane, che si trovava a capotavola. Di conseguenza Miss Wirt era sola dalla sua parte della tavola, perché tra il suo posto e quello di Miss Jane Osborne ce n'era uno vacante: era il posto di George, quando consumava i suoi pasti a casa, un posto che - come già abbiamo detto - veniva sempre apparecchiato in attesa del ritorno dell'assente. Durante la cena nulla, fatta eccezione per le frasi confidenziali che il sorridente Mr. Frederick profferiva in un lieve sussurro, ruppe il silenzio di quel mesto desinare. I domestici si aggiravano discreti e furtivi, adempiendo alle loro mansioni: dei muti che presenziassero a un funerale non avrebbero avuto un aspetto più deprimente. Sempre silenzioso, Mr. Osborne scalcò la selvaggina che aveva proposto a Dobbin quando lo aveva invitato a cenare con loro; nondimeno la sua porzione fu ritirata dal domestico quasi intatta, mentre il suo bicchiere era sempre vuoto e venne ripetutamente colmato dal cameriere. Poi, verso la fine del pasto, i suoi occhi che si erano posati con moto alterno ora sull'uno, ora sull'altro commensale, si posarono per qualche istante sul posto preparato per George. Lo indicò con un gesto della mano sinistra, e le figlie, al pari dei domestici, a tutta prima non capirono il significato di quel segno (o forse finsero di non capire). «Portate via quel piatto,» ordinò. Poi si alzò profferendo una bestemmia, respinse rumorosamente la sedia e uscì per ritirarsi nella propria camera. Dietro la sala da pranzo c'era un locale comunemente indicato come «studio» e religiosamente riservato a Mr. Osborne. Qui il padrone si rintanava la domenica mattina, quando non aveva voglia di recarsi in chiesa e trascorreva la mattinata sprofondato nella sua poltrona di velluto rosso a leggere il giornale. C'erano anche due librerie a vetri che ospitavano opere alquanto comuni dalle solide rilegature dorate: l'«Annual Register», il «Gentleman's Magazine», i Sermons di Blaire e la History of England di Hume & Smollett. Non gli accadeva mai, in qualsiasi giorno dell'anno, di togliere quei libri dai loro scaffali, ma nessun membro della famiglia avrebbe mai osato toccare quei volumi, anche se si fosse trattato di vita o di morte. Unica eccezione, certe rarissime serate di domenica, quando non c'erano ospiti a cena: in tali occasioni la grande Bibbia ricoperta di cuoio scarlatto e il Common Prayer venivano tolti dall'angolo in cui si trovavano accanto al Peerage e, mentre i domestici si radunavano in fila nella sala da pranzo, Osborne con voce roca e altisonante leggeva alla famiglia le preci della sera. Nessun membro della famiglia, fossero un bimbo o una persona di servizio, entravano mai in quella stanza senza provare un sacro terrore. Era lì che il padrone di casa verificava i conti della governante e controllava il registro dei vini affidato al maggiordomo. Di là poteva inoltre sorvegliare, attraverso il cortile ricoperto di ghiaia, l'accesso alle scuderie, collegate al suo studio per mezzo di uno dei campanelli: quando lo suonava, imprecando dalla finestra dello studio, il cocchiere usciva di gran carriera. Quattro volte l'anno Miss Wirt penetrava in quel locale per ricevervi il suo stipendio, mentre le sue figlie vi accedevano per percepirvi le loro rendite quadrimestrali. Più volte, quando era bambino, George in quella stanza aveva subito la pena della frusta, mentre la madre, seduta sulle scale, soffriva al sibilo di ogni sferzata. Di solito il ragazzo non piangeva nel corso di quelle punizioni, ma la povera donna, quando usciva dallo studio, lo copriva di carezze, lo baciava di nascosto e per consolarlo gli regalava del denaro. Dopo la morte di Mrs. Osborne, sopra il caminetto era stato appeso un ritratto di famiglia che in precedenza si trovava in sala da pranzo. George vi figurava in sella a un pony; la sorella maggiore gli porgeva un mazzo di fiori, mentre la più piccola veniva tenuta per mano dalla madre: tutti avevano i pomelli e le labbra rosse, e si scambiavano sguardi languidi secondo gli schemi convenzionali dei ritratti di famiglia. Ora la madre giaceva sottoterra, da gran tempo dimenticata; le sorelle e il fratello avevano interessi e occupazioni totalmente diversi l'uno dall'altro, e per quanto abitassero sotto lo stesso tetto, vivevano come altrettanti estranei. Contemplandoli a decenni di distanza, quando coloro che vi sono effigiati sono ormai anziani, quale amara ironia traspare da quei ritratti di famiglia pervasi di convenzionale letizia, ingannevole simulacro di falsi sentimenti e di ipocrisie, immagini di consapevole e compiaciuta innocenza! Nella sala da pranzo, il ritratto ufficiale di Mr. Osborne, seduto nella sua poltrona rossa davanti al grande calamaio d'argento, era subentrato al posto d'onore precedentemente occupato dal ritratto di famiglia. In questo studio si ritirò il vecchio, con grande sollievo degli altri membri della famiglia che venivano lasciati soli. Quando anche la servitù si fu ritirata, tutti presero a parlare concitatamente, ma a bassa voce. Poi, in silenzio, le donne salirono al piano superiore seguite da Mr. Bullock che procedeva con passo furtivo e scarpe scricchiolanti. Non aveva avuto il coraggio di restarsene solo a fumare, in immediata vicinanza col terribile vegliardo chiuso nello studio. Un'ora almeno dopo l'imbrunire, il maggiordomo, che fino a quel momento non era stato chiamato dal suo padrone, si arrischiò a bussare all'uscio per recargli il tè e le candele. Il padrone di casa, seduto in poltrona, fingeva di leggere il giornale. Poi, quando il maggiordomo si ritirò dopo aver posato sulla tavola le candele e il tè, Mr. Osborne si alzò e chiuse la porta a chiave. Questa volta non potevano esserci dubbi su quanto stava accadendo: tutta la casa capì che una catastrofe stava per abbattersi crudelmente sulla testa di George. In un cassetto del grande scrittoio di mogano di Mr. Osborne erano conservati i documenti e in genere tutto ciò che concerneva il figlio. Qui egli teneva qualunque carta lo riguardasse fin da quando era bambino: c'erano i quaderni con i disegni ricopiati in bella copia ( vi si riconosceva la mano di George e quella del suo insegnante), c'erano le prime lettere vergate a grossi caratteri rotondi nei quali faceva professione d'affetto nei confronti di mamma e papà, con l'aggiunta della richiesta di una torta. E in quella lettera il caro padrino Mr. Sedley veniva più volte menzionato. Sulle livide labbra di Mr. Osborne tremavano parole di maledizione, e un sentimento d'odio incontenibile misto a una frustrante delusione gli macerava il cuore ogni qual volta, nel rileggere quelle carte, gli capitava sott'occhio quel nome. Le lettere erano tutte annotate, numerate e legate con un nastro rosso. Per esempio: «23 aprile 18... George chiede 5 Cellini; risposto 25 aprile.» Oppure: «15 ottobre: George chiede un pony,» e così via. Un altro pacchetto comprendeva i «Rapporti del dottor S.», i «Conti del sarto di George e del suo abbigliamento», le «Tratte sul mio conto di G. Osborne Jn.», eccetera, oltre alle sue lettere dalle Indie Occidentali, alle lettere dei suoi corrispondenti d'affari, alle lettere che riportavano la notizia delle sue promozioni nei gradi dell'esercito. C'era, anche, un frustino che George soleva usare da ragazzo e, in un piccolo involto, un ciondolo contenente una ciocca dei suoi capelli che la madre aveva sempre portato al collo. Il pover'uomo trascorse ore ed ore sfogliando quelle carte, indugiando su quei ricordi. Quel cassetto era una sorta di condensato del suo amor proprio, delle sue speranze più lusinghiere. Com'era fiero di quel suo figliolo! Era il più bel bambino che si fosse mai visto: tutti dicevano che sembrava proprio un rampollo dell'aristocrazia. Durante una passeggiata ai Kew Gardens una principessa reale lo aveva notato, gli aveva dato un bacio e ne aveva chiesto il nome. Quale altro mercante, in tutta Londra, poteva vantarsi di avere un figlio simile? Forse che un principe era oggetto di maggiori attenzioni? Suo figlio aveva avuto qualunque cosa si possa comprare col denaro. Nei giorni riservati alle visite dei parenti, andava sempre a trovare il figlio in collegio a bordo di un tiro a quattro, con livree nuove di zecca, e regalava scellini ai compagni di scuola di George. Prima che il ragazzo s'imbarcasse per il Canada era andato con lui alla sede del Reggimento e aveva offerto agli ufficiali una cena luculliana, in tutto degna del duca di York. Non si era mai rifiutato di pagare le tratte di George: del resto, bastava un'occhiata, le aveva lì dinanzi agli occhi, pagate sino all'ultimo centesimo. Molti ufficiali dell'esercito non disponevano certo di un cavallo bello come quello di George. Davanti agli occhi gli balenava l'immagine di George nei più disparati atteggiamenti: dopo cena quando, altero come un baronetto, usava indugiare a tavola a bersi un bicchiere, accanto al padre che sedeva a capotavola; a Brighton, in sella al pony, quando saltava la siepe e teneva dietro al capocaccia, il giorno in cui era stato presentato al Principe Reggente alla levée, quando tutta la Corte di St. James non poteva annoverare un giovane di così bell'aspetto. Ed ecco, tutto era finito così! George aveva sposato una ragazza senza un soldo, sprezzando la sua fortuna, incurante dei propri doveri! Quale umiliazione, quale tormento quella rabbia impotente, quale strazio l'ambizione frustrata, gli affetti delusi, che martoriante oltraggio alla sua vanità e alla sua tenerezza si vedeva costretto a pagare quel vecchio peccatore! Dopo aver riesaminato tutte le carte indugiando ora sull'una ora sull'altra, in preda al più cocente e al più inutile di tutti i dolori (quello degli uomini gretti quando sono indotti a meditare sulla passata felicità), il padre di George levò dal cassetto tutti i documenti che vi erano giaciuti per tanto tempo, li radunò in una scatola e la legò suggellandola col proprio sigillo. Poi aprì la libreria e ne trasse la grande Bibbia religiosa di cuoio scarlatto di cui abbiamo parlato poc'anzi: era un'edizione sfarzosa, scintillante di fregi d'oro che veniva aperta di rado. Aveva un frontespizio raffigurante il Sacrificio d'Isacco. Ivi, sul foglio bianco di risguardo, in omaggio alla consuetudine, Osborne aveva annotato la data del suo matrimonio, quelle della morte della moglie e della nascita dei figli, coi rispettivi nomi. Venivano Prima Jane, poi George Sedley Osborne e infine Maria Frances, nonché le date dei loro battesimi. Prese una penna, cancellò accuratamente il nome di George e attese che l'inchiostro fosse ben asciutto, dopo di che ripose il volume là donde lo aveva tolto. Infine levò un documento da un altro cassetto nel quale conservava le sue carte personali, lo rilesse e lo appallottolò. Poi, accesa una candela vi diede fuoco e rimase a guardarlo mentre bruciava nel caminetto, fino a quando la fiamma non lo ebbe distrutto completamente. Era il suo testamento; quando lo ebbe bruciato, sedette di nuovo al suo scrittoio, scrisse una lettera, poi suonò il campanello per chiamare il domestico e affidargli l'incarico di recapitare quella missiva la mattina dopo. Albeggiava. Mentre saliva le scale per andare a letto, il sole già illuminava tutta la casa, e gli uccelli gorgheggiavano, annidati fra le tenere foglie degli alberi di Russell Square. Spronato dalla saggia intenzione di conservare cordiali rapporti con i familiari e i dipendenti di Mr. Osborne, e nello stesso tempo di garantire a George il maggior numero di amici, valido sostegno in simili frangenti, non appena rientrato in albergo William Dobbin scrisse un cordiale biglietto al gentilissimo Mr. Thomas Chopper, invitandolo a cenare con lui il giorno dopo da Slaughter. Infatti il giovane capitano non ignorava l'effetto positivo che possono esercitare su un uomo un buon pasto e una bottiglia d'ottimo vino. Mr. Chopper, che ricevette il biglietto mentre si accingeva a recarsi nella City, rispose senza indugio dicendo che «Mr. Chopper porgeva i più devoti ossequi ed era ben lieto di accettare il cortese invito del capitano». La sera, tornato nella sua casa di Somers Town, mostrò alla moglie e alle figlie la brutta copia della risposta, e in termini altamente elogistici parlarono dei militari e della gente del West End, mentre sedevano intorno alla tavola e prendevano il tè. Poi, quando le ragazze andarono a dormire, i coniugi Chopper discussero degli strani eventi che turbavano la famiglia del «capo». Mai prima d'ora il segretario aveva visto il suo principale così sconvolto. Quando era entrato nell'ufficio di Mr. Osborne dopo che n'era uscito il capitano Dobbin, aveva trovato il vecchio col volto livido, come se stesse per venirgli un colpo apoplettico. Tra lui e Dobbin doveva esser scoppiata una lite furibonda, n'era sicuro. Chopper aveva ricevuto l'ordine di fare il conto complessivo delle somme percepite da George nel corso degli ultimi tre anni. «E per dire la verità il ragazzo ha incassato una somma tutt'altro che trascurabile,» commentò il vecchio contabile pervaso di rispetto sia nei confronti del padrone, sia in quelli del figlio di quest'ultimo, data la liberalità con la quale era stato profuso quel denaro. La lite era imperniata su una certa Miss Sedley. Mrs. Chopper dichiarò di provare pietà per quella fanciulla costretta a rinunciare a un bel giovanotto come il capitano Osborne, mentre dal canto suo il marito non provava alcun sentimento di spiccata solidarietà per Miss Sedley, figlia di uno speculatore improvvido; che aveva sempre pagato dei dividendi all'osso. Per lui la ditta Osborne era superiore a qualsiasi altra nella City, e desiderava vivamente che il capitano si legasse in matrimonio con un'esponente dell'aristocrazia. Quella notte il contabile dormì di un sonno molto più tranquillo di quello del suo principale; e accarezzando le sue figliole dopo aver consumato la sua colazione con ottimo appetito (sebbene il suo tè fosse modestamente zuccherato con zucchero bruno), se ne andò al lavoro con indosso il suo miglior vestito domenicale e la camicia pieghettata, non senza aver promesso a Mrs. Chopper, che lo guardava piena di ammirazione, di non abusare del Porto del capitano Dobbin, quando la sera avrebbe cenato con lui. Allorché Mr. Osborne arrivò in ufficio all'ora consueta, i suoi dipendenti che, per comprensibili motivi, scrutavano sempre attentamente il principale, notarono subito che la sua espressione era spaventosamente tetra. A mezzogiorno Mr. Higgs (dello studio legale Higgs & Ellatherwick di Bedford Row) si presentò puntualmente all'appuntamento fissato, e subito fu ammesso nello studio del padrone col quale s'intrattenne per oltre mezz'ora. Poi, verso l'una, il domestico del capitano Dobbin portò un biglietto a Mr. Chopper, unito al quale ce n'era uno indirizzato a Mr. Osborne che il contabile andò a consegnare al destinatario. Trascorse un'altra mezz'ora, e Mr. Chopper e Mr. Birch (il secondo contabile) vennero chiamati per fungere da testimoni alla firma di un documento. «Ho fatto un altro testamento,» fu la spiegazione succinta di Mr. Osborne; dopo di che, in omaggio alla richiesta loro rivolta, i due vergarono la loro firma. Non venne scambiata una parola. Quando uscì dallo studio Mr. Higgs appariva molto grave e assorto: fissò Mr. Chopper ma non ebbe il coraggio di aprir bocca. Quanto a Mr. Osborne, per tutto il resto di quella giornata parve a tutti particolarmente pacato e gentile, tra la sorpresa generale di coloro che la mattina, notando il suo aspetto così cupo, si erano attesi il peggio. Quel giorno non svillaneggiò nessuno e nessuno lo udì profferire una sola bestemmia. Se ne andò molto prima del consueto, ma prima di lasciare l'ufficio convocò ancora una volta il contabile e, dopo avergli dato istruzioni di vario genere, gli chiese, non senza palese riluttanza, se il capitano Dobbin si trovava a Londra. Chopper rispose che riteneva di sì. E in verità entrambi ne erano perfettamente convinti. Osborne prese una lettera indirizzata al capitano e la consegno a Chopper, pregandolo di consegnarla senza indugio a Dobbin, ed in sua mano. «Ed ora, Chopper,» concluse con uno strano sguardo, prendendo il cappello, «posso considerarmi tranquillo.» Poi, nell'istante in cui la pendola batteva le due, Mr. Frederick Bullock venne a prendere Mr. Osborne, e i due uscirono insieme. Non c'è dubbio che si fossero dati appuntamento. Il comandante del ...° Reggimento nel quale Osborne e Dobbin comandavano una compagnia era un vecchio generale che aveva fatto la campagna con Wolfe a Quebec ed era ormai troppo vecchio e indebolito per sostenere le responsabilità del comando. Ma conservava il comando nominale del Reggimento al quale continuava ad interessarsi, ed era sempre lieto di accogliere qualche giovane ufficiale alla sua tavola: usanza che oggi non credo sia molto diffusa fra i suoi colleghi. Tra i favoriti del generale c'era il capitano Dobbin, il quale aveva un'ottima conoscenza della letteratura militare, sapeva parlare di Federico il Grande e della Regina Imperatrice e delle loro guerre con cognizione di causa quasi eguale a quella del generale in questione, il quale, del tutto incurante dei trionfi bellici del momento, era rimasto sentimentalmente attaccato al ricordo dei grandi strateghi di cinquant'anni prima. Ora avvenne che il generale facesse pregare Dobbin di recarsi a pranzo da lui il giorno stesso in cui Mr. Osborne aveva mutato testamento e Mr. Chopper aveva indossato la sua miglior camicia pieghettata, e comunicò al suo ufficiale prediletto con due giorni di anticipo rispetto ad ogni altro le notizie che tutti aspettavano: bisognava imbarcarsi per il Belgio. Nel giro di un paio di giorni il Quartier Generale avrebbe dato l'ordine al reggimento di tenersi pronto, e dal momento che i mezzi di trasporto non scarseggiavano, la partenza avrebbe avuto luogo entro la settimana. Nel periodo in cui il reggimento era stato di stanza a Chatham si erano aggiunte nuove reclute, e il generale confidava che un reggimento il quale aveva contribuito a sconfiggere Montcalm nel Canada e a scacciare Washington da Long Island, una volta di più si sarebbe mostrato all'altezza della sua fama e delle sue tradizioni battendosi sui campi dei Paesi Bassi, già altre volte percorsi. «E così, mio caro,» disse il generale prendendo una presa di tabacco con la sua bianca mano tremante e indicando il punto della sua robe de chambre sotto il quale pulsava ancora il suo debole cuore, «se avete per caso un affaire là, qualche Fillide da consolare, o dovete dire addio a mamma e papà, oppure stilare un testamento, vi invito a farlo senza por tempo in mezzo.» E dopo aver pronunciato queste parole l'anziano militare porse al giovane amico un dito da stringere, e al tempo accennò a un lievissimo inchino flettendo appena il capo incipriato e adorno del codino incipriato. Poi, non appena la porta si fu richiusa alle spalle di Dobbin, sedette per redigere un poulet (era fierissimo del suo francese) a Mademoiselle Aménaide dell'e His Majesty's Theatre». La notizia lasciò Dobbin costernato: subito gli venne fatto di pensare ai suoi amici a Brighton, e non senza vergogna si rese conto che Amelia era sempre in cima ai suoi pensieri (che venisse, cioè, prima di sua madre, delle sue sorelle e di chiunque altro; che venisse prima di quello dei suoi stessi doveri quando si svegliava, quando si addormentava, e in qualsiasi momento della giornata). Fu così che, rientrato in albergo, inviò un biglietto a Mr. Osborne comunicandogli le notizie che aveva testé apprese, nella speranza che lo persuadessero a riconciliarsi con George. Il biglietto, consegnato alla stessa persona che il giorno prima aveva portato il biglietto d'invito a Chopper, allarmò non poco il bravo contabile. Infatti era contenuto in una busta che recava, quale indirizzo, il suo nome, e mentre l'apriva tremava al pensiero che il pranzo sul quale aveva fatto tanto assegnamento avesse subito un rinvio. Di conseguenza fu oltremodo sollevato nel constatare che la busta in questione conteneva solo due righe per ricordargli il suddetto impegno («Vi aspetto senz'altro alle cinque e mezzo,» scriveva Dobbin). Chopper era tutto devozione nei confronti della famiglia del suo principale, ma, que voulez-vous?, una cena di lusso gli stava più a cuore degli affari di qualsivoglia mortale. Com'era logico, Dobbin comunicò la notizia avuta dal generale a tutti gli ufficiali del reggimento che gli capitò d'incontrare nel corso delle sue peregrinazioni. Ne informò anche l'alfiere Stubble incontrato dall'agente, il quale, preso da un impeto di foga guerresca, si precipitò a comperare una sciabola nuova nel negozio di forniture militari. Il nostro giovanotto, sebbene avesse solo diciassette anni, fosse alto in tutto e per tutto diciassette pollici e avesse il fisico minato dalle soverchie e precoci libagioni di brandy, era nondimeno coraggioso e aveva un cuor di leone. Si mise dunque in posa e lì nella bottega, provò ripetutamente l'arma curvando e ricurvando la lama con la quale si riprometteva di far strage dei francesi. Due o tre volte, gridando «Ah! Ah!» e battendo a terra il piccolo piede nervoso, spinse la punta della lama verso il petto del capitano Dobbin, che ridendo parava i colpi servendosi del suo bastone da passeggio. Com'è facile dedurre dalla sua esigua corporatura, Mr. Stubble apparteneva alla fanteria leggera. Al contrario l'alfiere Sponney, un giovanottone grande e grosso appartenente alla compagnia di granatieri comandata dal capitano Dobbin, si provò un altissimo colbacco di pelo d'orso, sotto il quale il suo viso giovanile appariva molto più truce di quanto fosse in realtà. Poi i due giovincelli se ne andarono da Slaughter, ordinarono un pranzo pantagruelico e si accinsero a scrivere lettere ai rispettivi quanto amati genitori: lettere traboccanti d'amore, di calorosa esaltazione, di attestazioni di coraggio e di strafalcioni d'ortografia. Molti cuori battevano d'inquietudine in quel momento, in Inghilterra; e dietro la facciata di innumerevoli case molte mamme piangevano e pregavano. Quando, nella coffee-room di Slaughter, Dobbin scorse il giovane Stubble impegnato a scrivere la sua lettera (mentre le lacrime gli scendevano a ritmo alterno lungo il naso, al pensiero che forse non avrebbe rivisto mai più la sua cara mamma) rinunciò a vergare la lettera che stava scrivendo a George Osborne: s'interruppe e un pensiero gli attraversò la mente: «A che pro' scrivergli? Concediamogli un'altra notte di felicità. Domattina, di buon'ora, andrò a salutare i miei genitori, e nel pomeriggio partirò per Brighton.» Così si alzò, posò la sua larga mano sulla spalla di Stubble, confortò il giovane eroe, gli disse che era sempre stato generoso e coraggioso e che sarebbe diventato un ottimo soldato (a patto, beninteso, che avesse smesso di tracannare brandy). Al che gli occhi di Stubble brillarono di soddisfazione, poiché Dobbin nel reggimento era sempre stato considerato il miglior ufficiale e l'uomo più capace. «Grazie, Dobbin,» disse tergendosi le lacrime col dorso della mano. «Stavo appunto... stavo appunto scrivendo alla mamma che sarò un bravo soldato; lei... ah, capitano, la mamma è sempre stata così maledettamente buona con me!» Dopo di che le cateratte si aprirono di nuovo, ed io non giurerei che al buon capitano non si velassero gli occhi di commozione. I due sottotenenti, il capitano Dobbin e Mr. Chopper cenarono insieme nello stesso séparé. Chopper consegnò a Dobbin la lettera di Osborne nella quale quest'ultimo porgeva i suoi saluti al capitano, e nel contempo lo pregava di voler consegnare l'unito biglietto al capitano George Osborne. Chopper, in argomento, non sapeva altro. Descrisse senza esitare l'aspetto del principale, riferì dell'abboccamento con l'avvocato e manifestò il suo stupore per il fatto che quel giorno il vecchio non avesse insultato nessuno dei suoi dipendenti. Le ripetute libagioni lo indussero ad abbandonarsi vieppiù a una ridda di congetture e riflessioni, che però ad ogni bicchiere si facevano sempre più vaghe e confuse, e alla ne apparvero del tutto prive di senso. Era ormai tarda ora quando il capitano Dobbin issò il suo ospite dentro una carrozza di piazza, mentre Chopper continuava a professare farfugliando il suo proposito di serbare eterni sentimenti di amicizia nei confronti del nostro amico. Come abbiamo già visto, nel prender congedo da Miss Jane Osborne il capitano Dobbin le aveva chiesto il permesso di rinnovare la sua visita, e il giorno successivo, la matura signorina lo attese per alcune ore. Se si fosse recato da lei e le avesse manifestato quei propositi ai quali ella era prontissima ad accondiscendere, si sarebbe del pari dichiarata amica di suo fratello, e forse avrebbe contribuito a rendere attuabile una riconciliazione formale tra George e il suo adirato genitore. Ma l'attesa di Jane fu vana: William Dobbin non si fece vedere. Aveva ben altro a cui pensare, in simili frangenti: doveva recarsi in visita dai suoi genitori, e nelle prime ore del pomeriggio salire sul «Lightning» per andare a Brighton in visita dai suoi amici. Durante la giornata Jane udì il padre ordinare che per nessuna ragione si lasciasse entrare in casa quel farabutto, quell'inframmettente del capitano Dobbin che amava pescar nel torbido; e così svanirono tutte le speranze ch'ella aveva forse coltivato nel segreto del suo cuore. Venne, invece, Mr. Frederick Bullock, e se si mostrò particolarmente tenero con Maria, fu parimenti cortesissimo e ossequioso col vecchio signore mesto e sconfortato. Infatti, sebbene avesse dichiarato che «ormai poteva star tranquillo», non si può dire che le misure adottate per garantirsi questa pace dello spirito avessero prodotto l'effetto auspicato: era evidente che le vicende degli ultimi due giorni lo avevano stroncato. XXV • NEL QUALE TUTTI I PRINCIPALI PERSONAGGI RITENGONO OPPORTUNO LASCIARE BRIGHTON Quando si trovò alla presenza delle signore allo Ship Inn, Dobbin assunse un'aria disinvolta e spensierata dalla quale è lecito dedurre come il giovane ufficiale diventasse ogni giorno di più un perfetto esemplare d'ipocrita. Innanzitutto si sforzava di nascondere i sentimenti che provava per Amelia, ormai diventata Mrs. Osborne, e in secondo luogo di tener celate le notizie di cui era latore, motivo di apprensione per sé e causa, senza dubbio, di dolore per lei. «Sai, George,» aveva detto, «sono convinto che l'imperatore dei francesi ci piomberà addosso con tutta la fanteria e la cavalleria nel giro di tre settimane, o fors'anche meno. Darà del filo da torcere al duca, vedrai. Al confronto la guerra di Spagna ci sembrerà uno zuccherino. Ma non è il caso che tu ne parli a tua moglie. Può anche darsi che non si renda necessario scendere in campo aperto e che la spedizione in Belgio si risolva in una pura e semplice occupazione militare. Sono in tanti a condividere il mio parere, senza contare che Bruxelles è una città piena di gente chic e di signore alla moda.» Pertanto convennero sull'opportunità di presentare ad Amelia sotto questo profilo incoraggiante la faccenda della spedizione in Belgio. Dopo di che quell'impostore di Dobbin salutò Mrs. Osborne in tono quasi gioviale e cercò di congratularsi con lei con la maggior naturalezza possibile circa la sua nuova condizione di sposa. Ma quei complimenti, occorre convenire, erano quanto mai goffi e impacciati. Poi Dobbin cambiò argomento e prese a diffondersi su Brighton, sulle preclare virtù del suo clima marino, sui divertimenti che offriva, sulle attrattive del tragitto, sui meriti del «Lightning», vuoi come diligenza, vuoi come cavalli. Il tutto in un certo modo che riusciva quasi incomprensibile ad Amelia, e la lasciava interdetta, mentre era affatto trasparente per Rebecca, che si divertiva a studiare il capitano, come del resto era solita fare con tutte le persone che l'avvicinavano. Amelia, ammettiamolo francamente, non provava particolare simpatia per quell'amico di suo marito, il capitano Dobbin, che aveva una pronuncia difettosa, ed era piuttosto brutto con quella figura goffa e dinoccolata. Nondimeno apprezzava la devozione che mostrava nei confronti di George, anche se ciò, dopo tutto, non era motivo di molto merito, ed era piuttosto George a dar prova di gentilezza e longanimità nell'accordare tanta amicizia a quel suo commilitone. Più di una volta George si era divertito ad imitare la comica pronuncia e gli atteggiamenti sgraziati di Dobbin, pur elogiandone sempre le qualità ed esprimendosi nei suoi confronti con la massima stima. Nel breve periodo della sua buona stella, quando ancora non lo conosceva a fondo, Amelia aveva sempre snobbato il povero William, il quale d'altronde si rendeva perfettamente conto della scarsissima considerazione ch'ella nutriva per lui, e vi si era rassegnato in umile silenzio. Sarebbe venuto il momento in cui Amelia avrebbe mutato parere su di lui, ma quel momento era ancora lontano. Quanto a Rebecca, non erano ancora trascorse due ore da quando il capitano Dobbin si trovava in loro compagnia, che già ne aveva perfettamente messo a fuoco il segreto. Dobbin non le piacque, e nel suo intimo provò nei suoi confronti una specie di timore. D'altra parte, anch'egli non provava simpatia per Rebecca. In un uomo così schietto e sincero, tutte quelle moine e quei vezzi femminili non soltanto non lo attraevano, ma suscitavano in lui un istintivo moto di repulsione. E poiché Becky non era abbastanza superiore alle sue consimili per ignorare la gelosia, egli la infastidì anche per quel suo sentimento di adorazione per Amelia. Ciò non le impedì di manifestare, a suo riguardo, modi oltremodo affabili e rispettosi. Si trattava, perbacco, di un amico degli Osborne! Un amico dei suoi cari benefattori! Giurava che avrebbe sempre provato per lui il più vivo e sincero affetto. Ricordava così bene quella serata passata insieme a Vauxhall!, disse con una punta d'impertinenza ad Amelia, e quando le due signore si ritirarono per cambiarsi prima di cena, gli rifece il verso con graziosa malizia. Da parte sua Rawdon Crawley non si curò quasi di lui, giudicandolo uno scioccone innocuo e un piccolo borghese di discutibile educazione, mentre Jos Sedley lo trattò con sussiegosa condiscendenza. Quando George e Dobbin si ritrovarono a tu per tu nella camera di quest'ultimo, Dobbin levò dallo scrittoio la lettera che doveva consegnargli per incarico di Mr. Osborne. «Non è la scrittura di mio padre,» osservò George inquieto Aveva ragione: si trattava infatti di una lettera dell'avvocato di Mr. Osborne. Diceva: Bedford Row, 7 maggio 1815 Signore, In conformità all'incarico ricevuto da Mr. Osborne, vi comunico ch'egli si attiene alla decisione precedentemente manifestatavi, e che, in conseguenza del matrimonio che voi avete ritenuto di contrarre, egli cessa d'ora in avanti di considerarvi un membro della sua famiglia. Questa decisione è da considerarsi definitiva e irrevocabile. Sebbene il denaro speso a vostro profitto durante la minore età, e le tratte che in questi anni avete emesso a suo nome senza alcuna economia superino di gran lunga la somma di vostra spettanza (vale a dire un terzo della dote di vostra madre, la presunta Mrs. Osborne, che vi toccò al momento della sua morte come pure a Miss Jane Osborne e a Miss Maria Frances Osborne) ho avuto l'ordine da Mr. Osborne di comunicarvi com'egli rinunci a rivalersi sui beni di vostra proprietà, e che la somma di 2.000 sterline, in titoli al 4 per cento al valore odierno della valuta (la terza parte dell'ammontare di 6000 sterline), verrà pagata a voi, o a chi per voi, dietro ricevuta, dal Vostro obbedientissimo servitore S. Higgs P.S. - Mr. Osborne desidera inoltre ch'io vi dica, una volta per tutte, ch'egli si rifiuta di ricevere da voi qualsiasi lettera, messaggio o comunicazione di sorta su questo od altro argomento. «Non potevi sistemar meglio le cose!» esclamò George scrutando Dobbin con occhi furibondi. «Leggi, dunque! Leggi!», E gli gettò la lettera scritta per conto del padre. «Sono ridotto un pezzente, maledizione! E tutto questo per colpa del mio dannato sentimentalismo! Ma non potevamo aspettare? Poteva darsi che in guerra una pallottola mi facesse fuori. Anzi, può ancora capitare. Ma che vantaggio potrà cavarne, Emmy, dall'esser la vedova di un mendicante? E tutto per colpa tua. Ti sei dato da fare fino a quando non mi hai visto sposato e ridotto sul lastrico. Cosa vuoi che me ne faccia di duemila sterline? Non mi basteranno nemmeno per due anni! In pochi giorni, da quando sono qui, ne ho già perdute centoquaranta giocando a carte e a biliardo con Rawdon Crawley! Sei un vero campione a difendere gli interessi altrui, non c'è che dire.» «Sì, la situazione è indubbiamente grave,» rispose Dobbin dopo aver letto la lettera, «e in parte sarà anche colpa mia. D'altro canto, chissà quanta gente sarebbe entusiasta di fare il cambio con te!» aggiunse con un amaro sorriso. «Credi che al reggimento siano molti i capitani che dispongono di un capitale di duemila sterline? È molto semplice: devi rassegnarti a vivere del tuo stipendio fino a quando tuo padre non si piegherà, e se morrai in guerra tua moglie avrà una rendita di cento sterline annue.» «E tu credi che un uomo con le mie abitudini possa vivere del suo stipendio e con cento sterline all'anno?» ruggì George al colmo dell'ira. «Sei un imbecille, Dobbin, certi discorsi potresti risparmiarteli. Come pensi che possa mantenere la mia posizione in società con delle disponibilità finanziarie ridotte all'osso? Non rinuncio alle mie abitudini, e tanto meno alle mie comodità. Mi sono indispensabili. Credi forse che sia cresciuto a base di porridge, come Mac Wirther, o a patate come il vecchio O'Dowd? Ti sembra concepibile che mia moglie si metta a fare la lavandaia per la truppa, o che debba viaggiare in un carro della sussistenza per star dietro al reggimento?» «Suvvia, le troveremo un veicolo più confacente,» rispose Dobbin, conservando la sua calma. «Tu però tieni presente che per il momento sei un principe spodestato, caro George. Cerca di star tranquillo in attesa che si sedi la bufera. È questione di tempo. Presto tuo padre cambierà atteggiamento: basterà che il tuo nome venga menzionato sulla "Gazette"... vedrai, ne sono sicuro.» «Menzionato nella "Gazette"! E in quale pagina, di grazia? Fra i morti e i feriti, e con ogni probabilità nelle prime righe!» «Ma va'! Aspetta a lamentarti quando sarai ferito,» rispose Dobbin. «Del resto,» aggiunse con un sorriso, «qualunque cosa accada, sai benissimo che ho qualche soldo da parte. Non sono tipo da sposarmi, io, e nel testamento mi ricorderò del mio figlioccio, io.» Su queste battute la disputa si concluse, come già in tante altre occasioni si erano felicemente risolti innumerevoli litigi fra i due amici. George dichiarò che era impossibile conservare a lungo rancore a Dobbin e pertanto, nella sua generosità, lo perdonò dopo averlo insultato senza motivo alcuno. «Senti, Becky!» gridò Rawdon Crawley dal suo spogliatoio alla moglie, che in camera da letto si stava preparando per la cena. «Che cosa?» domandò la voce squillante di Rebecca, che da sopra la spalla si stava ammirando allo specchio. Aveva indossato un fresco, delizioso abito bianco con una piccola collana al collo e una lascia azzurra alla vita: la si sarebbe detta l'incarnazione dell'innocenza femminile e della felicità. «Dimmi, che cosa farà Mrs. O. quando O. sarà partito per il reggimento?» continuò Crawley entrando nella camera in atto di spazzolarsi i capelli con due grosse spazzole e contemplando ammirato la graziosa mogliettina da sotto il folto ciuffo delle sue chiome scomposte. «Probabilmente piangerà fino a consumarsi gli occhi. Ha già pianto con me almeno una dozzina di volte alla sola idea del distacco.» «A te invece non importa un bel niente, ci giurerei,» rispose Rawdon, contrariato dal cinismo della moglie. «Brigante! Sai benissimo che ho intenzione di seguirti» ribatté Becky. «E poi la tua è una situazione diversa: tu vai come aiutante di campo del generale Tufto e noi non siamo di fanteria.» Al che Mrs. Crawley sospinse la testa all'indietro con una mossa che suo marito trovava altamente affascinante. Infatti Rawdon si chinò per darle un bacio. «Rawdon, tesoro, non credi che faresti bene a chiedere quei soldi a Cupido prima che scompaia dalla circolazione?» continuò Becky, appuntandosi un fiocco maliardamente civettuolo. Era stata lei ad appioppare quel soprannome a George. Più di una volta aveva elogiato la sua avvenenza, e quando la sera si recava nella loro stanza per fare una partita a carte prima di andare a coricarsi, gli lanciava sempre delle occhiate languide. Spesso ripeteva che Osborne era un coacervo di vizi, e aveva minacciato di rivelare a Emmy le sue deplorevoli abitudini di scialacquatore. Conoscendo l'effetto di quel gesto (giacché lo aveva già sperimentato con Crawley) spesso gli portava il sigaro e glielo accendeva. Da parte sua George la giudicava gaia, spiritosa, vivace, distinguée, incantevole. Inutile dire, poi, che nel corso delle brevi passeggiate in carrozza, o durante le cenette intime, Becky faceva scomparire Amelia, che se ne stava timida e muta mentre Mrs. Crawley e George conversavano spigliatamente, e Rawdon beveva in silenzio con Jos (da quando, beninteso, quest'ultimo si era unito alla compagnia). L'amica cominciava a suscitare qualche ansietà nel cuore di Emmy. La vivacità, le doti di spirito di Rebecca stavano all'origine di quella dolorosa inquietudine. Erano sposati soltanto da una settimana, e George dava già prova di apprezzare la compagnia di altre donne! Mio Dio, cosa aveva in serbo il futuro, per lei? «Come potrò essergli buona compagna,» pensava, «io che sono tanto modesta e insignificante, dal momento che lui è così intelligente e spiritoso? Ha dato veramente prova di animo nobile, sposandomi, abbandonando ogni cosa per ridursi a sposare una povera fanciulla insignificante come me! Avrei dovuto rifiutarlo, ma me n'è mancato il coraggio. Avrei dovuto restarmene a casa e aver cura del mio povero papà!» Fu in quel momento, appunto, che per la prima volta si rese conto di aver trascurato la sorte dei suoi genitori, e in verità il rimprovero che le muoveva la sua coscienza inquieta non era privo di un certo fondamento. «Ah,» pensò, arrossendo di vergogna, «sono stata davvero malvagia ed egoista! Egoista ad averli abbandonati in preda al loro dolore, egoista nell'aver indotto George a sposarmi. So di non essere degna di un uomo simile, sicuramente sarebbe stato più felice senza di me. E tuttavia ho tentato... ho tentato di rinunciare a lui...» È davvero penoso che, a meno di una settimana dalla celebrazione delle nozze, siffatti pensieri e confessioni percorrano la mente di una giovane sposa. Eppure le cose stavano proprio così; e la sera prima che Dobbin li raggiungesse, in una dolce notte di maggio rischiarata dal raggio lunare - così dolce, così calma che avevano spalancato le finestre del balcone dal quale George e Mrs. Crawley contemplavano la placida distesa del mare che spaziava scintillante davanti a loro, mentre Jos e Crawley erano impegnati in una partita di backgammon - Amelia, dimenticata da tutti, se ne stava raggomitolata in una grande poltrona, e contemplando le due coppie provava un sentimento di disperato rimorso: terribile compagno per un'anima così timida e schiva! Non era passata una settimana dal matrimonio, e già rimuginava questi tetri pensieri! L'avvenire non le offriva nulla d'incoraggiante, ma Emmy era troppo timida, se così è lecito esprimersi, per spinger lo sguardo tanto lontano, per imbarcarsi da sola in un mare tanto vasto, e del tutto inadatta a navigare senza un nocchiero che le facesse da valida guida! So perfettamente che Miss Smith non ha grande stima di lei; ma, vedete, cara signorina, quanti credete che siano dotati della vostra prodigiosa forza d'animo? «Dio mio, che splendida serata! Come brilla la luna!» esclamò George emettendo una boccata dal suo sigaro che s'innalzò veloce verso il cielo. «Com'è buono l'aroma dei sigari all'aperto!» osservò Becky. «Io lo adoro. Chi direbbe che la luna disti duecentotrentaseimilaottocentoquarantasette miglia?» E Rebecca levò lo sguardo verso l'astro lucente, sorridendo. «Sono brava, eh, a ricordarmelo? Poh, sciocchezze! Sono le cose che abbiamo imparato dalla Pinkerton. Com'è calmo il mare, e com'è tutto limpido! Secondo me si riesce a scorgere la costa francese!» E i luminosi occhi verdi lanciarono un'occhiata penetrante quasi potessero realmente vedere nella notte. «Sapete cosa mi piacerebbe fare una di queste mattine?» aggiunse poi. «Ho scoperto che so nuotare benissimo, e uno di questi giorni, quando Miss Briggs, la vecchia dama di compagnia di mia zia Crawley (ve la ricordate immagino... quella vecchia dal naso aquilino, con quelle ciocche di capelli che le pendono...?) quando, dicevo, la vecchia Briggs va a fare il bagno, vorrei tuffarmi sotto la sua cabina per tentare una riconciliazione acquatica. Non vi pare uno stratagemma geniale?» George, all'idea di quell'incontro tra i flutti, scoppiò in una risata fragorosa. «Ehi, cos'avete voialtri da ridere?» gridò Crawley scuotendo il bossolo dei dadi. Nel frattempo Amelia, cedendo a un'assurda reazione isterica, s'era ritirata a piangere nella solitudine della sua camera. In questo capitolo, sembra fatale che la nostra storia debba muoversi avanti e indietro come se fossimo indecisi sul modo di procedere. Abbiamo forse parlato di domani? Ebbene: presto avremo l'occasione di riparlare di ieri, onde la storia possa esser resa nota in ogni sua piega più riposta. Come in occasione dei ricevimenti di Corte le carrozze degli ambasciatori e degli altri dignitari escono pomposamente dal portone di una casa privata, mentre le modestissime mogli dei vari capitani Jones sono costrette ad attendere una vettura a noleggio; o come nell'anticamera del ministro del Tesoro un parlamentare irlandese o qualsivoglia illustre personaggio entra senza tanti complimenti e si dirige a passo deciso verso il sottosegretario, scavalcando una mezza dozzina di umili postulanti che attendono pazientemente il loro turno; così nello sviluppo di un racconto il romanziere deve piegarsi a una certa parzialità. Certo è necessario raccontare anche i piccoli avvenimenti, ma è giocoforza posporli quando gli eventi principali s impongono ed esigono precedenza. Una circostanza come quella che aveva spronato Dobbin a recarsi a Brighton, vale a dire la partenza dell'esercito per il Belgio, e il raduno delle truppe alleate al comando di Sua Grazia il duca di Wellington una circostanza di tale portata, ripeto, non poteva non aver la precedenza sulla cronaca dei minuti episodi di cui la nostra storia è tessuta. Occorre dunque scusare un certo disordine espositivo, peraltro comprensibile. Ora, prendendo come punto di riferimento il capitolo ventiduesimo, è trascorso il tempo utile perché le nostre due coppie si trovino nelle rispettive camere da letto impegnate a vestirsi per la cena, che la sera dell'arrivo di Dobbin non si svolse diversamente dal solito. George provava troppa compassione, o era troppo impegnato ad annodare le vistose gale della sua cravatta, per riferire senza indugio ad Amelia le nuove che il commilitone gli aveva portate fresche fresche da Londra. Quando si decise, entrò nella stanza reggendo la lettera dell'avvocato in mano. Il suo volto era atteggiato a un'espressione così grave e solenne, che la moglie, sempre incline a preconizzar disgrazie, pensò subito al peggio. Pertanto gli corse incontro e supplicò il suo adorato George di dirle tutto: che aveva ricevuto l'ordine di partire per il Continente, che ci sarebbe stata una battaglia la settimana successiva... sì, sì, sentiva che ci sarebbe stata una battaglia. L'adorato George scosse melanconicamente il capo eludendo la faccenda della partenza. «No, Emmy,» disse, «si tratta di ben altro. Non di me mi preoccupo, ma di te. Mi sono giunte cattive notizie da mio padre: ha rotto ogni rapporto con me. Ci scaccia lasciandoci in miseria. Io potrò anche adattarmici, ma tu, cara, come potrai? Leggi, leggi.» E le porse la lettera. Amelia ascoltò quei nobili sentimenti espressi dalla viva voce del suo eroe con sguardo che diceva la sua tenera apprensione. Poi lesse la lettera che George le aveva porto, assumendo quei suoi melodrammatici accenti di martire. Nondimeno, quando ebbe letto quella missiva il volto le si schiarì: l'idea di dividere povertà e privazioni con l'oggetto del proprio amore è, come abbiamo già visto, tutt'altro che sgradita a una donna innamorata. Anzi, essa parve così accettabile ad Amelia, da riuscirle addirittura accetta. Poi, come di consueto, si vergognò per aver provato quel suo moto gioioso in un momento così inopportuno e celò quella sua intima felicità dicendo in tono sommesso: «Oh, George, il tuo povero cuore deve sanguinare all'idea di essere separato dal tuo caro papà!» «Certo!» rispose George, col viso stravolto. «Tuttavia sono certa che la sua collera non può durare a lungo. Nessuno può restare in collera con te. Vedrai che si riconcilierà, mio caro, mio amatissimo marito! Ah, se non lo facesse non riuscirei mai a perdonarmelo!» «Non soffro tanto per la mia disgrazia quanto per la tua, cara Emmy,» disse George. «Poco m'importa della povertà. Del resto, non voglio peccare di presunzione, ma credo di avere abbastanza talento per farmi strada da solo.» «Proprio così,» confermò la moglie, nella sua convinzione che in quattro e quattr'otto la guerra sarebbe finita e il marito sarebbe stato automaticamente promosso generale. «Farò la mia strada come chiunque altro,» continuò George, «ma tu, mia cara, come potrai essere privata degli agi e del ruolo in società che avevi pieno diritto di aspettarti? La mia piccola Emmy costretta a vivere in caserma! A seguire il reggimento sopportando privazioni e incomodi d'ogni genere! No, al solo pensiero di una simile situazione mi sento terribilmente infelice.» Emmy, resasi conto che questa era l'unica preoccupazione del marito, lo prese per mano, e col volto radioso e sorridente prese a cantargli una canzone allora in gran voga: Wapping Old Stairs, nella quale l'eroina rimproverava il suo Tom per averla trascurata, ma al tempo stesso prometteva di «mettergli le pezze ai calzoni e di preparargli anche il grog», sempre a patto che si mantenesse «gentile e fedele, e non l'abbandonasse». «E poi,» aggiunse Emmy, mentre il suo viso assumeva l'aspetto grazioso e lieto che si addice a una giovinetta, «non ti sembra che duemila sterline all'anno siano una bella somma?» George rise di quella naïveté e scesero per la cena. Al braccio del marito Amelia canterellava a mezza voce Wapping Old Stairs, più felice e serena di quanto non lo fosse stata nei giorni precedenti. Così la cena, anziché esser dominata dal malumore generale, fu quanto mai vivace e allegra. L'eccitazione causata dall'idea della battaglia controbilanciava nella mente di George l'amarezza causata dalla lettera dell'avvocato di suo padre, che gli annunciava di esser stato diseredato. Divertì il gruppo degli amici diffondendosi nella descrizione della vita militare in Belgio, un paese dove fervevano a getto continuo fêtes, mondanità e spassi d'ogni genere. Poi, seguendo un suo piano molto preciso, l'astuto capitano prese a descrivere la moglie del maggiore O'Dowd che preparava i suoi bagagli e quelli del marito, col risultato che le spalline di lui andavano a finire, Dio sa come, in una scatola da tè, mentre il famoso turbante giallo di lei, con l'uccello del paradiso avvolto in un pezzo di carta scura, veniva invece cacciato dentro la cappelliera di latta destinata a ospitare il cappello a tricorno del maggiore. Chissà che effetto farà alla Corte del re di Francia a Gand, si domandava il capitano, o ai grandi balli militari a Bruxelles. «Come, come,» esclamò Amelia scuotendosi all'improvviso e sussultando. «Gand, hai detto? Bruxelles? Ma allora è giunto l'ordine di partire! Vero, George, che il reggimento deve partire?» E un'espressione terrorizzata si dipinse sul dolce volto della fanciulla, che fino a qualche istante prima appariva ilare e sorridente, mentre con moto istintivo Amelia si aggrappava al braccio di George. «Non c'è motivo di aver paura, mia cara,» disse George con un sorriso, «la traversata dura solo dodici ore. Non avrai il mal di mare, vedrai. Verrai anche tu, Emmy.» «Per conto mio ci vado senz'altro,» interloquì Rebecca. «Faccio parte dello Stato Maggiore, dal momento che il generale Tufto mi fa la corte. Non è vero, Rawdon?» Rawdon, al solito, scoppiò nella sua risata sonora, mentre William Dobbin arrossiva violentemente. «No, no, non dovete andare,» disse. E stava per aggiungere: «E pericoloso...» Ma si trattenne, dal momento che nel corso di tutto il pasto aveva sostenuto ostinatamente che non era il caso di temere alcun pericolo, tacque confuso. «Io debbo andare, voglio andare,» ripeté Amelia in tono risoluto. George approvò la sua decisione, le diede un colpetto sotto il mento, e rivolgendosi agli astanti chiese se avessero mai conosciuto una mogliettina diabolica come la sua, confermando al tempo stesso che Emmy lo avrebbe accompagnato. «Chiederemo a Mrs. O'Dowd di farti compagnia» le disse. Ma di chi poteva aver bisogno fino a quando fosse rimasta accanto a suo marito? Questa considerazione valse a dissolvere l'amarezza della separazione. Era pur vero che dinanzi a loro c'era la prospettiva di una guerra inevitabile, ma forse sarebbero trascorsi altri mesi prima che questa si traducesse in una realtà tangibile. Ad ogni modo, per il momento regnava la tregua, e per la piccola Amelia significava la felicità, come se avesse potuto contare sulla pace più assoluta. Anche Dobbin se ne rallegrò. Per lui, ormai, vederla era il maggior dono, la massima felicità che la vita potesse accordargli, ed egli nel segreto del suo cuore pensava a come avrebbe potuto proteggerla e vegliare su di lei. «Se fosse stata mia ritoglie non le avrei permesso di seguirmi in Belgio,» pensava. Ma spettava a George decidere, e William non volle interferire. Alla fine Rebecca cinse con un braccio la vita dell'amica e allontanandola da quel tavolo attorno al quale non si era fatto che discutere di argomenti così importanti, e lasciò gli uomini a chiacchierare e a bere allegri e soddisfatti, in preda a uno stato di esilarata esaltazione. Nel corso della serata Rawdon ricevette un bigliettino dalla moglie, e sebbene egli si affrettasse ad appallottolarlo per poi bruciarlo sulla fiammella della candela, abbiamo avuto la fortuna di poterlo leggere al di sopra della spalla di Rebecca: «Grandi notizie,» scriveva, «Mrs. Bute Crawley se n'è andata. Fatti dare il denaro da Cupido stasera stessa, perché molto probabilmente partirà domani. Attento a non dimenticartene. R.» Di conseguenza, quando la nostra piccola comitiva entrò nel salottino dove le signore erano radunate per il caffè, Rawdon toccò Osborne per il gomito, e molto compitamente gli disse: «Scusami, George, ragazzo mio, ma se la cosa non t'incomoda troppo vorrei pregarti di provvedere a quella sciocchezzuola...» La «sciocchezzuola» incomodava moltissimo George; tuttavia gli diede una parte rilevante della somma in banconote levandole dal portafoglio, oltre a un assegno, pari alla restante somma dovuta, da riscuotere presso la sua banca entro una settimana. Sistemata questa pendenza, George, Jos e Dobbin tennero consiglio di guerra fumando i loro sigari, e stabilirono di partire l'indomani stesso per Londra nella carrozza aperta di Jos. Suppongo che quest'ultimo avrebbe gradito rimanersene fino a quando Rawdon Crawley non avesse lasciato a sua volta Brighton; ma George e Dobbin s'imposero, ed egli accondiscese ad accompagnare il giorno dopo a Londra tutti i suoi amici. Anzi, ordinò una pariglia di quattro cavalli, in ossequio al suo rango, e trainati da questi focosi destrieri partirono il giorno seguente dopo colazione. Amelia si era alzata di buon'ora preparando le valigie con la massima solerzia, mentre George indugiava a poltrire a letto, pur deplorando ch'ella non avesse una cameriera ad aiutarla. D'altro canto Amelia era ben contenta di provvedere di persona a quelle incombenze, tanto più che cominciava a provare, nei confronti di Rebecca, un vago senso d'inquietudine. Al momento di congedarsi si salutarono con un bacio; ma sappiamo bene che ciò non escludeva la gelosia, e insieme con le altre peculiarità del suo sesso Emmy possedeva anche questa. Oltre a questi personaggi che andavano e venivano, non dobbiamo dimenticare che in quello stesso momento Brighton ospitava altri vecchi amici, e per l'esattezza Miss Crawley e il codazzo di persone che si occupavano di lei. Ora, quantunque Rebecca e suo marito abitassero a due passi dall'alloggio della vecchia inferma, la casa di quest'ultima era loro rigorosamente preclusa, né più né meno come quella di Londra. Fino a quando rimase accanto alla cognata, Mrs. Bute Crawley pose ogni cura affinché un incontro col nipote non turbasse la malata Matilda. Ogni qual volta l'anziana signorina faceva una passeggiata in calesse le sedeva al fianco. Se invece Miss Crawley preferiva andare a respirare una boccata d'aria seduta sulla poltrona a rotelle, Mrs. Bute Crawley camminava di fianco al veicolo, mentre sull'altro lato procedeva Miss Briggs. E se accadeva che incontrassero Rawdon e sua moglie, sebbene il nipote si togliesse ogni volta il cappello col massimo ossequio, il gruppo di Miss Crawley e delle sue giannizzere procedeva oltre ostentando la più raggelante indifferenza cosicché Rawdon aveva quasi perso ogni speranza. «Tanto varrebbe tornare a Londra. A che scopo trattenerci qui?» ripeteva spesso il capitano con aria afflitta. «Un comodo albergo a Brighton è senz'altro preferibile a una prigione per debiti in Chancery Lane,» rispondeva sua moglie, di temperamento più gaio e ottimista. Pensa a quei due aiutanti di campo di Mr. Moses, l'ufficiale giudiziario, che sono stati a montar la guardia davanti a casa nostra per una settimana. I nostri amici qui sono veramente stupidi, ma Mr. Jos e il capitano Cupido sono certamente più piacevoli degli uomini di Moses, Rawdon, tesoro mio.» «Sono davvero stupefatto che non mi abbiano tallonato sin qui con le loro ingiunzioni di pagamento,» disse Rawdon, sempre abbattuto. «Quando faranno la loro comparsa troveremo uno stratagemma per evitarli,» ribatté l'indomabile Becky, la quale, per giunta, fece notare al marito quale concreto vantaggio fosse stato, per loro, l'incontro con Jos e con George; incontro che aveva fruttato un provvidenziale rifornimento in denaro liquido. «Basterà a malapena a pagare il conto dell'albergo,» borbottò il capitano delle Guardie. «E perché dovremmo pagarlo?» disse la moglie, alla quale non veniva mai meno la risposta a tempo debito. Grazie al cameriere di Rawdon, il quale aveva mantenuto i contatti con la servitù di Miss Crawley e aveva l'ordine di offrire da bere al cocchiere ogni qual volta lo incontrava, i giovani coniugi erano al corrente di tutti i movimenti della vecchia signorina, dimodoché potevano considerarsi quasi perfettamente informati sulla situazione. Si aggiunga che Miss Briggs, per quanto fosse stata indotta ad assumere un atteggiamento ostile, nel suo intimo non nutriva alcuna inimicizia nei confronti di Rawdon e di Rebecca. Era, per natura, d'animo gentile e incline all'indulgenza. Venuta meno la ragione della sua gelosia per Rebecca, non aveva alcun motivo di trovarla antipatica, tanto più che ne ricordava con piacere le espressioni cortesi e il costante buonumore. Si aggiunga che, per esser sinceri, sia lei che Mrs. Firkin, la cameriera personale, soffrivano - al pari di tutta la servitù di Miss Crawley - sotto l'imperante dispotismo di Mrs. Bute Crawley. Come spesso avviene, quella zelante e autoritaria signora aveva passato il segno, approfittando senza ritegno della posizione di vantaggio raggiunta. Le erano bastate poche settimane per ridurre la povera vecchia all'impotenza, onde Miss Crawley obbediva al suo volere senza reagire, e non aveva nemmeno il coraggio di lamentarsi del proprio stato con la Briggs e la Firkin. Mrs. Bute Crawley, per esempio, misurava con rigorosa oculatezza i bicchieri di vino che Miss Crawley poteva bere giornalmente, con grande disappunto della Firkin e del maggiordomo, che in tal modo si vedevano privati della possibilità di approfittare della bottiglia dello sherry. E del pari era lei a spartire in porzioni il pollo, i dolci, la marmellata, e a decidere in quale ordine andassero serviti, in quale quantità andassero consumati. Mattina, mezzogiorno e sera recava di persona alla paziente le orrende pozioni prescritte dal medico, e la povera vittima trangugiava tutto con tale remissività che la Firkin diceva: «La mia povera signorina prende la medicina come un agnellino.» Mrs. Bute Crawley decideva se si dovesse far la passeggiata in carrozza oppure in carrozzina a rotelle insomma, affliggeva la povera malata col genere di attenzioni che si addicevano a una brava, materna e virtuosa donna di casa come lei. Se qualche volta la paziente osava muovere qualche timida obiezione, supplicava di aver più cibo e dosi meno massicce di medicinali, subito le veniva fatto balenare lo spettro di una morte subitanea, ed ella cedeva all'istante. «Non ha più un briciolo di energia,» diceva la Firkin alla Briggs. «Sono già tre settimane che non mi dà della cretina.» Ma non è tutto: nel suo intimo Mrs. Bute Crawley già meditava di licenziare la sunnominata cameriera personale Mrs. Firkin, il maggiordomo Mr. Bowls (il grosso uomo di fiducia di Miss Crawley) e la stessa Miss Briggs per far venire dal presbiterio le sue amate figliole prima di trasferire a Queen's Crawley la cara inferma, quando sopravvenne un odioso incidente a distoglierla da queste graditissime incombenze. Una sera, mentre tornava a casa, il reverendo Bute Crawley suo marito cadde da cavallo e si spezzò una clavicola. Subentrarono febbre e sintomi d'infiammazione, onde Mrs. Bute Crawley si vide costretta a lasciare il Sussex per far ritorno nello Hampshire. Promise di ritornare presso la sua diletta amica non appena il consorte si fosse ristabilito e partì, non senza lasciare perentorie istruzioni alla servitù circa la linea di condotta che dovevano rispettare verso la loro padrona. Non appena fu salita sulla diligenza di Southampton, in tutta la casa di Miss Crawley dilagarono un giubilo e un profondo senso di sollievo quale nessuno, fra tutti coloro che vi abitavano, aveva provato da molte settimane. Quel giorno stesso Miss Crawley rifiutò di prendere la dose pomeridiana di medicina, e quello stesso pomeriggio Bowls sturò una bottiglia di porto esclusivamente per sé e per la Firkin. Sempre quella sera, invece di leggere uno dei sermoni di Porteous, Miss Crawley e la Briggs si permisero una partita a piquet, Proprio come nella vecchia nenia infantile, il bastone dimenticava di battere il cane, e tutto da quel momento si svolse in un clima di pacifica e ritrovata serenità. Due o tre volte la settimana, nelle primissime ore del mattino, Miss Briggs penetrava in una cabina da bagno, e dopo aver indossato un accappatoio di flanella e una cuffia di tela cerata, si divertiva a diguazzare nell'acqua. Come già abbiamo visto, Rebecca era al corrente di quest'abitudine, e senza tentare di prender d'assalto la Briggs come aveva minacciato di fare - tuffandosi, cioè, e riemergendo di colpo per il gusto di sorprendere la signora nell'intimo ricettacolo di quel chiosco natante - decise di affrontarla quando fosse riemersa dal bagno rinfrescata e rinvigorita dalla corroborante immersione. Probabilmente, pensava Rebecca, sarebbe stata di umore più disteso. Pertanto, la mattina seguente, Becky si alzò di buon'ora, impugnò il cannocchiale e si portò sul balconcino verso il mare onde osservare da vicino le cabine natanti sulla spiaggia. Vide la Briggs arrivare, infilarsi in una cabina e scendere al mare; e fece in modo di trovarsi sulla spiaggia proprio nel momento in cui la vezzosa Nereide, uscita dalla piccola cabina, posava il piede sulla ghiaia della riva. Era uno splendido scenario: la spiaggia, le facce delle bagnine, il susseguirsi delle scogliere e degli edifici che si accendevano, illuminati dal primo sole. Rebecca aveva sul volto il suo più suadente sorriso, e fu pronta a tendere la sua bianca manina nell'istante in cui la Briggs emergeva dall'abitacolo. Che altro poteva fare la Briggs se non accettare quel saluto? «Miss Sh... Mrs. Crawley!» esclamò. Mrs. Crawley le afferrò la mano, se la premette sul cuore, poi cedendo a un impulso improvviso, gettò le braccia al collo della Briggs e la baciò con trasporto. «Cara, cara amica!» disse in un tono di tale spontaneità ed esuberanza affettuose, che suo malgrado la Briggs ne fu commossa e persino la bagnina parve intenerita. Dopo di che Rebecca, con la massima naturalezza, diede corso a una lunga, intima e piacevole conversazione con la Briggs. Questa le descrisse per filo e per segno tutto quanto era avvenuto dal mattino dell'inopinata partenza di Becky dalla casa di Miss Crawley in Park Lane, fino alla tanto invocata e auspicata partenza di Mrs. Bute Crawley. La confidante illustrò tutti i sintomi di Miss Crawley, tutti i particolari della malattia e tutte le cure prescritte dai medici con quella meticolosa precisione che costituisce uno dei massimi piaceri riservati a una donna. Quando mai le donne si saziano di parlare dei loro malanni e dei loro medici? Pertanto anche nel caso in questione la Briggs si diffuse senza misericordia a raccontare, né Rebecca si stancò di ascoltare. Era così lieta che la cara l'amabile Miss Briggs, e la fedele, insostituibile Mrs. Firkin avessero potuto restare accanto alla loro benefattrice durante la sua lunga degenza. Che il Cielo le accordasse la sua benedizione! Sì, in apparenza Rebecca si era comportata male verso Miss Crawley, ma la sua colpa non era forse la conseguenza di un sentimento naturale e degno di perdono? Come avrebbe potuto rifiutare la sua mano all'uomo che aveva conquistato il suo cuore? La vecchia Miss Briggs era molto sentimentale, e nell'udire quelle considerazioni non poté fare a meno di levare gli occhi al cielo, emettere un sospiro che esprimeva tutta la sua comprensione, ricordarsi delle pene d'amore, da lei stessa conosciute e sofferte tanti anni prima e convenire che Rebecca non era poi una criminale. «Potrò mai scordare colei che ha dato tante e tali prove di amicizia a una povera orfana sola?» continuò Becky. «Anche se mi ha scacciata non cesserò di amarla e sarei pronta a votare l'intera mia esistenza al suo servizio. Miss Crawley è stata la mia benefattrice ed è l'adorata zia del mio Rawdon; per questo, mia cara Miss Briggs, io l'amo e l'ammiro più di qualsiasi altra donna al mondo, e dopo di lei il mio affetto va a tutti coloro che le sono devoti. Non avrei mai trattato i fedeli amici di Miss Crawley come li ha trattati quell'insoffribile filistea di Mrs. Bute Crawley. Quante volte Rawdon (che aveva un cuor d'oro, anche se a volte poteva sembrare rude e indifferente) le aveva ripetuto con le lacrime agli occhi come fosse grato alla celeste Provvidenza per aver accordato alla sua amatissima zietta due infermiere impareggiabili come l'affezionata Firkin e l'ammirevole Miss Briggs! Se le trame ordite dalla detestabile Mrs. Bute Crawley si fossero concluse (come Rebecca purtroppo temeva) con l'allontanamento di tutti coloro ai quali Miss Crawley era profondamente affezionata, e con la sua segregazione al presbiterio ove sarebbe definitivamente caduta in balìa di quelle megere, Rebecca supplicava Miss Briggs di ricordare come la sua casa, per quanto assai modesta, le fosse sempre aperta, pronta ad accoglierla con gioia. «Eh, sì, cara amica,» concluse Becky in un impeto di entusiasmo, «ci sono anche dei cuori che non dimenticano mai i benefici ricevuti. Non tutte le donne sono uguali a Mrs. Bute Crawley, anche se francamente io non abbia nulla da rimproverarle sul piano personale. Sono stata vittima dei suoi raggiri,» concluse Rebecca, «ma dopotutto le sono debitrice, se oggi mi trovo sposata al mio amato Rawdon.» E, Rebecca illustrò alla Briggs tutte le mene messe in atto da Mrs. Bute Crawley a Queen's Crawley: manovre allora incomprensibili, ma diventate chiarissime dopo che l'affetto incoraggiato da Mrs. Bute Crawley con mille espedienti si era tramutato in un sentimento reale, e due creature innocenti, cadute nella trappola da lei proditoriamente apprestata, si erano amate, sposate e rovinate per colpa sua. Era tutto vero. La Briggs non aveva alcuna difficoltà a rendersi conto come avesse funzionato quello stratagemma. Era stata Mrs. Bute Crawley a porre le basi del matrimonio fra Rawdon e Rebecca. Però, sebbene quest'ultima avesse agito in assoluta buonafede, Miss Briggs non poteva sottacere all'amica il suo timore che l'affetto di Miss Crawley per Rebecca fosse ormai perduto senza rimedio. E poi la vecchia dama non avrebbe mai perdonato al nipote un matrimonio così inopportuno. Su questo punto Rebecca aveva una sua opinione personale e continuava a nutrire fiducia. Anche se per il momento miss Crawley non era disposta a perdonarli, non si poteva escludere che, col passare del tempo, il suo cuore s'intenerisse. D'altronde, anche se questa situazione era destinata a cristallizzarsi, tra Rawdon e il titolo di baronetto c'era solo quel tedioso e malaticcio Pitt Crawley. Se fosse accaduto qualcosa al suddetto, tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi. Ad ogni modo, per il momento Rebecca aveva avuto la soddisfazione di rivelare i loschi retroscena concernenti Mrs. Bute Crawley e di averla insultata a dovere con gli epiteti che le competevano. Forse Rawdon ne avrebbe tratto vantaggio... Dopo aver chiacchierato per un'ora con l'amica ritrovata, Rebecca si congedò da lei con le più tenere attestazioni di rispetto, sicura che la loro conversazione sarebbe stata riferita a Miss Crawley nel giro di poche ore. Concluso questo incontro, Becky si affrettò a rientrare all'albergo, ove tutta la compagnia si trovava già riunita per fare colazione assieme, in vista dell'ormai imminente separazione. Rebecca salutò Amelia con quel trasporto di tenerezza affatto naturale tra due donne che si amano come sorelle. Dopo aver fatto largo uso del fazzoletto, dopo essersi appesa al collo dell'amica come se avesse dovuto lasciarla per sempre, dopo aver sventolato dalla finestra il fazzoletto (asciutto, beninteso), attese che la carrozza fosse partita e infine sedette a tavola dove l'emozione non le impedì di mangiare di buon appetito una porzione di scampi. Mentre mangiava, riferì al marito il suo incontro mattutino con la Briggs. Nutriva molte speranze e riuscì a indurre il marito a condividerle. Di solito le riusciva di indurre il marito a far proprie le sue convinzioni, liete o tristi che fossero. «Ed ora, tesoro, devi farmi un piacere: siediti al tavolino e scrivi una bella letterina a Miss Crawley per dirle che tu sei un gran bravo ragazzo e altre storie del genere.» Rawdon sedette senza indugio e scrisse: «Brighton, giovedì.» Poi, con altrettanta rapidità, aggiunse: «Cara zia.» Ma qui la fantasia del baldanzoso ufficiale venne meno. Prese a mordicchiare la punta della penna e sollevò lo sguardo verso sua moglie. Rebecca, nel vedere quella sua espressione smarrita, non poté esimersi dal riderne. Intrecciò le mani dietro la schiena e camminando su e giù per la stanza cominciò a dettare la lettera: «"Prima di lasciare l'Inghilterra per prender parte a una campagna che molto probabilmente mi sarà fatale..."» «Come, come?» interruppe Rawdon. Ma poi comprese le implicazioni di quella frase e la scrisse con un risolino. «"... che molto probabilmente mi sarà fatale, venni in questo luogo..."» «Perché non dire: "venni qui", Becky? "Venni qui", non è un errore di grammatica,» obiettò il dragone. «"Venni in questo luogo",» insistette Rebecca battendo il piede, «"per dire addio a colei che è stata la mia prima e più cara amica. Prima della mia partenza, e in considerazione del fatto che potrei non tornare mai più, vi scongiuro di lasciarmi ancora una volta stringere quella mano dalla quale non ho avuto che gentilezze nell'intero corso della mia vita."» «"Gentilezze nell'intero corso della mia vita,"» ripeté Rawdon facendo eco alla voce di Rebecca e scarabocchiando le parole, molto stupito della facilità con la quale gli riusciva di esprimersi. «"Una sola cosa vi chiedo; separarci senza rancore. Per certi aspetti ho l'orgoglio della famiglia, anche se non sotto altri. Ho sposato la figlia di un pittore e non ho motivo di vergognarmi del mio matrimonio."» «No, non me ne vergognerei nemmeno se mi ammazzassero!» esclamò Rawdon. «Suvvia, bamboccione,» lo ammonì Rebecca, scherzosa, mentre sbirciava il foglio per vedere se avesse fatto errori d'ortografia. «"Quella", si scrive con due l e "gentilezze", con due z. Docile, egli corresse le due parole, inchinandosi al maggior grado d'istruzione della piccola signora sua moglie. «"Vi credevo al corrente di questo affetto sorto in me,"» continuò a dettare Rebecca, «"e sapevo che Mrs. Bute Crawley lo incoraggiava. Ma non intendo muovere rimproveri a nessuno, e accetto di buon grado di subire le conseguenze del mio operato. Lasciate i vostri beni a chi volete, cara zia; non sarò io a lamentarmi, né oggi né mai, di come avrete disposto al riguardo. Desidero sappiate che voglio bene a voi, non al vostro denaro. Desidero riconciliarmi con voi prima di lasciare l'Inghilterra. Concedetemi di vedervi prima della mia partenza, ve ne prego. Fra qualche settimana, o fra qualche mese, potrebbe essere troppo tardi, ed io non sopporto l'idea di partire senza una vostra affettuosa parola di addio."» «Non riuscirà a riconoscere il mio stile in una lettera del genere,» disse Rebecca. «Ho elaborato apposta delle frasi brevi e secche.» Così la missiva, tale e quale l'abbiamo qui riportata, fu inoltrata alla destinataria entro una busta indirizzata a Miss Briggs. La vecchia Crawley rise quando Miss Briggs, in aria di grande mistero, le porse quella candida e semplice confessione. «Possiamo leggerla, ora che Mrs. Bute Crawley non c'è,» disse. «Leggetemela, Briggs.» Quando la Briggs ebbe finito di leggere l'epistola, la sua padrona rise di nuovo. «Sciocca che non siete altro,» disse alla Briggs, molto commossa, a sentir lei, dal sincero affetto che traspariva da quelle parole, «non vi rendete conto che Rawdon non ha scritto di testa sua nemmeno una parola di questa lettera? In tutta la vita Rawdon mi ha scritto solo per chiedermi denaro, e le sue lettere sono zeppe di errori di ortografia e di grammatica! È quel piccolo serpente di istitutrice che lo comanda a bacchetta.» E in cuor suo Miss Crawley pensava: «Sono tutti della stessa risma: sperano solo che me ne vada all'altro mondo per metter mano sui miei quattrini.» «Non ho alcuna difficoltà a rivedere Rawdon,» aggiunse dopo una pausa, e in un tono di perfetta indifferenza. Perché non dovrei stringergli la mano? Perché non dovrei rivederlo. A patto che non ci siano scene, beninteso. Non ho nulla da obiettare. Però la pazienza umana ha un limite; perciò ricordatevi bene, mia cara, che per il momento rifiuto rispettosamente di ricevere Mrs. Crawley. È una cosa che non mi sento ancora in grado di sopportare.» Così Miss Briggs dovette accontentarsi di questo messaggio di mezza riconciliazione. Pensò al miglior modo per combinare l'incontro fra Miss Crawley e il nipote, dopo di che ritenne opportuno avvertire Rawdon di attendere lungo la strada della scogliera il momento in cui l'anziana signorina si sarebbe recata a farvi la sua passeggiata seduta sulla sedia a rotelle. E in quel luogo, appunto, s'incontrarono. Non saprei dire se nel suo intimo Miss Crawley provasse piacere o un'emozione purchessia rivedendo quel nipote che un tempo era stato il suo prediletto: comunque gli porse due dita con volto ilare e sorridente, come se si fossero visti la sera prima. Quanto a Rawdon, si fece di bragia e strinse forte la mano di Miss Briggs, rivelando il suo stato d'intensa confusione. Forse quel turbamento era dovuto a mere ragioni d'interesse, o forse dall'affetto, o magari, chissà?, dal mutamento che la malattia aveva operato nella zia durante le ultime settimane. «La vecchia è sempre stata così generosa con me,» disse poi alla moglie, raccontandole l'incontro con Miss Crawley, a ed io, come puoi immaginarti, ero piuttosto imbarazzato... insomma... non saprei che altro dirti... Ho camminato di fianco a quel... a quell'affare, come si chiama?... fino alla porta di casa sua. Bowls è venuto per aiutarla ad entrare, e avevo molta voglia di entrare anch'io, ma...» «Non sei entrato?» strillò la moglie. «No, cara. A questo punto ho avuto una tale paura, maledizione...» «Imbecille! Avresti dovuto entrare e non uscire più!» esclamò Rebecca. «Non ammetto che tu m'insulti!» Si risentì il grosso dragone, corrucciato. «Sarò anche stato imbecille, Becky, ma tu non sei autorizzata a dirmelo.» E Rawdon fissò la moglie con quella spiacevolissima espressione che assumeva nei momenti di collera. «E allora, caro, domani sta' all'erta: va' a trovarla, che t'inviti o no,» rispose Rebecca cercando di placare il risentimento del suo irritato consorte. Ma lui reagì esortandola ad usare un linguaggio più forbito, e che per il resto avrebbe fatto a modo suo. Poi il marito offeso se ne andò a trascorrere il resto della mattinata in una sala da biliardo, cupo in volto, silenzioso e turbato da mille sospetti. Ma prima di notte fu costretto a cedere, e ad ammettere una volta di più che la moglie era dotata di una prudenza e di una lungimiranza fuori del comune. Purtroppo il nero presentimento che Rebecca aveva avuto circa le conseguenze dell'errore di Rawdon si rivelò fondato. Indubbiamente Miss Crawley aveva provato una certa emozione nel rivedere Rawdon e nello stringergli la mano dopo un così lungo periodo di rottura. «Rawdon è ingrassato da far paura, Briggs,» disse alla sua dama di compagnia, «sta invecchiando. Gli è venuto il naso rosso e ha un aspetto oltremodo volgare. Il suo matrimonio con quella donna lo ha reso volgarissimo. Mrs. Bute Crawley ha sempre detto che quei due sono dediti al bere, e dov'essere vero. Puzzava di gin in modo spaventoso. Me ne sono accorta subito. Voi no?» Invano la Briggs obiettò che Mrs. Bute Crawley sparlava di lutti; e nei limiti di giudizio consentiti a un'umile persona come lei, quella era una... «Un'ipocrita? Un'intrigante? Certo, e parla male di tutti; tuttavia sono sicura che quell'istitutrice ha spinto Rawdon al bere. Tutte le persone di bassa estrazione sono dedite a quel vizio...» «Eppure si è commosso veramente nel vedervi,» disse la Briggs, «e sono certa che il pensiero di dover partire per la guerra...» «Vi ha promesso del denaro, vero Briggs? E quanto, di grazia?» prese a strillare la vecchia zitella, in un subitaneo accesso di furibonda esaltazione. «Ecco, ci siamo: vi mettete a piangere. Sapete benissimo che detesto le scene. Ma perché dovete sempre tormentarmi? Se avete voglia di piangere, siete libera di andarvene in camera vostra e di mandarmi la Firkin... No, restate. Sedetevi, invece, soffiatevi il naso e scrivete una lettera al capitano Crawley.» La povera Briggs ubbidì e si mise davanti alla cartella. I fogli del blocco di carta da lettere recavano ancora, chiaramente visibile, l'impronta della scrittura ferma, forte e veloce dell'amanuense che aveva preceduto la signorina: Mrs. Bute Crawley. «Cominciate con "Mio caro signore", o semplicemente "Caro signore", e dite che Miss Crawley vi ha pregata... no, che Mr. Cramer, il medico di miss Crawley, vi ha incaricata d'informarlo che il mio stato fisico è tale da sconsigliarmi qualsiasi emozione. Nell'attuale, delicata situazione potrebbe essermi dannosa. Dite che sono costretta a rinunciare a qualsiasi incontro o discussione familiare, che lo ringrazio di esser venuto a Brighton per me, ma non è il caso che vi si trattenga oltre. Se volete potete aggiungere il mio augurio di Bon voyage, e che se vuol prendersi la briga di passare dal mio legale in Gray's Inn Square, vi troverà una comunicazione per lui. Sì, mi sembra una buona idea. Così se ne andrà da Brighton.» E la buona Briggs scrisse questa frase con estrema soddisfazione. «Assalirmi il giorno immediatamente successivo alla partenza di Mrs. Bute,» diceva intanto la vecchia dama, «è stato troppo grossolano, mia cara Briggs. E scrivete anche a Mrs. Bute Crawley dicendole di non tornare, che non c'è alcun bisogno di lei. Non voglio assolutamente che ritorni. Non voglio esser schiava in casa mia, non voglio patir la fame, non voglio morire avvelenata. Tutti mi vogliono ammazzare... tutti... tutti!» E su queste parole la povera, triste vecchietta scoppiò in un torrente di lacrime isteriche. L'ultima scena della squallida scena da lei recitata alla Fiera della Vanità stava rapidamente volgendo al termine. Le luci ingannevoli si spegnevano l'una dopo l'altra e il nero sipario era ormai prossimo a calare. L'ultima frase della lettera, quella in cui s'invitava Rawdon a passare dal legale di Miss Crawley a Londra e che la Briggs era stata così lieta di vergare, valse a consolare un poco il dragone e la moglie, dopo il primo moto di delusione e d'incredulità provocato dalla constatazione che la vecchia zitella rifiutava di riconciliarsi con loro. E ottenne esattamente lo scopo per il quale Miss Crawley l'aveva fatta scrivere: suscitare in Rawdon il più vivo desiderio di tornare immediatamente a Londra. Grazie alle perdite al gioco di Jos e al denaro contante di Osborne, Rawdon pagò il conto dell'albergo (e forse ancor oggi l'albergatore non sa quale rischio avesse corso). Infatti, come un generale saggiamente manda nella retroguardia le salmerie prima della battaglia, Rebecca non meno oculatamente aveva preparato i bagagli contenenti le loro suppellettili di maggior valore, e li aveva spediti a Londra affidando questo delicato incarico al cameriere di George, il quale li aveva caricati sulla diligenza per Londra. E con lo stesso mezzo il giorno dopo anche Rawdon e sua moglie fecero ritorno in città. «Mi sarebbe piaciuto vedere la vecchia prima di partire,» disse Rawdon. «È molto cambiata e ha un aspetto così abbattuto che secondo me non potrà campare ancora a lungo. Chissà che assegno mi avrà lasciato da Waxy. Saranno duecento ster... eh, sì, non possono essere meno di duecento... cosa ne dici, Becky?» In conseguenza delle ripetute incursioni degli ufficiali giudiziari inviati dal tribunale del Middlesex, Rawdon e Rebecca non rientrarono nel loro appartamento di Brompton, ma scesero in un albergo. La mattina dopo Rebecca per caso li vide mentre di buon'ora percorreva le strade di quel quartiere diretta a Fulham, ove intendeva far visita a Mrs. Sedley, alla cara Amelia e agli amici di Brighton. Erano partiti tutti per Chatham, donde si sarebbero spostati ad Harwich ove si sarebbero imbarcati per il Belgio col reggimento. La cara, vecchia Mrs. Sedley era molto depressa. Tornata dalla visita, Rebecca trovò il marito reduce dalla spedizione in Gray's Inn ove aveva appreso il suo destino. Era furente. «Per Giove, Becky, sai cosa mi ha lasciato? Venti sterline! Solo venti sterline!» Sebbene le conseguenze ricadessero negativamente su di loro quello scherzo era troppo divertente perché Becky non scoppiasse a ridere di cuore davanti alla delusione di Rawdon. XXVI • TRA LONDRA E CHATHAM Lasciata Brighton, il nostro amico George, come si addice ad una persona del suo rango e della sua eleganza che viaggi a bordo di un tiro a quattro, scese in pompa magna in un ottimo albergo di Cavendish Square, dove uno splendido appartamento di numerose camere e una tavola apparecchiata con magnifica argenteria, servita da uno stuolo di domestici neri e silenziosi, erano pronti a ricevere il giovane Mr. Osborne e consorte. George, con arie e modi principeschi, fece gli onori di casa a Jos e a Dobbin, mentre Amelia, per la prima volta e con soverchio imbarazzo e timidezza, presiedeva a quella tavolata che George aveva definito «degna di lei». George criticò il vino e fece osservazioni ai domestici con aria regale, mentre Jos, con palese soddisfazione, s'ingozzava di zuppa di tartaruga, e Dobbin lo aiutava a servirsi, perché la «padrona di casa» davanti alla quale era stata posata la zuppiera, manifestava la più assoluta ignoranza circa il suo contenuto, tanto che avrebbe servito Mr. Sedley senza offrirgli né calipash né calipi. La cena sontuosa e il lusso dei locali nei quali veniva servita allarmarono Dobbin, il quale, concluso il pasto, fece le sue rimostranze approfittando del fatto che Jos si era addormentato in una poltrona. Ma invano egli protestò per l'enormità della tartaruga e la qualità dello spumante, che avrebbe figurato degnamente sulla mensa di un arcivescovo. «Sono sempre stato abituato a viaggiare come un gentiluomo,» disse George, «e intendo che mia moglie viaggi come una signora, per Giove! Finché in cassaforte ci sarà un soldo non le mancherà niente,» concluse, compiacendosi della prova di generosità e di opulenza che stava dando. Dobbin non osò nemmeno tentare di convincerlo che la felicità di Amelia non era affidata alla zuppa di tartaruga. Dopo cena, Amelia manifestò timidamente il desiderio di andare a Fulham a salutare sua madre, permesso che George le accordò non senza brontolare. Ella pertanto si diresse verso l'enorme camera da letto nella quale troneggiava l'enorme e tetro talamo «ove aveva dormito la sorella dell'imperatore Alessandro quando i sovrani alleati erano venuti a Londra», e tutta lieta indossò prontamente lo scialle e la cuffietta. Quando fece ritorno in sala da pranzo, George stava ancora bevendo e non palesava la minima intenzione di volersi mettere in moto. «Non vieni con me, tesoro?» gli chiese Amelia. No, quella sera il suo «tesoro» era impegnato. Si sarebbe occupato il domestico di trovarle una carrozza di piazza e accompagnarla a Fulham. Quando la carrozza sostò davanti all'albergo, Amelia, delusa, fece un piccolo inchino a George; invano ne cercò due o tre volte lo sguardo, poi, mesta in volto scese la gradinata, seguita da Dobbin che l'aiutò a salire sul veicolo e la vide allontanarsi verso la meta prefissa. Persino il domestico si vergognò di dare l'indirizzo al cocchiere al cospetto del personale dell'albergo, e disse che gli avrebbe dato le istruzioni del caso non appena si fossero allontanati. Dobbin si avviò a piedi verso Slaughter, dove alloggiava, e molto probabilmente pensava a come sarebbe stato piacevole viaggiare all'interno di quella carrozza in compagnia di Mrs. Osborne. Ma evidentemente George non era dello stesso parere, perché dopo una copiosa bevuta si recò a teatro, a vedere a metà prezzo Mr. Kean che recitava nel ruolo di Shylock. Il capitano Osborne aveva una vera passione per il teatro, ed egli stesso aveva recitato con successo parti drammatiche in molti spettacoli allestiti nelle guarnigioni. Ormai s'era fatto buio, ma Jos continuò a dormire e si destò di soprassalto solo quando il domestico fece rumore togliendo e vuotando le caraffe rimaste sulla tavola. Pertanto qualcuno fu inviato di nuovo a cercare una carrozza per rispedire il nostro grasso eroe a casa sua e sotto le coltri del suo letto. Mrs. Sedley (chi oserebbe stupirsene?) si strinse al petto la figlia con affetto e slancio materno, appena la carrozza si era fermata dinanzi al cancelletto del giardino, si era precipitata all'ingresso per dare il benvenuto alla sposina tremante e commossa. Il vecchio Mr. Clapp che, in maniche di camicia, era impegnato a regolare la siepe del giardino, si scostò allarmato. Quanto alla servetta irlandese, accorse dalla cucina e disse sorridendo: «Dio vi benedica!» Amelia quasi barcollava mentre percorreva il vialetto e saliva la breve scalinata che portava al salottino. E che le cataratte si siano aperte, che madre e figlia abbiano pianto insieme strettamente abbracciate è cosa facilmente immaginabile per qualsiasi lettore, per quanto scarsamente incline al sentimentalismo. Ma quando non piangono le donne? C'è forse occasione lieta o triste, circostanza purchessia della vita in cui non siano pronte a scoppiare in lacrime? Dopo un evento clamoroso come un matrimonio, madre e figlia hanno senza dubbio pieno diritto di dar libero sfogo a un'emozione al tempo stesso tenera e liberatoria. Ho visto, in occasione di matrimoni, donne che si detestano baciarsi quasi affettuosamente, abbracciarsi piangendo. Figuriamoci cosa accade quando si vogliono bene! In occasione del matrimonio delle figlie, una madre si sposa praticamente per la seconda volta. Per non dire dei sentimenti ultra-materni delle nonne. Anzi, si può affermare che una donna, prima di diventar nonna, spesso ignora cosa significhi esser madre. Rispettiamo dunque l'intimità di Mrs. Sedley e di Amelia, che nella penombra del salotto ridono, piangono, bisbigliano, singhiozzano. E a tale rispetto si attenne anche il vecchio Mr. Sedley. Non aveva indovinato chi recasse la carrozza di piazza fermatasi davanti al cancelletto. Non era corso incontro alla figlia sebbene l'avesse baciata molto affettuosamente quand'era entrata nel salotto (dove come di consueto trafficava con le sue scartoffie, le sue fettucce, i suoi estratti-conto), e dopo essersi brevemente intrattenuto con le due donne, saviamente le aveva lasciate a tu per tu. Frattanto il domestico di George squadrava dall'alto in basso il povero Mr. Clapp che, in maniche di camicia, ora annaffiava le sue rose. Nondimeno si degnò di togliersi il cappello al cospetto di Mr. Sedley, il quale chiese notizie di suo genero, e s'informò sulla carrozza di Jos e sui cavalli (erano stati portati a Brighton?), oltre che sul quel maledetto traditore di Buonaparte e sulla guerra, finché comparve la servetta con un piatto e una bottiglia di vino, e il vecchio volle a tutti i costi che il domestico ne bevesse. Gli diede anche una mezza ghinea, che quello si cacciò in tasca con un misto di stupore e di disprezzo. «Alla salute del vostro padrone e della vostra padrona, Trotter,» disse Mr. Sedley. Ed eccovi qualcosa per bere alla vostra salute quando sarete tornato a casa .» Erano trascorsi solo nove giorni da quando Amelia aveva lasciato quella piccola casa, eppure quel momento del distacco le sembrava già così lontano! Quale voragine si era spalancata fra lei e la sua vita di un tempo! Dalla sua presente condizione poteva volgersi a contemplare, quasi si fosse trattato di tutt'altra persona, la fanciulla assorta nel suo amore, che aveva occhi solo per una sola persona e accettava l'affetto dei suoi genitori, non dirò con ingratitudine, ma come qualcosa che le fosse dovuto, mentre il suo cuore e la sua mente erano ciecamente rivolti al raggiungimento di quella meta tanto desiderata. Il ricordo di quei giorni, al tempo stesso vicini e lontani, suscitavano in lei un sentimento di vergogna e la vista dei diletti genitori la colmò di tenerezza e di rimorso. Quella meta, quell'invocato approdo erano stati raggiunti. Come mai, allora, Amelia era perplessa e insoddisfatta? Di solito, quando l'eroe e l'eroina del romanzo sono giunti al matrimonio, l'autore cala il sipario, come se la commedia fosse terminata; come se i dubbi, come se le lotte della vita avessero cessato di esistere; come se una volta sbarcati sull'agognato lido nuziale vi si trovassero solo fiori e piaceri; come se marito e moglie non avessero altro da fare che prendersi a braccetto e dolcemente incamminarsi verso la vecchiaia, in perpetua serenità e letizia. Ma la nostra piccola Amelia aveva appena messo piede sulle rive di quella nuova contrada, e già si volgeva a guardare le melanconiche figure amiche che le dicevano addio dalla lontana, opposta sponda. La madre volle celebrare il ritorno della giovane sposa non so con quali insoliti festeggiamenti. Dopo lo scambio delle prime frenetiche battute di conversazione prese momentaneo congedo da Mrs. Osborne e scomparve nei sotterranei recessi della casa, in una stanza che fungeva al tempo stesso da cucina e tinello che solitamente serviva a Mr. e Mrs. Clapp (oltre che a Miss Flannigan, la cameriera irlandese, quando la sera aveva terminato di rigovernare e si era tolta i diavolini dai capelli). Quivi diede le opportune disposizioni perché fosse preparata una ricca merenda. Ognuno manifesta a modo suo la propria gentilezza d'animo, e Mrs. Sedley che pensava che biscottini e marmellata d'arance servita in piattini di cristallo scanalato costituissero un asciolvere pienamente intonato alla nuova condizione di Amelia. Mentre al piano di sotto venivano preparate queste leccornie, Amelia salì al piano superiore, e senza quasi rendersene conto si ritrovò dapprima nella piccola stanza che aveva occupato fino al giorno delle nozze, poi nella poltroncina ove aveva trascorso tante ore immersa nella più profonda mestizia. Si lasciò dunque cadere tra le braccia di quella vecchia amica e prese a meditare sulle settimane trascorse, a ricamare ipotesi sul suo futuro. Quale destino era mai toccato a quell'innocente creatura che si aggirava indifesa e sperduta tra l'immensa turba ostile della Fiera della Vanità? Quella di rivangare il passato con un sentimento misto d'incertezza e di malinconia, di continuare a desiderare qualcosa che, pur ottenuta, anziché recarle gioia alimentava in lei dubbi e tristezza. Quivi indugiò seduta, rievocando la visione di George inginocchiato dinanzi a lei prima del matrimonio. Ebbe forse l'ardire di confessare a se stessa che l'uomo da lei sposato era nella realtà diverso dal baldanzoso e avvenente eroe che era stato oggetto della sua cieca adorazione? Occorrono anni e anni, e bisogna che l'uomo sia veramente scellerato perché l'orgoglio e la vanità di una donna le consentano di pervenire a una simile confessione. Poi davanti a lei balenarono gli scintillanti occhi verdi e il maligno sorrisetto di Rebecca, e la colmarono di un'improvvisa ansietà. Pertanto rimase a lungo in preda a quella solitaria meditazione, nello stesso atteggiamento di malinconica apprensione in cui l'aveva sorpresa la servetta il giorno in cui le aveva recapitato la lettera di George nella quale il giovane le rinnovava la sua richiesta di matrimonio. Il suo occhio si posò sul candido lettino nel quale aveva dormito fino a pochi giorni addietro, e pensò che le sarebbe piaciuto dormirvi, quella notte, svegliarsi come allora salutata dal sorriso di sua madre. E subito dopo le si parò dinanzi l'immagine funerea dell'immenso letto col baldacchino che l'attendeva nella sua camera d'albergo in Cavendish Square. Caro lettino bianco! Quante lunghe notti aveva trascorso piangendo su quel guanciale! Quante volte vi aveva dato sfogo alla sua disperazione, augurandosi di morirvi! Ed ora non aveva ottenuto ciò che voleva? Non aveva fatto suo per sempre l'uomo amato, dopo aver creduto per tanto tempo di averlo perduto? Cara mamma! Quante volte aveva vegliato, affettuosa e paziente, a quel capezzale. Andò a inginocchiarsi accanto a quel letto, e alla fine la sua anima ferita e timorosa, ma buona e gentile, cercò conforto là dove (conviene ammetterlo) la nostra piccola amica lo aveva raramente cercato. Fino a quel giorno la sua fede si era identificata con l'amore; ora il suo cuore mesto, deluso, sanguinante cominciò a sentire il bisogno di un altro consolatore. Abbiamo forse il diritto di ripetere o di ascoltare le sue preghiere? Queste, fratello, sono segrete; escono dai confini della Fiera della Vanità nel cui alveo si svolge la nostra storia. Nondimeno possiamo dire che quando finalmente annunciarono il tè, Amelia scese assai riconfortata. Aveva cessato di meditare tristemente sulla sua sorte, di pensare all'indifferenza di George o agli occhi di Rebecca, come invece le era accaduto così spesso nei giorni testé trascorsi. Scese dunque da basso, baciò entrambi i genitori e conversò animatamente col povero vecchio rendendolo allegro come non lo era stato da molti e molti giorni. Sedette al pianoforte comperatole da Dobbin e cantò tutte le canzoni che il padre prediligeva. Disse che il tè era squisito e lodò il gusto col quale la marmellata di arance era stata disposta nei piattini di cristallo. Aveva deciso di render tutti felici, e scoprì di esserlo lei stessa. Più tardi si addormentò profondamente sotto il funereo baldacchino, e quando George tornò dal teatro si svegliò con un sorriso. L'indomani George aveva da sbrigare «affari» assai più importanti di quelli che lo avevano spinto ad andare a teatro a vedere recitare Mr. Kean nel ruolo di Shylock. Infatti, appena giunto a Londra aveva scritto una lettera ai legali di suo padre esternando il regale piacere di avere un abboccamento con loro la mattina successiva. Il conto dell'albergo, le partite a carte e a biliardo col capitano Crawley avevano quasi prosciugato il portafoglio del giovanotto, il quale intendeva riempirlo prima di mettersi in viaggio e non aveva altro cespite al di fuori delle duemila sterline che gli avvocati avevano ricevuto disposizione di pagargli. Nel suo intimo si sentiva fermamente convinto che suo padre avrebbe ceduto entro breve termine. Come avrebbe potuto un genitore perseverare in un atteggiamento tanto spietato nei confronti di un figlio meraviglioso come lui? E se per caso le sue benemerenze presenti e passate non fossero valse ad ammansire il padre, George decise che si sarebbe distinto in modo così clamoroso durante l'imminente campagna di guerra, che senza dubbio il vecchio sarebbe stato costretto a cedere. E in caso contrario? Bah! Aveva tutta la vita davanti a se. Chissà che giocando a carte, non cominciasse a vincere, anziché perdere. E poi duemila sterline erano pur sempre una discreta sommetta. Pertanto mandò di nuovo Amelia da sua madre in carrozza e accordò piena libertà alle due signore di comperare tutto quanto poteva servire all'abbigliamento di una signora del rango di Mrs. George Osborne, in procinto di recarsi all'estero. Avevano una sola giornata per fare le loro commissioni: è quindi facile immaginare che quelle incombenze assorbirono tutto il loro tempo. Di nuovo in una carrozza, passando dalla modista al negozio di telerie, scortata alla carrozza da commessi ossequiosi o garbati proprietari di botteghe, Mrs. Sedley aveva l'illusione di esser tornata quella di un tempo, e per la prima volta da quando la sventura si era abbattuta su di loro visse qualche ora di perfetta felicità. Del resto, anche Amelia non mancò di gustare il piacere di scegliere, contrattare, comperare belle cose (quale uomo, anche il più filosofo, darebbe due soldi per una donna che li disdegnasse?) Ligia alle disposizioni del marito, non si curò certo di risparmiare e acquistò parecchi vestiti dando prova (come le dissero i negozianti) di buon gusto e accorta eleganza nelle sue scelte. Quella guerra prossima a scoppiare non era motivo di seria preoccupazione per Mrs. Osborne. Buonaparte sarebbe stato sconfitto senza necessità d'ingaggiare una dura lotta. Ogni giorno salpavano da Margate navi cariche di uomini e signore dell'alta società diretti a Gand e a Bruxelles. Non si trattava di prender parte alla campagna, ma semplicemente di intraprendere un viaggio alla moda. I giornali sbeffeggiavano quel cialtrone avventuriero. Quel pezzente corso aveva l'ardire di sfidare gli eserciti di tutta Europa e il genio dell'immortale Wellington! Amelia lo disprezzava senza remissione. Inutile precisare che quella dolce, gentile creatura faceva proprie le opinioni delle persone che la circondavano, giacché la sua modestia e il suo temperamento schivo le impedivano di ragionare con la sua testa. Stavamo dunque dicendo che Amelia, scortata da sua madre, dedicò l'intera giornata alle compere, e quantunque si trattasse della sua prima incursione nel mondo dell'eleganza londinese, diede prova di adeguate dignità e disinvoltura. George, nel frattempo, si avviò verso Bedford Row sporgendo i gomiti in fuori e col cappello sulle ventitré, ed entrò nell'ufficio legale con l'aria di chi si crede il padrone di tutti quegli smunti travetti che vi scribacchiavano. In tono di altezzosa sufficienza ordinò a uno di costoro di avvisare Mr. Higgs che il capitano Osborne stava aspettando, come se quel pékin di un avvocato, che aveva tre volte più cervello di lui, cinquanta volte più denaro e mille volte più esperienza fosse stato un umilissimo lacchè, pronto a interrompere all'istante le sue occupazioni in omaggio ai comodi del signor capitano. Quest'ultimo non si accorse dei risolini ironici che tutti si scambiarono nella stanza, dal primo sostituto del legale ai giovani di studio, e dai giovani di studio ai modestissimi scrivani, e dagli scrivani agli smunti fattorini nelle loro misere giacche troppo strette, mentre lui sedeva battendo lo stivale col bastone e pensando che quei poveracci erano proprio un mucchio di miserabili. In realtà quei «poveracci» conoscevano per filo e per segno la sua situazione, e la sera egli costituiva per loro un argomento di conversazione, allorché si ritrovavano seduti al circolo con altri giovani di studio e altri scrivani davanti a un boccale di birra. Dei dell'Olimpo, quante e quali cose sanno gli avvocati di Londra e i loro giovani di studio! Nulla sfugge al loro occhio indagatore, e sono loro a guidare silenziosamente i destini della City. Non è escluso che George, varcando la soglia dello studio di Mr. High, sperasse che il padre lo avesse incaricato di giungere a una transazione, o addirittura a una riconciliazione; o forse il legale aveva assunto quell'espressione fredda e altera per dar prova del suo coraggio e della sua determinazione. Fatto sta che Mr. Higgs oppose all'albagia di George una gelida indifferenza che fece naufragare nel nulla la ridicola presunzione del capitano. Quando George entrò nel suo studio, l'avvocato finse di essere impegnato a scrivere. «prego, accomodatevi,» disse, «tra un minuto mi occuperò della vostra faccenduola. Per favore, Mr. Poe, prendete la pratica col benestare.» Dopo di che riprese a scrivere. Quando Poe ebbe preso l'incartamento, il suo principale calcolò l'ammontare delle duemila sterline di azioni alla quotazione giornaliera, poi chiese a Osborne se desiderava la somma in un assegno presso una banca o se invece preferiva delle azioni. «Uno degli esecutori testamentari della defunta Mrs. Osborne è fuori città,» disse con indifferenza, «ma il mio cliente desidera venire incontro ai vostri desideri a venire a capo di questa faccenda nel più breve tempo possibile.» «Fatemi un assegno,» rispose il capitano, con espressione cupa, «e lasciate perdere quei maledetti spiccioli,» aggiunse, vedendo che il legale stava calcolando la cifra esatta fino all'ultima monetina. Poi, compiacendosi di credere che quel gesto di liberalità avesse costretto quel vecchio eccentrico a vergognarsi, uscì impettito dall'ufficio con l'assegno in tasca. «Quello nel giro di due anni finirà in galera,» disse Mr. Higgs a Mr. Poe. «Non credete che il vecchio Osborne finirà per smuoversi?» «E voi credete che il Monument si smuoverà?» gli rispose Mr. Higgs. «Con le donne si dà da fare,» disse l'impiegato. «Si è sposato da una settimana appena e l'ho veduto mentre accompagnava alla sua carrozza Mrs. Highflyer dopo la recita, insieme con altri ufficiali.» Dopo di che venne tirata fuori un'altra pratica e Mr. George Osborne fu cancellato completamento dalla mente di questi due degni personaggi. L'assegno era depositato presso la banca dei nostri amici Hullock & Bullock in Lombard Street, dove, sempre convinto di occuparsi di affari, George diresse i suoi passi e riscosse il denaro. Quando George entrò, Mr. Frederick Bullock, la cui faccia giallognola emergeva al di sopra di quella di un misero scribacchino piegato in due su un libro mastro, per combinazione si trovava nella banca. Nel vedere il capitano, la faccia giallognola assunse una colorazione ancor più cadaverica, e il nostro banchiere sgattaiolò prontamente in un locale retrostante, quasi si sentisse colpevole. Ma George era troppo occupato a contemplare con occhi avidi il denaro (non aveva mai visto una somma come quella prima di allora) per accorgersi dell'aspetto o per notare la fuga del cadaverico promesso sposo di sua sorella. Frederick Bullock riferì al vecchio Osborne della comparsa di suo figlio in banca e del suo comportamento. «È entrato e ha chiesto tutto fino all'ultimo scellino. Che faccia di bronzo!» disse. «Quanto tempo potranno durare a un tipo simile poche centinaia di sterline?» Osborne giurò che non gli importava un fico di come e di quando le avrebbe spese. Ora Fred cenava tutte le sere in Russell Square. Dal canto suo George era soddisfattissimo dell'esito di quella giornata. Diede ordine che il suo bagaglio personale e il suo equipaggiamento venissero preparati senza indugio, e pagò tutti gli acquisti di Amelia mediante l'emissione di assegni sul proprio conto corrente con la munificenza di un Pari del regno. XXVII • NEL QUALE AMELIA RAGGIUNGE IL SUO REGGIMENTO Quando la carrozza di Jos si fermò davanti all'albergo di Chatham, il primo volto che Amelia riconobbe fu quello del capitano Dobbin, che da un'ora camminava su e giù per la strada, in attesa dell'arrivo dei suoi amici. Il capitano, con le spalline metalliche sulla lunga casacca militare, la fascia rosso cremisi intorno alla vita e la sciabola al fianco, aveva un aspetto marziale che rese Jos quasi orgoglioso di poter annoverare tra le sue una simile conoscenza. Pertanto quel pingue borghese lo salutò con molta cordialità, in contrasto con l'accoglienza che gli aveva sempre riservato a Brighton o in Bond Street. Col capitano Dobbin c'era anche il sottotenente Stubble, il quale, mentre la carrozza si accostava all'albergo, uscì a dire: «Per Giove, che bella ragazza!», elogiando così la scelta di Osborne. In effetti Amelia, vestita del mantello marrone che aveva indossato il giorno del matrimonio, con in capo la cuffietta adorna di nastri rosa e le guance accese dalla lunga corsa all'aria aperta, aveva un aspetto così grazioso da giustificare in pieno il complimento di Stubble. Dobbin gli fu grato per aver esternato apertamente la sua approvazione. Poi, mentre si avvicinava al portello per aiutare Amelia a scendere dalla carrozza, il sottotenente si accorse altresì di quanto fosse graziosa la piccola mano ch'ella gli porgeva, e piccolo quel piede che, nell'atto di uscire dal veicolo, posava sul predellino. Arrossì mentre si piegava nel miglior inchino che gli riuscisse di fare. Da parte sua Amelia, quando vide il numero del ...° Reggimento ricamato sul chepì, a sua volta si fece rossa in volto e sorridendo s'inchinò al giovane, cosa che conquistò del tutto il giovane ufficiale. Da quel giorno in poi Dobbin avviò un rapporto più confidenziale con Stubble, e nelle loro stanze, o nel corso delle loro passeggiate a tu per tu, lo esortò a esternare le sue impressioni su Amelia. Per la verità, fra tutti gli ufficiali del ...° Reggimento si propagò rapidamente la moda di ammirare e adorare Amelia. La sua grazia così spontanea, la sua cortesia, la sua riservatezza le conquistarono tutti i cuori semplici cortesia grazia e riservatezza che non si possono descrivere a parole. Ma a chi non è accaduto di ravvisare ogni sorta di qualità in una donna purchessia, anche se si è limitata a dire che è già impegnata per la prossima quadriglia, o che fa veramente un caldo insopportabile? George, che al reggimento era sempre stato considerato una specie di eroe, salì ulteriormente nella stima di tutti i giovani del suo corpo per esser stato così galante da accondiscendere alle nozze con quella ragazza senza dote, e per aver scelto al tempo stesso una compagna così graziosa e garbata. Nel salottino che attendeva i viaggiatori, Amelia fu alquanto sorpresa di trovare una lettera indirizzata alla moglie del capitano Osborne. Era un biglietto triangolare di carta rosa, sigillato con una colomba e un ramo di ulivo, e con una profusione di ceralacca celeste. L'indirizzo era vergato con una larga e malcerta scrittura femminile. «È proprio di pugno di Peggy O'Dowd,» disse George ridendo. «Lo riconosco dai baci sul sigillo.» Il biglietto era infatti della moglie del maggiore O'Dowd, col quale invitava quella sera stessa la moglie del capitano Osborne a un piccolo party fra amici. «È bene che tu vada,» disse George, «così conoscerai il reggimento. Il maggiore O'Dowd comanda il reggimento, ma Mrs. O'Dowd comanda il maggiore!» Non ebbero agio tuttavia di compiacersi oltre del biglietto di Mrs. O'Dowd, poiché in quel momento la porta si spalancò e una signora allegra e rubiconda in abito da amazzone entrò nella stanza, seguita da due ufficiali. «Non mi sentivo di aspettare fino all'ora del tè. Caro George, presentatemi a vostra moglie, ve ne prego. Signora, sono veramente lieta di conoscervi e di presentarvi mio marito, il maggiore O'Dowd.» Dopo di che l'allegra signora vestita da amazzone afferrò e strinse calorosamente la mano di Amelia, la quale comprese all'istante di aver di fronte la donna tante volte derisa da suo marito. «Senza dubbio avrete sentito tante volte parlare di me da vostro marito,» disse la O'Dowd in tono vivace. Amelia confermò sorridendo. «E ve ne avrà parlato male,» continuò l'altra. «George è un maligno senza pari.» «Di questo mi rendo garante io,» intervenne il maggiore, con l'aria di chi vuoi scherzare. George scoppiò a ridere e Mrs. O'Dowd mise a tacere il consorte con un colpo di frustino. Poi pretese di esser presentata alla moglie del capitano Osborne in conformità alle buone regole dell'etichetta. «Questa, mia cara,» disse George in tono grave, «è la mia ottima, gentile, eccellente amica Aurelia Margaretta, comunemente chiamata Peggy.» «Esatto,» confermò il maggiore. «Comunemente detta Peggy, moglie del maggiore Michael O'Dowd del nostro reggimento e figlia di Fitzgerald Berdsford de Burgo Malony di Glenmalony, della contea di Kildare.» «E di Muryan Square a Dublino,» aggiunse Mrs. O'Dowd in tono di placida superiorità. «E di Muryan Square a Dublino, e come no?» bisbigliò il maggiore. «Là dove tu mi hai fatto la corte, caro il mio maggiore,» precisò la signora. E il marito assentì, come sempre faceva in presenza d'altri. Il maggiore O'Dowd, che aveva reso i suoi servigi al re in ogni parte del mondo dando prova di grande coraggio e meritandosi le sue promozioni, era l'uomo più mite, modesto e riservato che mai fosse esistito, e ubbidiva alla moglie come se fosse stato il suo paggetto. A mensa sedeva in silenzio e beveva moltissimo; poi, quand'era pieno d'alcool, se ne tornava a casa malcerto sulle gambe. Se parlava, era solo per manifestare il suo consenso su quanto si diceva, qualunque fosse l'argomento della conversazione: ottimo sistema per vivere in pace, senza contrasti con nessuno. Il caldo torrido dell'India non aveva intaccato il suo buonumore, né la malaria di Walcheren aveva lasciato in lui la pur minima traccia. Attaccava una postazione di artiglieria nemica con la stessa indifferenza con la quale sedeva a tavola; mangiava zuppa di tartaruga o carne di cavallo con lo stesso appetito e lo stesso piacere; e aveva una vecchia madre, l'esimia Mrs. O'Dowd di Dowdstown, alla quale non aveva mai disubbidito se non quando era scappato di casa per andarsi ad arruolare, e quando si era intestardito a voler sposare quell'insoffribile Peggy Malony. Peggy era una delle cinque sorelle e degli undici rampolli della nobile casata dei Glenmalony ma il marito, sebbene fosse suo cugino, lo era da parte di madre, onde non fruiva dell'impagabile vantaggio di appartenere alla schiatta dei Malony, che, a sentire lei, erano la più aristocratica famiglia della terra. Dopo aver tentato invano, per nove stagioni a Dublino, due a Bath e due a Cheltenham, di trovare un compagno col quale trascorrere il resto dei suoi giorni, Miss Malony, che ormai aveva trentatré anni, aveva imposto a suo cugino di sposarla. Il brav'uomo aveva accettato e l'aveva condotta seco nelle Indie Occidentali a presiedere il gruppo, delle signore del ...° Reggimento, al quale proprio allora era stato assegnato. Non era trascorsa mezz'ora da quando ne aveva fatta la conoscenza, e già la loquace Mrs. O'Dowd aveva raccontato ad Amelia vita, morte e miracoli della sua famiglia e del suo albero genealogico. Si trattava, del resto, di una sua inveterata abitudine. «Vi confesso, mia cara,» le disse, «di aver sperato che George diventasse mio cognato, perché mia cognata Glorvina sarebbe stata una compagna ideale, per lui. Ma è acqua passata. Lui, del resto, era fidanzato con voi, ed io allora ho deciso di scegliere voi come sorella. Sì, voglio considerarvi una sorella, credetemi, proprio come se faceste parte della mia famiglia. Avete un faccino delizioso e dei modi così garbati... Sono sicura che andremo d'accordo, e sarete comunque un nuovo membro della nostra famiglia.» «Ma certo, lo sarà,» disse il maggiore O'Dowd in aria di approvazione. Amelia era al tempo stesso divertita e riconoscente per esser stata adottata di punto in bianco a una così nutrita schiera di parenti. «Siamo tutti brave persone, qui,» continuò la moglie del maggiore. «In tutto l'esercito non c'è un solo reggimento nel quale si possa trovare una compagnia più felicemente amalgamata, una mensa più cordiale e piacevole. Fra noi non ci sono liti, né maldicenze, né pettegolezzi. Andiamo tutti d'amore e d'accordo.» «Andiamo d'amore e d'accordo soprattutto con Mrs. Magenis,» disse George ridendo. «La moglie del capitano Magenis ed io ci siamo riconciliate, sebbene il suo comportamento nei mici riguardi, potesse, ahimè, portare i miei capelli grigi alla tomba.» «Ma tu, cara Peggy, hai degli splendidi capelli neri,» protestò il maggiore. «Chiudi la bocca, Mick, scioccherellone! Questi mariti, cara Mrs. Osborne, li abbiamo sempre tra i piedi; io al mio Mick non mi stanco di ripetere che dovrebbe aprir bocca solo per dare ordini ai suoi subalterni o per riempirla di carne e vino. Ed ora presentatemi a vostro fratello: è indubbiamente un bell'uomo, e mi ricorda mio cugino Dan Malony (un Malony di Ballymallony, mia cara: saprete certo che ha sposato Ophelia Scurry, di Oysterstown, cugina in primo grado di Lord Poldoody). Molto lieta di conoscervi, Mr. Sedley. Immagino che oggi pranzerete alla mensa. (Sta' alla larga da quel demonio di dottore, Mick, e per il resto fa' quello che ti pare, ma fa in modo di non essere ubriaco al mio ricevimento di stasera.)» «È il 150° Reggimento che ci offre la cena di addio questa sera, tesoro mio,» intervenne il maggiore, «comunque non sarà difficile ottenere un invito per Mr. Sedley.» «Simple (è il sottotenente Simple del nostro Reggimento, cara Amelia, ho dimenticato di presentarvelo), correte subito dal colonnello Tavish, portategli i saluti di Mrs. O'Dowd e ditegli che il capitano Osborne è arrivato qui con suo cognato, e che alle cinque in punto lo porterà alla cena offerta dal 150°. Quanto a noi, mia cara, possiamo mangiare un boccone qui se lo gradite.» Mrs. O'Dowd non aveva ancora finito di parlare, e già il sottotenente Simple si precipitava giù per le scale per adempiere all'incarico testé ricevuto. «L'obbedienza è l'anima dell'esercito, Emmy,» disse George. «Noi andremo a fare il nostro dovere mentre Mrs. O'Dowd rimarrà con te e ti darà tutte le istruzioni del caso.» Ciò detto, i due uomini si posero al fianco del maggiore e uscirono con lui scambiandosi un sorrisetto d'intesa sopra la sua testa. Ed ora che aveva la sua nuova amica ad esclusiva, personale disposizione, Mrs. O'Dowd diede la stura a un tal fiume di notizie, che nessun altro povero cervello femminile avrebbe mai potuto ricordare. Riferì ad Amelia migliaia di minuti episodi sulla numerosissima famiglia di cui la stupefatta giovane s'era trovata inopinatamente a far parte. Mrs. Heavytop, la moglie del colonnello, era morta in Giamaica di febbre gialla, ma anche di crepacuore, perché quel vecchio libidinoso con la testa pelata come una palla da cannone faceva il cascamorto con una ragazza di dubbia reputazione che aveva conosciuto sul posto. Quanto a Mrs. Magenis, tutto sommato era una brava persona, sebbene fosse ignorante e linguacciuta come il diavolo, e giocando a carte non disdegnasse di barare persino con sua madre. La moglie del capitano Kirk? Ah, quella levava al cielo quei suoi occhi da aragosta non appena si ventilava l'idea di un'onesta partita a carte (e pensare che mio padre, l'uomo più intemerato e più religioso che abbia mai varcato la soglia di una chiesa, come pure mio zio Dane Malony e mio cugino il Vescovo si facevano una partita a loo o a whist tutte le sante sere). Questa volta, precisò Mrs. O'Dowd, né l'una né l'altra partono col reggimento. Mrs. Magenis si ferma a Londra con sua madre, la quale molto probabilmente vende patate e carbonella a Islington, lì a due passi da Londra, anche se lei mena gran vanto delle navi di suo padre e ce le indica quando passano sul fiume. Invece Mrs. Kirk si fermerà coi bambini, in Bethesda Place, per non allontanarsi dal suo predicatore preferito, il dottor Ramshorn. Mrs. Bunny è incinta, tanto per cambiare (sette, ne ha già regalati, al tenente), e Mrs. Posky, che è arrivata qui due mesi prima di voi, ha già litigato con Tom Posky almeno venti volte; ma al punto di farsi sentire da tutta la caserma (qualcuno dice che si tirano i piatti, e del resto Tom non è mai riuscito a spiegare come mai avesse un occhio nero); così lei se ne torna a Richmond da sua madre, che dirige un educandato per ragazze. Poverina! Non si può dire che le abbia portato fortuna scappar di casa. E voi, mia cara, dove siete stata educata? Per me non si è badato a spese: sono stata educata da Mrs. Flanahan in Ilyssus Grove, a Booterstown, vicino a Dublino. Una marchesa ci insegnava il francese secondo la vera pronuncia parigina e un generale dell'esercito francese in pensione ci faceva far ginnastica. Insomma, Mrs. O'Dowd era la sorella maggiore di quell'incongrua famiglia nella quale la nostra stupitissima Amelia si trovò conglobata. All'ora del tè venne presentata alle altre sue parenti d'acquisto di sesso femminile, e dal momento che era dolce, riservata, non proprio bellissima, produsse un'impressione complessivamente favorevole fino a quando non tornarono, provenienti dalla mensa del 150° Reggimento, i signori uomini, i quali l'ammirarono al punto che le sorelle - inutile dirlo - cominciarono a trovarle dei difetti. «Voglio augurarmi che Osborne si sia stancato di correr la cavallina,» disse Mrs. Magenis a Mrs. Kirk. «Se un libertino pentito è in grado di trasformarsi in un buon marito, non c'è dubbio che lei troverà in George il migliore dei mariti possibili,» commentò la O'Dowd rivolta alla Polsky, la quale, avendo perso con l'arrivo di Amelia la sua qualifica di sposina del Reggimento, era furibonda contro l'usurpatrice. Quanto a Mrs. Kirk, nella sua qualità di discepola del dottor Ramshorn, rivolse alla nostra amica alcune domande atte a rivelarle se fosse una cristiana osservante; dopo di che, essendosi resa conto dalle risposte alquanto puerili di Mrs. Osborne come quest'ultima vivesse ancora nelle tenebre, le mise in mano tre libriccini illustrati da un soldo l'uno, intitolati Pianto in solitudine, La lavandaia di Wadsworth Common e La miglior baionetta del soldato inglese, esortandola a leggerli prima di coricarsi onde il suo spirito si destasse prima del sopraggiungere del sonno. Da parte loro, tutti gli uomini, da quei bravi ragazzi che erano, fecero cerchio intorno alla graziosa mogliettina del loro commilitone, e le fecero la corte con militaresca galanteria. Amelia riscosse dunque un piccolo trionfo personale che valse a risollevarle lo spirito e le fece brillare gli occhi. George si sentì orgoglioso dell'ammirazione di cui sua moglie era oggetto, e si compiacque del modo allegro e garbato, ancorché timido e ingenuo, col quale ella reagiva alle attenzioni e rispondeva ai complimenti degli ufficiali. E lui! Com'era più bello, nella sua uniforme, di tutti gli altri presenti nella stanza; Amelia sentì ch'egli la contemplava con occhio affettuoso, e quella gentilezza la colmò di un sentimento di calore e conforto. «Sarò amabile con tutti i suoi amici», pensò, «e come amo lui così vorrò bene a tutti. Cercherò di esser sempre gaia e di buonumore e la nostra sarà una casa serena.» Sta di fatto che il reggimento l'adottò all'unanimità. I capitani approvarono, i tenenti applaudirono, i sottotenenti ammirarono. Il vecchio Cutter, il medico, raccontò due o tre storielle che, data la loro indole professionale, non è il caso di ripetere, mentre Cackle, l'assistente medico laureato a Edimburgo, acconsentì a esaminarla in chiave letteraria e per lei tirò in ballo le sue tre migliori citazioni in francese. Il giovane Stubble sussurrava ora all'uno, ora all'altro: «Ma non trovi che è semplicemente incantevole?» E non le tolse gli occhi di dosso fino a quando non venne servito il negus. Per parte sua il capitano Dobbin non le rivolse la parola per tutta la serata; fu lui, nondimeno, che insieme al capitano Porte del 150° ricondusse all'albergo Jos, il quale era in preda a soverchia euforia e aveva raccontato la frusta storia della caccia alla tigre, prima a mensa, poi nel corso della Soirée di Mrs. O'Dowd, che si pavoneggiava in turbante giallo guarnito di un uccello del paradiso. Dopo aver affidato il degno Ricevitore al domestico, Dobbin indugiò a passeggiare davanti alla porta della locanda fumando il sigaro. Nel frattempo George, con gesto attento e affettuoso, avvolgeva nello scialle sua moglie e con lei lasciava la casa di Mrs. O'Dowd, dopo che Amelia si era congedata con una stretta di mano da tutti i giovani ufficiali, i quali l'accompagnarono fino alla carrozza e la salutarono ancora quando il veicolo si mise in moto. Poi, scesa dalla carrozza, Amelia porse la sua piccola mano a Dobbin e lo rimproverò per averla ignorata nel corso di tutta la serata. Quando ormai tutti i clienti della locanda e gli abitanti della strada erano a letto, il capitano indulgeva ancora al deleterio piacere del sigaro. Vide la luce svanire dietro le finestre del salottino di George e accendersi nell'adiacente camera da letto. Quando tornò a casa, l'alba era ormai prossima. Voci giungevano sino a lui dal fiume, dove le navi da trasporto stavano già caricando prima di mettersi in moto in direzione del Tamigi. XXVIII • NEL QUALE AMELIA INVADE I PAESI BASSI Il reggimento coi suoi ufficiali doveva essere trasportato sulle navi che il governo di Sua Maestà aveva preparate allo scopo. Così, due giorni dopo il festoso ricevimento in casa di Mrs. O'Dowd, tra gli allegri saluti delle navi provenienti dalle Indie Orientali all'ancora nel fiume e quelli dei militari rimasti a riva, mentre la banda suonava God Save the King, gli ufficiali agitavano i cappelli e la ciurma gridava a squarciagola «hurrah!», i trasporti presero a scendere il fiume e proseguirono la navigazione in convoglio facendo rotta su Ostenda. Frattanto il galante Jos aveva accettato di scortare sua sorella e la moglie del maggiore. Armi e bagagli di costei (ivi incluso il famoso turbante con l'uccello del paradiso) erano stati spediti in anticipo con le salmerie del reggimento. Così le nostre due eroine arrivarono senza impicci di sorta a Ramsgate, ove sostavano in attesa innumerevoli imbarcazioni, una delle quali le portò con rapida traversata a Ostenda. Da quel momento Jos cominciò a vivere una stagione così fitta di avvenimenti, che per molti anni sarebbe stato argomento ricorrente delle sue conversazioni. Persino la decrepita storia della caccia alla tigre fu messa in soffitta per lasciare il posto a racconti molto più emozionanti e aggiornati sulla battaglia di Waterloo. Più d'uno ebbe agio di notare che, dopo aver deciso di accompagnare in Belgio la sorella, Jos cessò di radersi il labbro superiore. A Chatham seguì sempre le sfilate e le esercitazioni militari con encomiabile assiduità. Ascoltò sempre con molta compunzione i discorsi dei suoi colleghi ufficiali (come in seguito prese l'abitudine di chiamarli) e imparò tutta la terminologia militare che riuscì a cacciarsi in testa, validamente assistito in quest'opera di apprendistato da Mrs. O'Dowd. Finalmente, il giorno in cui dovevano imbarcarsi sulla Lovely Rose che doveva condurli a destinazione, comparve in giacca lunga adorna di galloni, calzoni di nanchino e berretto parimenti adorno di un elegante gallone dorato. Aveva portato con sé la sua carrozza, e a tutti i passeggeri della nave aveva confidato con noncuranza che andava a raggiungere le armate al comando del duca di Wellington. Tutti pertanto lo credettero un personaggio di rilievo, forse un commissario generale o per lo menu un emissario del governo. Durante la traversata patì spaventosamente il mal di mare, come del resto lo patirono le signore. Tuttavia Amelia si riprese senza indugio allorché, giunta davanti a Ostenda, vide entrare in porto, quasi in concomitanza con la Lovely Rose, la nave che trasportava il reggimento. Jos, sull'orlo del collasso, si rifugiò in albergo, mentre Dobbin accompagnava le signore e si dava da fare per svincolare dalla dogana la carrozza e gli effetti personali di Jos, rimasto senza domestico. Quest'ultimo, infatti, dopo essersi accordato a Chatham con quello di George, aveva rifiutato d'imbarcarsi. Quella specie di ammutinamento, scoppiato inopinatamente l'ultimo giorno, aveva colto di sorpresa Mr. Sedley che, oltremodo contrariato, era stato sul punto di rinunciare alla spedizione; ma il capitano Dobbin (che in quell'occasione, come disse Jos, si dimostrò oltremodo zelante), un po' lo prese in giro un po' lo rimproverò, finché Jos - i cui baffi nel frattempo erano cresciuti - si lasciò convincere e salì a bordo. In sostituzione dei compiti e ben pasciuti domestici londinesi, di lingua inglese, Dobbin rimediò a Jos e famiglia un domestico belga piccolo e olivastro che non sapeva una sola parola d'inglese, ma che, grazie alla sua frastornante operosità, e per il fatto di rivolgersi immancabilmente a Jos chiamandolo Milord, si procacciò immantinenti il favore di Mr. Sedley. Sono cambiate le cose, ora, a Ostenda. Vi capitano ben pochi inglesi di modi e di aspetto aristocratici. Quelli che oggi vi mettono piede sono quasi tutti individui male in arnese, con la biancheria in disordine, ferventi adepti del biliardo, del brandy, del sigaro, e di un pranzo rimediato alla bell'e meglio. Ad ogni modo, in linea di massima si può affermare che tutti gli inglesi che facevano parte dell'armata del duca di Wellington abbiano regolarmente pagato i loro conti, e il ricordo di tale circostanza merita senza dubbio di esser registrato negli annali di un popolo di mercanti. Essere invaso da un esercito di clienti fu senza dubbio dono di Dio' per un popolo così avido di commercio; fu una benedizione dover dar da mangiare e da bere a guerrieri tanto degni di credito. Quel paese che erano venuti a proteggere non aveva proprio nulla di guerresco. Per innumerevoli anni i belgi avevano lasciato che fossero gli altri a scannarsi sul loro territorio. Quando colui che scrive andò a volgere il suo sguardo d'aquila sul campo di battaglia di Waterloo, chiese al cocchiere della diligenza, un maestoso veterano dall'aspetto militaresco, se avesse perso parte a quella battaglia. «Pas si bête», fu la risposta: risposta e sentimento di cui un francese non sarebbe mai capace. D'altro canto il postiglione della nostra vettura era un Visconte, figlio di qualche generale dell'Impero ridotto sul lastrico, che lungo il tragitto non ebbe alcuna difficoltà ad accettare la mancia di un soldo di birra. Dal che non è difficile ricavare una morale. Quel pianeggiante, confortevole e florido paese non avrebbe potuto avere aspetto più ricco e florido di quello che presentava in quella prima estate del 1815, quando i suoi campi verdeggianti e le sue quiete borgate erano invasi da innumerevoli giubbe scarlatte; quando sulle sue ampie chaussées sciamavano brillanti inglesi, quando i suoi grandi battelli (che navigavano per i canali costeggiando pascoli opimi, strani, antichi paesi, vetusti castelli celati da alberi secolari) erano stracarichi di ricchi villeggianti inglesi; quando il soldato che beveva all'osteria di un villaggio qualsiasi, oltre a bere pagava, e lo scozzese Donald, alloggiato in qualche fattoria fiamminga, dondolava la culla dell'ultimo nato mentre Jean e Jeannette erano per i campi a raccogliere il fieno.' Dal momento che in questo momento va di gran moda fra i nostri pittori dipingere scene di vita militare, mi permetto indicare questo soggetto al pennello che volesse illustrare l'inizio di una rispettabile guerra tutta inglese. In effetti ogni cosa presentava l'aspetto gaio e innocuo di una parata in Hyde Park. Nel frattempo Napoleone, protetto da una linea fortificata di frontiera, si preparava allo scontro che doveva travolgere in un impeto di furia sanguinosa quella brava gente così composta e disciplinata; e nel quale tanti avrebbero perso la vita. Tutti riponevano una fiducia così cieca nel comandante supremo (il duca di Wellington aveva ispirato all'intera nazione inglese una fede incrollabile, in tutto simile all'entusiasmo fanatico che anni prima Napoleone aveva ispirato ai francesi), il paese sembrava così perfettamente e sistematicamente difeso, le riserve disponibili (caso mai ce ne fosse stato bisogno) così numerose e a portata di mano, che non vi era alcun motivo di allarmarsi, e i nostri viaggiatori (due dei quali molto timorosi per natura) apparivano tranquilli non meno di tutta quella moltitudine inglese. Il reggimento di cui ormai conosciamo tanti ufficiali fu trasportato su battelli lungo i canali che collegano Bruges a Gand, da dove proseguì a piedi fino a Bruxelles. Quanto a Jos, scortò le signore su uno di quei battelli di linea che tutti coloro che un tempo solevano viaggiare per le Fiandre senza dubbio ricordano per il loro lusso e il loro comfort. Cibo e bevande erano così prelibati su queste lentissime ma confortevoli imbarcazioni, che si racconta ancora I episodio di quell'inglese che, recatosi in Belgio per una settimana, dopo un primo percorso su uno di quei vapori ne fu talmente deliziato da decidersi ad andare avanti e indietro fra Gand e Bruges? fino al giorno in cui, inauguratasi la linea ferroviaria, decise di Por fine ai suoi giorni annegandosi nel corso dell'ultimo viaggio del battello. Jos non avrebbe fatto una così triste fine, ma dobbiamo convenire che si trovava perfettamente a suo agio, anche se Mrs. O'Dowd si ostinava a ripetergli che solo la presenza di sua cognata Glorvina sarebbe valsa a fare di lui una persona veramente felice. Se ne stava tutto il giorno seduto sul tetto della cabina a scolare bottiglie di birra fiamminga, e ogni tanto chiamava il domestico Isidor oppure conversava con le signore. Senza parlare del suo coraggio veramente straordinario. a Buonaparte che osa attaccarci! Osa attaccare noi!» diceva. «Mia cara Emmy, non aver paura, te ne prego. È un pericolo inesistente. Ti prometto che fra due mesi gli Alleati saranno a Parigi, ed io, per Giove, ti porterò a pranzo al Palais Royal! Ci sono trecentomila russi che stanno entrando in Francia da Magonza e dal Reno. Te lo dico io! Trecentomila uomini, al comando di Wittgenstein e Barclay de Tolly, tesoro mio. Tu di faccende militari non capisci nulla, ma io me ne intendo, e ti posso garantire che la fanteria francese non è in grado di resistere alla fanteria russa, e non c'è un solo generale di Buonaparte che sia degno di allacciare gli stivali a Wittgenstein. E poi ci sono gli austriaci. Sono almeno cinquecentomila al comando di Schwarzenberg e del principe Carlo. Attualmente sono circa dieci giorni di marcia dalla frontiera. Poi ci sono i prussiani al comando del coraggioso principe maresciallo. Vorrei sapere dove si trova un comandante di cavalleria francese che lo equivalga, adesso che Murat non c'è più. Non è vero, Mrs. O'Dowd? Credete che la nostra cara bambina abbia motivo di aver paura? C'è forse da temere qualcosa, Isidor? Suvvia, portatemi dell'altra birra!» Mrs. O'Dowd rispose che la sua Glorvina non aveva paura di nessuno, e men che meno dei francesi, figuriamoci! E ingoiò un bicchiere di birra con un'ammiccatina che stava a indicare quanto apprezzasse quella bevanda. Ormai Jos si era trovato tante volte a tu per tu col nemico, e cioè, in altre parole, aveva dovuto affrontare altre volte la compagnia di signore, vuoi a Cheltenham, vuoi a Bath; onde il nostro amico aveva perso gran parte della sua timidezza. Se poi trovava stimolo nell'alcool, ecco che diventava molto loquace. Al reggimento godeva di molte simpatie, perché offriva generosamente da bere ai giovani ufficiali, e li divertiva con le sue arie militaresche. Un famoso reggimento inglese marciava con una capra in testa alla colonna, un altro con un cervo, e George diceva, alludendo al cognato, che il suo reggimento marciava preceduto da un elefante. Da quando Amelia era stata introdotta al reggimento, George aveva cominciato a vergognarsi di certe persone alle quali suo malgrado era stato costretto a presentarla. Pertanto decise, come confidò a Dobbin (ed è facile immaginare come quest'ultimo ne fosse soddisfatto), di farsi trasferire a un reggimento migliore, onde la moglie non fosse costretta a frequentare quelle maledette donnaccole così triviali. Ma questa forma di volgarità - il vergognarsi della compagnia dei propri simili - è un fenomeno assai più diffuso tra gli uomini che tra le donne (a parte le signore dell'alta società, che non ne vanno esenti), e Amelia, creatura semplice e senza fronzoli, non provava affatto quel rispetto umano che suo marito, invece, scambiava per educata riservatezza. Mrs. O'Dowd indossava un cappello adorno di piume di gallo e portava al collo un vistoso orologio a ripetizione che faceva suonare ad ogni occasione raccontando che suo padre glielo aveva regalato nell'istante preciso in cui ella saliva in carrozza dopo la cerimonia nuziale. Questi accessori ed altri particolari dell'abbigliamento della moglie del maggiore erano motivo di sofferenze atroci per il capitano Osborne ogni qual volta Mrs. O'Dowd si trovava in compagnia di sua moglie. Amelia invece trovava né più né meno divertenti le stravaganze della brava signora, e apprezzava la sua compagnia senza provarne la minima vergogna. Del resto, nel corso di quel famoso viaggio, che si può dire ogni inglese della media borghesia si sia premurato di fare, dopo di allora, Amelia avrebbe potuto usufruire di una compagnia più istruttiva, ma certo non più divertente di quella offertale da Mrs. O'Dowd. «Battelli fluviali, questi? quelli che collegano Dublino e Ballinasloe! Quelli sì che sono veri battelli! Quelli sì che sono viaggi veloci! Per non dire del bestiame. Basti dire che mio padre si è meritata una medaglia d'oro (da Sua Eccellenza in persona che, dopo aver mangiato una bistecca, ha dichiarato di non aver mai messo sotto i denti una carne così squisita) per un manzo di quattro anni. Parola mia, una bestia così in questo paese non l'ho mai vista.» E questo discorso riscosse l'approvazione di Jos, il quale dichiarò con un sospiro che se si voleva della carne di bue veramente mista di grasso e di magro non c'era che l'Inghilterra. «E dall'Irlanda,» si affrettò a precisare la moglie del maggiore. E continuò, fenomeno assai frequente tra i suoi compatrioti, a snocciolare paragoni dai quali la sua terra natale usciva sempre vincente. L'idea di raffrontare il mercato di Bruges a quello di Dublino, sebbene fosse stata proposta da lei, fu valido pretesto per esternare la sua ironica indignazione. «Vi sarei davvero grata se riusciste a spiegarmi che cosa ci sta a fare quel vecchio torrione in fondo alla piazza del mercato,» disse, e scoppiò in una risata così fragorosa che la torre avrebbe potuto crollarne. La cittadina era zeppa di soldati inglesi. I nostri amici venivano destati la mattina da trombe inglesi, e la sera andavano a letto al suono dei tamburi e delle cornamuse. Tutto il paese, tutta l'Europa si erano levati in armi. Il più grande avvenimento della storia era ormai in procinto di verificarsi, e Mrs. O'Dowd, la quale, secondo ogni logica, avrebbe dovuto interessarsene al pari di chiunque altro, preferiva parlare di Ballinafad e dei cavalli delle scuderie di Glenmalony, e del chiaretto che vi si beveva, interrotta di quando in quando da Jos per dir la sua sul riso e sul curry di Dumdum. Da parte sua Amelia pensava al marito e al modo migliore per testimoniargli il suo affetto. Insomma, si sarebbe detto che questi fossero gli argomenti più interessanti del mondo. Coloro che si divertono a dimenticarsi dei testi di storia e a lavorar di fantasia, pensando a ciò che sarebbe potuto succedere se le cose non fossero andate come invece sono andate (un genere di meditazione sconcertante, stimolante, fantasioso e quanto mai utile) senza dubbio hanno pensato tante volte che Napoleone non abbia scelto il momento più opportuno per evadere dall'Isola d'Elba e lanciare la sua aquila dal golfo di San Juan a Notre Dame. I nostri storici affermano che gli eserciti alleati erano tutti sul piede di guerra, pronti a scaraventarsi da un momento all'altro sull'imperatore dell'Elba. Gli augusti intriganti radunati a Vienna e intenti a spartire i reami d'Europa secondo saggezza, avevano tali e tanti motivi per farsi la guerra, che avrebbero potuto benissimo sfruttare all'uopo le armate che avevano sconfitto Napoleone, se proprio in quel momento non fosse riapparso all'orizzonte l'oggetto del timore e dell'odio comuni. Un re aveva un esercito efficientissimo perché aveva domato la Polonia ed era ben deciso a tenersela; un altro si era impadronito di mezza Sassonia ed era altrettanto deciso a non mollarla; un altro guardava con occhio avido all'Italia. Ognuno si doleva della rapace smania di conquista del suo vicino, e se il Corso avesse avuto la pazienza di attendere nella sua isola di prigionia fino a quando quei signori si fossero scannati fra di loro, avrebbe potuto tornare a regnare indisturbato. Ma quale sarebbe stata, allora, la sorte dei nostri amici? Quale il corso della nostra storia? Se tutte le gocce di cui si compone si asciugassero, cosa ne sarebbe del mare? Frattanto quell'esercizio quotidiano che si chiama vivere, e la corsa al piacere proseguivano imperterriti, come se non dovessero mai cessare e il nemico fosse pura immaginazione. Quando i nostri viaggiatori arrivarono a Bruxelles dov'era di stanza il loro reggimento (quale fortuna!, fu il loro commento), scoprirono di trovarsi in una delle più brillanti fra tutte le piccole capitali d'Europa: i baracconi della Fiera della Vanità vi erano adorni degli orpelli più smaglianti, attraenti, tentatori che si potessero immaginare. Si giocava e ballava dappertutto, per non dire delle cene, che sembravano fatte apposta per saziare nel modo più delizioso l'ingordigia del nostro Jos. C'era un teatro nel quale l'insuperabile Catalani' mandava in visibilio il pubblico; c'erano splendide passeggiate ravvivate dallo splendore marziale delle uniformi. Bruxelles era un'antica, attraente città ove la diversità dei costumi e le splendide architetture incantavano gli occhi della piccola Amelia, che non era mai stata all'estero c le riservavano di continuo seducenti sorprese. Perciò da quel momento e per un periodo di qualche settimana, in un elegante appartamento affittato da Jos e da Osborne (il quale profondeva denaro e attenzioni nei riguardi della moglie), per circa quindici giorni, dicevo, trascorsi i quali la sua luna di micie ebbe termine Mrs. Amelia si sentì lieta e felice come può esserlo qualsiasi sposina inglese di fresca data che si trovi in viaggio di nozze all'estero. Per quel benedetto lasso di tempo ogni giorno ci furono divertimenti e novità per tutti. C'era da visitare una chiesa, oppure un museo: un giorno si organizzava una gita in campagna, un altro si andava all'Opera. Le bande dei reggimenti suonavano ad ogni ora del giorno. Nel parco passeggiavano esponenti della più raffinata società inglese. George che ogni sera conduceva la moglie in nuovi ritrovi, in nuovi ristoranti, era come sempre molto soddisfatto di se e giurava che stava diventando un marito-modello. Al ristorante con lui! Al picnic con lui! Non bastava, tutto ciò, a far battere di gioia il piccolo cuore di Amelia? Le lettere che la giovane sposa scriveva a sua madre traboccavano di gratitudine e di felicita. Il marito la esortava a comperare trine, cappellini, gioielli e ninnoli di ogni genere. Sì, era davvero il migliore, il più affettuoso, il più generoso nonio che fosse mai apparso sulla faccia della terra! Il semplice fatto di posar l'occhio sul nobile consenso di duchi e duchesse e di tutti gli esponenti dell'aristocrazia che gremivano la città (e si potevano vedere in tutti i locali pubblici) bastava a deliziare George, colmando il suo animo totalmente britannico di profonda, intima compiacenza. Avevano messo in disparte quell'aria di disincantato insolente buonumore che a volte sono peculiari dei grandi signori quando sono in patria, e dal momento che frequentavano quasi tutti i ritrovi, acconsentivano a mescolarsi alla gente che vi trovavano. Una sera, a un ricevimento organizzato dal generale che comandava la divisione alla quale apparteneva anche il reggimento di George, quest'ultimo fu onorato di un giro di ballo con Lady Blanche Thistlewood, figlia di Lord Bareacres, onde si diede un gran daffare per procacciare gelati alla sua dama e alla di lei madre, per chiamare la loro carrozza. Poi, di nuovo a casa, prese a vantare quella sua conoscenza con la contessa in questione con una mancanza di tatto quale nemmeno suo padre sarebbe riuscito a raggiungere. Il giorno dopo si recò a far visita alle due signore; cavalcò nel parco al loro fianco; le invitò a pranzo in un ristorante insieme con tutto il loro seguito, e quando esse accettarono, sembrava non stesse più nella pelle per la gioia. In effetti, il vecchio Lord Bareacres, che era dotato di scarso orgoglio ma di un ottimo appetito, sarebbe andato a cena ovunque e con chiunque. «Voglio augurarmi che non ci saranno altre donne oltre a quelle del nostro gruppo,» disse Lady Bareacres, un tantino preoccupata per quell'invito accettato con eccessiva precipitazione. «Per l'amor del Cielo, mamma, credi che quel bellimbusto si porterà appresso anche sua moglie?» strillò Lady Blanche che la sera prima si era languidamente abbandonata fra le braccia di George durante un giro di walzer, una nuova danza di recente importazione che cominciava ad andar di moda. «Gli uomini sono sopportabili, ma le donne...» «Si sono appena sposati,» rispose il vecchio conte, «e a quanto mi dicono la moglie è oltremodo graziosa.» «Se tuo padre ci tiene ad andare, dobbiamo andare, cara Blanche,» disse la madre. «D'altronde, una volta rientrati in Inghilterra non manterremo certo rapporti con loro.» Pertanto, una volta presa la decisione di ignorare quella nuova conoscenza quando fossero tornati a Londra, le due aristocratiche signore si recarono a consumare la cena che George offriva loro in quel di Bruxelles, e avendo accettato ch'egli la pagasse onde procurar loro un divertimento, posero al riparo la propria dignità mettendone a disagio la moglie ed escludendola dalla conversazione. Per un filosofo che frequenti la Fiera della Vanità, è motivo di autentico divertimento osservare come una dama d'alto lignaggio si comporti nei confronti di una donna di condizione sociale più modesta. Questo banchetto, che costò a George un bel po' di quattrini, fu per Amelia la serata più deprimente della sua luna di miele. Scrisse a sua madre un penoso resoconto di quel festino: come Lady Blanche la fissasse con l'occhialino; come il capitano Dobbin si fosse indignato per il loro contegno; e come Milord, al momento di andarsene, avesse chiesto di vedere il conto per poi dichiarare che la cena era stata tanto costosa quanto pessima. Ma sebbene Amelia avesse inviato a casa sua un simile resoconto, e avesse parlato sia della disobbliganza dei loro ospiti, sia dell'umiliazione ch'ella aveva patita, cionondimeno Mrs. Sedley si compiacque di quella conoscenza, e prese a parlare ai quattro venti della nuova amica di Amelia, la contessa di Bareacres, tanto che la notizia che il figlio invitava a cena dei Pari del Regno raggiunse la City e le orecchie di Mr. Osborne. Coloro che conoscono nelle sue sembianze attuali il tenente generale Sir George Tufto, commendatore dell'Ordine del Bagno, e lo hanno visto come è dato d'incontrarlo quasi tutti i giorni durante la stagione mentre, infagottato e imbustato, passeggia pavoneggiandosi per Pall Mall nei suoi lucidi stivali a tacco alto; coloro, dicevo, che lo vedono oggi in questa guisa stenterebbero certo a riconoscere l'ardimentoso ufficiale delle campagne di Spagna e di Waterloo. Ora ha nere sopracciglia, un folto groviglio di riccioli bruni e un paio di mustacchi quasi violetti. Nel 1815 era biondo, calvo e aveva il corpo molto più grosso rispetto alle gambe, che in questi ultimi tempi sembrano addirittura essersi rattrappite. A settant'anni (ora è prossimo agli ottanta) i suoi capelli, che erano radi e bianchi, di colpo diventarono folti, bruni e ricciuti, e i baffi e le sopracciglia assunsero il colore che hanno ora. I maldicenti sostengono che ha il torace imbottito di lane, e che i capelli altro non sono che una parrucca, dal momento che non crescono mai. Tom Tufto, col padre del quale il generale ebbe a litigare alcuni anni addietro, afferma che Mademoiselle de Jasey, del Teatro Francese, strappò tutta la chioma di suo nonno nel ridotto del teatro; ma Tom - lo sanno tutti - è un maligno e un invidioso, e comunque la parrucca del generale non ha niente a che vedere con la nostra storia. Un giorno, mentre i nostri amici del ...° passeggiavano per il mercato dei fiori di Bruxelles dopo aver visitato il Municipio (naturalmente Mrs. O'Dowd aveva subito dichiarato che il palazzo di sua madre a Glenmalony era molto più grande e molto più bello), giunse nel mercato un alto ufficiale a cavallo scortato dal suo attendente; scese tra le bancarelle delle fioraie e scelse il più bel mazzo che si potesse trovare. Il mazzo fu avvolto in un foglio di carta, dopo di che l'ufficiale risalì sulla sua cavalcatura, e consegnò i fiori all'attendente, che lo prese e lo portò seguendo con un sorriso il suo superiore che si allontanava al trotto, fiero e soddisfatto. «Se vedeste i fiori di Glenmalony!» stava dicendo frattanto la O'Dowd. «Mio padre ha tre giardinieri scozzesi e nove aiutanti. Abbiamo un ettaro di serre e al momento propizio gli ananassi maturano come se fossero pere. La nostre viti fanno grappoli da tre chili l'uno, le nostre magnolie hanno fiori grossi come teiere, ve lo giuro sul mio onore.» Dobbin, che non dava mai spago a Mrs. O'Dowd, come invece faceva con suo sommo divertimento quel perfido di George (con grande terrore e imbarazzo di Amelia che lo scongiurava di risparmiarla), si allontanò in mezzo alla folla sbuffando e cercando di reprimere le risa, fino a quando, raggiunto un angolo sufficientemente lontano, si abbandonò a una fragorosa, interminabile risata, fra lo stupore di tutti i fiorai del mercato. «Si può saper cos'ha da sghignazzare quell'idiota?» disse Mrs. O'Dowd. «Gli sanguina di nuovo il naso? Dice sempre che gli sanguina il naso, ormai non deve averne più una sola goccia nelle vene.Vero, O'Dowd, che le magnolie di Glenmalony sono grosse come teiere?» «Certo che lo sono, Peggy, e forse sono anche più grandi,» rispose il maggiore. La conversazione venne interrotta, come abbiamo visto, dal sopraggiungere dell'ufficiale che acquistò il mazzo di fiori. «Che cavallo fantastico, accidenti!» esclamò George. «Chi è?» «Dovreste vedere Molasses, il cavallo di mio fratello Molloy Malony, che ha vinto la coppa al Curragh,» prese a dire la moglie del maggiore; e stava per continuare la storia del cavallo e della famiglia, quando venne interrotta dal marito che disse: «È il generale Tufto, il comandante della ...ma Divisione di cavalleria. A Talavera siamo stati feriti tutti e due alla stessa gamba,» aggiunse in tono pacato. «Donde la vostra promozione,» soggiunse Osborne ridendo.«Il generale Tufto? Ma allora, mia cara, sono arrivati i Crawley.» Amelia si sentì mancare, senza sapere il perché. Il sole le parve si offuscasse. Di colpo i tetti spioventi, gli antichi abbaini le parvero meno pittoreschi. Eppure c'era un magnifico tramonto, lo splendente tramonto di una limpida giornata di fine maggio. XXIX • BRUXELLES Mr. Jos aveva affittato una coppia di cavalli per la sua carrozza aperta, e grazie ai due destrieri e all'elegante veicolo di provenienza londinese faceva una figura più che decente durante le passeggiate nei dintorni di Bruxelles. George per parte sua si era comperato un cavallo, e insieme col capitano Dobbin scortava spesso la carrozza nella quale Jos e sua sorella compivano le loro gite quotidiane. Un giorno, mentre si trovavano nel parco per la consueta scarrozzata, ebbero modo di constatare che la deduzione di George era del tutto rispondente al vero: Rawdon Crawley e sua moglie erano arrivati. Ecco infatti, frammista a un piccolo stuolo di cavalieri (alcuni tra i più eminenti personaggi della città) e a lato del galante generale Tufto, apparire Rebecca vestita di un delizioso e attillato abito da amazzone, in sella a uno stupendo cavallo arabo ch'ella cavalcava alla perfezione avendo imparato quest'arte a Queen's Crawley, ove il baronetto, Mr. Pitt e lo stesso Rawdon le avevano dato un certo numero di lezioni. «Ma quello è il duca in persona;» esclamò Mrs. O'Dowd, mentre Jos si copriva di rossore. «E quello sul buio è Lord Uxbridge. Che eleganza! Tale e quale mio fratello Molloy Malony: si somigliano come due gocce d'acqua!» Rebecca non si avvicinò alla carrozza, ma appena si accorse che nel veicolo sedeva la sua vecchia amica Amelia lasciò capire di averla vista con un vezzoso cenno del capo e con un sorriso, mandandole un bacio e agitando scherzosamente il dito in direzione della carrozza. Poi riprese la conversazione col generale Tufto, il quale domandò chi fosse «quel grassone di ufficiale col berretto adorno di un gallone d'oro». Becky rispose che era un ufficiale amministrativo delle Indie Orientali. Rawdon Crawley invece abbandonò momentaneamente il suo gruppo e si accostò ad Amelia alla quale strinse calorosamente la mano; poi si rivolse a Jos e lo salutò dicendogli: «E allora, vecchio mio, come va la vita?» Dopo di che prese a fissare la faccia e le penne di gallo nere di Mrs. O'Dowd con un'espressione così attonita, ch'ella s'illuse di averlo conquistato. «George, ch'era rimasto indietro, si avvicinò quasi subito accompagnato da Dobbin, ed entrambi portarono la mano al berretto per riverire quegli illustri personaggi in mezzo ai quali Osborne notò immediatamente Mrs. Crawley. Nel contempo si compiacque di vedere Rawdon chino sulla carrozza intento a conversare con Amelia, e rispose con molta cordialità al caloroso saluto dell'aiutante di campo. Quanto al cenno di saluto che si scambiarono Rawdon e Dobbin, rimase confinato entro i limiti della più stretta cortesia. Rawdon disse a George che erano scesi all'Hôtel du Parc insieme al generale Tufto, e George indusse l'amico a promettere che sarebbero venuti in visita a casa loro. «È un vero peccato non avervi incontrato tre giorni fa. Abbiamo offerto una cena al Restaurateur... una serata deliziosa, davvero! Lord Bareacres e la contessa, con Lady Blanche sono stati così gentili da accettare il nostro invito. Sarei stato ben lieto di avere ospiti anche voi.» Dopo di che, avendo trovato il modo di far sapere a Rawdon che anch'egli aveva pieno diritto di esser considerato un personaggio alla moda, Osborne prese congedo dall'amico, il quale seguì l'augusta comitiva lungo il viale, mentre George e Dobbin tornavano al loro posto, ai due lati della carrozza nella quale sedeva Amelia. «Che aspetto marziale ha il duca!» commentò Mrs. O'Dowd. «I Wellesly e i Mallony sono imparentati, ma io, inutile dirlo, sono una povera donna... come potrei osare di presentarmi a Sua Grazia? A meno che lui non ricordi i leganti che uniscono le nostre famiglie...» «È un vero soldato,» disse Jos, che si sentiva molto più a suo agio, ora che l'eminente personaggio si era allontanato. Chi mai ha saputo vincere una battaglia come quella di Salamanca! Eh, cosa ne dici, Dobbin? Già: ma dove ha imparato il mestiere? In India! Eh, sì, caro mio. La giungla è la scuola ideale per un generale, tieni a mente quello che ti dico. Anch'io l'ho conosciuto, Mrs. O'Dowd. Una sera, a Dumdum, abbiamo ballato tutti e due con Miss Cutler, figlia di quel Cutler dell'artiglieria. Fior di bella ragazza, perdìo!» Durante l'intera passeggiata l'apparizione di quegli illustri personaggi fu il tema fisso della loro conversazione. E non solo durante la passeggiata: anche a cena, e più tardi, fino al momento di recarsi tutti insieme all'Opera. Sembrava quasi di essere nella vecchia Inghilterra. Il teatro era gremito di notissime facce inglesi e di quelle splendide toilettes per le quali le signore inglesi vanno famose. Fra costoro Mrs. O'Dowd non era certo la meno splendida: aveva un ricciolo che le scendeva sulla fronte e intorno al collo una parure di diamanti irlandesi e di cairngorms che, a sentir lei, mortificavano qualunque altro gioiello presente in teatro. La sua presenza causava a Osborne le pene dell'inferno. Non solo la O'Dowd prendeva immancabilmente parte a tutti i divertimenti ai quali sapeva che i suoi giovani amici avrebbero partecipato, ma non le passava nemmeno per l'anticamera del cervello che la sua compagnia potesse non essere molto accetta. «Finora ti è servita, mia cara,» commentò George il quale, in effetti, quando sapeva che Amelia era in sua compagnia esitava meno a lasciarla sola, «ma adesso grazie al Cielo è arrivata Rebecca. Ora sarà lei a farti compagnia e potremo sbarazzarci di quella maledetta irlandese.» Amelia non rispose ne sì né no; ma chi potrebbe dire quali fossero i suoi pensieri? Naturalmente il coup d'oeil offerto dal Teatro dell'Opera di Bruxelles parve ben misera cosa a Mrs. O'Dowd, in confronto a quello del Teatro di Fishamble Street a Dublino; ed anche la musica francese, secondo lei, non era all'altezza delle melodie della sua terra natia. Tutte opinioni, queste, che la O'Dowd esternava ai suoi interlocutori ad altissima voce, sventolandosi con un enorme e schioccante ventaglio di cui faceva mostra con evidentissima compiacenza. «Chi è quella squisita signora seduta vicino ad Amelia, Rawdon, amor mio?» chiese nel palco di fronte una signora che, sempre gentile col marito in privato, era addirittura affettuosissima con lui in pubblico. «Non vedi quell'incredibile donna con quello strano aggeggio nel turbante, un abito di raso rosso e un enorme orologio al collo?» «Vicino a quella graziosa creatura in bianco?» domandò a sua volta un signore di mezz'età seduto accanto alla signora che aveva rivolto la precedente domanda: un signore imbottito di panciotti, col petto coperto di decorazioni e un vistoso cravattone bianco annodato attorno al collo. «Quella graziosa creatura in bianco è Amelia, generale. Lei nota sempre le belle donne, vero, birbante?» «No, no, per me conta solo una, perbacco!» replicò il generale, estasiato, mentre la signora gli dava un colpetto con un gran mazzo di fiori che teneva in mano. «Càspita, è proprio lui,» disse Mrs. O'Dowd, «e quello è proprio il mazzo che ha comperato al mercato dei fiori!» E quando Rebecca, avendo colto lo sguardo di Amelia, rispose di nuovo col gesto di mandarle un bacio con la mano, la moglie del maggiore O'Dowd, convinta che quel pensierino fosse indirizzato a lei, rispose al saluto con un garbato sorriso, cosa che costrinse di nuovo il povero Dobbin a uscire dal palco per ridersela tranquillamente. Terminato l'atto, George si precipitò fuori del palco per recarsi a porgere i suoi ossequi a Rebecca seduta nella sua loge. Ma nel ridotto s'imbatté in Rawdon e fu costretto a scambiare con lui qualche impressione sugli avvenimenti delle ultime due settimane. «Avete potuto incassare il mio assegno senza difficoltà?» chiese George, dandosi tono. «Sì, grazie, ragazzo mio,» rispose Rawdon. «Felicissimo di darvi la rivincita, se lo vorrete. E il vecchio? Ha mollato?» «Non ancora,» rispose George, «ma mollerà. E poi ho un patrimonio personale che mi viene da mia madre. E la zia ha ceduto?» «Mi ha mandato venti sterline, quella vecchia spilorcia. Allora, quando ci vediamo? Il generale cena fuori martedì. Andrebbe bene, per Voi, martedì? E poi dite a Sedley di tagliarsi quei baffi. Ma come può venire in mente a un borghese di farsi vedere in giro con quei mustacchi e quegli alamari sulla giacca? Arrivederci, dunque, e cercate di venire martedì.» Dopo di che Rawdon si allontanò con due brillanti giovanotti lustri e azzimati, come lui aiutanti di campo di qualche generale. George non si sentì al settimo cielo per essere stato invitato proprio il giorno in cui il generale non ci sarebbe stato. «Vado a porgere i miei omaggi a Mrs. Crawley,» aggiunse. «Prego,» rispose Rawdon: e in volto aveva un'espressione piuttosto tetra, mentre i due aiutanti di campo si scambiavano l'occhiata di chi la sa lunga. Ad ogni modo George si allontanò e attraverso il ridotto si avviò verso il palco del generale, di cui aveva accuratamente contato il numero. «Entrez» disse una vocetta squillante, e il nostro amico si trovò al cospetto di Rebecca la quale balzò in piedi, batté sonoramente le mani e poi gliele tese, felicissima - a quanto pareva - di rivederlo. Quanto al generale dal petto coperto di decorazioni, fissò il nuovo venuto con le sopracciglia aggrottate, con l'aria di pensare: «Chi diavolo siete, voi?» «Caro capitano George!» esclamò Rebecca giubilante. «È stato veramente gentile da parte vostra venirci a trovare. Io e il generale cominciavamo ad essere un po' stufi del nostro tête-à-tête. Questo, generale, è il capitano George, di cui mi avete già sentito parlare.» «Sì, sì,» confermò il generale accennando appena ad un lievissimo inchino. «E a quale reggimento appartiene il capitano?» George rispose che apparteneva al ...° Reggimento, ma che gli sarebbe piaciuto immensamente appartenere a un famoso reggimento di cavalleria. «Se non erro è rientrato da poco dalle Indie Occidentali e non ha preso parte a nessuna campagna nell'ultima guerra. Siete di stanza qui, capitano George?» chiese il generale in tono gelido e altezzoso. «Non si chiama George, scioccone,» corresse Rebecca, «il suo nome è Osborne.» Il generale continuava a passare dall'uno all'altro i suoi occhi furibondi. «Ah, dunque siete il capitano Osborne. Imparentato con gli Osborne duchi di Leeds?» «Abbiamo lo stesso stemma,» rispose George. Il che era vero. Infatti, circa quindici anni prima, quando Mr. Osborne aveva comperato una carrozza, dopo aver consultato un esperto di araldica a Long Acre si era fatto dipingere sulla portiera lo stemma dei Leeds. Il generale non replicò a questa rivelazione, ma prese l'occhialino (il binocolo da teatro non era ancora stato inventato) e fece finta di dare un'occhiata in platea; ma Rebecca si accorse che con l'occhio libero guardava invece nella sua direzione e lanciava occhiate di fuoco a lei e a George. Allora Rebecca accentuò il suo tono amichevole. «Come sta la mia cara Amelia? Ah, ma non c'è bisogno che lo chieda. Com'è graziosa! E chi è quella simpatica signora dall'aria così buona e cordiale che le siede accanto? Una vostra fiamma, scommetto... Ah, che perfidi siete, voialtri uomini! E quello è proprio Mr. Jos: ha l'aria di piacergli molto, quel gelato! Perché non abbiamo preso dei gelati anche noi, generale? «Volete che vada a prendervene uno?» proruppe il generale, furibondo. «Lasciate che vada io, ve ne supplico,» disse George. «No, no, voglio andare nel palco di Amelia, voglio andare a trovare la mia cara, la mia diletta amica. Datemi il braccio, capitano George.» Così dicendo fece un cenno del capo al generale e uscì nel ridotto. Quivi, non appena si trovarono a tu per tu, lanciò a George uno sguardo carico di sottintesi e che forse stava a significare: «Lo vedete come stanno le cose e come mi burlo di lui» Ma George non se ne accorse la sua mente era totalmente assorbita dai suoi progetti e dalla contemplazione della propria irresistibile forza di seduzione Le maledizioni che il generale pronunciò a bassa voce non appena Rebecca e il suo conquistatore lo ebbero lasciato furono così spaventose, che se mai qualcuno si arrischiasse a scriverle, nessun proto di Bradbury & Evans si arrischierebbe a comporli. Gli sgorgavano proprio dal cuore, ed è davvero sorprendente che il cuore umano sia in grado di produrre simili frutti, che all'occasione sia pronto ad espellere tanta rabbia, tanto odio, tanto furore. Anche i dolci occhi di Amelia avevano continuato a fissare ansiosamente la coppia che aveva a tal punto scatenato la gelosia del generale. Rebecca entrò nel suo palco e in un impeto incontenibile d'affetto corse incontro ad Amelia abbracciandola, affatto incurante del luogo e del pubblico; abbracciò la sua diletta amica sotto gli occhi di tutta la sala, o per lo meno in modo da esser vista dall'occhialetto del generale, che adesso era rivolto verso di lei e il gruppo degli Osborne. Mrs. Crawley salutò anche Jos con molta affabilità, ammirò gli stupendi diamanti irlandesi e i cairngorms di Mrs. O'Dowd e disse che non riusciva a credere che non venissero direttamente da Golconda. Chiacchierò, svolazzò, si rigirò, sorrise a destra e a manca, e tutto sotto lo sguardo infuocato del generale che la osservava dal palco di fronte. Quando ebbe inizio il balletto (nel quale nessun esecutore poteva vantare una mimica pari alle sue smorfie e alle sue mossette), fece ritorno a precipizio nel proprio palco, ma questa volta al braccio del capitano Dobbin. No, non voleva che fosse George a riaccompagnarla: doveva restare lì a conversare con la sua piccola, dolcissima, incantevole Amelia. «Che razza di commediante è quella donna!» mormorò il buon Dobbin a George, quando ritornò d'aver accompagnato Rebecca al suo palco: tragitto percorso senza aprir bocca e col volto atteggiato all'espressione di un impresario di pompe funebri. «Si dimena e divincola come un serpente. Non ti sei accorto che per tutto il tempo che è rimasta qui ha recitato la commedia per far dispetto al generale che la fissava dal suo palco?» «Commediante? Commedia? Ma cosa ti viene in mente' È la donna più simpatica di tutta l'Inghilterra,» rispose George mostrando la sua candida dentatura e arricciandosi i baffi profumati. «Guardala: Tufto si è già consolato. Guarda guarda come ride! Dio, che spalle ha! Amelia, come mai non hai un mazzo di fiori anche tu? Lo hanno tutte! «Perché non gliene avete offerto uno?» disse Mrs. O'Dowd. Amelia e Dobbin in cuor loro la ringraziarono per questa osservazione veramente tempestiva. Dopo questa battuta le due signore non aggiunsero parola. Amelia era stata affascinata dal brio, dalla conversazione così vivace e frizzante della sua rivale, e persino la O'Dowd rimase silenziosa e come soggiogata dopo quella brillante incursione di Becky. Per tutta la serata non disse più una parola su Glenmalony. «Quando ti deciderai a smettere di giocare, George, come mi hai promesso Dio sa quante volte in questi ultimi cento anni?» chiese Dobbin all'amico qualche sera dopo. «E tu quando ti deciderai a smettere di farmi la predica?» ribatté l'altro. «Si può sapere di cosa diavolo hai paura? Puntiamo basso, e ieri sera ho vinto. Oppure temi che Crawley sia un baro? Se si gioca onesto, alla fine dell'anno ci si ritrova sempre in pari.» «Già, ma se perdesse dubito che sarebbe in grado di pagare,» rispose Dobbin. Ma il suo consiglio ebbe l'accoglienza che solitamente viene appunto riservata ai consigli. Ormai Osborne e Crawley si vedevano con estrema frequenza. Il generale Tufto cenava quasi sempre fuori, e George era sempre accolto con la massima cordialità nell'appartamento che l'aiutante di campo e sua moglie occupavano all'Hôtel du Parc. Il comportamento di Amelia fu tale, quando per la prima volta lei e George si recarono assieme in visita ai coniugi Crawley, che per poco non scoppiò fra di loro il primo litigio. George infatti le rivolse duri rimproveri per aver manifestato la più viva riluttanza all'idea di quell'incontro, e per aver trattato con altezzosa sufficienza Mrs. Crawley, che dopo tutto era una sua vecchia arnica. Amelia non osò replicare, ma sotto lo sguardo del marito, e per giunta con la sensazione che Rebecca cercasse d'indovinare i suoi sentimenti, la seconda volta fu ancora più taciturna della prima, e si sentì, se possibile, ancor più a disagio. Inutile dire che Rebecca, dal canto suo, si mostrò più affettuosa che mai, e non volle assolutamente dar peso alla freddezza dell'amica nei suoi confronti. «Ho l'impressione che Amelia si dia più tono da quando il nome di suo padre è finito sul... volevo dire, dopo la disgrazia,» sussurrò a George. «Per esser sincera, a Brighton avevo creduto che mi facesse l'onore di esser gelosa di me, e adesso immagino che la scandalizzi il fatto che io, Rawdon e il generale viviamo assieme. D'altra parte, mio caro, ditemi voi come potremmo vivere senza un amico col quale dividere le spese. E credete forse che Rawdon non sia abbastanza grande e grosso per tutelare validamente il mio onore? Però sono molto grata a Emmy, molto grata davvero.» «Bah, la gelosia!» rispose George con sprezzante noncuranza. «Quale donna non è gelosa?» «E quale uomo non lo è? Anche voi eravate geloso del generale Tufto, quella sera all'Opera, come il generale Tufto era geloso di voi. Figuriamoci! Credevo che volesse mangiarmi solo perché ero andata con voi a far visita a quella scioccherella di vostra moglie. Come se m'importasse qualcosa di voi due! Volete cenare qui? Stasera il dragone mangia col comandante in capo. Grandi notizie: sembra che i francesi abbiano varcato la frontiera. Potremmo farci una cenetta tranquilla.» George accettò l'invito, sebbene sua moglie fosse leggermente indisposta. Erano ormai sposati da sei settimane. Un'altra donna la dileggiava, la prendeva in giro e lui non se ne offendeva Non se la prendeva nemmeno con se stesso, quel bravo ragazzo. Sarà scandaloso, diceva a se stesso, ma se un: bella donna ti fa delle avances così precise, cosa deve fare un brav'uomo? Tirarsi indietro, forse? «Io non mi faccio tanti pregare con le donne,» ripeteva spesso a Stubble, a Spooney e ad altri commilitoni alla mensa, e questi si guardavano bene dal biasimarlo per questo: anzi ammiravano le sue prodezze. Da che mondo è mondo, dopo le conquiste militari le conquiste in amore sono sempre state motivo di orgoglio tra gli uomini della Fiera della Vanità. Altrimenti perché gli studentelli alle prime armi sarebbero tanto fieri dei loro amori, e Don Giovanni sarebbe un personaggio tanto popolare? Pertanto Mr. Osborne, convinto com'era di far strage di cuori femminili e di esser destinato per naturale vocazione a far sua ogni donna, lungi dall'opporsi al destino lo assecondava con la massima compiacenza. D'altro canto poiché Emmy non parlava molto e non lo affliggeva con manifestazioni o scenate di gelosia, ma si limitava a sentirsi infelice e a soffrire in silenzio, egli trovò del tutto naturale concludere che ella ignorasse ciò che invece era ormai sulla bocca di tutti, e cioè che lui faceva una corte serrata a Mrs. Crawley. Andava a cavallo con Rebecca ogni qual volta lei non aveva impegni, fingeva di avere impegni al reggimento (menzogna alla quale Amelia non credeva di certo) e, lasciando la moglie sola, o tutt'al più in compagnia del fratello, passava le serate coi Crawley, perdendo a carte con Rawdon e illudendosi che la moglie si struggesse d'amore per lui. Non è probabile che i degni coniugi ordissero di comune accordo un vero e proprio complotto, volto ad attirare George con le grazie di lei onde perdesse al gioco col marito; ma indubbiamente i due se la intendevano alla perfezione, tanto che Rawdon permise a Osborne di andare e venire a suo piacimento senza muovere la minima obiezione. Assorbito com'era dai suoi nuovi amici, George non frequentava più Dobbin con l'assiduità di un tempo. Cercava di scansarlo sia in pubblico sia alla mensa e, come abbiamo visto poc'anzi, non mostrava affatto di gradire i moniti che l'amico più anziano gli rivolgeva. Certi suoi atteggiamenti incontravano chiaramente la disapprovazione di Dobbin, come la sua serietà e freddezza nei confronti di George palesavano senza possibilità di equivoco. Perciò, dal momento che in quei giorni, quando si recava in visita dagli Osborne, ben di rado accadeva che Dobbin vi trovasse l'amico, i due evitarono di proposito certi colloqui tanto penosi quanto inutili. Da parte sua il nostro caro George filava a vele spiegate sul mare incantatore della Fiera della Vanità. Forse dai tempi di Dario non si era più visto un seguito brillante come quello che nel 1815 accompagnò il duca di Wellington nei Paesi Bassi. E ve lo accompagnò in un tripudio di banchetti e feste da ballo fino alla vigilia della battaglia. Il 15 giugno del suddetto anno una nobile duchessa diede a Bruxelles un ballo che sarebbe diventato storico. L'evento determinò uno stato di generale, elettrizzante attesa, e personalmente ho sentito raccontare da signore che si trovavano allora in quella città che tutte le persone del loro sesso si preoccupavano molto più di quel ballo che del vicino schieramento nemico Le beghe, le mene, le suppliche per assicurarsi un biglietto d'invito furono, né più né meno, quelle che solo le signore inglesi sanno mettere in atto per intrufolarsi nella società dei loro compatrioti appartenenti alla classe aristocratica. Anche Jos e Mrs. O'Dowd smaniavano per ottenere l'invito, ma lottarono invano per procacciarsi un biglietto. Altri, fra i nostri amici, ebbero invece maggior fortuna. Per esempio, per il tramite di Lord Bareacres (che intese così ricambiare l'invito a cena) George ottenne un invito per il capitano e Mrs. Osborne, circostanza questa che lo mandò al settimo cielo. Quanto a Dobbin, che era in rapporti amichevoli col generale comandante la divisione alla quale apparteneva il loro reggimento, un giorno si recò ridendo da Mrs. Osborne e le mostrò un analogo invito. Jos moriva d'invidia, mentre George si chiedeva come mai un Dobbin potesse essere accolto dall'alta società. Inutile dire che i coniugi Crawley, amici di un generale comandante una brigata di cavalleria, erano tra gli invitati. Finalmente la sera fatidica George, che per l'occasione aveva ordinato per Amelia nuovi vestiti e Dio sa quanti altri fronzoli, si recò al ballo dove sua moglie non incontrò anima viva di sua conoscenza. Dopo essere andato alla ricerca di Lady Bareacres (la quale fece finta di non vederlo, dal momento che l'invito, a suo giudizio, era sufficiente) e dopo aver piazzato sua moglie su un divano, George l'abbandonò ai suoi pensieri, nella ferma convinzione di essersi comportato benissimo con lei, perché le aveva comperato uno splendido abito e l'aveva condotta a una festa da ballo ove era libera di divertirsi come più le piacesse. Ora, non si può dire che i pensieri di Amelia fossero dei più allegri, ma nessuno venne a turbarli ad eccezione del nostro amico Dobbin. Mentre la presenza di Amelia passò affatto inosservata (con grande scorno di suo marito), il début di Mrs. Crawley fu per contro dei più brillanti. Arrivò molto tardi, in abito elegantissimo, il volto raggiante. In mezzo a quell'accolita di eletti personaggi, con tutti gli occhialetti puntati su di lei, Rebecca aveva la stessa aria compunta e distaccata di quando conduceva in chiesa le piccole allieve di Miss Pinkerton. Tutti gli elegantoni presenti nel salone e molti gentiluomini d'alto rango le si affollarono intorno. Quanto alle donne, mormoravano che Rawdon l'aveva rapita da un convento e che era imparentata coi Montmorency. D'altra parte il suo francese era così perfetto che quella voce poteva anche corrispondere a verità. Tutte, poi, erano costrette a riconoscere che i suoi modi erano impeccabili e aveva un tratto veramente distingué. Almeno cinquanta candidati cavalieri le fecero ressa attorno e la supplicarono di conceder loro l'onore di un ballo. Ella peraltro rispose di essere impegnata e che avrebbe ballato pochissimo. Subito dopo si diresse verso il punto ove Amelia sedeva dimenticata e in preda alla più cupa disperazione. Così, come se la sofferenza della povera infelice non bastasse, ecco che sopraggiungeva Rebecca a salutare la sua carissima Amelia, assumendo quella sua aria protettrice. Dapprima trovò a ridire sull'abito dell'amica, poi criticò la pettinatura, quindi si stupì che potesse essere chaussée in un modo simile e per concludere giurò che l'indomani le avrebbe mandato la sua corsetière. Dichiarò che era una festa da ballo semplicemente fantastica: tutti (salvo due o tre persone) si conoscevano. Nel giro di quindici giorni, e dopo due o tre pranzi al massimo, quella giovane donna aveva assimilato in modo così perfetto il gergo dell'alta società, che una vera aristocratica non avrebbe potuto esprimersi in modo più appropriato: solo dal suo francese così perfetto si poteva dedurre la diversità della sua estrazione. George, che aveva lasciato Emmy seduta sul piccolo divano non appena avevano messo piede nel salone, ora che Rebecca sedeva al fianco della sua carissima amica non tardò ad avvicinarsi. In quel momento Becky stava mettendo in guardia Amelia circa le follie che commetteva il suo consorte. «Per amor del cielo,» diceva, «convincilo a smettere di giocare, altrimenti finirà col rovinarsi. Lo sai che è povero. tutte le sere gioca a carte con Rawdon, e se non sta in guardia Rawdon gli vincerà fino all'ultimo scellino. Ma perché non lo previeni, piccola imprudente che non sei altro? Perché la sera non vieni anche tu con noi invece di startene a casa con quel tuo capitano Dobbin? Non nego che sia très aimable, ma come si può amare un uomo con dei piedoni simili? Tuo marito sì che ha dei bei piedini. Eccolo che arriva. Dove siete stato, brigante? Qui c'è la povera Emmy che sta rovinandosi gli occhi a furia di versar lacrime per causa vostra. Siete venuto a cercarmi per la quadriglia?» E abbandonato lo scialle accanto ad Amelia, si allontanò per ballare con George. Eh, sì, solo le donne sanno vibrare colpi simili: nella punta delle loro frecce piccole e acuminate si cela un veleno molto più pernicioso che nelle armi più taglienti degli uomini. La nostra povera Emmy, che non aveva mai odiato né schernito anima viva in vita sua era del tutto impotente, in balla di quella spietata, piccola nemica. George ballò con Rebecca due o tre volte, Amelia non avrebbe nemmeno saputo dire esattamente quante. Se ne rimase seduta sola sola nel suo angolino, salvo nei momenti in cui Rawdon le si avvicinava e tentava di avviare un minimo di conversazione; e più tardi, quando il capitano Dobbin ebbe l'ardire di portarle un rinfresco e di sederlesi accanto. Non gli andava di chiederle perché mai fosse così triste; ma fu lei che, per giustificare le lacrime che stavano per sgorgarle dagli occhi, disse che Mrs. Crawley l'aveva spaventata riferendole che George non aveva perso il vizio di giocare. «Strano a dirsi: quando un uomo si lascia trascinare al gioco, finisce per cadere nelle grinfie di volgarissimi lestofanti.» «È vero,» rispose Amelia, ma il suo pensiero era altrove: non erano le perdite di denaro a causare le sue sofferenze. Finalmente George tornò a prendere lo scialle e il mazzo di fiori di Rebecca. Mrs. Crawley si accingeva ad andarsene e non si degnò nemmeno di venire a salutare Amelia. La povera infelice non disse una parola: attese che il marito si allontanasse, poi chinò il capo sul petto. Qualcuno era venuto a chiamare Dobbin, che in quel momento stava conversando animatamente col generale di divisione e non aveva assistito a quest'ultima scena. George aveva preso il mazzo, ma nel momento in cui lo restituiva alla sua legittima titolare, arrotolato in mezzo ai fiori come un serpente c'era un bigliettino. Rebecca se ne accorse all'istante: le era capitato molte volte di ricevere biglietti galanti e sapeva come comportarsi in queste circostanze. Afferrò il mazzo che le veniva porto, e quando i loro occhi s'incontrarono egli capì ch'ella sapeva benissimo ciò che vi avrebbe trovato. Quanto al marito, si affrettò a condurre via la moglie, troppo assorto nei suoi pensieri per accorgersi dei cenni d'intesa che potevano essersi scambiati la moglie e l'amico. Del resto, si trattò di cenni appena percettibili: Rebecca porse la mano a George con una della sue fugacissime occhiate, fece un piccolo inchino e se ne andò. Quanto a George, si chinò a baciarle la mano, non rispose alle parole rivoltegli da Rawdon e forse nemmeno le udì. Tale era la sensazione di trionfo e lo stato di esaltazione che gli sconvolgevano il cervello che li guardò allontanarsi senza battere ciglio. Quanto a sua moglie, colse almeno una parte della scena del mazzo di fiori. Era del tutto naturale che George, su richiesta di Rebecca, fosse venuto a ritirare il suo scialle e il suo mazzo; era esattamente quello che negli ultimi giorni aveva fatto non meno di venti volte; ma questa volta Amelia non seppe resistere. «William,» disse all'improvviso, afferrandosi a Dobbin che le stava accanto, «voi siete sempre stato così gentile con me... io... io... non mi sento bene. Per favore, accompagnatemi a casa.» Non si era nemmeno resa conto di averlo chiamato per nome come faceva solitamente George. La casa non era molto lontana, e si allontanarono in mezzo alla folla che sembrava non meno turbinosa e agitata di quella che si trovava radunata alla festa da ballo. Più di una volta, tornando da una festa o da un ricevimento, George si era inquietato trovando la moglie ancora sveglia, cosicché andò a letto immediatamente. Naturalmente non dormì, ma sebbene il frastuono e il galoppo dei cavalli fosse incessante, le ragioni che la tenevano sveglia erano di tutt'altra natura. Osborne intanto al colmo dell'eccitazione, si avvicinò a un tavolo da gioco e prese a giocare a ritmo frenetico. Vinse ripetutamente. «Mi va tutto a gonfie vele, stasera,» disse. Ma nemmeno quella vincita a carte valse a placare la sua eccitazione, onde si avvicinò al buffet e tracannò vari bicchieri di vino. Qui Dobbin lo trovò mentre chiacchierava, visibilmente alterato e irrequieto, ridendo sgangheratamente. Era già stato a cercarlo al tavolo da gioco, e come George era ilare e acceso in volto, l'amico appariva pallido e grave. «Salve, Dob. Ehi là, vecchio Dob, vieni a farti una bevutina! Il vino del duca è veramente squisito. Un'altra, prego,» soggiunse, porgendo al capitano la coppa con mano tremante. «Vieni fuori, George,» disse Dobbin sempre serio in volto. «E smettila di bere.» «Bere! Ah, non c'è niente che valga il vino, in fatto di bere! Bevi anche tu e cerca di lasciar perdere quella tua faccia da funerale, vecchio mio. Alla tua salute!» Dobbin gli si avvicinò e gli sussurrò qualcosa. George ebbe un violento sussulto. Lanciando un fragoroso «Hurrah!» Vuotò d'un fiato il bicchiere, lo sbatté sul tavolo e si allontanò rapidamente al braccio dell'amico. «Il nemico ha varcato la Sambre e il nostro fianco sinistro e già impegnato,» gli aveva detto Dobbin. «Fra tre ore partiamo.» George lasciò il ballo eccitatissimo e coi nervi a fior di pelle a causa di quella notizia tanto attesa e desiderata, e adesso giunta così repentina. Cosa contavano adesso l'amore e le avventure? Ripensò alla vita passata e alle prospettive che gli riservava l'avvenire, al destino che lo attendeva, alla moglie, al bimbo dal quale: si stava forse separando prima ancora di averlo conosciuto. Ah, come avrebbe voluto poter cancellare ciò che era accaduto quella notte! Come avrebbe desiderato sentirsi la coscienza tranquilla, almeno per dire addio a quella dolce, innocente creatura della quale aveva saputo così puro apprezzare l'amore! Ripercorse col pensiero il fugace periodo trascorso dal giorno del suo matrimonio. Nel giro di pochi giorni aveva, con assoluta incoscienza, dissipato il suo piccolo capitale. Era stato un mascalzone, un irresponsabile. E se gli fosse accaduta una disgrazia? Cosa sarebbe stato di lei? Era veramente indegno di Amelia. Perché l'aveva sposata? Non era un uomo adatto al matrimonio. Perché aveva disobbedito a suo padre, sempre tanto generoso con lui? Il cuore gli traboccava di speranze, di rimorso, di ambizione, di tenerezza e di egoistici rimpianti. Sedette e cominciò a scrivere al padre, e alla mente gli riaffiorava il ricordo di un'altra lettera, scritta alla vigilia di un duello. L'alba accendeva lievemente il cielo mentre terminava quella lettera di addio. La suggellò e ripensò alle circostanze in cui aveva abbandonato il padre, alle mille gentilezze che quel vecchio così severo gli aveva sempre usate. Appena giunto a casa aveva spinto lo sguardo in camera da letto. Amelia riposava tranquilla. Aveva gli occhi chiusi ed egli fu contento che dormisse. L'attendente, già impegnato nei preparativi della partenza, intese a volo il segno di George che gli ingiunse di non aprir bocca e continuò a lavorare alacre e veloce. George non sapeva se svegliare Amelia o lasciare un biglietto al fratello pregandolo di consegnarglielo. Di nuovo entrò nella camera per guardarla ancora. Amelia era sveglia anche quando lui era entrato per la prima volta, ma aveva finto di dormire perché non voleva che il farsi trovar desta venisse interpretato dal marito come un rimprovero. Vedendolo rientrare subito dopo di lei, si era sentita un poco rasserenata, e dopo averlo seguito mentre usciva dalla stanza l'aveva colta un sonno leggero. George si accostò al letto per guardarla, con un passo ancora più leggero di prima. Alla tenue luce della lampada da notte contemplò quel dolce, tenero viso, le palpebre chiuse, di un rosa acceso, erano frangiate dalle lunghe ciglia e un braccio rotondo, bianco e liscio, poggiava sulla coperta. Buon Dio, com'era pura, com'era gentile, tenera e sola, completamente sola! Com'era stato egoista, colpevole, brutale! Col cuore stretto dall'angoscia e dalla vergogna indugiò ai piedi del letto contemplando la giovane moglie dormiente. Come poteva osare, come poteva pregare per una creatura tanto innocente? Dio la benedica! Dio la benedica! Facendosi accosto al letto posò lo sguardo sulla mano, su quella piccola mano morbida che giaceva inerte nel sonno; poi, silenzioso, si chinò su quel pallido, dolce visino. Mentre si curvava, due braccia leggiadre si chiusero teneramente intorno al suo collo. «Sono sveglia, George,» disse la povera bimba infelice, con un singhiozzo che sembrava volesse spezzare quel cuoricino che premeva stretto contro il suo. Era sveglia, e per che cosa, povera creatura? In quel momento dalla Piazza d'Armi giunse nitido e squillante il suono di una tromba, ed altre le risposero da ogni parte della città. Poi la città si destò al rullo dei tamburi delle fanterie e al suono stridulo delle cornamuse scozzesi. XXX • LA RAGAZZA CHE HO LASCIATO Non abbiamo alcuna pretesa si essere annoverati fra gli autori di romanzi di guerra. Il posto che ci compete è tra i non-combattenti. Quando i ponti vengono sgomberati in vista delle imminenti operazioni, noi ci ritiriamo sottocoperta accontentandoci modestamente di attendere. Saremmo solo d'ingombro ai prodi che stanno battendosi sopracoperta. Pertanto non sarà nostro compito accompagnare il ...° Reggimento oltre le porte della città, lasciando che il maggiore O'Dowd compia il suo dovere per ritornare a sua moglie, alle altre signore e ai bagagli. Il maggiore e la Consorte, non essendo stati invitati al ballo al quale, nel capitolo precedente, avevano preso parte altri nostri amici, ebbero agio di riposarsi molto meglio di coloro che, oltre a compiere il loro dovere, smaniavano di divertirsi. «Sono convinto, cara Peggy,» disse il maggiore tirandosi placidamente sul capo il berretto da notte, «che fra un paio di giorni dovremo ballare un certo ballo di cui molti fra quei signori non hanno mai sentito la musica.» E, dopo essersi bevuto in pace un buon bicchiere, era molto più soddisfatto di andarsene a dormire, che di prender parte a qualsiasi genere di festeggiamento. Peggy, dal canto suo avrebbe probabilmente gradito di poter approfittare del ballo per sfoggiare il suo turbante giallo e relativo uccello del paradiso, ma le notizie che le aveva dato suo marito la indussero a meditare su pensieri molto più gravi. «Per favore, svegliami mezz'ora prima dell'adunata,» disse il maggiore a sua moglie. «Chiamami all'una e mezzo e preparami la roba, se non ti spiace. Potrebbe darsi che non tornassi per colazione, Mrs. O'Dowd.» E dopo aver pronunciato queste parole, che stavano a significare come a suo parere il reggimento si sarebbe messo in marcia la mattina seguente, il maggiore tacque e si addormentò. Mrs. O'Dowd, in diavolini e corpetto, da brava moglie qual era comprese che in quel momento il suo dovere era agire, non dormire. «Per dormire ci sarà tempo quando Mick sarà partito,» pensò. Così gli preparò il bagaglio, gli spazzolò la giubba, il berretto e gli altri indumenti militari, poi li dispose in bell'ordine, pronti per essere indossati. Da ultimo infilò nella tasca del cappotto un piccolo involto con qualcosa da mangiare per il viaggio e una fiaschetta impagliata piena di un Cognac forte, sano, di ottima qualità, che lei e il marito apprezzavano in modo affatto particolare. Poi, non appena le lancette del suo orologio segnarono l'una e mezza, e la suoneria (pareva quella dell'orologio di una cattedrale, diceva spesso la sua proprietaria) suonò l'ora fatale, Mrs. O'Dowd svegliò il maggiore, dopo di che bevve con lui una buona tazza di caffè, non dissimile da tante altre che quella mattina furono bevute a Bruxelles. E chi mai oserebbe affermare che i preparativi messi in atto da quella semplice e brava donna manifestassero un affetto meno profondo dei fiumi di lacrime e degli attacchi isterici coi quali altre donne meno salde di nervi esternarono il loro attaccamento, o che il rito frugale di sorbire insieme una tazza di caffè, mentre le trombe suonavano l'adunata e in tutti i quartieri della città rullavano i tamburi, non fossero molto più utili e intonati alle circostanze di altre più conclamanti estrinsecazioni amorose? Fatto sta che il maggiore comparve all'adunata fresco, lindo e in forma e che, una volta in sella al suo cavallo, il suo volto roseo e ben rasato ispirò allegria e fiducia a tutto il battaglione. Gli ufficiali salutarono la moglie del maggiore, mentre il reggimento sfilava sotto il balcone al quale si trovava affacciata qualche donna coraggiosa, che ricambiava il loro saluto mentre passavano. E mi permetterei di avanzare l'ipotesi che Peggy O'Dowd si rassegnava a non condurre di persona in battaglia il ...° Reggimento, non per mancanza di coraggio, ma per un senso di delicatezza e di dignità femminili. La domenica, o in altre occasioni solenni, Mrs. O'Dowd indugiava a leggere qualche pagina di un grosso volume di sermoni dello zio decano. (quel libro le era stato di grande aiuto morale quando, durante il viaggio di ritorno dalle Indie Occidentali, la nave sulla quale viaggiavano per poco non aveva fatto naufragio. Di conseguenza, non appena il reggimento fu partito, ella lo prese onde leggere e meditare. Può darsi che non comprendesse perfettamente ciò che leggeva, o che i suoi pensieri fossero volti altrove; ma dormire quando il berretto da notte del suo Mick era ancora li, posato sul guanciale, le era proprio impossibile. Così va il mondo: Jack e Donald se ne partono verso la gloria col sacco sulle spalle, e marciano spediti sul motivo di La ragazza che ho lasciato, mentre chi rimane ha tutto il tempo di pensare, di ricordare, di soffrire. Mrs. Rebecca, perfettamente consapevole di quanto i rimpianti fossero inutili, e come l'abbandonarsi al sentimento sia solo fonte d'infelicità, molto saggiamente decise di non abbandonarsi a manifestazioni di dolore, e affrontò la separazione dal marito con stoicismo quasi spartano. Per dire la verità, il capitano Rawdon soffri per quella separazione molto di più della risoluta donnina alla quale aveva dovuto dire addio. Mai, in tutta la sua vita, era stato felice come negli ultimi mesi, dopo il matrimonio. La moglie era riuscita ad aver ragione della sua natura rozza e grossolana, e lui l'amava, l'adorava, la rispettava, dando fondo ai migliori sentimenti di cui era capace. Tutti i piaceri che aveva conosciuto prima, alle corse, alla mensa ufficiali, a caccia, al tavolo da gioco; tutte le sue lontane marachelle amorose con sartine e ballerinette dell'Opera, ed altri consimili successi di quell'Adone in divisa, diventavano ben misera cosa in confronto alle legittime gioie maritali che aveva apprezzato ultimamente. Lei sapeva come farlo divertire, ed egli la ricambiava dando prova di gradire la propria casa e la compagnia della consorte di gran lunga più piacevole di qualsiasi luogo, di qualsiasi casa avesse mai frequentato dall'infanzia a oggi. Imprecava contro le follie del passato, malediceva gli scialacquii e soprattutto si doleva per gli innumerevoli debiti tuttora insoluti: situazione, questa, che impediva alla moglie di fruire di una posizione più elevata in società. Era, questo, un ricorrente argomento delle loro conversazioni notturne mentre da scapolo non gli era mai passato per il cervello di darsene pensiero. (questo fenomeno non mancava di stupirlo. «Maledizione!» diceva, (quando non ricorreva ad espressioni più «forti» fra quante gliene consentiva il suo scarno vocabolario). «Prima di sposarmi non m'importava un fico di firmare cambiali, e finché Moses era disposto ad aspettare o Levy rinnovava per tre mesi, continuavo tranquillamente ad infischiarmene. Ma da Quando mi sono sposato. ti giuro che non ho più toccato una sola cambiale (eccetto, beninteso, per rinnovarle.)» Rebecca sapeva a quali espedienti ricorrere per fargli superare quelle crisi di malinconia. «Tesoro mio,» diceva, «sei proprio uno scioccone. Non abbiamo perso ancora tutte le speranze con la zia. E se anche la zia non cedesse, non abbiamo forse quella che tu chiami la "Gazette"?» Oppure... stammi a sentire: ho un'idea per quando tuo zio Bute morirà. Il beneficio ecclesiastico è sempre spettato al fratello minore, e tu perché non dovresti vendere il tuo brevetto di capitano e entrare nelle gerarchie della chiesa?» L'idea di questa metamorfosi fece scoppiare Rawdon in una risata così fragorosa, che nel silenzio della notte rimbombò per tutto l'albergo. Anche il generale Tufto, dalla sua camera al piano superiore, udì gli ah! ah! ah! della grossa voce del dragone. A colazione, poi, Rebecca rifece spiritosamente tutta la scena per il diletto del generale, e arrivò al punto d'improvvisare, lì sui due piedi, il primo sermone di Rawdon. Ma questi discorsi appartenevano ormai alle giornate trascorse. Quando arrivò la notizia definitiva che la campagna era iniziata, e giunse contemporaneamente l'ordine di mettersi in marcia, Rawdon si fece così serio ed inquieto che Rebecca lo prese in giro, e quasi offese la suscettibilità del nostro ufficiale della Guardia. «Non crederai che abbia paura, Becky,» le disse con un tremito nella voce. «Ma sono un bersaglio abbastanza visibile perché sia facile prendermi di mira; e se vado all'altro mondo lascio una persona (o fors'anche due) alle quali sarei stato felice di provvedere, dal momento che sono stato io a metterle nei pasticci. Quindi non direi che la cosa sia molto comica, cara Mrs. Crawley.» Rebecca cercò di sedare l'irritazione del marito con moine e carezze. Solo quando l'innato senso dell'umorismo aveva la meglio su di lei (ed era una circostanza che si verificava spesso), quella gaia creatura si metteva a far dello spirito; ma sapeva anche assumere un'aria compunta. «Amore mio, pensi forse che anch'io non sia inquieta?» disse, tergendosi qualcosa dagli occhi che, verosimilmente, doveva trattarsi di lacrime; poi alzò lo sguardo e fissò il marito con un sorriso. «Senti,» disse Rawdon, «facciamo il conto di quel ch'io posso lasciare, caso mai dovessi rimetterci la pelle. Ho avuto abbastanza fortuna al gioco, e qui ci sono duecentotrenta sterline. Dei dieci napoleoni che ho in tasca, ne ho a sufficienza. Tanto il generale offre sempre di tasca sua. Se poi ci rimarrò secco, il problema sarà risolto perché non avrò più bisogno di niente. Non piangere, bimba mia. Può anche darsi che campi così a lungo da farti stancare di me. Non porterò con me nessuno dei miei cavalli: prenderò quello grigio del generale. È una soluzione molto più conveniente, e del resto gli ho già detto che il mio è zoppo. Se non torno, potrai vendere i due cavalli e ricavarne una bella sommetta. Giggs ieri mi ha offerto novanta sterline per la cavalla, prima che arrivasse questa malaugurata notizia, ed io sono stato così stupido da non cederla per una cifra che non avesse due zeri. Bullfinch ti renderà il suo valore in qualsiasi momento, ma sarebbe meglio che cercassi di venderlo qui, perché in Inghilterra ho in circolazione troppe cambiali: meglio quindi sbarazzarsene qui. Anche la giumenta che ti ha regalato il generale vale qualcosa, e poi qui non ci sono da pagare tutti quei dannati conti di scuderia che a Londra ci rovinano. Poi c'è quel servizio da toilette che ho pagato duecento sterline, i flaconi col tappo d'oro ne varranno almeno trenta o quaranta. Ti prego di includere anche questo nell'elenco, insieme con le mie spille, gli anelli, l'orologio, la catena d'oro c quanto ancora rimane. Sono costati un pozzo di quattrini. So che Miss Crawley ha pagato cento sterline solo per la catena e l'orologio. Flaconi col tappo d'oro. Proprio così! Adesso mi pento di non aver comperato altre cose. Edwards aveva insistito perché comperassi un calzastivali d'argento, e avrei anche potuto comperarmi un servizio con lo scaldaletto d'argento. Bisogna accontentarsi e cercare di ricavare il massimo da quel che abbiamo. E così, nel dare le ultime disposizioni, il capitano Crawley, che fino al momento in cui Amore non lo aveva soggiogato con le sue frecce aveva pensato solo a se stesso, continuò l'elenco di tutti i suoi effetti personali per stabilire quale somma la moglie avrebbe potuto ricavarne qualora gli fosse capitata una disgrazia. Si diverti ad annotare a matita, con la sua rozza scrittura infantile, tutti i beni che, una volta venduti, avrebbero reso un po' di denaro alla vedova. «La carabina di Manton, per esempio: direi sulle quaranta ghinee; il mantello guarnito di zibellino: circa cinquanta sterline; le pistole da duello nel loro astuccio di bois de rose (quelle con cui ho ucciso il capitano Marker), bah... facciamo venti sterline, la sella con la fondina d'ordinanza, la sella di Laurie...» E proseguì nell'elenco di tutti gli oggetti che Rebecca si sarebbe trovata in eredità. Coerente col proprio proposito di fare economia, il capitano indossò l'uniforme e le spalline più vecchie e logore, affidando quella nuova a sua moglie (che sarebbe potuta diventare la sua vedova). Fu così che il ben noto bellimbusto, abituale frequentatore di Windsor e di Hyde Park, partì per la guerra con un equipaggiamento modesto come quello di un sergente, e mormorando a fior di labbra una specie di preghiera per la donna che si vedeva costretto a lasciare. La sollevò da terra e per un istante la tenne stretta fra le braccia, col cuore che pulsava all'impazzata; e quando la posò di nuovo a terra, aveva il viso acceso e gli occhi velati. Fumando il sigaro, cavalcò silenzioso di fianco al generale, procedendo a veloce andatura perché doveva raggiungere gli uomini della brigata del generale che li precedevano. Solo quando ebbero percorso qualche miglio, smise di torcersi i baffi e ruppe il silenzio. Come abbiamo visto, Rebecca saggiamente aveva deciso di non dar la stura a inutili sentimentalismi per la partenza del marito. Dalla finestra gli fece un cenno di addio, e quivi indugiò qualche istante quando lui se ne fu andato. I campanili delle chiese e i frontoni delle strane, vecchie case di Bruxelles cominciavano a rosseggiare, illuminati dai raggi del sole nascente. Non aveva dormito, quella notte. Indossava ancora il suo elegante abito da ballo, i capelli biondi le scendevano in disordine giù per le spalle e aveva gli occhi segnati da occhiaie per la veglia. «Sono un orrore!» pensò, guardandosi allo specchio, «questo color rosa mi rende ancor più pallida.» Perciò si tolse il vestito rosa e nel fare quel gesto le cadde un biglietto dal bustino. Con un sorriso lo raccolse e lo chiuse a chiave nel suo cofanetto. Poi depose il mazzo di fiori in una caraffa d'acqua e se ne andò a letto in un profondo sonno ristoratore. Si svegliò verso le dieci e bevve il caffè (dopo la stanchezza e gli affanni che le avevano causato gli eventi di quella mattina, un buon caffè andava a meraviglia). Ormai la città era immersa nel silenzio. Terminata la colazione, riprese a fare i calcoli che il buon Rawdon aveva cominciato la notte avanti e considerò la propria situazione. Se fosse accaduto il peggio, tutto sommato si sarebbe trovato in una discreta situazione. Oltre a ciò che le aveva lasciato il marito c'erano il suo corredo e i suoi gioielli. Ci siamo già intrattenuti sulla generosità di Rawdon al tempo delle loro nozze; ma oltre a tutto questo e alla giumenta, il generale, suo schiavo e adoratore, le aveva fatto bellissimi regali: scialli di cashemire comperati a un'asta dei beni della moglie di un generale francese caduto in miseria e molti altri doni tutti provenienti da botteghe di gioielliere, tutti eccellenti testimonianze della ricchezza e del buon gusto del suo adoratore. Quanto poi ai tic-tac, come Rawdon era solito chiamare gli orologi, la casa risuonava del loro ticchettio. Una sera Becky aveva detto incidentalmente che l'orologio inglese donatole da Rawdon non funzionava molto bene, e il mattino dopo aveva ricevuto un autentico gioiello, un orologio di marca Leroy con catena e coperchietto adorno di turchesi, oltre a un secondo orologino, un Breguet, tempestato di piccole perle, poco più grosso di mezza coronai Uno l'aveva comperati, il generale Tufto, l'altro era un delicato pensiero del capitano Osborne. Dal canto suo Mrs. Osborne non possedeva un orologio, tuttavia è doveroso ammettere che, se Amelia glielo avesse chiesto, George non avrebbe esitato a regalarglielo, e in quanto a Mrs. Tufto, in Inghilterra possedeva un oggetto che avrebbe potuto servire da scaldaletto d'argento, al pari di quello che aveva menzionato Rawdon. Se la ditta Howell & James dovesse pubblicare l'elenco delle persone che comperano gioielli, quali sorprese si avrebbero in molte famiglie! E se tutti questi preziosi ninnoli finissero alle mogli e alle figlie di coloro che li acquistano, nelle più nobili case della Fiera della Vanità sarebbe tutta una profusione di gioielli. Terminati i suoi conti, Mrs. Rebecca Crawley constatò, non senza un vivo senso di soddisfazione e di sollievo, che in caso di necessità avrebbe potuto ricominciare la vita da sola facendo assegnamento su almeno sei o settecento sterline. Di conseguenza trascorse piacevolmente la mattinata disponendo in bell'ordine i suoi oggetti, osservandoli, prendendoli in mano, riponendoli. Nel portafoglio di Rawdon trovò, fra altre carte anche un assegno di Osborne per venti sterlina La circostanza le fece venire in mente Mrs. Osborne. «Andrò a incassare l'assegno,» pensò, «e poi andrò a far visita alla povera Emmy» Siccome questo è un romanzo senza eroe, consentite almeno che abbia un'eroina. Nessuno, fra quanti facevano parte dell'esercito inglese partito per il fronte fra tante difficoltà e incertezze; nessuno, dicevo, nemmeno il duca di Wellington in persona, era più freddo e sereno della piccola, indomabile moglie dell'aiutante di campo. Un altro, fra i nostri amici, rientrava nel novero di coloro che non partivano per il fronte. Era un non-combattente, cosicché è nostro diritto sondarne le emozioni e le reazioni. Si tratta di Jos, l'ex ricevitore di Boggley Wollah, il cui riposo (come quello di ogni altro) venne bruscamente interrotto di primo mattino dallo squillo delle trombe. Dal momento che era un dormiglione e gli piaceva moltissimo poltrire a letto forse avrebbe continuato a dormire, ad onta di tutti i tamburi e di tutte le cornamuse dell'esercito britannico, fino alla consueta ora pomeridiana, se non fosse stato destato dal suo sonno. A svegliarlo non fu George Osborne, che era troppo assorbito dai preparativi della partenza e dolente di doversi separare dalla moglie per preoccuparsi di prender congedo dal cognato dormiente, bensì il capitano Dobbin, che volle a tutti i costi stringergli la mano prima di partire. «Siete stato veramente gentile,» disse Jos sbadigliando, mentre in cuor suo mandava al diavolo il capitano. «Non... non potevo partire senza prima venirvi a salutare...» disse il capitano esprimendosi in modo piuttosto confuso. «Voi comprenderete certo che... che qualcuno di noi potrebbe anche non tornare... ed io ho piacere di... di vedervi tutti in buona salute... insomma... capirete... è così.» «Che cosa intendete dire?» chiese Jos stropicciandosi gli occhi. Il capitano non udì affatto le sue parole; anzi, non vide nemmeno quel grasso signore in berretto da notte per il quale stava manifestando un così vivo interessamento. L'ipocrita stava invece cercando di vedere c di sentire ciò che accadeva nelle stanze di George e camminava su e giù per la camera, tamburellava con le dita, si mordicchiava le unghie, incespicava nelle sedie e le faceva cadere, palesava insomma il suo forte stato emotivo. Jos non aveva mai avuto un'alta opinione di Dobbin, ma ora lo colse il dubbio che avesse paura. «C'è qualcosa ch'io potrei fare per voi, capitano?» gli chiese in tono sarcastico. «Ve lo dico io cosa potreste fare,» rispose Dobbin, avvicinandosi al letto. «State dunque attento a quel che vi dico. non allontanatevi di qui sino a quando non saprete esattamente come vanno le cose; abbiate cura di vostra sorella, confortatela e vegliate su di lei. Tenete presente che, se dovesse capitare qualcosa a George, lei non ha nessuno al mondo a cui potersi affidare tranne voi. Se dovessimo subire una sconfitta, pensate voi a riportarla sana e salva in Inghilterra e datemi la vostra parola che non l'abbandonerete mai. So che non l'abbandonerete, di questo mi sento sicuro. Quanto al denaro, ne avete sempre speso con una certa generosità. Vi chiedo tuttavia se ne avete bisogno. Voglio dire, ne avete a sufficienza per tornare in Inghilterra in caso di disgrazia?» «Signore,» rispose Jos in tono solenne, «quando ho bisogno di denaro so perfettamente come procurarmelo. In quanto a mia sorella, non avete nessun bisogno di spiegarmi come debbo comportarmi con lei.» «Sono parole in tutto degne di voi,» rispose Dobbin in tono affatto naturale e cortese, «e mi conforta il fatto che George possa affidarla in mani così degne. Quindi io potrò dargli la vostra parola d'onore che in caso di disgrazia voi non l'abbandonerete?» «E come no?» rispose Jos, del quale Dobbin aveva esattamente valutato la generosità in fatto di denaro. «E che procederete ad allontanarla da Bruxelles nell'eventualità di una sconfitta?» «Sconfitta? Ma non è il caso di considerare una simile ipotesi, per Giove! Cercate forse di spaventarmi?» gridò l'eroe dal suo letto. Così Dobbin, sentendo Jos esprimersi con tanta decisione circa l'atteggiamento che avrebbe assunto nei confronti della sorella, si tranquillizzò. «Anche se dovesse accadere il peggio,» pensò il capitano, «sarà sempre in grado di fuggire.» Ad ogni modo, se il capitano Dobbin si aspettava di avere il conforto e la consolazione di vedere ancora una volta Amelia prima della partenza, il suo egoismo ebbe la punizione che meritava una siffatta, odiosamente egocentrica concessione della vita. La porta della camera di Jos si apriva in un salottino che serviva per tutta la famiglia e aveva di fronte la porta della camera da letto di Amelia. Le trombe avevano svegliato l'intera città, non aveva più senso nascondere la notizia. In quel salottino l'attendente di George era impegnato a preparare i bagagli, e Osborne andava e veniva tra quel locale e la camera da letto gettandogli tutto ciò che a suo giudizio poteva tornargli utile in guerra. Ben presto Dobbin vide concretarsi quell'occasione che nel segreto del suo cuore desiderava tanto ardentemente: rivedere una volta ancora il volto di Amelia. Ma quale volto! Un volto così pallido e pervaso di cupa disperazione, che Dobbin vedendolo, fu di nuovo assalito dal rimorso, come se avesse commesso un delitto. Quella visione lo colmo di angoscia, e al tempo stesso di commossa pietà. Amelia era avvolta in una vestaglia bianca, i capelli sciolti sulle spalle, i grandi occhi fissi e vitrei. Per offrire il suo aiuto e dimostrare che anche lei sapeva comportarsi a dovere in un momento tanto critico, la povera infelice aveva prelevato una fusciacca di George dal cassetto ove si trovava, e con quell'oggetto in mano lo seguiva innanzi e indietro osservando i preparativi senza dir parola. Poi uscì dalla stanza e si appoggio alla parete, sempre tenendosi quella fusciacca stretta al petto dal quale la striscia cremisi ricadeva come una lunga macchia di sangue. Guardandola, il nostro buon capitano pensò: «Mio Dio, come posso osare di accostarmi a un dolore come questo?» Non era possibile aiutarla; recare conforto a quella muta, desolante disperazione. Indugiò in piedi a contemplarla per qualche istante, impotente e col cuore esulcerato dalla pietà, come un padre che assista impotente alle sofferenze della propria creatura. Alla fine George prese Emmy per mano, la condusse in camera da letto e da questa uscì, poco dopo, solo. Si dissero addio in quel breve lasso di tempo. Poi George partì. «Grazie a Dio, questa è finita,» si disse George mentre scendeva le scale a precipizio, con la sciabola sotto braccio, e accorreva verso il luogo di adunata del reggimento, e verso il quale affluivano ufficiali e soldati, provenienti dai loro alloggi. Aveva le guance accese, il cuore gli pulsava veloce nel petto. La grande partita della guerra stava per iniziare, ed egli era uno dei giocatori. Quale esaltazione, quale gioia, quanti dubbi e quante speranze! Quale rischio tremendo, si trattasse di perdere o di vincere! Cos'erano mai tutti i giochi d'azzardo coi quali si era cimentato, in confronto a questo che stava per affrontare? Fin dall'infanzia si era sempre buttato coraggiosamente in tutte le gare che richiedessero coraggio e forza fisica, riscuotendo il plauso dei suoi compagni: dalle partite di cricket alle gare di guarnigione, aveva riscosso innumerevoli trionfi.. Ovunque andasse, suscitava l'ammirazione di uomini e donne. Esistono forse qualità capaci di riscuotere un successo immediato e spontaneo come quelle direttamente connesse alla superiorità fisica? Da tempo immemorabile bardi e romanzieri esaltano nelle loro opere la forza e l'ardimento, e dal tempo della guerra di Troia sino ad oggi, per i poeti gli eroi sono i soldati. Chissà se gli uomini ammirano tanto il coraggio, e collocano il valore militare al di sopra di altre qualità ben altrimenti meritorie e degne di ammirazione perché in cuor loro sono dei codardi? Sta di fatto che, al suono di quell'appassionante richiamo alla battaglia, George si sottrasse al tenero abbraccio in cui aveva a lungo indugiato (sebbene il fascino che sua moglie esercitava su di lui fosse assai modesto) e, tutto sommato, provò una certa vergogna per avervi ceduto così a lungo. Anche altri suoi amici, sui quali è occasionalmente caduto il nostro sguardo, provavano lo stesso sentimento di esaltazione e di elettrizzata attesa, dal corpulento maggiore che guidava il reggimento in battaglia al piccolo Stubble, che quel giorno fungeva da portabandiera. Il sole si levò nel momento stesso in cui si mettevano in marcia, e lo scenario era stupendo: la banda in testa alla colonna intonava la marcia del reggimento. Seguiva il maggiore, in sella a Piramo, il suo grosso stallone, poi i granatieri guidati dal loro capitano. Al centro sfilavano le bandiere sorrette dagli alfieri giovani e anziani, poi veniva George alla testa della sua compagnia. Alzò la testa, sorrise ad Amelia e scomparve. Poi anche l'eco della musica svanì in lontananza. XXXI • NEL QUALE JOS SEDLEY SI PRENDE CURA DELLA SORELLA Dal momento che ormai tutti gli ufficiali superiori erano partiti, Jos Sedley rimase al comando della piccola colonia di Bruxelles: Amelia invalida, il domestico belga Isidor, la bonne che fungeva da domestica tuttofare per l'intera famiglia, costituivano la guarnigione alle sue dirette dipendenze. Sebbene l'inopinata visita di Dobbin e gli eventi della mattinata lo avessero maldisposto rovinandogli altresì il riposo, Jos indugiò parecchie ore a letto perfettamente sveglio a crogiolarsi nel calduccio delle coltri, finché giunse l'ora in cui era solito alzarsi. Il sole splendeva già alto nel cielo, e prima che il nostro borghese si presentasse a colazione in veste da camera a fiori, i nostri valorosi amici del ...° Reggimento avevano già alle spalle parecchie miglia di marcia. Non solo l'assenza del cognato George non lo turbava minimamente, ma al contrario se ne compiaceva, perché quando Osborne era presente a lui spettava il secondo posto in famiglia, e George non si peritava di manifestare il suo disprezzo nei confronti di quel grasso borghese. Ma Emmy, con lui, era sempre stata gentile e gli aveva dato prova di ogni sorta di attenzioni. Era lei che si preoccupava di garantirgli le comodità alle quali era assuefatto, era lei a fargli preparare i cibi preferiti, e andava a passeggio o in carrozza con lui (anzi, aveva innumerevoli occasioni di andare a spasso con suo fratello, perché dov'era mai George?) o interponeva il suo dolce viso tra la collera di Jos e lo scherno di Osborne. Si era persino arrischiata a muovere qualche timido rimprovero a George in difesa del fratello; ma suo marito, con quei modi bruschi che gli erano congeniali, aveva drasticamente posto fine alle rimostranze di Amelia dicendole: «Sono un uomo schietto, io e non riesco a nascondere quello che penso. Come diavolo puoi pretendere che rispetti un imbecille come tuo fratello?» Ecco perché Jos si rallegrava in cuor suo che George se ne fosse andato. La vista del cappello da borghese e dei guanti di suo cognato posati sul davanzale, uniti alla consapevolezza che il loro legittimo proprietario si era tolto dai piedi, suscitarono in Jos un brivido di piacere. «Almeno stamane non sarò infastidito dalla sua improntitudine e da quelle sue arie da gran signore,» pensò. «Portate il cappello del capitano in anticamera, Isidor,» ordinò al domestico. «Chissà, può anche darsi che non ne abbia più bisogno,» rispose Isidor rivolgendo al suo padrone uno sguardo d'intesa. Anche lui detestava George, il quale aveva sempre avuto nei suoi confronti un atteggiamento insolente, di stampo prettamente britannico. «E chiedete alla signora se viene a far colazione con me,» aggiunse Mr. Sedley, seccato di aver apertamente palesato agli occhi di un domestico la sua antipatia per il cognato. Ma in realtà, già in altre occasioni aveva sparlato con lui di George. Ahimè, la signora non poteva venire a colazione e tagliare le tartines che piacevano tanto a Mr. Jos. La signora, riferì la bonne, si sentiva troppo male: da quando il marito era partito versava in uno stato da far pietà. Jos, per manifestare la sua comprensione, le versò una bella tazza di te. Era il suo modo di darle una prova lampante di quanto sapesse mostrarsi cortese nei suoi confronti. Ma non si limitò a quel gesto: non solo le mandò la colazione ma si preoccupò delle leccornie che Emmy avrebbe potuto gradire per pranzo. Isidor aveva indugiato a guardare con aria cupa l'attendente di George, mentre si affannava a preparare il bagaglio del suo padrone prima della partenza. Odiava Osborne, perché il suo modo di comportarsi verso di lui, come in genere verso tutti i subalterni, era spesso intollerabile (occorre tener presente che i domestici del continente, meno remissivi dei loro colleghi inglesi, non ammettono di essere trattati con insolenza). Inoltre lo indisponeva l'idea che tanti oggetti di valore gli venissero sottratti per finire in altre mani al momento della sconfitta inglese: una sconfitta sulla quale, sia lui che tante altre persone a Bruxelles e in tutto il Belgio, non nutrivano il minimo dubbio. Quasi tutti pensavano che l'imperatore avrebbe disgiunto l'esercito inglese da quello prussiano, avrebbe sgominato prima l'uno e poi l'altro, dopo di che avrebbe marciato su Bruxelles prima che fossero trascorsi tre giorni. E allora tutti i valori che attualmente appartenevano ai suoi padroni (destinati ad essere uccisi, o ad esser fatti prigionieri, o a fuggire a rotta di collo) sarebbero passati nelle mani di Monsieur Isidor. Ecco pertanto che, mentre assisteva Jos nella sua complessi e faticosa toeletta quotidiana, il pensiero del fido servitore era rivolto all'uso che avrebbe fatto degli indumenti e degli oggetti coi quali, momentaneamente, stava facendo bello il sul padrone. I flaconi da profumo d'argento e le altre suppellettili da toeletta sarebbero serviti per farne omaggio a una gentili fanciulla della quale era invaghito, mentre avrebbe tenuto per sé la grossa spilla di rubini e il servizio di coltelli inglesi. Con una di quelle belle camicie pieghettate, col berretto gallonate d'oro, la giacca adorna di alamari che si sarebbe facilmente potuta modificare adattandola alle sue misure, il bastone da passeggio del capitano col pomo dorato, il grosso anello di rubini che avrebbe fatto trasformare in orecchini, il caro Isidor sarebbe diventato un perfetto Adone, tale da fare di Mademoiselle Reine una facilissima preda. «Come mi doneranno questi gemelli!» pensava, mentre ne allacciava un paio intorno ai polsi grassocci di Mr. Sedley. «Un paio di gemelli mi ci vorrebbero proprio. E gli stivali del capitano! Quelli con gli speroni rimasti nell'altra stanza! Corbleu, che fior di figura mi faranno fare sull'Allée Verte!» Così, mentre Monsieur Isidor radeva il suo padrone reggendogli il naso con la punta delle dita, con gli occhi della fantasia già si vedeva passeggiare su e giù per l'Allée Verte in berretto gallonato e giacca adorna di alamari. E in compagnia, beninteso, di Mademoiselle Reine. Con la mente sostava lungo gli argini sotto le fresche ombre degli alberi, contemplando il lento transito delle chiatte che scendevano i canali, oppure si ristorava con un buon bicchiere di Faro al banco della birreria della strada per Laeken. Ma, ed è una fortuna per la sua intima serenità, Jos non sospettava minimamente quali propositi passassero per la mente del suo domestico, così come io e i miei cortesi lettori non ci sogniamo di sapere quali idee passino per la testa di John o di Mary, ai quali paghiamo il salario. Se sapessimo quali pensieri i nostri cari parenti, o comunque le persone che hanno rapporti di dimestichezza con noi, coltivano nei nostri riguardi, saremmo felicissimi di trasferirci in un mondo completamente diverso giacché ci troveremmo a vivere in preda al terrore e in condizioni di spirito né più né meno insopportabili. Così il domestico di Mr. Jos stava contrassegnando la sua vittima, proprio come un cameriere del ristorante di Mr. Paynter in Leadenhall Street adorna il collo di un'ignara tartaruga di cartellino sul quale sta scritto: «Domani, zuppa di tartaruga.» Al contrario, la cameriera di Amelia non coltivava propositi tanto egoisti. Del resto, pochi dipendenti potevano accostarsi a quella fanciulla così dolce e gentile senza accordarle quel tributo di lealtà e di affetto ch'ella si meritava in virtù del suo carattere affettuoso e lietamente disposto verso il prossimo. Non c'è dubbio che Pauline, la cuoca, consolasse la sua padrona assai più di chiunque altro potesse o sapesse fare in quell'infausta mattinata. Infatti, constatando che Amelia aveva indugiato per ore silenziosa, immobile e stravolta, davanti alla finestra dalla quale aveva visto sparire le ultime baionette della colonna in marcia, la brava ragazza prese la mano della padrona e le disse: Tenez, madame, est-ce qu'il n'est pas aussi à l'armée, men homme à moi?». Dopo di che era scoppiata in un pianto dirotto, mentre Amelia, gettandosi fra le sue braccia, aveva fatto altrettanto, e così si erano compiante e consolate a vicenda. Più di una volta nel corso del pomeriggio, Isidor si era recato in città, sostando davanti agli alberghi e alle pensioni nelle adiacenze del parco, ove alloggiavano gli inglesi; e là, mescolato ad altri domestici e servitori andava raccogliendo le notizie che circolavano di bocca in bocca, per poi tornare dal suo padrone informandolo con ripetuti bollettini. Si può senz'altro affermare che quasi tutti questi messeri erano schierati dalla parte dell'imperatore e avevano opinioni affatto personali circa la rapida conclusione della campagna. Il proclama che l'imperatore aveva lanciato ad Avesnes era stato distribuito in numerosissime copie in tutti i quartieri di Bruxelles. «Soldati!» diceva «oggi ricorre l'anniversario delle battaglie di Marengo e di Friedland, là ove si e deciso il destino d'Europa. Allora, come dopo Austerlitz, come dopo Wagram, ci siamo comportati con troppa magnanimità. Abbiamo creduto ai giuramenti e alle promesse dei principi che abbiamo lasciato sui loro troni. Ebbene: ora marciamo una volta ancora contro costoro. Non siamo forse, noi e loro, gli stessi uomini? Soldati, gli stessi prussiani che oggi ostentano tanta arroganza, erano tre volte più numerosi di noi a Jena, sei volte a Montmirail. Quanti fra voi sono stati prigionieri in Inghilterra potranno narrare ai loro commilitoni quali spaventosi tormenti abbiano patito a bordo delle navi inglesi. Insensati! Sono stati accecati da un momento fugace di fortuna, e se varcheranno il confine della Francia sarà solo per trovarvi la morte!» Ma i sostenitori dell'imperatore preconizzavano uno sterminio dei suoi nemici ancor più repentino, ed erano certi che prussiani e inglesi avrebbero fatto ritorno solo come prigionieri al seguito dell'armata conquistatrice. Queste opinioni, ripetute con insistenza a Mr. Sedley nel corso di quella giornata, finirono col produrre un certo effetto. Gli venne infatti riferito che il duca di Wellington si era portato sulla linea del fronte nel tentativo di radunare i resti del suo esercito, che la notte precedente era stato completamente sconfitto. «Sconfitto. Figuriamoci!» esclamò Jos che all'ora di colazione appariva abbastanza ottimista. «Il duca è andato a debellare l'imperatore, esattamente come ha debellato tutti i suoi generali prima di lui!» «Hanno già bruciato tutti i suoi documenti, portato via i suoi effetti personali. Inoltre stanno preparando la casa dove alloggiava per farne la residenza del duca di Dalmazia,» ribatté a Jos il suo zelante informatore, «Me lo ha detto il suo maître d'hôtel. Anche la servitù di Sua Grazia il duca di Richmond sta preparando i bagagli. Il duca è già fuggito e la duchessa attende solo che sia stata imballata l'argenteria per raggiungere il re di Francia a Ostenda. «Il re di Francia si trova a Gand, mio caro,» osservò Jos, mostrandosi incredulo. «La scorsa notte si è rifugiato a Bruges e oggi s'imbarca per Ostenda. Il duca di Berry è stato fatto prigioniero. Chi vuoi scappare è meglio che si affretti, perché domani stesso verranno aperte le dighe, e chi potrà darsi alla fuga quando l'intero paese sarà allagato?» «Stupidaggini. Siamo tre contro uno, quali che siano le forze messe in campo da Napoleone,» rispose Mr. Sedley. «Le armate russe e austriache sono già in marcia. Napoleone dov'essere battuto, e lo sarà,» concluse, battendo il pugno sul tavolo. «Anche a Jena i prussiani erano tre contro uno, ma lui li ha fatti fuori e nel giro di una settimana si è impadronito di tutto il regno. Erano in sei contro uno a Montmirail, e li ha fatti scappare come un branco di pecore. Già; sta arrivando l'esercito austriaco. E come no? Ma chi li comanda? L'imperatrice e il re di Roma! Quanto ai russi, poi! Quelli se la daranno a gambe. Non bisogna dar tregua agli inglesi, che sulle loro navi maledette si sono comportati così crudelmente coi nostri prigionieri! Guardate: sta scritto proprio qui, nero su bianco. Questo è il proclama di Sua Maestà l'Imperatore e Re!» esclamò il domestico, che ormai non si curava punto di nascondere la sua solidarietà con Napoleone. Levò di tasca il documento e lo schiaffò sotto il naso del padrone: si sentiva già proprietario dell'abito, degli alamari, di tutti gli oggetti di pregio. Jos, pur non sentendosi seriamente allarmato, pure era abbastanza scosso da quelle notizie. «Datemi la giacca e il berretto,» ordinò, «e seguitemi. Voglio andare di persona ad informarmi per controllare cosa vi sia di vero in queste notizie.» Quando Jos indossò la casacca con gli alamari Isidor era furibondo. «Milord farebbe meglio a non mostrarsi con una giacca simile,» disse, «è un indumento militare e i francesi hanno giurato di massacrare fino all'ultimo soldato inglese.» «Tacete!» gli ingiunse Jos, e con incrollabile determinazione infilò il braccio nella manica. Mentre compiva quel gesto ardimentoso, fu sorpreso da Mrs. Crawley, che in quella funesta circostanza era venuta a far visita ad Amelia ed era penetrata in anticamera senza annunciarsi suonando il campanello. Come di consueto, Rebecca era vestita con molta proprietà e raffinatezza Il sonno profondo che si era concessa dopo la partenza di Rawdon l'aveva alquanto rinfrancata, e faceva davvero piacere osservare le sue guance rosse e sorridenti in quella giornata nella quale l'aspetto di ciascuno rivelava uno stato di profonda ansietà e malinconia. Nel sorprendere Jos in quell'atteggiamento fu colta da uno scoppio di risò, e infatti fu solo con molti sforzi e contorcimenti che il grasso signore riuscì finalmente a indossare la sua giacca adorna di alamari. «Intendete forse arruolarvi, Mr. Joseph? Non rimarrà dunque anima viva, a Bruxelles, per vegliare su di noi, povere donne indifese?» Jos, uscito trionfatore dai reiterati tentativi di penetrare nella giacca, avanzò verso la vezzosa visitatrice arrossendo e balbettando parole di scusa. Come stava la signora dopo gli avvenimenti del mattino e dopo le fatiche del ballo svoltosi la notte precedente? Frattanto Isidor si dileguava nell'adiacente camera da letto, reggendo in mano la veste da camera a fiori del suo padrone. «Siete veramente gentile,» rispose Rebecca, stringendo nella sua la mano di Jos. Mi sembrate molto tranquillo e compassato in un momento in cui tutti si lasciano cogliere dal panico. E ditemi, come sta la cara, piccola Emmy? Il distacco dov'essere stato veramente terribile!» «Sì, terribile,» confermò Jos. «Voi uomini sapete sopportare ogni cosa,» continuò Mrs. Crawley. «La separazione, il pericolo sono ben poca cosa per voi. Suvvia, ammettete che stavate per aggregarvi all'esercito, abbandonandoci al nostro destino. Sì, stavate per farlo: qualcosa mi dice che stavate per farlo. Quando sono stata colta da questo dubbio, mi ha percorsa un brivido di spavento (sapete, Mr. Jos, talvolta mi accade di pensare a voi, quando sono sola); così mi sono precipitata col proposito di pregarvi, di supplicarvi... Non abbandonateci, ve ne scongiuro!» Questo bel discorsetto poteva essere interpretato nei seguenti termini: «Caro signore, se la fortuna non arridesse al nostro esercito e fosse necessario ritirarci, voi avete una confortevole carrozza nella quale sarei veramente lieta che mi riservaste un posto.» Non so se Jos capisse esattamente l'antifona. Certo, si era veramente mortificato dall'indifferenza che la signora in questione, durante l'intero soggiorno a Bruxelles, aveva ostentato nei suoi riguardi. Non era mai stato presentato a uno solo tra i nobili amici dei Crawley, e ben di rado era stato ammesso ai ricevimenti di Rebecca. Giocatore alquanto timoroso e circospetto, non si lasciava mai andare a grosse puntate, e la sua presenza tediava sia George sia Rawdon, fors'anche perché né l'uno né l'altro desiderava che qualcuno presenziasse al loro passatempo preferito. «Eh già,» pensò Jos, «ora che ha bisogno di me, si ricorda della mia esistenza. In mancanza di meglio, ecco che le torna in mente il povero vecchio Joseph Sedley.» Però, nonostante queste perplessità, si sentì molto lusingato dalle espressioni che Rebecca aveva usato circa il suo presunto coraggio. Si fece ancor più rosso e disse con molto sussiego: «Anch'io in effetti vorrei prender parte all'azione. Chiunque abbia un briciolo di fegato non può non desiderarlo. In India ho fatto un poco di servizio militare, ma niente di paragonabile a un evento simile.» «Voi uomini siete pronti a immolare qualunque cosa sull'altare del vostro piacere personale,» disse Rebecca. «Stamane il capitano Crawley mi ha lasciato felice e contento come se si fosse accinto ad andare a una partita di caccia. Cosa gliene importa? Cosa importa a chiunque di voialtri dello strazio e delle torture di una povera donna sola e reietta? (Chissà se è proprio vero che voleva arruolarsi, questo ghiottone, questo pigrone!) Sì, caro Mr. Sedley, sono venuta da voi alla ricerca di un poco di conforto, di consolazione. Ho trascorso l'intera mattinata in ginocchio. Tremo al pensiero dello spaventoso pericolo che stanno correndo i nostri mariti, i nostri amici, tutto il nostro esercito. Ebbene, nel momento in cui vengo qui in cerca di rifugio, cosa scopro? Che l'ultimo dei nostri amici, l'ultimo che mi resti, vuole anch'egli lanciarsi in questa mischia terrificante!» «Mia cara signora,» prese a dire Jos, ormai completamente ammansito, «non è il caso che vi allarmiate. Ho detto semplicemente che mi piacerebbe andarci. Quale inglese non condivide in questo momento la mia aspirazione? Ma il mio dovere mi trattiene qui: non posso abbandonare l'infelice creatura che sta in quella camera.» E col dito indicò la porta della stanza nella quale si trovava Amelia. «Un fratello veramente buono, d'animo veramente nobile!» uscì a dire Rebecca portandosi il fazzoletto agli occhi e aspirando l'aroma d'acqua di colonia del quale era impregnato. «Ho formulato su di voi un giudizio temerario. Avete un cuore, dunque. Ed io che pensavo non lo aveste!» «È vero,» confermò Joseph, facendo un gesto col quale sembrava volesse portar la mano all'altezza del punto in questione, «voi, cara Mrs. Crawley, non mi rendete giustizia.» «Proprio così. Sta di fatto che ora il vostro cuore parla per vostra sorella. Ma ricordo che due anni or sono non ha parlato per me,» rispose Rebecca fissandolo per qualche istante e poi distogliendo rapidamente lo sguardo in direzione della finestra. Jos si coperse di rossore. Il cuore - quel cuore che Rebecca lo accusava di non possedere - prese a pulsare con violenza. Gli torno alla mente il tempo in cui l'aveva sfuggita, la passione che lo aveva infiammato... i giorni in cui l'aveva condotta a passeggio in carrozza. Rammentò la borsa di maglia verde ch'ella aveva confezionato appositamente per lui, la volta in cui aveva indugiato a contemplare, estasiato, le candide braccia e i lucenti occhi di lei. «Lo so, voi mi giudicate un'ingrata,» riprese Rebecca scostandosi dalla finestra, tornando a guardarlo e parlando in tono tremulo e sommesso. «Tutto lo conferma: la vostra freddezza nei miei riguardi, l'atteggiamento che avete assunto di recente, ed anche poc'anzi, quando sono entrata in casa vostra. Ma non avevo forse valide ragioni per evitarvi? Lasciate al vostro cuore di rispondere a questa domanda. Pensate forse che mio marito fosse particolarmente incline ad accogliervi? Le uniche parole poco obbliganti ch'io abbia sentito profferire dalla sua bocca (debbo rendere questa giustizia al capitano Crawley) sono state per voi... e sono state parole molto, molto, molto aspre, potete credermi.» «Mio Dio, quali saranno mai i miei torti» pensò Jos in un misto di piacere e di perplessità: «Cos'ho mai fatto per... per...» «Secondo voi la gelosia non esiste?» disse Rebecca. «Mi fa impazzire per causa vostra. Le sue scenate di gelosia sono semplicemente spaventose. Eppure il mio cuore ora gli appartiene, quali che siano stati i sentimenti che una volta ho nutrito per voi. Sono innocente. Non sono forse innocente, Mr. Sedley?» Nell'osservare quella vittima del suo fascino, Jos sentiva il sangue formicolargli in ineffabile delizia. Qualche parolina collocata nel modo più confacente, qualche tenero sguardo... ed ecco il suo cuore nuovamente divorato da quella fiamma, ecco che i dubbi e i sospetti erano dimenticati. Da Salomone in poi, quanti uomini molto più saggi di lui non sono stati irretiti e gabbati dalle donne? «Così,» pensava frattanto Rebecca, «la mia ritirata è ormai cosa fatta, e avrò il posto a destra nella carrozza.» Non possiamo avanzare ipotesi sulle dichiarazioni di amore appassionato cui il tumulto del suo cuore avrebbe potuto indurre Mr. Sedley, se in quel momento Isidor non fosse riapparso mettendosi a trafficare per la casa. Jos, ormai prossimo a profferire ansimando la sua confessione, poco mancò non soffocasse a causa di quel tumulto emotivo che l'inopinata intrusione lo aveva costretto a reprimere. D'altra parte Rebecca ritenne fosse ormai giunto il momento di andare a recar conforto ad Amelia. «Au revoir,» disse, gettando con la mano un bacio a Mr. Joseph dopo di che bussò con mano leggera alla porta di Amelia. Poi, quando fu entrata nella stanza accanto ed ebbe richiuso l'uscio, Jos si lasciò cadere su una sedia e quivi ristette a fissare quella porta, sospirando e sbuffando. «Quella casacca è troppo stretta per Milord,» osservò Isidor, che non riusciva a staccar lo sguardo dagli alamari. Ma il padrone non lo udì: era troppo assorto nei suoi pensieri: ora in preda all'esaltata contemplazione della divina Rebecca ora pronto a ritirarsi in buon ordine davanti alla visione dei gelosissimo Rawdon Crawley, coi suoi fieri mustacchi arricciati e le sue terribili pistole da duello, cariche e pronte a sparare. La comparsa di Rebecca colmò di terrore Amelia, che si ritrasse. Quella vista la riportava sulla terra e ridestava in lei il ricordo del giorno innanzi. Il soverchiante timore del futuro l'aveva portata suo malgrado a dimenticarsi di Rebecca, della gelosia che aveva provato, di tutto insomma. Ricordava una cosa sola: che suo marito era lontano, e correva un grave pericolo. Così, fino all'istante in cui Rebecca con la sua disinvolta mondana presenza non comparve nella stanza rompendo quell'incantesimo, fino a quando non girò la maniglia, anche noi ci siamo guardati dal varcare la soglia di quella camera immersa nella mestizia. Quante ore aveva trascorso in ginocchio, la povera infelice, immersa nella preghiera! Quante ore vi aveva passato, in preda alla più cupa prostrazione, mormorando silenziose preci! I cronisti di guerra raramente indugiano su queste cose, impegnati come sono a fornire il brillante resoconto di battaglie e di trionfi militari! Questo è un lato troppo umile della gigantesca farandola. Le grida di giubilo, nel Gran Coro della Vittoria, soffocano il pianto delle vedove, i singhiozzi delle madri! Eppure, è mai esistita un'epoca nella quale non abbiano pianto? Poveri, umili cuori spezzati, che innalzano inascoltato il loro lamento: un lamento che nessuno ode nell'esultante clangore del peana! Dopo il primo momento, quando i verdi occhi di Rebecca che si avvicinava a braccia tese per abbracciarla, frusciante di rigida seta e luccicante di gioielli, si furono posati su di lei, nella mente di Amelia il terrore cedette il posto all'ira. Da mortalmente pallida qual era si fece rossa e rispose allo sguardo di Rebecca con una fermezza che lasciò sorpresa e quasi spaventò la sua rivale. «Amelia, mia carissima,» cominciò Rebecca tendendo la mano per stringere quella di Amelia, «tu ti senti male. Cosa ti succede? Non sarei stata tranquilla fino a quando non mi fossi rassicurata sul tuo stato.» Amelia ritrasse la mano. Mai era accaduto, da quando era venuta al mondo, che quell'anima gentile rifiutasse di prestar fede a qualsivoglia attestazione di benevolenza e di amicizia. Ed ora, ecco che ritraeva la mano, tremando tutta. «Come mai sei venuta qui, Rebecca?» chiese, continuando a fissarla, i suoi grandi occhi pervasi da un'espressione piena di austera solennità. Quello sguardo turbò la visitatrice. «Deve averlo colto nell'atto di darmi il biglietto al ballo,» pensò Rebecca. «Non è il caso che t'inquieti, cara Amelia,» disse chinando gli occhi. «Ero semplicemente venuta a vedere se potevo... se stavi bene.» «E tu stavi bene? A quanto pare direi di sì. Non c'è da stupirsene, dal momento che non ami tuo marito. Se lo amassi non saresti qui. Dimmi, Rebecca: ti ho mai usato qualche scortesia?» «Certo che no, Amelia,» rispose l'altra, sempre a capo chino. «Quando eri poverissima, chi ti ha offerto la sua amicizia? Non sono forse stata una sorella per te? Tu ci hai conosciuti in tempi migliori, per noi: prima che lui mi sposasse. Allora io rappresentavo tutto, per lui. Se così non fosse stato, avrebbe forse rinunciato alla sua famiglia, alla sua ricchezza, come tanto nobilmente ha fatto, per rendermi felice? Perché sei venuta a metterti fra me e il mio amore? Chi ti ha inviata a separare coloro che sono stati uniti da Dio? Chi ti ha mandata a derubarmi del cuore del mio amore, del cuore di mio marito? Credi forse che potresti amarlo come lo amo io? Il suo amore era tutto, per me: tu lo sapevi e hai voluto sottrarmelo. Vergognati, Rebecca! Sei una donna perversa, una donna malvagia, come sei una falsa amica e una falsa moglie.» «Amelia, ti giuro davanti a Dio di non aver fatto alcun torto a mio marito,» disse Rebecca, scostandosi da lei. «E nemmeno a me hai fatto alcun torto, Rebecca? Non ci sei riuscita, ma lo hai tentato. Domanda al tuo cuore se non lo hai fatto.» «No, non sa niente», pensò Rebecca. «E lui è tornato a me. Lo sapevo che sarebbe tornato. Sapevo che non c'erano ipocrisie, non c'erano lusinghe capaci di tenerlo a lungo lontano da me. Sapevo che sarebbe venuto. Ho pregato tanto perché venisse.» La povera ragazza diceva queste cose dando prova di un ardire, di uno slancio quali Rebecca non aveva mai riscontrato in lei prima di allora, e la lasciavano ammutolita. «Cosa ti ho fatto,» continuò Amelia in un tono ancora più straziante, «perché tu cercassi di portarmelo via? L'ho avuto per sei settimane, sei settimane soltanto. Queste avresti potuto concedermele, Rebecca! E invece sei venuta a rovinare ogni cosa sin dal primo giorno delle mie nozze. Adesso che lui se n'è andato, sei per caso venuta a vedere quanto soffra?» continuò. «In questi ultimi quindici giorni hai fatto tutto il possibile per rendermi infelice. Oggi, almeno, avresti potuto risparmiarmi.» «Io... io non sono mai venuta qui,» interruppe Rebecca. E, sfortunatamente per lei, ciò non era che troppo vero. «Certo, non sei venuta. Lo portavi via. Saresti forse venuta a prendertelo anche ora?» continuò Amelia in tono sempre più desolato. «Ebbene, c'era, ma adesso non c'è più. Sedeva proprio lì, su quel divano. Non lo toccare. Io ero lì sulle sue ginocchia, le braccia allacciate intorno al suo collo. E insieme abbiamo recitato il Padre Nostro. Sì, era proprio lì. Poi sono venuti a prenderlo, ma lui mi ha promesso di ritornare.» «Tornerà, mia cara,» disse Rebecca, commossa suo malgrado. «Guarda,» disse Amelia, «questa è la sua fusciacca. Che bel colore, vero?» Prese la frangia e vi depose un bacio. Nel corso della giornata, più volte se n'era cinta la vita. Ora l'ira le era venuta meno. Aveva dimenticato la gelosia, e fors'anche la presenza della rivale. Infatti si avvicinò silenziosa al letto, un sorriso che le aleggiava sul volto, e prese ad accarezzare il guanciale di George. Anche Rebecca si ritirò in silenzio. «Come sta Amelia?» chiese Jos, che sedeva ancora sulla sedia senza aver mutato posizione. «Sarebbe bene che qualcuno le stesse vicino,» rispose Rebecca. «Mi sembra che stia proprio male.» E se ne andò, il volto atteggiato a un'espressione grave, dopo aver declinato la proposta di Mr. Sedley il quale l'aveva pregata di trattenersi e dividere con lui il pranzo che aveva ordinato gli fosse servito per tempo. Rebecca una persona di buon carattere e lietamente disposta nei confronti del prossimo. Nell'insieme provava più simpatia che antipatia per Amelia. Tutto sommato, le dure espressioni che quest'ultima le aveva rivolto suonavano quasi come un complimento: erano il lamento di una donna che piange sulla propria sconfitta. Pertanto, quando s'imbatté in Mrs. O'Dowd, che non aveva tratto alcun conforto dai sermoni del decano e passeggiava sconsolata nel parco, Rebecca le si avvicinò, fra la sorpresa della moglie del maggiore la quale non era assuefatta a simili attestazioni di cortesia da parte di Mrs. Crawley. Quest'ultima le riferì come la povera, piccola Mrs. Osborne fosse preda a una crisi di sconforto veramente terribile, e sembrasse addirittura prossima alla pazzia, tanto cocente era il dolore per la partenza del marito. Fu, né più né meno, come esortare la buona irlandese a recarsi immediatamente in visita dalla sua giovane e prediletta amica, onde cercare di recarle conforto. «Anch'io sono preoccupata,» disse Mrs. O'Dowd con espressione grave, «e pensavo che oggi la povera Amelia non avesse voglia di vedere chicchessia. Ma se davvero sta male come dite, e se non avete modo di occuparvi di lei (voi che le siete tanto amica), vi prometto di andare a vedere se in qualche modo possa esserle d'aiuto. Buongiorno a voi, signora.» Profferite queste parole, con un gesto altero del capo la signora dall'orologio a ripetizione si congedò da Mrs. Crawley, la cui compagnia le riusciva per nulla gradita. Becky rimase ad osservarla mentre si allontanava, la bocca atteggiata ad un sorriso. Aveva un fortissimo senso dell'umorismo, e lo sguardo che Mrs. O'Dowd le lanciò da sopra le spalle mentre si ritraeva, quasi fosse stata la freccia del Parto rischiò seriamente di vanificare l'austero atteggiamento che Mrs. Crawley aveva conservato durante quel breve colloquio. «Serva vostra, e veramente lieta di constatare che siete di così ottimo umore,» pensò Peggy O'Dowd. «Una cosa è certa: gli occhi non vi schizzeranno dalle orbite per il troppo piangere.» Dopo di che a passo veloce si avviò in direzione della casa di Mrs. Osborne. La povera Amelia se ne stava ancora accanto al letto ove Rebecca l'aveva lasciata, ed era letteralmente stravolta dal dolore. Da parte sua la moglie del maggiore, donna dal carattere franco e posato, fece il possibile per confortare la sua giovane amica. «Devi farti coraggio, mia cara Amelia,» le disse. «Non è proprio il caso che lui ti trovi ammalata quando ti manderà a chiamare dopo la vittoria. Non sei l'unica donna a trovarsi nelle mani di Dio, in questo momento.» «Lo so. Sono molto cattiva, ed anche molto debole;» rispose Amelia che si rendeva pienamente conto della propria fragilità. Tuttavia la presenza di quell'amica così energica le consentì di controllarsi. Quella compagnia, e l'influenza che esercitava su di lei, ebbero un effetto benefico. Chiacchierarono fino alle due. I cuori di entrambe seguivano la colonna dei militari in marcia che, col passare del tempo, si allontanava sempre di più. Angosce e dubbi frustranti, ansie, timore, dolore indicibile seguivano il reggimento. Era il tributo offerto dalle donne alla guerra: la guerra che chiede in pari misura ai due sessi: pretende il sangue dagli uomini, le lacrime dalle donne. Alle due e mezzo avvenne qualcosa di veramente importante nella giornata di Mr. Joseph: giunse l'ora del pranzo. Che i guerrieri combattessero pure; morissero, se fosse stato necessario. Quanto a lui? doveva mangiare. Entrò pertanto nella stanza di Amelia per vedere se fosse disposta a dividere il pasto con lui. «Perché non provi?» le disse. «La minestra è squisita. Prova, Emmy!» E le baciò la mano. Mai prima d'ora, tranne il giorno delle sue nozze con George, il fratello si era permesso un gesto simile. «Sei molto buono, Joseph, sei molto caro,» rispose Amelia. «Lo sono tutti, con me. Ma ti prego, per oggi consentimi di rimanere in camera.» Al contrario, il profumino della minestra raggiunse le narici di Mrs. O'Dowd con positivo effetto, onde la signora concluse che la compagnia di Mr. Jos poteva anche riuscirle sopportabile. I due? pertanto, sedettero a tavola. «Dio benedica il nostro cibo,» disse in tono solenne la moglie del maggiore, il pensiero rivolto al suo buon Mick che cavalcava alla testa del reggimento. «Che brutto pranzo consumeranno quei poveri ragazzi, oggi!» esclamò con un sospiro. Quindi, da brava filosofa, attaccò il suo piatto di minestra. Il coraggio di Jos andava aumentando a mano a mano che il pranzo procedeva. Dapprima brindò alla salute del reggimento, poi (per esser sinceri) cominciò a cogliere qualsiasi pretesto per mandar giù un bicchiere di spumante dopo l'altro. «Brindiamo a O'Dowd e al suo coraggioso ...°,» disse, inchinandosi galantemente alla sua ospite. «Coraggio, Mrs. O'Dowd. Riempite il bicchiere di Mrs. O'Dowd, Isidor.» Ma all'improvviso Isidor ebbe un sussulto, mentre la moglie del maggiore posava il coltello e la forchetta. Le finestre esposte verso sud erano aperte, e da quella direzione, al di sopra dei tetti illuminati dal sole, giunse un cupo rimbombo. «Be', cosa ti prende?» chiese Jos. «Perché non ci servi da bere, briccone?» «C'est le feu,» rispose Isidor, correndo al balcone. «Che Dio abbia pietà di noi!» esclamò Mrs. O'Dowd. «È il cannone.» Si alzò e anch'ella si affrettò alla finestra. Da altre finestre migliaia di facce guardavano, pallide, ansiose. Bastarono pochi istanti, e parve che l'intera popolazione della città si riversasse per le strade. XXXII • NEL QUALE JOS FUGGE E LA GUERRA FINISCE Noi pacifici cittadini di Londra non abbiamo mai assistito - e Dio voglia che il futuro ci risparmi un simile spettacolo - a una scena di panico e di generale sgomento come quella offerta in quei giorni da Bruxelles. La gente correva a frotte in direzione di Namur, donde giungeva il rombo, e molti percorsero al galoppo la chaussée per apprendere in anticipo le notizie che potevano pervenire dalla zona delle operazioni di guerra. Ognuno chiedeva all'altro, e persino lords e ladies britannici si degnarono di rivolgere la parola a persone che non avevano mai conosciuto. I fautori della vittoria francese si aggiravano come folli, in preda alla più viva esaltazione, preconizzando il trionfo del loro amato imperatore. I negozianti chiusero le loro botteghe e uscirono per le strade dando il loro contributo al clamore e alla confusione generale. Le donne correvano verso le chiese, affollavano le cappelle, s'inginocchiavano a pregare sul pavimento, sulle gradinate. Il cupo rombo del cannone tuonava incessante. Non trascorse molto tempo, e già numerose carrozze cariche di viaggiatori cominciarono a varcare al galoppo la barriera di Gand. Le profezie dei partigiani dei francesi venivano ormai scambiate per l'effettivo svolgimento dei fatti. «È riuscito a dividere i due eserciti,» diceva la gente. «Sta marciando su Bruxelles. Sconfiggerà l'esercito inglese e questa notte stessa raggiungerà la città,» strillava Isidor, elettrizzato. Correva fuori e dentro, dalla casa alla strada, e ogni volta faceva ritorno recando nuovi particolari sulla catastrofe in corso. La faccia di Jos si faceva sempre più pallida e a poco a poco la paura s'impadroniva del pingue borghese. Tutti i bicchieri di spumante che aveva tracannato non riuscivano a infondergli un'oncia di coraggio. Il sole non era ancora tramontato, ed egli era ormai in preda al parossismo dell'agitazione, con gran gioia del caro Isidor che ormai dava per certo di metter le mani sulle spoglie del proprietario della giacca adorna di alamari. In quelle ore le donne erano assenti. Non appena era echeggiato il rombo delle artiglierie, la florida moglie del maggiore si era ricordata dell'amica nella stanza accanto e si era precipitata da Amelia nella speranza di riuscire a rincuorarla. Il proposito di far coraggio a quella semplice e mite fanciulla accresceva il naturale ardimento della buona irlandese. Trascorse dunque cinque ore accanto all'amica, ora esortandola a nutrir speranza, ora facendole animo, più spesso tacendo e pregando fervidamente. «Non ho mai lasciato la sua mano» ebbe a riferire più tardi la O'Dowd, «fin dopo il tramonto, quando cessò il fuoco delle artiglierie». Quanto a Pauline, la bonne, era in una chiesa vicina a pregare per son homme à elle. Quando il tuono delle cannonate si spense, Mrs. O'Dowd uscì dalla camera di Amelia e passò nel salottino attiguo ove Jos, ormai deluso e rassegnato, sedeva circondato da bottiglie vuote. Un paio di volte si era affacciato alla camera della sorella con il volto atteggiato a un'espressione angosciata quasi avesse voluto dir qualcosa. Ma la moglie del maggiore non aveva la minima intenzione di cedergli il posto, ed egli fu costretto a ritirarsi senza aver avuto modo di pronunciare il discorsetto che, evidentemente, gli stava tanto a cuore. In poche parole, voleva fuggire, ma si vergognava a dirglielo. Tuttavia, quando ella finalmente entrò nel piccolo salotto ov'egli sedeva in penombra, scarsamente allietato dalle bottiglie vuote del suo spumante, si decise ad aprirle il suo cuore e a palesarle i suoi propositi. «Mrs. O'Dowd,» disse, «non sarebbe meglio che induceste Amelia a vestirsi?...» «Avete forse l'intenzione di portarla a fare una passeggiata,» rispose la moglie del maggiore. «Secondo me è troppo debole.» «Io... Io...,» continuò Jos, «ho ordinato la carrozza. E dei cav... dei cavalli di posta. Ho mandato Isidor...» «Andare in carrozza? Stasera? Che strana idea!» esclamò la signora. «Non è meglio che se ne stia a letto? Sono riuscita or ora a farla coricare.» «Fatela alzare,» disse Jos. «Deve alzarsi, ho detto.» E batté un piede in terra con gesto energico e impaziente. «Ho ordinato i cavalli, ho detto... Sì, li ho ordinati. Ormai è tutto finito, e...» «E cosa?» «E voglio partire per Gand,» continuò Jos. «Se ne vanno tutti. Del resto, c'è un posto anche per voi. Partiremo tra mezz'ora.» La moglie del maggiore gli gettò un'occhiata carica di disprezzo. «Io partirò solo quando sarà il maggiore O'Dowd a dirmelo,» rispose. «Partite pure, se volete, Mr. Sedley, ma in quanto ad Amelia e a me, potete star certo che non ci muoveremo di qui.» «Amelia verrà, invece!» strillò Jos, battendo un'altra volta il piede in terra. Mrs. O'Dowd si pose a braccia conserte davanti alla porta della camera di Amelia. «Spiegatevi bene, Mr. Sedley,» disse, «volete condurla da sua madre, o siete voi, piuttosto, che volete rifugiarvi tra le braccia della vostra mammina? Benissimo: arrivederci e buon viaggio, caro Mr. Sedley. Bon voyage, come dicono qui. Ad ogni modo vi do un buon consiglio: tagliatevi quei baffi, altrimenti sapranno procurarvi certi guai» «Maledizione!» urlò Jos, pazzo di rabbia, di paura e di mortificazione. In quel mentre tornò Isidor, a sua volta bestemmiando. «Pas de chevaux, sacrebleu!» sibilò il domestico, furibondo. Tutti i cavalli di Bruxelles erano già stati prenotati. Jos non era il solo che, in una giornata simile, si fosse lasciato travolgere dal panico. Ma, prima che la notte fosse terminata, per quanto grandi e tormentosi i timori di Jos erano destinati ad aumentare fino a trasformarsi in una vera e propria frenesia di terrore. Abbiamo accennato alla circostanza che Pauline, la bonne, annoverasse son homme à elle tra i soldati in armi che facevano parte dell'esercito inviato a combattere la suprema battaglia contro l'imperatore Napoleone. Questo innamorato era un ussaro belga, di Bruxelles. Nel corso di questa campagna i soldati belgi si distinsero in tutto tranne che nel coraggio, e il giovane Van Cutsum (il corteggiatore di Pauline) era un soldato troppo ligio ai suoi doveri per obiettare agli ordini del suo colonnello, e cioè di darsi alla fuga. Mentre il suo reggimento si trovava di stanza a Bruxelles, il giovane Regulus (era nato durante la Rivoluzione) trovava un gran conforto nella cucina di Pauline, ove infatti trascorreva gran parte del suo tempo libero; di conseguenza qualche giorno prima aveva preso congedo dalla sua ragazza in lacrime, per prender parte alla battaglia, dopo essersi riempito le tasche e tascapane di un sacco di cose buone che Pauline aveva tolto dalla dispensa. Per quanto concerneva il suo reggimento, la campagna poteva considerarsi conclusa. Aveva fatto parte di una divisione al comando del suo sovrano, il principe d'Orange. E pensare che, se qualcuno avesse voluto giudicare dalla lunghezza delle sciabole e dei mustacchi, nonché dalla ricchezza delle uniformi e dell'equipaggiamento, Regulus e i suoi camerati sarebbero apparsi come il più prode fra tutti i corpi militari per i quali fosse mai stata suonata la carica! Mentre Ney si lanciava sulle avanguardie delle truppe alleate, conquistando una posizione dopo l'altra, finché l'arrivo da Bruxelles del grosso dell'esercito inglese non valse a capovolgere la situazione alla battaglia di Quatre Bras, gli squadroni fra i quali militava Regulus diedero prova della massima attività continuando a ritirarsi, incalzati dai francesi, e facendosi cacciare dalle varie posizioni che in precedenza avevano occupato con straordinaria alacrità. La loro ritirata incontrò un ostacolo solo nelle truppe britanniche che sopravvenivano alle loro spalle. A partire dal momento in cui si videro obbligati ad arrestare l'impeto di quella loro fuga, la cavalleria nemica (la cui sanguinaria ostinazione non potrà mai essere oggetto di adeguata condanna) ebbe finalmente modo di venire ai ferri corti coi coraggiosi belgi che aveva dinanzi. Senonché i bravi belgi preferirono scontrarsi con gli inglesi, anziché coi francesi; di conseguenza fecero dietrofront, presero a cavalcare tra le linee inglesi e si sparpagliarono in ogni direzione. Il reggimento aveva cessato di esistere. Praticamente non c'era. Non aveva un comandante. Regulus si trovò a cavalcare tutto solo, a varie miglia dal campo di battaglia; e dove mai avrebbe dovuto rifugiarsi se non dove l'istinto lo guidava, e cioè in quell'accogliente cucina e tra quelle braccia fedeli che così spesso lo avevano stretto a sé? Verso le dieci, dunque, chi si fosse trovato sul posto avrebbe avuto agio di percepire il rumore metallico di una sciabola su per le scale della casa di cui gli Osborne, secondo l'uso continentale, occupavano un piano; e avrebbe udito bussare alla porta della cucina. La povera Pauline, di ritorno dalla chiesa, aprì l'uscio e quasi svenne dal terrore trovandosi al cospetto del suo ussaro stravolto e timoroso, e pallido quasi come l'ussaro che a mezzanotte faceva visita a Leonora. Pauline si sarebbe messa a urlare se non avesse temuto che le sue grida, richiamando l'attenzione dei padroni, svelassero la presenza del suo amoroso. Pertanto represse quel pur legittimo grido di emozione e, trascinato il suo eroe in cucina, lo rifocillò con un bicchiere di birra e coi migliori bocconi della cena che Mr. Jos non aveva avuto cuore di assaggiare. L'ussaro non era uno spettro, tutt'altro; tant'è vero che bevve una quantità spropositata di birra e si rimpinzò ben bene di carne. Così, tra un boccone e l'altro, ebbe modo di raccontare a modo suo le fasi del disastro. Il suo reggimento aveva compiuto prodigi di valore e a lungo si era tenacemente opposto all'assalto dei francesi; ma alla fine era stato sopraffatto, come senza dubbio, a questo punto, doveva esser stato sopraffatto anche l'esercito inglese. Ney sgominava i reggimenti l'uno dopo l'altro a mano a mano che se li trovava davanti, e i belgi si erano adoperati inutilmente per evitare quella carneficina di inglesi. Gli uomini del duca di Brunswick, ormai in rotta, si davano alla fuga, il duca era stato ucciso. Uno sfacelo generale. E lui cercava di annegare il dolore della sconfitta in quel fiume di birra. Isidor, entrato in cucina, captò quella conversazione e si precipitò ad avvisare il suo padrone. «Tutto è finito,» strillò a Jos. «Milord il duca è stato fatto prigioniero. Il duca di Brunswick è morto. L'esercito inglese sta scappando a rotta di collo. Si è salvato soltanto un uomo. È in cucina: venite, venite a sentire cosa racconta.» Così Jos si diresse in cucina, ove Regulus sedeva ancora a tavola davanti al suo boccale di birra. Facendo appello al miglior francese che sapesse rimediare, e che a dire il vero risultava alquanto sgrammaticato, invitò l'ussaro a parlare. Via via che Regulus procedeva nel suo resoconto degli avvenimenti, la calamità assumeva tinte sempre più fosche. A sentir lui, era l'unico in tutto il reggimento che fosse riuscito a salvar la pelle. Aveva visto il duca di Brunswick cadere esanime e gli ussari neri fuggire, e gli scozzesi massacrati a colpi di cannone. «E il ...?» chiese Jos, ansante. «È ridotto a pezzi,» rispose l'ussaro. Al che Pauline fu colta da un attacco isterico e riempì la casa di grida urlando come un'ossessa: «Ah, la mia signora! Ma bonne petite dame!» Pazzo terrore, Mr. Sedley non sapeva dove fuggire in cerca di rifugio. Dalla cucina tornò a precipitarsi in salotto e lanciò un'occhiata supplichevole alla porta della stanza di Amelia, che Mrs. O'Dowd gli aveva chiuso a chiave sulla faccia. Poi ricordò con che tono sprezzante l'irlandese gli avesse risposto; pertanto, dopo aver sostato davanti all'uscio e aver teso l'orecchio per cercar di cogliere le parole che venivano pronunciate nella camera della sorella, tornò sui suoi passi, e per la prima volta nel corso di quella giornata decise di scendere in strada. Impugnato un candeliere, andò alla ricerca del berretto gallonato e lo trovò al solito posto, vale a dire sopra la console, di fronte alla specchiera davanti alla quale era sua consuetudine pavoneggiarsi assestandosi i riccioli e aggiustando l'inclinazione del berretto prima di presentarsi in pubblico. Ebbene, per quanto sopraffatto dal terrore, la forza dell'abitudine lo indusse a ripetere meccanicamente quei gesti; poi fissò stupefatto quel volto smunto riflesso nello specchio, e in particolare quei mustacchi che nel giro di sei settimane avevano ormai raggiunto notevoli dimensioni. «Mi scambieranno di certo per un militare,» pensò, ricordandosi del monito di Isidor circa la minaccia di generale massacro che gravava sull'intero esercito inglese. Con passo malcerto fece dunque ritorno in camera sua e diede uno strattone frenetico al campanello col quale soleva chiamare al suo cospetto il servitore. Isidor rispose prontamente all'appello. Jos si era accasciato su una seggiola liberandosi del fazzoletto da collo, aveva sbottonato il collo della camicia e sedeva con le mani alzate all'altezza della gola. «Coupez-moi, Isidor,» strillò. «Vite! Coupez-moi!» Per un istante Isidor credette che fosse impazzito e volesse farsi recidere la gola. «Les moustaches,» ansimò Jos; «les moustaches... coupy... rasy... vite!» disse, esprimendosi in questo suo francese. Un francese disinvolto, ma non proprio impeccabile, come già abbiamo detto, dal punto di vista della grammatica. In un baleno Isidor, armato di rasoio, spazzò via i baffi del suo padrone; poi, con immaginabile suo compiacimento, ne ebbe l'ordine di preparargli un abito e un cappello da borghese. «Ne porty plu habit militair... bonne.,, donny... a voo, prenny dehors.» Furono queste le parole sconnesse di Jos. L'abito e il berretto passavano finalmente in sua proprietà. Elargito quel dono, Jos scelse un vestito nero con panciotto di foggia molto sobria, con un cappello parimenti nero e un largo colletto bianco. Se avesse avuto a disposizione un cappello da prete non avrebbe esitato a calzarlo; ma anche così poteva essere scambiato senza difficoltà per un florido vicario della Chiesa d'Inghilterra. «Venny maintenong» disse poi, «suivy ally... ally party dong la ru,» E profferite queste parole, si precipitò per le scale di casa e uscì nella strada. Regulus aveva giurato e spergiurato di essere l'unico di tutto il reggimento che Ney non avesse fatto a pezzi, ma la sua asserzione non rispondeva al vero, dal momento che un ingente numero di codeste «vittime» era scampato al presunto massacro. Decine e decine di suoi commilitoni avevano riguadagnato la strada di Bruxelles, e, dal momento che tutti asserivano di essersi dati alla fuga, la popolazione cittadina si convinse che gli eserciti alleati erano stati sconfitti L'arrivo dei francesi era atteso da un'ora all'altra e in ogni quartiere della città ci si apprestava a fuggire. «Niente cavalli!» pensava Jos, terrorizzato. Mandò Isidor a informarsi presso innumerevoli persone per sentire se avessero cavalli da vendere o da affittare; e siccome il domestico ritornava sempre con una risposta negativa si sentiva vieppiù scoraggiato. Doveva dunque rassegnarsi ad affrontare il viaggio a piedi? Nemmeno la paura aveva il potere di rendere così attivo un corpo di mole siffatta! Gli alberghi di Bruxelles occupati dagli inglesi prospettavano quasi tutti il Parco. Jos vagava per quel quartiere, non diversamente da tanti altri, senza sapere che pesce pigliare, al colmo dello spavento e dell'ansietà. Assistette alla partenza di famiglie più fortunate che erano riuscite ad assicurarsi una cavalcatura e si allontanavano percorrendo rumorosamente le strade al galoppo, ma non mancava chi si trovava nella sua stessa condizione, non avendo avuto modo di procurarsi, né con le mance né con le suppliche, i mezzi necessari alla fuga. Fra questi candidati fuggiaschi Jos notò anche Lady Bareacres e la figlia, sedute nella carrozza carica di bagagli sotto l'androne dell'albergo, ma impossibilitate a fuggire a causa della medesima mancanza di forza motrice che tratteneva Jos. Anche Rebecca Crawley alloggiava in quell'albergo, e più di una volta, prima di quella drammatica circostanza, c'erano stati fra lei e le nobili signore Bareacres, incontri carichi di reciproca ostilità. Se per caso s'incontravano sulle scale, Lady Bareacres si guardava bene dal salutare Mrs. Crawley, e ovunque venisse pronunciato il suo nome si premurava di dirne tutto il male possibile. La contessa trovava letteralmente scandalosa la familiarità con la quale il generale Tutto frequentava la moglie del suo aiutante maggiore, e in quanto a Lady Bianche, la scansava come fosse stata un'appestata. Solo il conte, quando si trovava al riparo dal severo controllo delle due donne, si arrischiava a intrattenere con lei dei furtivi e fuggevoli rapporti personali. Ed ecco che a Rebecca si offriva l'occasione di prendersi una rivincita su quelle insolenti nemiche. All'albergo tutti sapevano che i cavalli del capitano Crawley erano rimasti a Bruxelles, e quando il panico cominciò Lady Bareacres si rassegnò a mandare la cameriera dalla moglie del capitano recando i complimenti di Sua signoria e chiedendo, nel contempo, quale fosse il prezzo richiesto per i cavalli di Mrs. Crawley. Questa rispose ricambiando i complimenti e precisando altresì che non era sua abitudine trattare affari tramite una cameriera. Questa secca risposta portò il conte in persona nelle stanze di Becky; ma Sua Signoria non ottenne maggior successo della precedente ambasciatrice. «Mandare a me una cameriera!» gridò Mrs. Crawley fuori di sì per la collera. «E perché mai Lady Bareacres non mi ha dato l'ordine di andare a sellare i cavalli? È Sua Signoria che intende fuggire, oppure è la sua femme de chambre?» E questa fu l'unica risposta che il conte poté recare alla contessa. Cosa può fare la necessità? Ecco che, fallita anche la seconda ambasciata, la contessa in persona si recò da Mrs. Crawley. La scongiurò di chiederle un prezzo, qualunque prezzo desiderasse. Arrivò al punto di invitare Becky a Bareacres House sempre che la legittima proprietaria di tanta dimora riuscisse a ritornarvi. Ma Mrs. Crawley le rispose sprezzante: «Non ci tengo affatto ad esser ricevuta da ufficiali giudiziari in livrea;' d'altra parte è assai improbabile che voi riusciate a far ritorno in patria, quantomeno coi vostri diamanti. Se li prenderanno i francesi, questo è poco ma sicuro. Tra un paio d'ore saranno qui, mentre io ormai sarò a metà strada fra Bruxelles e Gand. No, i miei cavalli non ve li venderei nemmeno in cambio dei due diamanti più grossi che portavate al ballo.» La Bareacres tremava di rabbia e di sconforto. I diamanti in questione erano cuciti nel suo vestito e nelle spalline e negli stivali di Sua Signoria il conte. «I diamanti sono in banca, brava donna; ed io i cavalli li avrò, costi quello che costi!» esclamò; ma Rebecca le rise in faccia. Furibonda, la contessa ridiscese e tornò a sedere in carrozza. La cameriera, il cocchiere e il conte furono rispediti in giro per la città alla ricerca degli agognati destrieri. F, peggio per chi fosse tornato per ultimo, giacché Sua Signoria era decisa a partire nel momento stesso in cui fossero giunti i cavalli. Quindi, anche senza il nobile consorte. Rebecca ebbe la soddisfazione di vedere Sua Signoria seduta in quella carrozza priva di cavalli, e di fissarla negli occhi mentre a voce stentorea andava enumerando i guai della contessa: «Non riuscire a trovare un paio di cavalli!» diceva. Eppure i cuscini della carrozza sono letteralmente imbottiti di diamanti! Che deliziosa sorpresa per i francesi, quando arriveranno! La carrozza e i diamanti, voglio dire. non la signora! Il tutto veniva profferito al cospetto dei proprietari, dei domestici e degli ospiti dell'albergo, nonché dei numerosi sfaccendati che sostavano nel cortile. Lady Bareacres sarebbe stata felice di poterle sparare una pistolettata dal finestrino della carrozza. Mentre gongolava di gioia davanti all'umiliazione della sua nemica, Rebecca vide Jos. Questi, non appena la scorse, le mosse incontro. Il volto del grassone, stravolto, alterato dall'angoscia, parlava in termini oltremodo eloquenti. Anche lui voleva fuggire, ma non sapeva come. «I cavalli li venderò a lui, pensò Rebecca, «ed io cavalcherò la giumenta. Jos si avvicinò alla sua amica e ripete la domanda che nel giro di un'ora aveva ripetuto almeno cento volte. Sapeva per caso dove fosse possibile trovare dei cavalli? «Come, come? Voi fuggite?» chiese Rebecca scoppiando a ridere. «Ed io che vi davo per il paladino di tutte le donne, Mr. Sedley!» «Ma io... io non sono un militare,» rispose Jos ansimando. «E Amelia? Chi si prenderà cura della vostra povera sorellina?» chiese Rebecca. «Sono certa che non intendete abbandonarla.» «Ma cosa potrei fare per lei se... se per esempio sopraggiungesse il nemico?» rispose Jos. «Le donne verranno sicuramente risparmiate; ma il mio domestico dice che agli uomini daranno una caccia spietata... Quei maledetti vigliacchi!» «Mostruoso!» esclamò Rebecca, si divertiva a vedere l'agitazione di Mr. Sedley. «D'altra parte non intendo certo abbandonarla al suo destino,» proseguì il fratello. «Nella mia carrozza c'è posto per lei. Ed uno anche per voi, Mrs. Crawley, se volete venire... E sempre che riusciamo a rimediare dei cavalli...» concluse con un sospiro. «Ne ho due da vendere» disse Rebecca. A quella notizia Jos per poco non le butto le braccia al collo. «Presto, presto, porta la carrozza, Isidor! Abbiamo trovato i cavalli!» gridò. «I miei cavalli non sono mai stati attaccati a una carrozza,» continuò Mrs. Crawley. «Se lo si mettesse alle stanghe Bullfinch fracasserebbe la vettura a calci.» «Ma è docile se lo si cavalca?» domandò il borghese. «Docile come un agnello e rapido come una lepre,» rispose Rebecca. «Credete che riuscirebbe a sopportare il mio peso?» chiese Jos. Già si vedeva a cavallo del destriero, completamente dimentico di Amelia. Quale appassionato d'ippica avrebbe potuto resistere a una simile tentazione? A titolo di risposta, Rebecca lo esortò senz'altro a salire nella sua stanza per concludere l'affare, e Jos la seguì, quasi senza respiro. Raramente una mezz'ora della sua vita gli costò cara quanto gli costò quella. Rebecca calcolò il valore degli animali in base all'estrema carenza dei medesimi e alla smania di Jos di disporne. (chiese pertanto un prezzo così elevato da lasciare interdetto persino il nostro borghese. O tutte e due, o nessuno, disse in tono risoluto. Non era disposta a venderli separatamente. D'altronde era stato Rawdon a ingiungerle di non cederli a chicchessia se non al prezzo testé sollecitato. Lord Bareacres, che attendeva da basso ed era senza cavalli, era disposto a pagare la stessa somma... E poi, pur con tutto il riguardo, con tutto l'affetto ch'ella nutriva per la famiglia Sedley, Jos non poteva non rendersi conto che la gente deve pur campare. In poche parole, nessuno al mondo avrebbe potuto trattare un affare in termini più affettuosi, ma altresì più fermi e inesorabili. Jos, com'è facile immaginare, finì per accondiscendere. La cifra richiesta era però così alta che si vide costretto a pregarla di concedergli un po' di tempo... Sì, era così alta da costituire un piccolo patrimonio per Rebecca, la quale non impiegò molto tempo a calcolare che, con quel gruzzolo, aggiunto al ricavato della vendita degli effetti personali di Rawdon e alla pensione di vedova (qualora il marito fosse caduto in battaglia) avrebbe praticamente goduto di un'assoluta indipendenza finanziaria, affrontando in tutta tranquillità il periodo del lutto. Un paio di volte, nel corso della giornata, aveva pensato alla fuga; ma poi la sua mente rigorosamente razionale le aveva suggerito miglior consiglio. «Ammettiamo pure che arrivino i francesi,» si disse, «cosa diamine possono fare alla moglie di un ufficiale? I saccheggi appartengono al passato. Ci lasceranno tornare a casa in santa pace, o alla peggio potrà i continuare a vivere all'estero su una piccola rendita.» Intanto Jos e Isidor erano andati in scuderia per esaminare i cavalli testé acquistati. Jos ordinò al domestico di sellare i cavalli senza indugio. Voleva partire quella sera stessa, anzi, immediatamente. Poi, lasciato il domestico ad occuparsi dei due animali, se ne tornò a casa per fare i preparativi della partenza. Ma doveva agire in gran segreto. Decise pertanto di penetrare nella sua camera dall'ingresso posteriore. Non aveva il coraggio di ritrovarsi al cospetto di Amelia e di Mrs. O'Dowd, e confessare che stava scappando. Frattanto, fra la definizione del contratto per la vendita dei cavalli a Jos da parte di Rebecca, e la visita e l'esame delle - suddette cavalcature, era spuntata l'alba. Ad ogni modo, sebbene la mezzanotte fosse trascorsa da un pezzo la città non si dava riposo. La gente era alzata, le finestre erano illuminate la popolazione di Bruxelles usciva a frotte dalle case e le strade apparivano gremite. Le notizie più varie e contraddittorie continuavano a correr di bocca in bocca: chi diceva che i prussiani erano stati sconfitti, chi gli inglesi, chi ribatteva che questi ultimi erano riusciti a resistere. Dei francesi, nemmeno l'ombra. In città arrivarono altri sbandati, recando informazioni che via via si facevano più favorevoli. Alla fine giunse in città addirittura un aiutante di campo con dispacci per il comandante della Piazza, e subito fece affiggere sui muri di tutta la città il comunicato ufficiale che informava della vittoria ottenuta dagli eserciti alleati a Quatre Bras, e della fuga precipitosa delle truppe francesi al comando di Ney dopo una battaglia protrattasi per sei ore. È probabile che questo aiutante di campo sia arrivato proprio mentre Jos e Rebecca stavano contrattando la compravendita dei cavalli, o mentre I acquirente esaminava le bestie in questione. Fatto sta che tornato a casa, Jos trovò una frotta d'inquilini impegnati a discutere sulle recentissime notizie pervenute in città. Erano autentiche, su questo non c'era dubbio; onde si affrettò a salire di sopra per comunicarle alle signore affidate alla sua protezione. Per altro verso, non ritenne opportuno informarle dei suoi propositi di fuga, né di aver comperato all'uopo un paio di cavalli (né tantomeno di rivelare quanto gli erano costati). Ma per Amelia e Mrs. O'Dowd, l'eventualità di una vittoria come di una sconfitta non aveva particolare rilievo: a loro premeva soltanto la salvezza dei rispettivi, amatissimi consorti. Amelia, alla notizia della vittoria, si turbò ancor di più: voleva ad ogni costo raggiungere il campo di battaglia. Con le lacrime agli occhi supplicò il fratello di portarla da suo marito. I suoi dubbi e i suo' timori erano ormai parossistici; e la povera ragazza, rimasta per ore ed ore in quello stato di abulia malinconica, prese ad agitarsi, a muoversi innanzi e indietro, a vaneggiare come una folle in preda a un attacco isterico. Uno spettacolo veramente penoso. Nessuno fra quanti, a quindici miglia di distanza, si torcevano per il dolore sul campo ove avevano così strenuamente combattuto, e dove giacevano dopo la lotta i corpi di tanti ardimentosi, nessuno patì sofferenze terribili come quelle di cui ebbe a soffrire una vittima tanto inerme, tanto inoffensiva del conflitto. La vista di quel dolore riuscì intollerabile a Jos. Affidò una volta di più la sorella alle premurose attenzioni della sua corpulenta amica e di nuovo scese sotto l'androne, ove un fitto assembramento di persone sostava, in attesa di ulteriori notizie. Attesero così fino a giorno fatto, quando altre nuove cominciarono ad affluire, recate da uomini che erano stati attivi partecipi di quella drammatica giornata. Una processione di carri straripanti di feriti entrarono rumorosamente in città, c ne giungevano lamenti strazianti. Corpi dilaniati giacevano osservando con un sentimento di dolorosa curiosità uno di quei carri (dal momento che il gemito dei feriti era atroce, e i cavalli stentavano a trainare i veicoli) quando qualcuno con un fil di voce gridò dal giaciglio di paglia ov'era coricato: «Ferma! Ferma!» E il carro si arrestò. «È George! Sono certa che è lui!» gridò Amelia correndo al balcone coi capelli sciolti sulle spalle. No, non era George, ma quanto di meglio si poteva attendersi, dopo di lui: cioè sue notizie. Era il povero Tom Stubbles, che ventiquattr'ore prima era marciato fieramente fuori da Bruxelles recando lo stendardo del reggimento da lui strenuamente difeso sul campo. Un lanciere francese aveva trafitto una gamba dell'infelice alfiere, che era stramazzato a terra senza peraltro lasciarsi sfuggire di mano il vessillo. A battaglia conclusa, il coraggioso ragazzo era stato caricato su uno dei carri e trasportato a Bruxelles. «Mr. Sedley! Mr. Sedley!» gridò con voce flebile il giovanotto. Jos, impaurito, si avvicinò. Lì per lì non aveva compreso a chi appartenesse la voce che invocava il suo nome. Il piccolo Tom Stubble gli porse una mano debole e bruciante di febbre. «Debbono lasciarmi qui...» disse, «l'hanno detto Osborne e Dobbin... sì, proprio loro, lo hanno detto. Vi prego, date due napoleoni al conducente. Ci penserà mia madre a restituirveli.» I pensieri dell'infelice giovane, durante quelle ore logoranti trascorse sul carro, erano andate al presbiterio del padre che aveva lasciato pochi mesi innanzi; e in preda a quel delirio si era quasi scordato della sofferenza. La casa era grande e abitata da gente di buon cuore. Quasi tutti coloro che occupavano il carro vennero accolti e adagiati su divani. Il giovane sottotenente fu portato di sopra, nell'appartamento di Amelia, dal momento che quest'ultima e la O'Dowd si erano precipitate in strada non appena la giovane sposa del capitano Osborne lo aveva riconosciuto. Lascio ai lettori immaginare quali fossero i sentimenti delle due donne non appena seppero che la battaglia era terminata e i loro mariti entrambi incolumi. Con quale muto rapimento Amelia si gettò al collo dell'amica e l'abbracciò! Con quale sentimento di appassionata gratitudine verso l'Altissimo cadde in ginocchio e rivolse una preghiera di ringraziamento a Dio Onnipotente che aveva risparmiato la vita di suo marito! Nessun medico avrebbe potuto prescrivere alla signora una medicina salutare, e più idonea a placare il suo orribile stato di spasmodica tensione, di quella che il caso le aveva largito. Amelia e Mrs. O'Dowd si prodigarono in cure onde recare sollievo al povero giovane che soffriva moltissimo. Il uovo dovere che si vedeva costretta a compiere distoglieva Amelia dalle sue ansie, e le impedivano di abbandonarsi di nuovo - come fatalmente sarebbe accaduto - ai suoi dubbi e alle sue ansie. Il ragazzo con parole molto semplici raccontò gli eventi di quella giornata e le gesta del valoroso ...° Reggimento che ben conosciamo. Avevano subito pesantissime perdite. Mentre il reggimento si lanciava alla carica il cavallo del maggiore era stato ferito a morte, e tutti avevano creduto che anche il povero maggiore fosse stato ucciso, cosicché Dobbin avrebbe preso il suo posto. Ma quando, dopo la carica, il reggimento aveva recuperato le posizioni di partenza, avevano visto il maggiore che, seduto sulla carcassa di Piramo, si stava rinfrancando col contenuto di una fiaschetta. Quanto al capitano Osborne, aveva ucciso il lanciere francese che aveva ferito Stubbles. Nell'udire questa notizia Amelia si fece così pallida che Mrs. O'Dowd si vide costretta a interrompere il resoconto del giovane. Era stato il capitano Dobbin che più tardi, quantunque a sua volta ferito, si era caricato il ragazzo tra le braccia, lo aveva condotto dal chirurgo e di lì al carro che lo aveva riportato a Bruxelles. Ed era stato lui a promettere due napoleoni al conducente se avesse portato il ferito alla casa di Mr. Sedley e avesse detto a Mrs. Osborne che il combattimento era concluso, e suo marito sano e salvo. «Bisogna riconoscere che quel capitano Dobbin ha un cuor d'oro,» disse Mrs. O'Dowd, «anche se mi prende sempre in giro». Da parte sua il giovane Stubbles confermò queste parole affermando che non esisteva un ufficiale come lui in tutto l'esercito inglese, e prese a snocciolare una sfilza di lodi all'indirizzo del secondo capitano e a parlare della sua modestia del suo garbo, del coraggio eccezionale di cui aveva dato prova sul campo di battaglia. Ma a questa parte del racconto Amelia prestò scarsa attenzione. Ascoltava solo quando si parlava di George; e se non si parlava di lui, pensava a lui. Intenta alle cure del ferito e impegnata a riandare col pensiero allo scampato pericolo, la giornata passò alquanto velocemente per Amelia. Per lei, in tutto l'esercito, esisteva soltanto un uomo, e bisogna ammettere che, se l'uomo in questione godeva buona salute, i movimenti dell'intera armata a lei interessavano ben poco. Le notizie riferite da Jos giungevano alle sue orecchie come una eco lontana, anche se bastavano a tenere suo fratello (e molta altra gente, a Bruxelles) in uno stato di viva inquietudine. Sì, i francesi erano stati respinti, ma solo dopo una lotta incerta e sanguinosa. E poi si era trattato di una sola divisione dell'esercito nemico L'imperatore col grosso delle truppe si trovava a Ligny, dove aveva sconfitto definitivamente i prussiani, e si apprestava ormai a scagliarsi con tutte le sue forze contro gli Alleati. Il duca di Wellington stava retrocedendo in direzione della capitale, ed era probabile che proprio sotto le mura venisse ingaggiata una grande battaglia, il cui esito si prospettava incerto. Il duca poteva fare assegnamento solo su ventimila inglesi, perché i tedeschi non erano addestrati e i belgi erano pavidi. E con quel pugno di soldati Sua Grazia doveva fronteggiare una marea di centocinquantamila uomini penetrati nel territorio belga al comando di Napoleone. Al comando di Napoleone! Esisteva forse un altro comandante militare, per quanto celebre e avveduto, il quale potesse misurarsi con lui in condizioni tanto svantaggiose? Jos rimuginava fra se e se questi pensieri, e tremava. Come del resto tremavano tutti, a Bruxelles, perché capivano come lo scontro del giorno precedente fosse soltanto il preludio di un combattimento imminente e di portata decisiva Uno degli eserciti inviati a fronteggiare l'imperatore era già stato debellato e disperso. I pochi inglesi che potevano essere schierati contro di lui nel tentativo di opporgli resistenza, sarebbero morti ai loro posti, e il conquistatore avrebbe fatto il suo ingresso nella capitale passando sui loro corpi. Guai a coloro che si fossero lasciati sorprendere in città! Già veniva redatto il testo di discorsi celebrativi, i pubblici funzionari indivano riunioni segrete, preparavano appartamenti degni di riceverlo adeguatamente, venivano confezionati vessilli tricolori ed emblemi trionfali per accogliere Sua Maestà l'Imperatore e Re. Lo sfollamento proseguiva; tutte le famiglie che riuscivano a trovare un mezzo di trasporto purchessia si davano alla fuga. Il 17 giugno Jos, recatosi da Rebecca, notò che la carrozza dei Bareacres aveva finalmente lasciato la porte cochère. A dispetto di Rebecca il conte era riuscito, non si sa come, a trovare un paio di cavalli, ed ora si trovava in viaggio sulla strada per Gand. Quivi anche Luigi il Desiderato preparava i bagagli. Si sarebbe detto che la Disgrazia continuasse a tallonare ovunque quello sventurato esule. Jos capiva perfettamente che gli eventi del giorno avanti non significavano altro che una breve pausa, e che i cavalli acquistati a quel prezzo astronomico gli sarebbero tornati utilissimi. Quel giorno soffrì angosce indicibili. Fino a quando l'armata inglese si frapponeva tra Napoleone e Bruxelles, il pericolo non era imminente e la necessità di fuggire non era immediata. Tuttavia fece condurre i cavalli dalla remota scuderia ov'erano ospitati in quella del cortile di casa, in modo da tenerli sott'occhio e prevenire il rischio che gli venissero sottratti a viva forza. Pertanto Isidor teneva lo sguardo perennemente puntato sulle porte della scuderia e aveva già sellato gli animali, perché fossero pronti alla partenza. Il domestico attendeva con ansia quel momento. Data l'accoglienza che ne aveva avuta il giorno avanti Rebecca non aveva la minima voglia di ritornare dalla cara Amelia. Tagliò un poco gli steli del mazzolino di fiori che George le aveva regalato, gli cambiò l'acqua e rilesse il biglietto che lui le aveva scritto. «Che scioccherella!» pensava, arrotolandosi l'esile foglio di carta intorno al dito. «Basterebbe questo a distruggerla. E lei che si tormenta per un uomo del genere! Per un idiota... per un vanesio che non si cura affatto di lei! È veramente incredibile. Quel brav'uomo del mio Rawdon ne vale dieci, di uomini come lui!» Dopo di che prese a pensare a cosa avrebbe dovuto fare se... se qualcosa fosse successo a quel brav'uomo del suo Rawdon. Era davvero una fortuna che le avesse lasciato i cavalli! Quello stesso giorno Mrs. Crawley, la quale, non senza rabbia, aveva dovuto rassegnarsi a veder partire i Bareacres, ripensò alle precauzioni che aveva preso Lady Bareacres e decise di darsi anch'essa a un prudente lavoro d'ago e di filo. Pertanto si cucì addosso la maggior parte dei gioielli e del denaro in banconote che possedeva, dopo di che si accinse a fronteggiare qualsiasi avvenimento: anche a fuggire' se proprio fosse stato necessario, e a dare il benvenuto ai vincitori inglesi o francesi che fossero. E non potrei giurare che quella notte ella non sognasse di diventare duchessa, o Madame la Maréchale, mentre Rawdon, avvolto nella sua mantella militare, bivaccava sotto la pioggia a Mont-Saint-Jean pensando con tutta la forza del suo cuore alla mogliettina che aveva lasciato. L'indomani, domenica, Mrs. O'Dowd ebbe la soddisfazione di constatare che i suoi due ammalati facevano progressi, sia dal lato fisico che da quello morale, grazie al riposo notturno che gli aveva arrecato nuove energie. Quanto a lei, si era adattata a dormire in una grande poltrona nella camera di Amelia, pronta ad accorrere qualora fosse stato necessario accudire alla sua amica o al giovane ferito. Più tardi, quando ormai era mattina, la robusta signora fece ritorno alla dimora dove aveva alloggiato con suo marito il Maggiore, e diede corso a una splendida, accurata toeletta, in tutto degna di quel giorno memorando. Non è da escludere che, mentre si aggirava sola per quella camera che aveva occupata col consorte (sul guanciale c'era ancora il suo berretto da notte, e in un angolo il suo bastone da passeggio), almeno una preghiera sia salita al cielo per la vita di quel prode guerriero ch'era Michael O'Dowd. Poi, accingendosi a far ritorno da Amelia, prese con sì il suo libro di preghiere e la famosa raccolta di sermoni dello zio decano, di cui ogni domenica non mancava mai di leggere qualche pagina. Non capiva tutto, beninteso, e pronunciava male gran parte dei vocaboli, che erano lunghi e astrusi, giacché il decano in questione era un uomo erudito e amava far sfoggio di parole latine; ma leggeva in atteggiamento molto solenne, con molta enfasi e una certa esattezza. «Quante volte il mio Mick ha ascoltato questi sermoni,» pensava, «quando io glieli leggevo in cabina durante i momenti di bonaccia!» Di conseguenza deliberò di riprendere quell'abitudine salutare oggi stesso, davanti a un uditorio costituito da Amelia e dall'alfiere ferito Quel giorno, alla stessa ora, lo stesso servizio venne letto in ventimila chiese, e milioni d'inglesi inginocchiati implorarono la protezione del Padre celeste. Ma all'orecchio di costoro non giunse il rumore che, invece, turbò la nostra minuscola congregazione, radunata in quella casa di Bruxelles. Infatti, mentre Mrs. O'Dowd dava inizio alla lettura del servizio facendo appello alla miglior intonazione di cui fosse capace, cominciarono a tuonare i cannoni di Waterloo. Non appena Jos udì quel clamore terrificante, decise di non poter tollerare oltre quegli alterni accessi di paura, e di fuggire senza ulteriori indugi. Pertanto irruppe nella stanza del malato, ove i nostri tre amici avevano interrotto le preghiere, e a sua volta li interruppe rivolgendo un fervido appello ad Amelia. «Non ne posso più, Emmy. Non ne posso più. E tu devi venire con me. Ho comperato un cavallo per te, e l'ho pagato a peso d'oro. Vestiti e seguimi. Cavalcherai dietro Isidor.» «Che Dio mi perdoni, Mr. Sedley, ma voi siete un perfetto esemplare di vigliacco,» disse Mrs. O'Dowd posando il libro dei sermoni. «Amelia, vieni, ho detto;» continuò il borghese. «Lasciala dire quel che più le aggrada. Perché dovremmo restarcene qui a farci massacrare dai francesi?» «Voi dimenticate il ...° Reggimento, caro mio,» disse dal suo letto il piccolo Stubbles. «E... voi non mi lascerete; vero, Mrs. O'Dowd?» «No, amico mio,» rispose lei alzandosi e schioccandogli un bacio. «Finché sarò al vostro fianco, non potrà accadervi nulla di male. Ed io non mi muoverò di qui fino a quando non me lo dirà il mio Mick. Bella figura farei, abbarbicata a un ronzino dietro quell'individuo, vi pare?» Quell'immagine fece scoppiare in una risata il ferito, e strappò un sorriso persino ad Amelia. «Ma io non mi sono rivolto a... a questa irlandese,» disse Jos. «L'ho chiesto a te, Amelia. Te lo ripeto un'ultima volta: vuoi venire sì o no?» «Senza mio marito, Joseph?» chiese Amelia con uno sguardo carico di stupore; e tese la mano alla moglie del maggiore. Jos aveva esaurito le sue scorte di pazienza. «Arrivederci, allora,» strillò, agitando i pugni arrabbiatissimo e sbattendo l'uscio. Questa volta diede realmente l'ordine di partire e, sceso in cortile, montò a cavallo. Mrs. O'Dowd udì lo scalpitio dei cavalli, mentre varcavano il cancello, e non si peritò di esternare sarcastiche osservazioni sul conto di Joseph, che cavalcava seguito da Isidor in berretto gallonato. Rimasti a riposo da parecchi giorni, i due destrieri erano particolarmente arzilli, e scalpitando allegramente si lanciarono sulla strada. Jos, goffo e tremebondo com'era, non si può dire che in sella si comportasse da brillante cavallerizzo. «Guardalo, cara Amelia,» disse la O'Dowd accostandosi alla finestra del salottino. Sembra un elefante in un negozio di cristallerie. Non ho mai visto niente di simile, parola mia.» Poi i due cavalieri si allontanarono al trotto in direzione della strada per Gand, seguiti dagli infuocati sarcasmi di Mrs. O'Dowd, finché alla fine scomparvero. Per tutta la giornata, dal mattino sino al tramonto, il cannone non cessò di tuonare. Quando all'improvviso tacque, era notte. Tutti noi abbiamo letto ciò che accadde durante quel silenzio. Ogni bocca inglese è in grado di raccontarlo: anche voi ed io, che eravamo bambini quando quell'immane battaglia fu vinta e perduta, non ci stanchiamo di udir ripetere, e di ripetere a nostra volta, il resoconto di quelle gesta memorabili. Il loro ricordo riesce ancor oggi a commuovere milioni di compatrioti dei prodi che in quel giorno patirono la sconfitta. Essi continuano ad attendere l'occasione di vendicarsi dell'umiliazione subita; e se realmente dovesse rinnovarsi una lotta che, vittoriosa per loro, accordasse ai francesi il piacere di scaricare su di noi un maledetto retaggio di odio e di rabbia, la cosiddetta gloria e la cosiddetta vergogna non avrebbero mai fine, come non avrebbe fine l'alternarsi di quel fortunato o sfortunato assassinio nel quale verrebbero impegnate per sempre le energie di due valorose nazioni. Invano trascorrerebbero i secoli, giacché francesi ed inglesi, in preda al furore implacabile dell'orgoglio, continuerebbero a massacrarsi a vicenda in omaggio al loro diabolico codice dell'onore. Nell'immane battaglia tutti i nostri amici compirono il loro dovere e si comportarono da veri uomini. Per tutto il giorno, mentre a dieci miglia di distanza le donne pregavano, le linee dell'indomabile fanteria inglese subirono e respinsero gli attacchi della cavalleria francese. I cannoni che echeggiavano sino a Bruxelles scavavano solchi nelle loro file. Ma mentre i loro commilitoni cadevano, i superstiti serravano nuovamente i ranghi. Verso sera l'iterato assalto dei francesi, respinto con tanto coraggiosa tenacia, diminuì un poco d'intensità. Evidentemente i francesi erano impegnati a respingere altri nemici, oppure si preparavano a sferrare un nuovo attacco. E questo attacco venne, finalmente. Le colonne della Guardia Imperiale si buttarono verso la collina di Saint-Jean per cacciare gli inglesi dall'altura che, a dispetto di tutto, avevano difeso per l'intera giornata. Ad onta degli spari delle artiglierie inglesi che seminavano la morte, la tetra colonna proseguì nella sua avanzata verso il colle. Poi si arrestò, sempre al cospetto del fuoco nemico. Fino a quando gli inglesi si lanciarono dalla postazione donde nessun nemico era riuscito a sloggiarli. La Guardia si volse e prese a fuggire. Fu allora che a Bruxelles non si udì più il rombo dei cannoni. L'inseguimento si protrasse per miglia e miglia. Le tenebre scesero sul campo di battaglia e sulla città; e Amelia pregava per George, che giaceva a faccia in giù morto, con il cuore trapassato da una pallottola. XXXIII • NEL QUALE I PARENTI DI MISS CRAWLEY SONO MOLTO IN ANSIA PER LA SUA SALUTE Il cortese lettore è pregato di ricordare che - mentre l'esercito avanza verso le Fiandre, e dopo aver compiuto le sue gesta eroiche procede per metter mano sulle fortificazioni di frontiera e invadere il suolo della Francia - esistono nondimeno altre persone coinvolte nel nostro racconto le quali continuano a condurre una pacifica esistenza in Inghilterra, ed ora debbono ripresentarsi alla ribalta per recitare la parte che gli compete. In quei giorni di battaglia e di pericoli la vecchia Miss Crawley continuava a starsene in quel di Brighton, poco o nulla turbata da simili eventi. Naturalmente le vicende in questione rendevano più interessante la lettura dei giornali. Non solo: Miss Briggs leggeva anche la «Gazette» nella quale si faceva menzione del coraggio dimostrato da Rawdon Crawley e si dava ufficialmente notizia della promozione ottenuta. «Peccato che quel ragazzo abbia commesso un errore veramente irrimediabile,» commentava la zia. «Col suo grado e il suo nome avrebbe potuto impalmare la figlia di un birraio con duecentocinquantamila sterline di dote come Miss Grains, oppure avrebbe potuto imparentarsi con una famiglia dell'alta aristocrazia inglese. Prima o poi avrebbe disposto del mio denaro, o lo avrebbero avuto i suoi figli, anche se per la verità io non ho la minima fretta di andarmene, Miss Briggs, mentre voi non vedete l'ora di liberarvi di me. E invece, Rawdon è condannato a restare un pezzente, sposato a una ballerina!» «Perché mai la mia cara Miss Crawley non volge uno sguardo compassionevole verso il prode soldato, il cui nome è iscritto negli annali delle glorie patrie?» chiese Miss Briggs elettrizzata dagli eventi di Waterloo e ben lieta di potersi abbandonare a quei toni enfatici ogni qual volta se ne presentava l'occasione. «Non trovate che il capitano (anzi, il colonnello, dal momento che ora posso chiamarlo così) ha compiuto gesta che conferiscono lustro al casato dei Crawley?» «Siete la solita idiota, Briggs!» protestò rabbiosamente Miss Crawley. «Il colonnello Crawley ha trascinato il nomi della sua famiglia nel fango. Sposare la figlia di un maestro d disegno. Sposare una dame de compagnie! È stata una cosa indegna, Briggs! Già, perché lei non era niente di più di questo. Anzi, era esattamente quello che siete voi, con la sola differenza di essere di gran lunga più giovane, più graziosa ed anche più intelligente. Del resto, non escludo che siate state complice di quella sciagurata, di quella miserabile per la quale provavate una così viva ammirazione, e delle cui arti perverse egli è stato vittima. Sì, non esito a credere che siate stata sua complice. Ma la lettura del mio testamento vi riserverà delle brutte sorprese, siatene pur certa. Frattanto siate così cortese da voler scrivere a Mr. Waxy che desidero vederlo senza indugio.» Ormai Miss Crawley aveva preso l'abitudine di scrivere al suo legale, Mr. Waxy, quasi ogni giorno: intatti aveva annullato tutte le precedenti disposizioni riguardanti i suoi beni, ma ora non sapeva esattamente cosa farne. Si aggiunga che la vecchia zitella si stava rimettendo in salute: circostanza comprovata dalle ritrovate energie e dai ripetuti dileggi di cui faceva oggetto Miss Briggs: dileggi che l'infelice sopportava con docilità, con viltà e con una sorta di rassegnazione a mezza strada fra la generosità e l'ipocrisia: in altri termini, con quella rassegnazione servile di cui le persone del suo carattere e nella sua posizione sono costrette a dar prova. Chi non ha assistito ai tormenti cui una donna sa sottoporre una sua consimile? Forse che gli uomini sono costretti a soggiacere a torture paragonabili alle quotidiane, crudeli e sprezzanti frecciate con cui le povere donne vengono di continuo ferite dalle tiranne del loro sesso? Povere vittime! Ma ci stiamo scostando dai nostri propositi: volevamo infatti dimostrare che, ogni qual volta Miss Crawley si rimetteva da un malanno, si rivelava più cattiva e pungente del consueto: proprio come le ferite, che prudono di più quando stanno rimarginandosi. Mentre la convalescenza, auspicata da tutti, si stava ormai avvicinando, Miss Briggs era l'unica vittima ammessa alla presenza dell'inferma. Ciò non toglie che i parenti di Miss Crawley, sebbene si trovassero molto lontano, non dimenticassero la loro beneamata congiunta; e facendo ricorso a doni, lettere squisitamente cortesi e disparate attestazioni d'affetto, facevano di tutto per mantenersi vivi nel suo ricordo. Prima di tutto menzioniamo suo nipote, Rawdon Crawley. Qualche settimana dopo la celebre battaglia di Waterloo, e dopo che la «Gazette» aveva recato a Miss Crawley la notizia della promozione conseguita dal valoroso ufficiale e del coraggio di cui aveva dato prova sul campo, il postale di Dieppe le recò a Brighton una scatola contenente una doverosa lettera del nipote colonnello. La scatola in questione conteneva alcune reliquie del campo di battaglia, costituite da un paio di spalline francesi, dall'impugnatura di una sciabola e da una croce della Legion d'Onore. La lettera riferiva in termini decisamente comici come l'impugnatura della sciabola appartenesse a un comandante delle Guardie il quale, subito dopo aver giurato che «la Guardia muore ma non si arrende», era stato fatto prigioniero da un soldato semplice che gli aveva spezzato la sciabola col calcio della carabina; dopo di che Rawdon si era impossessato dei frammenti di quell'arma. Quanto alla croce e alle spalline, erano appartenuto a un colonnello francese di cavalleria che era stato ucciso dal nostro aiutante di campo in persona. E la lettera proseguiva dicendo che il bottino in termini non poteva avere destinataria migliore della carissima, amatissima amica del mittente. Poteva forse continuare a scriverle da Parigi, ove l'esercito era diretto? Chissà che da quella capitale non avesse modo di farle giungere interessanti notizie di certi vecchi amici di Miss Crawley, che quest'ultima aveva conosciuto negli anni dell'emigrazione, e ai quali ella aveva usato tante cortesie in quello sventurato periodo! La zitella ordinò alla Briggs di rispondere al colonnello con una garbata lettera nella quale si complimentava con lui e lo esortava a continuare quella corrispondenza testé iniziata. La prima lettera era così spigliata e amena, che avrebbe atteso le successive con sentimento di vivo piacere «Inutile dire,» spiegò a Miss Briggs, «che lui non è assolutamente in grado di scrivere lettere del genere, né più né meno come non sareste in grado voi. È quella dannata volpe di Rebecca ad avergliela dettata, parola per parola. D'altra parte, se in questo modo mio nipote riesce a divertirmi, non c'è motivo per impedirglielo. Per questo desidero informarlo che sono di ottimo umore.» Non saprei dire se Miss Crawley fosse informata che era stata Becky, non solo a compilare quella lettera, ma a concepire l'idea di spedire in patria quei trofei acquistati per pochi franchi da uno dei tanti venditori ambulanti che subito dopo la battaglia si erano messi a vendere cimeli, e reliquie varie della guerra testé conclusa. Il romanziere però sa tutto, e di conseguenza sa anche questo. Comunque fossero andate le cose, è certo che la cortese lettera di Miss Crawley spronò il nostro Rawdon e la consorte a riporre speranze nel ripristinato buonumore della zietta; onde si premurarono di divertirla con varie, spiritose lettere spedite da Parigi dove, come si esprimeva Rawdon, avevano avuto la fortuna di arrivare al seguito dell'esercito vincitore. Al contrario, i messaggi che Miss Crawley inviava alla moglie del vicario, partita per assistere il marito che si era fratturata una scapola al presbiterio di Queen's Crawley, non erano certo così obbliganti. La solerte, efficiente, imperiosa Mrs. Bute Crawley aveva commesso, nei riguardi della cognata, il più fatale degli errori. Non soltanto aveva oppresso lei e tutte le persone che abitavano sotto il suo tetto, ma per giunta l'aveva annoiata. Pertanto, se la povera Miss Briggs avesse avuto un briciolo di spirito, sarebbe stata felice per aver ricevuto dalla sua padrona l'incarico di scrivere una lettera a Mrs. Bute Crawley, nella quale si diceva come la salute di Miss Crawley fosse molto migliorata dopo la sua partenza, e al contempo la si esortava a non disturbarla e a non lasciare la famiglia per far ritorno da lei. Un simile trionfo conseguito ai danni di una persona che l'aveva trattata in modo così altezzoso e crudele avrebbe fatto la felicità di un nugolo di donne; ma Miss Briggs - lo dicevamo poc'anzi - non era una donna di spirito, e nel momento stesso in cui ebbe modo di contemplare la sconfitta della sua nemica, prese a compatirla. «Sono stata una sciocca a lasciarmi sfuggire che intendevo tornare, quando ho scritto a Matilda la lettera che accompagnava quelle faraone in regalo» pensò Mrs. Bute Crawley E non si può dire che avesse torto. «Avrei dovuto andarci senza dire nemmeno una parola a quella povera vecchia rimbambita, togliendola dalle mani di quell'idiota della Briggs e di quell'arpia della femme de chambre. Oh, Bute, Bute, perché ti sei spezzata la clavicola?» Già, perché? Come abbiamo visto? fino a quando la fortuna l'aveva assistita Mrs. Bute Crawley aveva giocato le sue carte con grande abilità, esercitando un così cieco e implacabile dominio sulla casa di Miss Crawley da esserne cacciata con la stessa determinazione non appena se n'era presentata l'occasione propizia. Invece Mrs. Bute Crawley e la famiglia erano convinti che alla base di tutto ci fosse una mostruosa congiura, e che i sacrifici affrontati per il bene di Miss Crawley fossero stati ricompensati con la più sinistra ingratitudine. Inoltre la promozione di Rawdon e la menzione del medesimo sulla «Gazette» suscitarono la comprensibile preoccupazione della religiosissima signora. Chissà' ora che Rawdon era stato promosso al grado di tenente colonnello ed era diventato C.B., la vecchia signorina avrebbe ceduto... Quell'odiosa Rebecca sarebbe rientrata nelle sue grazie? La moglie del vicario si affrettò a scrivere per il marito un sermone che stigmatizzava la gloria militare e deprecava il dilagare della malvagità sermone che il degno consorte lesse facendo appello alla migliore intonazione di voce senza capire un'acca del contenuto. Tra l'uditorio figurava anche Pitt Crawley, il quale si era recato in compagnia delle sorellastre in quella chiesa che nessuno avrebbe potuto convincere il baronetto a frequentare. Dopo la partenza di Becky Sharp quel vecchio malandrino si era abbandonato ai vizi più turpi, fra lo scandalo dell'intera contea e il muto orrore del figlio. Nastri e guarnizioni sul cappello di Miss Horrocks diventavano ogni giorno più vistosi. Inorridite, le famiglie dabbene disertavano il palazzo e fuggivano la compagnia del suo proprietario. Sir Pitt non faceva che bere: dai fittavoli, dai contadini a Mudbury e nei villaggi circostanti, quando era giorno di mercato. Conduceva Miss Horrocks a Southampton nella carrozza padronale guidando i cavalli di persona; pertanto, sia la popolazione della contea, sia il figlio muto d'angoscia, si attendevano di settimana in settimana che i giornali pubblicassero la notizia ufficiale dell'imminente matrimonio. Indubbiamente il baronetto costituiva una vera piaga per Mr. Crawley. In occasione dei raduni missionari e di altre riunioni religiose ch'egli soleva presiedere dando prova in passato di straordinaria facondia e leggendo sproloqui interminabili, si sarebbe detto che il flusso inesauribile della sua eloquenza si fosse arrestato. Quando si alzava, aveva la sensazione che la gente mormorasse: «Ecco, costui è il figlio di quel vecchio libertino di Sir Pitt. Probabilmente il padre in questo momento è ubriaco fradicio in qualche osteria.» Un giorno, mentre stava commentando le deprecabili condizioni in cui si trovava l'anima del re di Timbuctu e delle sue numerose mogli le quali, al pari di lui, conducevano un'esistenza peccaminosa, uno zotico miscredente mescolato alla folla lo apostrofò gridando: «Di' un po' e a Queen's Crawley quante ce ne sono, brutto smorfioso?» Parole che naturalmente seminarono il più vivo sconcerto fra l'uditorio e mandarono a catafascio il discorsetto di Mr. Pitt. Da parte sua Sir Pitt aveva giurato che nessuna istitutrice avrebbe più varcato la soglia di Queen's Crawley, e le sue ragazze sarebbero cresciute analfabete se Mr. Crawley non lo avesse costretto con le minacce a mandarle a scuola. Nel frattempo, indipendentemente dalle contese personali che potevano travagliare i diletti nipoti e le amate nipoti di Miss Crawley, tutti concordavano nel volerle un bene dell'anima e nel testimoniarle il loro affetto con regali d'ogni genere. Ed ecco che Mrs. Bute Crawley le inviava faraone, oppure certi cavolfiori di una qualità veramente sopraffina, oppure una deliziosa borsettina, per non dire di un puntaspilli ricamato dalle sue adorate figliole con le loro manine industriose. E queste ultime pregavano la carissima zia di serbare nel suo cuore un posticino per loro, mentre dal castello Mr. Pitt inviava pesche, uva e selvaggina. Di solito era il postale di Southampton a recare a Miss Crawley, in quel di Brighton, siffatte testimonianze dell'affetto parentale, ma qualche volta il postale portava Mr. Pitt in persona, il quale, dati i grandi rapporti che intratteneva col genitore, era indotto ad assentarsi con crescente frequenza. Per di più Brighton gli offriva motivo di piacevole richiamo nella persona di Lady Jane Sheepshanks, del cui fidanzamento con lui è già stata fatta menzione in questa storia. Sua signoria viveva infatti a Brighton insieme con le sue sorelle e con la madre, contessa Southdown: una donna molto energica particolarmente apprezzata nella società delle persone ammodo. Ma è opportuno spendere qualche parola sul conto di Sua Signoria e della sua nobile famiglia, unita da legami presenti e futuri alla famiglia Crawley. Per quanto concerne il capo dei Southdown, Clement William, quarto conte di Southdown, basterà dire che era entrato in parlamento (al pari di Lord Wolsey) grazie alla protezione di Mr. Wilberforce, e che per un certo tempo si comportò in modo affatto degno del suo padrino politico dando prova indiscutibile di assoluta serietà. Ma non ci sono parole atte a descrivere efficacemente i sentimenti della sua degna genitrice allorché, poco dopo la morte del suo nobile consorte, ebbe la sgradita ventura di scoprire che il figlio era membro di numerosi circoli mondani, che aveva perso cospicue somme al gioco da Wattier e al Cocoa-Tree, che si era fatto prestare denaro sull'eredità futura, che aveva ipotecato i beni familiari, che guidava un tiro a quattro, che assisteva a incontri di pugilato, e per concludere aveva un palco all'opera dov'era solito radunare una ghenga di scapoli scapestrati. Nella cerchia della genitrice il suo nome veniva sempre nominato con accompagnamento di sospiri. Lady Emily era di parecchi anni maggiore del fratello, e tra le persone come si deve godeva di ottima reputazione quale autrice di opuscoli edificanti dei quali abbiamo già avuto occasione di parlare, nonché d'innumerevoli inni e canti religiosi. Zitella ormai matura aveva praticamente accantonato l'idea di potersi maritare, e quasi tutti i suoi sentimenti erano votati all'affetto per i negri. E a lei, se non vado errato, che dobbiamo questi versi stupendi: Guidaci a un'isola di sole fulgente nei lontani mar d'occidente dove sempre il cielo è ridente, e i negri piangono chiedendo pietà, ecc. Intratteneva una fitta corrispondenza con ecclesiastici sparsi in tutti i territori delle Indie Occidentali e Orientali, ed era segretamente innamorata del reverendo Silas Hornblower, che era stato tatuato nelle isole dei Mari del Sud. Quanto a Lady Jane - colei che, come abbiamo visto, aveva suscitato l'affetto di Mr. Pitt Crawley era una creatura timida, gentile, taciturna, facile al rossore. A dispetto della sua vita dissipata piangeva per il fratello, vergognandosi di continuare a volergli bene. Gli scriveva dei bigliettini frettolosi che imbucava di nascosto. L'unico, spaventoso segreto della sua vita consisteva nell'essersi recata in compagnia di una vecchia governante nella stanza che il fratello abitava all'Albany, dove lo aveva sorpreso - ah, misero scellerato! - in atto di fumare un sigaro davanti a una bottiglia di curaçao. Ammirava sua sorella, adorava sua madre e considerava Mr. Crawley l'uomo più piacevole e compito della terra, beninteso dopo il fratello, il suo angelo precipitato agli inferi. La madre e la sorella, donne veramente di elevato sentire, si occupavano di tutto ciò che la riguardava e la trattavano con quella benevola considerazione che le nostre donne, quando sono veramente superiori, possiedono con tale dovizia da poterla elargire a destra e a manca senza risparmio. Spettava alla madre sceglierle i vestiti, i cappelli, i libri, le idee. A seconda di ciò che passava per la testa a Lady Southdown, Jane era tenuta ad andare a cavallo, a esercitarsi al pianoforte, ad andare a passeggio o ad ingurgitare medicine. Sua Signoria non avrebbe esitato a tenere la figlia in grembiulino fino all'attuale sua età di anni ventisei compiuti, se non fosse stata costretta a toglierglielo per presentarla alla regina Charlotte. Quando le signore in questione si erano trasferite nella loro casa di Brighton, Mr. Crawley aveva riservato a loro e soltanto a loro l'onore di una sua visita personale, mentre a casa della zia si era limitato a lasciare il suo biglietto da visita e a chiedere con assoluta modestia notizia sulla salute della malata a Mr. Bowls, il maggiordomo, e al suo aiutante. Ma il giorno in cui incontrò Miss Briggs che ritornava dalla biblioteca con un fascio di romanzi sotto braccio, arrossì vivamente (circostanza in lui affatto insolita), le si fece incontro e le strinse la mano. Poi presentò la Briggs alla signora che si trovava in sua compagnia dicendo: «Lady Jane, concedetemi di presentarvi a Miss Briggs, alla migliore amica e alla più affezionata compagna di mia zia. Voi, del resto, la conoscete già sotto altro nome, quale autrice delle Liriche del cuore che suscitano in voi una così viva ammirazione.» Al che fu Lady Jane ad arrossire mentre porgeva a Miss Briggs la sua vezzosa manina e farfugliava parole garbate quanto sconnesse circa sua madre, nonché il desiderio di recarsi in visita da Miss Crawley e di far conoscenza coi parenti e gli amici della stessa. Poi, congedandosi, salutò Miss Briggs con occhioni dolci come quelli di una colomba, mentre Mr. Crawley si piegava in un profondo inchino simile a quelli che elargiva a Sua Altezza la duchessa di Pumpernickel quando fungeva da attaché presso quella Corte. Ed eccolo all'opera, l'astuto diplomatico e degno allievo del machiavellico Binkie! Era stato lui a far dono a Lady Jane di una copia delle poesie giovanili della Briggs, che aveva scovato a Queen's Crawley con una dedica dell'autrice alla defunta seconda moglie di suo padre. E del pari era stato lui a portare il volumetto a Brighton e a leggerlo durante il percorso in diligenza fino a Southampton, e a farvi alcune preziose annotazioni a matita prima di affidarlo alle gentili mani di Lady Jane. Ed era sempre lui che aveva illustrato a Lady Southdown i cospicui vantaggi (sia morali sia materiali aveva detto lui) che sarebbero scaturiti dall'avvio di amichevoli rapporti tra la sua famiglia e Miss Crawley, specie ora che la zia versava nella più desolante solitudine, giacché aveva negato il suo affetto a quel reprobo di Rawdon a causa del suo deplorevole contegno e dell'ignobile matrimonio da lui contratto. D'altra parte l'avidità, la tirannia e le smaniose mire di Mr. Bute Crawley avevano spinto la vecchia zitella a ribellarsi, respingendo le sfrontate pretese di quel ramo della famiglia. E sebbene fino a quel momento egli non avesse sollecitato in alcun modo i favori e l'amicizia di Miss Crawley, fors'anche per una sorta di malinteso orgoglio, riteneva che ormai fosse giunto il momento di appellarsi ad ogni espediente plausibile per salvare l'anima della zia dall'eterna dannazione, e per assicurarne il patrimonio a lui, nella sua qualità di capo della famiglia Crawley. Da quella donna di chiare vedute che era, Lady Southdown si dichiarò perfettamente d'accordo su entrambi i propositi del futuro genero, palesando altresì la sua propensione a ottenere quanto prima possibile la piena conversione di Miss Crawley. Quando era a casa, a Southdown oppure a Trottermone Castel, quella terrificante e irriducibile divulgatrice della Verità percorreva le campagne in calesse, seguita dai suoi staffieri, e lanciava fasci di opuscoli ai contadini e ai fittavoli, ordinando al Tale di convertirsi né più né meno come ingiungeva al Talaltro di prendere le pillole del dottor James. Il tutto senza accordare libertà di appello, libertà di opposizione o beneficio d'immunità ecclesiastica. Il defunto consorte, Lord Southdown, un nobile epilettico e d'intelligenza men che mediocre, aveva l'abitudine di approvare incondizionatamente qualunque cosa la sua Matilda dicesse o pensasse. Di conseguenza Lady Southdown, quali che fossero le variazioni cui andava soggetta la sua fede (la quale, per dire il vero, si adattava con sorprendente facilita alle svariatissime opinioni esternate ora da questo ora da quel teologo appartenenti a questa o a quella setta dissidente) non esitava minimamente nell'ordinare ai suoi fittavoli o subalterni di abbracciare le sue nuove convinzioni religiose. Perciò, sia che ricevesse il reverendo Saunders MacNitre, l'apostolo della Chiesa di Scozia, oppure il reverendo Luke Waters, il buon metodista Wesleyano, per non dire del reverendo Giles Jowls, l'illuminato ciabattino che si era autopromosso reverendo esattamente come Napoleone si era autoincoronato Imperatore, i figli, i fittavoli, il personale di Lady Southdown erano rigorosamente tenuti a inginocchiarsi insieme con Sua Signoria e a dire «Amen» a conclusione delle preghiere pronunciate dal tale o dal talaltro ecclesiastico. Nel corso di questi edificanti rituali il vecchio Southdown era peraltro autorizzato a starsene in camera sua a bersi un bicchiere di vin caldo e a farsi leggere il giornale. Lady Jane era la figlia prediletta del conte che ella amava sinceramente e al quale prodigava le sue cure. Quanto a Lady Emily, l'autrice della Lavandaia di Finchley Common, le sue descrizioni dei castighi che attendevano i malvagi nell'inferno (in quegli anni, poiché successivamente le sue convinzioni in proposito subirono un drastico mutamento) erano così terrificanti che il vecchio gentiluomo ne era letteralmente sconvolto, e i medici dichiaravano che gli attacchi di cui soffriva seguivano sempre alle prediche di Sua Signoria. «Andrò subito a farle visita,» rispose Lady Southdown, accogliendo le esortazioni del prétendu di sua figlia, Mr. Pitt Crawley. «Chi è il medico di Miss Crawley?» Mr. Crawley menzionò il nome di Mr. Creamer. «Un praticone, un uomo ignorante e pericoloso, caro Pitt. La Provvidenza si è degnata di servirsi più volte di me onde allontanarlo dal capezzale di molti infermi, sebbene in un paio di casi non sia purtroppo arrivata in tempo. Non sono riuscita a salvare il povero generale Glanders, che è morto per essersi abbandonato nelle mani di un uomo simile. Morendo dico... Gli somministrai le pillole Podger e potei riscontrare un certo miglioramento, ma purtroppo era tardi. Ahimè, non c'era niente da fare, ormai! D'altra parte la sua morte è stata meravigliosa; ed è stato un cambiamento in meglio! Caro Pitt bisogna assolutamente sottrarre vostra zia a Mr. Creamer.» Pitt manifestò il suo consenso. Anche lui era stato travolto dall'energia della nobildonna e futura suocera. Anche lui era stato indotto ad accettare Saunders McNitre, Luke Waters Giles Jowls, le pillole Podger, le pillole Rodger, l'elisir Pokey: insomma, tutte le medicine di Sua Signoria, non importa se sacre o profane. Non usciva mai da quella casa senza portar seco, con ossequiosa docilità, enormi quantitativi di quelle cianfrusaglie teologiche e medicinali. Eh, miei cari amici e fratelli che insieme a me percorrete questa Fiera della Vanità chi di voi non conosce qualche benevola despota di tale specie, o non soffre, oppresso sotto il suo giogo implacabile? E del tutto inutile dirle: «Cara signora, l'anno scorso, in omaggio alle vostre esortazioni, ho preso le pillole Podger avendone grande beneficio; perché ora dovrei cambiare parere e abbandonarle per le pillole Rodger?» Fatica sprecata. La nostra missionaria non demorde, e se non le riesce di convincervi col ragionamento ricorrerà alle lacrime. Onde alla fine il riluttante finisce col trangugiare l'amaro calice e col dire: «D'accordo, d'accordo... Vada per le pillole Rodger!» «Per quanto riguarda la salute della sua anima,» continuò la signora, «inutile dire che dobbiamo occuparcene immediatamente. Affidata a Creamer potrebbe morire da un momento all'altro; e in quali condizioni, mio caro Pitt, in quali spaventevoli condizioni! Le manderò subito il reverendo Irons. Jane, scrivi a nome mio un biglietto al reverendo Bartholomew Irons e dirli che sollecito l'onore della sua presenza per il tè, alle sei e mezzo. È un uomo che sa come destare le coscienze. Bisogna assolutamente che s'incontri con Miss Crawley prima che lei si addormenti stasera. E tu, Emily, tesoro, prepara per lei un pacco di libri per Miss Crawley Mettici Una voce si leva tra le fiamme, Le trombe di Gerico, Crogiuoli spezzati, ossia: il cannibale convertito.» «E La lavandaia di Finchley Common, mamma. Mi sembra più opportuno cominciare con qualcosa di più lieve.» «Basta così, care signore,» intervenne il diplomatico Pitt. «Con tutto il rispetto per le opinioni dell'amata e rispettata Lady Southdown, personalmente ritengo controproducente affrontare di punto in bianco problemi così gravi con Miss Crawley. Non dimenticate che la sua salute è alquanto cagionevole, e che a tutt'oggi ha meditato assai poco sull'immortalità della sua anima.» «E allora come potete affermare che è troppo presto per cominciare?» chiese Lady Emily alzandosi in piedi con sei libri in mano. «Se cominciate affrontando di petto la situazione, non farete che sgomentarla. Conosco il carattere di mia zia e sono certo che qualunque tentativo troppo solerte per indurla alla conversione porterebbe a conseguenze deleterie per l'anima di quella sventurata. La spaventereste. Molto probabilmente getterebbe i libri e si rifiuterebbe di ricevere coloro che glieli avessero mandati.» «Pitt, voi siete legato alle vanità di questo mondo come vostra zia,» rispose Lady Emily, e uscì dalla stanza coi suoi libri. «Inutile dirvi, poi, cara Lady Southdown,» continuò Pitt a bassa voce e senza badare a quell'interruzione, «come qualsivoglia mancanza di tatto o soverchia tempestività potrebbe frustrare le speranze che coltiviamo circa i beni terreni di mia zia. Non dimenticate che possiede una fortuna di settantamila sterline; pensate alla sua età e alle condizioni oltremodo precarie del suo sistema nervoso. So che ha annullato il suo testamento a favore di mio fratello, il colonnello Crawley. Solo placando quell'anima ferita riusciremo a ricondurla sulla retta via. Per questo bisogna assolutamente evitare di spaventarla. Penso quindi che sarete d'accordo con me che... che...» «Certo, certo,» disse Lady Southdown. a Jane, tesoro, per ora è inutile che tu scriva quel biglietto al reverendo Irons. Se le sue attuali condizioni di salute sono tali che una discussione potrebbe affaticarla, è meglio attendere che si senta meglio. Domani andrò a far visita a Miss Crawley.» «E se posso permettermi un consiglio, mia dolce signora,» disse Pitt in tono suadente, «eviterei di portare con voi la vostra preziosa Emily. È troppo zelante. Mi sembra meglio che vi facciate accompagnare dalla nostra dolce e cara Lady Jane.» «Emily rovinerebbe tutto, non c'è dubbio.» rispose Lady Southdown E questa volta si rassegnò a rinunciare alla tattica consueta, che consisteva - come abbiamo visto - nello sparare una quantità di opuscoli contro l'individuo minacciato prima di piombargli addosso per soggiogarlo, (proprio come i francesi fanno precedere la carica da un furibondo cannoneggiamento). Sta di fatto che Lady Southdown, per riguardo alla salute della malata, o alla salvezza della sua anima, o alla sorte del suo denaro, accondiscese a temporeggiare. L'indomani la grande carrozza padronale dei Southdown fregiata della corona comitale e dello stemma (sul quale i tre agnelli d'argento in campo verde dei Southdown erano incorniciati di nero e oro, e attraversati da tre strisce marrone e rosse, emblema del casato dei Binkie) si arrestò solennemente davanti alla porta della casa di Miss Crawley, dove un solenne domestico porse a Mr. Bowls un biglietto da visita per Miss Crawley e uno per Miss Briggs. D'altro canto, in seguito a una soluzione di compromesso, quella sera stessa Lady Emily inviò alla Briggs un pacco contenente alcune copie della Lavandaia e altri opuscoli d'intonazione alquanto moderata destinati a lei, nonché altri improntati a fosche tinte (quali, ad esempio, Briciole della dispensa, La padella e la brace e La livrea del peccato) per la servitù. XXXIV • LA PIPA DI JAMES CRAWLEY VIENE SPENTA L'amabile atteggiamento di Mr. Crawley e la gentile accoglienza riservatale da Lady Jane lusingarono moltissimo Miss Briggs, inducendola a dire una buona parola in loro favore allorché i biglietti dei Southdown vennero consegnati a Miss Crawley. Il biglietto da visita di una contessa, consegnatole a titolo strettamente personale, non era cosa da poco per la povera dama di compagnia priva di amicizia e relazioni personali. «Vorrei proprio sapere come mai Lady Southdown ha lasciato un biglietto da visita anche per voi, Miss Briggs,» osservò con spirito altamente democratico Miss Crawley. Al che l'altra rispose in tono mellifluo e sottomesso come sperasse «non vi fosse nulla di sconveniente se una dama dell'alta società usava un cenno di riguardo nei confronti di una povera dama di compagnia come lei», e ripose il biglietto da visita nella sua scatola da lavoro, accogliendolo così fra le cose a lei più care. Miss Briggs aggiunse di aver incontrato il giorno prima Mr. Crawley in compagnia della cugina e ormai da gran tempo fidanzata, e aggiunse che la signorina - la quale era vestita in modo estremamente semplice, per non dire misero (e descrisse ogni dettaglio dell'abbigliamento, dalle scarpe al cappello, calcolando il prezzo di ogni singolo capo di vestiario con precisione tutta femminile) - le era sembrata quanto mai garbata e graziosa. Miss Crawley concesse alla Briggs l'onore di ciarlare e parlare senza interromperla. Ora che si sentiva meglio, un po' di compagnia le riusciva gradita. Mr. Creamer, il suo medico non voleva saperne di lasciarla tornare nel suo consueto ambiente londinese, poco morigerato e per nulla confacente, onde l'anziana zitella era ben lieta di trovare a Brighton chiunque fosse disposto a intrattenerla in un modo purchessia. Pertanto, non solo il giorno seguente fece rispondere ai biglietti, ma spinse la sua benevolenza fino a invitare Mr. Crawley ad andarla a trovare. Egli vi si recò in compagnia di Lady Jane e di Lady Southdown, la quale si guardò bene di intrattenere Miss Crawley sulla salute della sua anima, ma avviò una normale e cautelosa conversazione sul tempo, sulla guerra, sulla batosta subita da quel mostro di Buonaparte, e soprattutto su dottori, ciarlatani, nonché sui meriti preclari che in quel momento godeva della sua stima incondizionata. Nel corso di quella visita Pitt Crawley mise a segno un colpo da maestro: un colpo atto a dimostrare che, se non fosse stata compromessa all'inizio dalle sue mosse troppo lente e svogliate, la sua carriera diplomatica avrebbe potuto affermarsi in termini né più né meno clamorosi. Allorché la contessa madre di Southdown prese a parlare di quel losco avventuriero corso, in omaggio a un argomento alla moda che stava diventando di prammatica in tutte le conversazioni, e a dimostrare come fosse un essere abbietto macchiatosi di ogni crimine possibile e immaginabile, di un codardo e di un tiranno indegno di vivere, la cui caduta era un segno incontestabile della Volontà divina, Pitt di punto in bianco cominciò a pronunciarsi in favore dell'Uomo del Destino. Descrisse il Primo Console così come lo aveva visto a Parigi all'atto della stipulazione della Pace di Amiens; quando lui, Pitt Crawley, aveva avuto l'onore di conoscere il grande e ottimo Mr. Fox, lo statista del quale si poteva non condividere le opinioni, ma che nondimeno meritava la generale ammirazione, lo statista che aveva sempre nutrito sentimenti della più viva ammirazione nei confronti dell'Imperatore Napoleone. E si diffuse commentando il vile contegno degli alleati nei riguardi del monarca detronizzato; il quale era stato perfidamente e malvagiamente bandito mentre lui si era fiduciosamente affidato alla loro mercé. Quanto alla Francia, eccola soggetta alla tirannia di gentaglia bigotta e papista. Questo ortodosso orrore per la superstiziosa Chiesa cattolico-romana valse a salvare Crawley nell'opinione della contessa Southdown, mentre - per altro verso la conclamata ammirazione per Fox e Napoleone lo accrebbe in misura notevolissima nella considerazione di Miss Crawley. Abbiamo già accennato, all'inizio della nostra storia, all'antica amicizia fra la vecchia zitella e il defunto uomo di stato. Da autentica Whig, Miss Crawley si era schierata all'opposizione durante tutta la campagna bellica e, quantunque la caduta dell'imperatore non l'avesse soverchiamente addolorata, e il modo in cui Napoleone era stato trattato non fosse destinato a toglierle il sonno né ad accorciarle la vita, Pitt, lodando i suoi due idoli, aveva parlato al suo cuore; con quattro parole era riuscito a far passi da gigante verso la definitiva conquista del suo affetto. «E voi cosa ne pensate, mia cara?» chiese Miss Crawley a Lady Jane, che aveva subito preso in simpatia, come sempre le accadeva con le giovani graziose e modeste (simpatia che d'altronde si raffreddava con la stessa rapidità con la quale si accendeva). Lady Jane si fece di bragia e rispose che... che lei non s'intendeva di politica, che affidava simili problemi a menti più profonde della sua. D'altra parte riteneva che sua madre avesse ragione, anche se Mr. Crawley si era espresso in termini degni della massima considerazione... Quando, a conclusione della visita, le signore si congedarono, Miss Crawley disse a Lady Southdown che sperava sarebbe stata così gentile da mandarle qualche volta Lady Jane, se poteva privarsi talvolta della sua presenza e spartirne la compagnia, onde potesse allietare la giornata di una povera vecchia malata e solitaria. Il permesso venne graziosamente accordato e si separarono in termini di viva amicizia. «Non ho nessuna intenzione di rivedere Lady Southdown,» disse Miss Crawley a Pitt. «È sciocca e vanesia come tutti quelli della tua famiglia, che mi sono sempre stati antipatici. Invece puoi condurmi la tua buona e vezzosa Jane ogni qual volta lo desideri.» Pitt promise che lo avrebbe fatto, e naturalmente si guardò bene dal riferire alla contessa quale opinione la zia nutrisse sul suo conto. Sua Signoria era convintissima di aver suscitato in Miss Crawley un sentimento di immediata simpatia e un'impressione di altissima dignità. Da parte sua Lady Jane, per nulla maldisposta a confortare una vecchia signora malata, e forse ben lieta - in cuor suo - di potersi risparmiare i foschi sproloqui del reverendo Bartholomew Irons e di tutti gli uggiosi parassiti che sedevano in crocchio attorno al posapiedi della pomposa contessa sua madre, prese a far visita quasi quotidianamente a Miss Crawley. L'accompagnava nelle passeggiate in carrozza e con la sua presenza ne allietava molte serate. Era di carattere così buono e remissivo, che persino la Firkin non si sentì di alimentare nei suoi confronti il minimo sentimento di gelosia. Quanto alla povera Briggs, si convinse che la sua padrona era molto meno crudele con lei quando Lady Jane era presente. Con la fanciulla in questione, Miss Crawley era di una dolcezza sorprendente. La vecchia signorina le raccontava una sfilza di aneddoti sulla sua giovinezza, ma usava nei suoi riguardi un tono affatto diverso da quello col quale era solita rivolgersi a quella piccola miscredente di Rebecca. In effetti, Lady Jane dava prova di tanto innocente candore, che un frasario troppo esplicito sarebbe riuscito inopportuno, e Miss Crawley - da quell'autentica gentildonna che era non avrebbe mai osato offendere simile purezza. Peraltro, la giovane non aveva mai ricevuto gentilezze in vita sua se non da suo padre, da suo fratello ed ora da Miss Crawley, onde ricambiava l'engoûment di quest'ultima con l'attestazione di una dolce e ingenua amicizia. Nella sere d'autunno (mentre Rebecca folleggiava a Parigi più spensierata di qualsiasi spensierato vincitore, e Amelia ahimè, dov'era mai la nostra povera, ferita Amelia?) Lady Jane sedeva nel salottino di Miss Crawley e nella penombra le cantava dolcemente inni religiosi o semplici canzoni, mentre fuori il sole tramontava e le onde si frangevano scrosciando lontano, sulla spiaggia. La vecchia zitella si svegliava quando la canzone terminava e ne chiedeva un'altra. Quanto a Miss Briggs, e alle innumerevoli lacrime di felicità che spargeva mentre se ne stava seduta fingendo di lavorare a maglia e dalla finestra contemplava la splendida distesa dei mare farsi sempre più cupa, sotto le lampade del cielo che si facevano sempre più luminose e scintillanti; ebbene, ditemi, chi avrebbe potuto misurare l'emozione e l'allegrezza di Miss Briggs? Nel frattempo Pitt sedeva in sala da pranzo leggendo un opuscolo sulle leggi agrarie, o con accanto il «Missionary Register», e si crogiolava in quel piacevole ozio pomeridiano che riesce accetto a tutti gli uomini, non importa se romantici e meno. Sorseggiava madera, costruiva castelli in aria e meditava su se stesso per concludere che era una persona veramente dabbene. Si sentiva molto più innamorato di quanto lo fosse stato nei sette anni trascorsi dall'inizio della loro liaison senza che in quel lasso di tempo avesse mai palesato la minima impazienza. Inoltre dormiva, e non poco. All'ora del caffè, Mr. Bowls entrava rumorosamente nella stanza e chiamava il nobile Pitt, il quale si faceva trovare al buio, immerso nella lettura dell'opuscolo di turno. «Mia cara, sarei veramente lieta di poter trovare qualcuno disposto a fare una partita di piquet con me.» disse una sera Miss Crawley, mentre il domestico entrava recando il caffè e i candelabri accesi. «La povera Briggs non è capace, perché è stupida come un'oca.» (La vecchia zitella non si lasciava mai sfuggire l'occasione di svillaneggiarla di fronte alla servitù). «Sono certa che riposerei meglio se potessi farmi una partitina prima di andare a letto.» Lady Jane arrossì dalla punta delle orecchie fino alla punta delle sue graziose ditina; poi, quando Mr. Bowls ebbe lasciato la stanza e la porta venne accuratamente richiusa, disse: «Io so giocare un pochino, Miss Crawley... Giocavo un po' col mio povero papà...» «Vieni a darmi un bacio. Vieni subito a darmi un bacio, tesoro mio,» esclamò Miss Crawley, giubilante. E quando Mr. Pitt sali al piano di sopra col suo opuscolo in mano, trovò la vecchia dama e la giovinetta impegnate in quell'amichevole e pittoresca occupazione. Come arrossì quella sera, la nostra povera Lady Jane! Sarebbe errato supporre che le trame esercitate da Pitt Crawley sfuggissero all'attenzione dei suoi beneamati parenti del presbiterio. Lo Hampshire e il Sussex non sono poi tanto lontani, e Mrs. Bute Crawley annoverava in quest'ultima contea amici fidati i quali si affrettarono ad informarla di tutto ciò che accadeva, con particolare riferimento a ciò che accadeva nella casa di Miss Crawley a Brighton. Pitt vi soggiornava con crescente frequenza. Per mesi non si faceva vedere al Castello, dove suo padre si abbandonava vieppiù alla crapula e all'indecorosa dimestichezza con la famiglia Horrocks. Il successo che incontrava Pitt suscitava il motivato furore della famiglia del vicario, e Mrs. Bute Crawley recriminava sempre più (anche se si mostrava sempre meno disposta ad ammetterlo apertamente) di aver commesso un madornale errore dileggiando acidamente Miss Briggs e trattando con tanto sussiego e tanta avarizia Mrs. Firkin e Mr. Bowls, col risultato che ora - in casa di Miss Crawley non c'era anima viva disposta ad informarla su quanto vi accadeva. «È tutta colpa della tua clavicola, Bute,» insisteva a ripetere. «Se non ti fossi rotta la scapola di là non mi sarei mossa a nessun patto. Sono una vittima del dovere, una martire di quella tua odiosa passione per la caccia, affatto indegna dell'abito che porti!» «Cosa c'entra la caccia! Fandonie! Sei stata tu a disgustarla!» replicò l'apostolo, reagendo alle reprimende della consorte. . Tu sei una donna intelligente, chi non lo sa? Ma hai un pessimo carattere. E poi sei troppo avara.» «Se non avessi badato io al tuo denaro, a quest'ora saresti in galera, caro mio!» «Lo so, cara,» rispose il vicario in tono più benevolo. «Tu sei una donna davvero intelligente. Ma sei... sei troppo economa, ecco.» E il brav'uomo cercò consolazione in un bicchiere di porto. «Ma cosa diamine può trovarci in quell'imbecille di Pitt?» continuò la moglie. «È un tipo che si spaventerebbe anche davanti a un branco di oche e di galline! Ricordo quando quell'accidente di Rawdon - che però, se non altro, è un uomo - lo faceva correre per le scuderie frustandolo come fosse stato una trottola. E Pitt che si rifugiava a piagnucolare in casa della mammina! Ah! Ah! I miei ragazzi sarebbero in grado di scaraventarlo a terra con una sola manata! Jim mi ha detto che a Oxford ancora adesso parlano di lui come di "Miss Crawley!"» «Senti, Barbara...» disse il vicario dopo una pausa. «Cosa?» rispose la moglie, che si stava mangiando le unghie e tamburellava una mano sul tavolo. «Che ne diresti di mandare Jim a Brighton a vedere se riesce a combinare qualcosa con quella vecchia befana? Ormai è prossimo alla laurea. È stato respinto due volte come me, ma lui ha avuto il vantaggio di poter andare a Oxford e frequentare l'università. Lì conosce tutti i giovani di maggior valore e fa parte della squadra dei vogatori. E poi è un bel ragazzo, maledizione! Perché non proviamo a mandarlo dalla vecchia? Non sei d'accordo? E se Pitt avesse il coraggio di protestare, digli che gliele suoni di santa ragione!» «Sì, sì,» rispose Mrs. Bute Crawley sospirando. «Mandarle Jim può essere una buona idea. Certo, sarebbe meglio mandarle in visita una delle ragazze, ma lei purtroppo non le ha mai potute soffrire perché non sono carine.» E inoltre la madre parlava di loro, quelle squallide ragazzette rivelavano la loro presenza nel vicino salotto, dove con mano goffa e pesante strimpellavano al piano un brano piuttosto difficile. In omaggio alla verità, occorre ammettere che studiavano il piano, o disegnavano, o studiavano storia e geografia tutto il santo giorno. Ma a cosa servono queste eccelse virtù alla Fiera della Vanità, se le titolari delle medesime sono ragazzucce piccole, insulse, povere e con una bruttissima carnagione? Mrs. Bute Crawley non osava pensare che una persona purchessia (salvo, magari, il curato) potesse manifestare il desiderio di portargliele via di casa. Ma a questo punto Jim, che rientrava dalla scuderia entrando in casa dalla porta-finestra del salotto con una pipa infilata nel berretto di pelle, si rivolse al padre e prese a parlare con lui delle previsioni circa l'esito delle corse di St. Leger, cosicché il colloquio tra il vicario e sua moglie ebbe termine. Mrs. Bute Crawley non riponeva alcuna speranza sui vantaggi che l'ambasciata di James avrebbe potuto arrecare alla loro causa, e assistette alla sua partenza con animo alquanto pessimista. Del resto, quando gli vennero illustrate le motivazioni del suo viaggio, anche il giovanotto non parve attendersi risultati molto soddisfacenti; tuttavia lo incoraggiava l'idea che la vecchia potesse lasciargli qualche opimo ricordo della sua visita, bastante a saldare, in occasione del primo trimestre, alcuni fra i debiti più impellenti che aveva lasciato inevasi in quel di Oxford. Pertanto salì in diligenza, giunse quella sera stessa sano e salvo a Brighton in compagnia del bagaglio, del suo bulldog prediletto e di un enorme paniere ricolmo dei prodotti dell'orto e della fattoria che i cari parenti del presbiterio inviavano in omaggio alla diletta Miss Crawley. Data l'ora tarda ritenne non fosse il caso di disturbare la malata la sera stessa dell'arrivo, onde James prese alloggio in una locanda e solo l'indomani, nella tarda mattinata, si presentò a casa dell'anziana parente. L'ultima volta che sua zia lo aveva visto, James Crawley era un goffo giovincello nell'età ingrata, quando il timbro di voce varia dall'acuto sovrannaturale al basso più cupo e tenebroso, e quando non di rado il volto appare cosparso di quegli antiestetici foruncoli che si dice possano essere efficacemente curati col «Kalidor» di Rowland. È, l'età in cui i ragazzi si tagliano di nascosto la barba incipiente con le forbici delle sorelle, e alla sola vista di sconosciute esponenti del gentil sesso si sentono invadere da un indicibile sentimento di terrore; quando polsi e caviglie fuoriescono dalle maniche e dai calzoni degli abiti, sempre troppo corti e troppo stretti; quando dopo cena la loro presenza riesce importuna alle signore, desiderose di scambiarsi confidenze a bassavoce nella penombra del salotto, e addirittura intollerabile agli uomini che indugiano in sala da pranzo, perché la loro coffa innocenza impedisce di dar corso a una conversazione troppo libera, o ad uno scambio di salaci facezie; quando, dopo il secondo bicchiere papà dice: «Jack, caro, va' a dare un'occhiata fuori e guarda se il tempo si mantiene sul bello»; e il ragazzo in questione, soddisfatto di quella libertà, ma indispettito di non essere ancora considerato un uomo, si vede costretto ad alzarsi da tavola prima degli altri. James, che a quel tempo sembrava uno spaventapasseri, adesso era diventato un giovanotto, grazie ai benefici che derivano dall'educazione universitaria e più esattamente a quell'inestimabile vernice di cui ci si riveste quando è possibile vivere nell'ambiente spigliato di un piccolo collegio, contraendo debiti, facendosi bocciare nonché sospendere dalle lezioni. Ad ogni modo, recandosi in visita da sua zia, fruiva del vantaggio di presentarsi come un bel ragazzo: e la prestanza fisica era sempre, agli occhi della vecchia dama, un titolo di merito. Né la goffaggine e il rossore costituivano ai suoi occhi un motivo di minor apprezzamento, dal momento che Miss Crawley ravvisava in quei sintomi i sani contrassegni rivelatori dell'ingenuità del giovincello. James dichiarò di esser venuto a Brighton per qualche giorno a trovare un suo amico che frequentava lo stesso collegio universitario. «Ed anche,» aggiunse, «per porgere... per porgere a voi, signora, i miei ossequi, non disgiunti da quelli di mio padre e di mia madre, i quali si augurano che voi stiate bene.» Quando il ragazzo venne annunciato, Pitt, che si trovava in compagnia di Miss Crawley, a quel nome impallidì. La vecchia, che aveva un acuto senso dell'umorismo, trovò divertentissimo l'imbarazzo e il disappunto che il suo impeccabile nipote non aveva saputo dissimulare. Chiese notizie di tutti i parenti del presbiterio e precisò che stava pensando di recarsi da loro in visita. In presenza di Pitt elogiò il giovanotto dicendogli come, crescendo, il suo aspetto fosse migliorato in misura altamente lusinghiera. Peccato che le sorelle non avessero proprio nulla della sua avvenenza! Quando poi, in risposta a una sua domanda, seppe che James alloggiava in un alberghetto, non volle assolutamente che vi si trattenesse oltre: invio tosto Mr. Bowls a prelevare il bagaglio del ragazzo e aggiunse: «Mr. Bowls, abbiate la cortesia di pagare da parte mia il conto di Mr. James.» La vecchia zitella lanciò a Mr. Pitt una sarcastica occhiata di trionfo e il nostro diplomatico rischiò letteralmente di crepare d'invidia. Infatti, per quanto fosse riuscito ad entrare nelle grazie di sua zia, costei non si era mai sognata d'invitarlo ad andare ad abitare in casa sua. E invece, ecco che quel giovane fannullone vi veniva accolto al momento stesso del suo arrivo! «Scusate, signore,» chiese Mr. Bowls facendosi avanti con un profondo inchino, «a quale albergo Thomas deve andare a prelevare le vostre valigie?» «Per carità!» esclamò il giovanotto, balzando in piedi come impaurito, «ci vado io stesso.» «Cosa?» disse Miss Crawley. «Al Tom Cribb's Arms,» dichiarò James facendosi di porpora. Nell'udire quel nome Miss Crawley scoppiò a ridere; ed anche Mr. Bowls uscì in una risata quale poteva permettersela un fidato domestico di famiglia, ma subito la represse. Quanto al diplomatico, si limitò ad abbozzare un sorrisetto. «Non sapevo dove andare,» si giustificò James, lo sguardo chino al pavimento. Me lo ha consigliato il cocchiere. Non sono mai stato a Brighton prima d'ora.» Frottole! La verità era tutt'altra: il giorno prima, sulla diligenza di Southampton, James aveva fatto conoscenza col Campione di Tutbury che si stava recando a Brighton per un incontro di pugilato con l'Asso di Rottingdean; e affascinato dalle chiacchiere del suddetto individuo aveva passato la sera nella locanda in questione, conversando con quell'arca di scienza e col suoi compari. «Mi sembra... mi sembra più giusto che vada io a pagare il conto, signora,» proseguì James, «non posso permettere che ve lo assumiate voi,» concluse generosamente. E questa delicatezza suscitò un'altra esplosione di risò nella vecchia zia. «Bowls, andate a pagare il conto,» disse Miss Crawley, «e poi portatemelo.» Povera donna, non sapeva quel che stava facendo! «Veramente... veramente c'è anche un cagnolino,» disse James in tono spaventato e con espressione colpevole. Al che tutti scoppiarono a ridere, ivi incluse Miss Briggs e Lady Jane, che nel corso di tutta la visita non aveva aperto bocca ed era rimasta seduta fra Miss Crawley e suo nipote. Bowls non aggiunse altro e uscì dalla stanza. Miss Crawley, con l'evidente proposito di mortificare il nipote più anziano, continuò a mostrarsi estremamente affabile col giovane studente di Oxford. Una volta preso l'aìre, i suoi complimenti e le sue gentilezze non avevano limiti. Nondimeno disse a Pitt che poteva trattenersi a cena, ma al contempo insistette perché James l'accompagnasse durante la sua passeggiata in carrozza, e lo spupazzò solennemente su e giù per il lungomare, seduto sul sedile posteriore del calesse. Ebbe la benevolenza d'intrattenerlo per tutto il tempo con espressioni oltremodo affabili; recito poesie in francese e in italiano al giovanotto allibito e continuò a ripetere che era uno studente encomiabile, che senza dubbio si sarebbe meritata una medaglia d'oro e sarebbe diventato un senior Wrangler. «Un Senior Wrangler? Ah! Ah!» rise James, incoraggiato da tutte quelle espressioni complimentose. «Questa è roba dell'altra parrocchia!» «Dell'altra parrocchia? Come sarebbe a dire?» «I Senior Wranglers sono di Cambridge, non di Oxford,» rispose quello straordinario erudito con aria saccente. E con ogni probabilità avrebbe continuato sullo stesso tono se lungo la passeggiata non avessero fatto la loro comparsa, in una carrozza pubblica trainata da un pony vistosamente bardato, e vestiti di un appariscente abito di flanella bianca con bottoni di madreperla, i suoi due amici, vale a dire il Campione di Tutbury e l'Asso di Rottingdean, in compagnia di altri tre individui di loro conoscenza. E tutti salutarono il povero James, seduto in quel calesse. Questo incidente ebbe l'effetto di smorzare a tal punto il buonumore del nostro giovanotto, che per il resto della passeggiata non fu possibile cavargli una sillaba di bocca. Al ritorno trovò la sua stanza pronta, i suoi indumenti disposti nell'armadio, e forse avrebbe potuto cogliere sul volto di Mr. Bowls - mentre costui lo accompagnava in camera - un'espressione mista di gravità, di stupore e di compatimento. Ma a dire il vero i pensieri di James non erano nemmeno lontanamente rivolti a Mr. Bowls. Stava invece meditando sulla stravagante posizione nella quale si trovava, in quella casa piena di vecchie signore che cianciavano in francese e in italiano e gli citavano versi ad ogni piè sospinto. «Guarda un po' in che maledetto covo sono andato a sbattere, accidenti!» pensava il ragazzo, il quale non trovava l'ardire di rispondere a una donna purchessia che gli rivolgesse la parola, anche se costei era la creatura più affabile del mondo, anche se si trattava della Briggs! Se per contro lo aveste portato a Iffley-Lock, sarebbe stato in grado di rispondere in termini adeguati al più volgare e sboccato degli scaricatori. All'ora di cena James si presentò semistrozzato da un enorme cravattone, ed ebbe l'onore di condurre a tavola Lady Jane, mentre Miss Briggs e Mr. Pitt seguivano Miss Crawley con un carico imponente di scialli, scialletti e cuscini. La Briggs consumò metà del tempo dedicato al pasto occupandosi della posizione e del comfort della sua padrona, e l'altra metà tagliando a minuti pezzettini il pollo per cibarne il cagnolino. La conversazione di James non fu particolarmente fitta e vivace, si prodigò nell'incoraggiare le signore a bere vino e, accettando la sfida di Mr. Crawley, scolò buona parte della bottiglia di champagne che Bowls aveva avuto l'ordine di servire in suo onore. Più tardi, quando le signore si ritirarono e i due cugini rimasero a tu per tu, Pitt, l'ex diplomatico, assunse un tono molto amichevole e disinvolto. Manifestò il più vivo interesse per gli studi di James all'università e per la carriera che intendeva seguire in futuro, augurandogli con molto calore di riuscire nei suoi propositi. Insomma, si mostrò molto schietto e cortese. Così, insieme col porto, la lingua di James si sciolse: raccontò al cugino la sua vita, gli esternò i suoi progetti, gli confessò di avere dei debiti, si sfogò parlandogli dei suoi fiaschi coi primi esami, dei suoi attriti coi prefetti. Frattanto andava incessantemente colmando il suo bicchiere, versandovi il contenuto della bottiglia che posava dinanzi a lui e passando con assoluta indifferenza dal porto al madera. «Se c'è cosa che faccia veramente piacere a nostra zia,» disse Mr. Crawley riempiendosi a sua volta il bicchiere, «è che in casa sua la gente viva come meglio le aggrada. Questo è il regno della Libertà, mio caro James, e il modo migliore per far felice la zia sta nel fare ciò che più si desidera e nel chiedere ciò che si vuole. So perfettamente che vi siete tutti burlati di me perché sono un Tory. Ma Miss Crawley è troppo liberale per non rispettare le opinioni di chicchessia. Da vera diplomatica qual è, ha in spregio i titoli nobiliari e ogni sorta di discriminazioni. «Come mai, allora, vi accingete a sposare la figlia di un conte?» domandò James. «Mio caro, sappiate che non è colpa di Lady Jane se appartiene a un nobile casato,» rispose Pitt con sussiego. «Non è colpa sua se è una dama dell'alta società; senza contare che io sono un Tory, come ben sapete.» «Oh, in quanto a questo,» rispose Jim, «so perfettamente che niente è importante quanto il sangue blu, maledizione! Eh, sì, è proprio vero. D'altronde io non sono un radicale, su questo punto potete star tranquillo, maledizione! So cosa significhi essere un gentiluomo. Basta dare un'occhiata a chi partecipa alle gare di canottaggio, o agli incontri di pugilato... e persino ai cani che danno la caccia ai topi. Chi sono i vincitori? Quelli di razza! Portaci dell'altro porto, Bowls, vecchio mio mentre io vuoto questa bottiglia. Voglio scolarmela fino all'ultima goccia. Dunque.. cosa stavo dicendo?» «Se non sbaglio stavate parlando della caccia ai topi,» rispose Pitt con voce suadente, porgendo al cugino la bottiglia da «scolare». «Ah, sì? Stavo parlando della caccia ai topi? Ditemi un poco, Pitt, siete uno sportivo, voi? Vi piacerebbe vedere un cane veramente in gamba nel dar la caccia ai topi? Se ci tenete, venite insieme a me da Corduroy, in Castle Street Mews: vi mostrerò un bull terrier che... Ah, ma sto dicendo un mucchio di stupidaggini!» esclamò James interrompendosi e scoppiando a ridere delle assurdità che stava raccontando. «Cosa diamine può importare a voi di cani o di topi? Queste sono pure idiozie. Che mi prenda un accidente se voi siete il tipo capace di distinguere un cane da un'oca!» «Infatti,» replicò Pitt con voce sempre più suadente. «Ma stavate parlando anche della nobiltà del sangue e dei vantaggi che l'appartenenza al ceto elevato conferisce al prossimo. Tenete, ecco un'altra bottiglia.» «C'erto, certo, il sangue ha molta importanza,» confermò James tracannando la bevanda color rubino, «nei cani, nei cavalli e anche negli uomini. Ma proprio l'anno scorso (è stato prima che mi sospendessero... cioè, volevo dire... prima che mi ammalassi di rosolia, ah, ah, ah...) io e Ringwood del Christchurch College, sapete, Bob Ringwood, il figlio di Lord Cinqbar, stavamo bevendo una birra al "Bell" di Blenheim, quando il barcaiolo di Bambury ci ha sfidati a fare a pugni con tutti e due per una tazza di punch. Io però non potevo accettare perché avevo un braccio al collo: non riuscivo a fare il minimo sforzo. Due giorni prima quella canaglia della mia cavalla mi era franata addosso e temevo di essermi rotto il braccio. Dunque, come stavo dicendo, io non ero in grado di accettare la sfida, ma Bob non esitò un istante: si tolse la giacca, per tre minuti tenne a bada quel tizio di Bambury e in quattro riprese lo fece fuori. Per Dio, se lo fece fuori! E sapete perché riuscì a stenderlo? Per il sangue! Nient'altro che per il sangue!» «Ma voi non bevete, James,» disse l'attaché, «ai miei tempi i ragazzi di Oxford vuotavano le bottiglie un po' più alla svelta di quel che sapete fare voialtri, a quanto pare!» «Adagio, adagio, vecchio mio,» disse James battendosi un dito sul lato del naso in un gesto significativo e fissando il cugino con gli occhi resi lucidi dalle abbondanti libagioni «niente scherzi, mi raccomando. Con me non è nemmeno il caso di tentare. Voi cercate di farmi parlare, ma non c'è niente da fare. Già, già, in vino veritas, vecchio mio. Mars Bacchus Apollo virorum, vero? Vorrei proprio che la zia mandasse un po' di questo nettare al mio vecchio. È veramente squisito.» «Basta chiederglielo,» rispose il nostro Machiavelli, «oppure cercate di berne quanto più potete mentre siete qui. Ricordate cosa dice il poeta? "Nunc vino pellite curas, Cras ingens iterabimus aequor". E il seguace di Bacco, dopo aver citato solennemente quei versi come se stesse pronunciando un discorso alla Camera dei Comuni, alzò con un gesto vistoso il bicchiere e sorbì non più di un dito del suo contenuto. Al presbiterio, quando a conclusione della cena veniva aperta la bottiglia del porto, le ragazze prendevano un'altra bottiglia, di vino comune, e ne bevevano un bicchiere. Mrs. Bute Crawley beveva un bicchiere di porto, James ne beveva due, e siccome il padre andava in bestia ogni qual volta lui cercava di metter le mani sulla bottiglia, il giovanotto si adattava al vino comune, oppure, nel segreto della scuderia, tracannava del gin-and-water fumando la pipa in compagnia del cocchiere. A Oxford, di vino ce n'era a volontà, ma la qualità lasciava molto a desiderare, mentre ora che in casa di sua zia la qualità e la quantità procedevano di comune accordo, James mostrava di saperle apprezzare entrambe quanto meritavano. E occorre aggiungere che l'incoraggiamento del cugino era del tutto superfluo: James vuotò senza la minima difficoltà anche la seconda bottiglia portata da Bowls. Quando però fu la volta di bere il caffè e di far ritorno dalle signore, al cospetto delle quali provava sempre una certa soggezione quella piacevole disinvoltura d'eloquio lo abbandonò di colpo per lasciar posto alla consueta, goffa timidezza. In conclusione si limitò ad esprimersi a monosillabi, guardando Lady Jane con la coda dell'occhio e rovesciando una tazzina di caffè. A peggiorare le cose va detto che, se James non parlava, in compenso sbadigliava di continuo (visione in verità poco edificante), e la sua presenza suscitò un certo malumore tra quel gruppo di persone impegnate a trascorrere una tranquilla serata, poiché sia Miss Crawley e Lady Jane intente a giocare a piquet, sia Miss Briggs che lavorava a maglia, sentivano i suoi occhi lucidi fissi su di loro, e quello sguardo alterato dall'ubriachezza le metteva a disagio. «Sembra un ragazzo molto taciturno, molto impacciato, molto timido,» disse Miss Crawley a Mr. Pitt. «Con gli uomini chiacchiera più volentieri che con le donne,» rispose Machiavelli in tono asciutto, forse un po' deluso che il porto non avesse alimentato la scarsa loquacità del ragazzo. James aveva trascorso la mattinata scrivendo alla madre una minuziosa e pittoresca relazione circa l'accoglienza riservatagli dalla zia. Poverino! Ancora ignorava quale fosca tempesta si stesse addensando sul suo capo, e come il favore di cui godeva fosse destinato a dissolversi in brevissimo volger di tempo. La sera precedente, prima di recarsi dalla zia, al Tom Cribb's Arms era accaduto qualcosa di assolutamente irrilevante, ma destinato ad avere conseguenze fatali. Jim, che era per natura incline alla generosità, e dopo aver bevuto diventava addirittura prodigo, nel corso della serata aveva ripetutamente offerto da bere ai suoi amici, il Campione di Tutbury e l'Asso di Rottingdean. Il beveraggio offerto era gin-andwater, onde sul conto di Mr. James Crawley figuravano a suo carico non meno di diciotto bicchieri di tale bevanda, al prezzo di otto pence ciascuno. Quando Mr. Bowls si recò a pagare il conto di James per ordine della zia, non fu tanto l'ammontare della somma, quanto il numero di quei bicchieri, a svolgere un'azione nefasta a danno del povero giovincello. Infatti l'oste, forse temendo che tutto quel gin non gli venisse pagato, giurò e spergiurò che era stato il giovanotto - lui e soltanto lui - a consumare i diciotto bicchieri. Bowls pagò senza fiatare, ma non appena tornato a casa si affrettò a mostrare il conto a Mrs. Firkin, la quale, sgomenta di fronte a quell'inaudita consumazione del summenzionato liquore, portò la nota a Miss Briggs nella sua qualità di capo-contabile; e quest'ultima, infine, ritenne doveroso parlare della cosa alla sua padrona. Se James si fosse scolato sei bottiglie di chiaretto, forse la vecchia zitella avrebbe chiuso un occhio. Mr. Fox e Mr. Sheridan bevevano chiaretto. Era la bevanda della nobiltà. Ma diciotto bicchieri di gin consumati in compagnia di pugili in una lurida bettola costituivano un crimine né più né meno odioso, per nulla facile da perdonare. Tutto congiurava ai danni del giovanotto. Stava rincasando portandosi appresso una scia di lezzo di stalla, ove era andato a prelevare Towzer, il suo cane, per fargli fare una passeggiata, quando s'imbatté in Miss Crawley, accompagnata dal suo asmatico spaniel Blenheim. Towzer l'avrebbe sbranato facendone un solo boccone, se Blenheim tra mille guaiti non fosse corso a rifugiarsi da Miss Briggs, in cerca di protezione, mentre il perfido padrone del boxer mostrava di divertirsi di fronte a quell'agghiacciante spettacolo di persecuzione. Per di più quel giorno il povero giovane sembrava aver messo da canto la consueta timidezza. A pranzo avviò una conversazione allegra e spiritosa; ebbe due o tre battute di spirito all'indirizzo di Pitt, bevve lo stesso quantitativo di vino della sera innanzi e, raggiunto un adeguato grado di sicurezza, quando passò in salotto prese a intrattenere le signore raccontando loro alcuni episodi ameni della sua vita universitaria. Si diffuse nel commentare le diverse virtù di Molineux e di Sam l'Olandese nello sport pugilistico, propose scherzosamente a Lady Jane di scommettere contro di lui sul Campione di Tutbury o sull'Asso di Rottingdean, lasciando a lei di scegliere il pugile che le ispirasse maggior fiducia, e per completare questa trovata scherzosa propose al cugino Pitt Crawley di battersi con lui, con o senza guantoni. «È una proposta molto sportiva, caro mio,» disse battendogli una manata sulla spalla e scoppiando in una risata sonora. «Anche mio padre lo ha detto. Anzi, ha aggiunto che era disposto a pagare metà della scommessa. Ah! Ah! Ah!» E nel dir questo il socievole giovanotto ammiccò furbescamente alla povera Miss Briggs, indicando Pitt Crawley, che gli stava alle spalle, con un divertito e ironico gesto del pollice. È probabile che la cosa non riuscisse troppo gradita a Pitt, il quale peraltro non ne fu risentito. Quanto al povero Jim, scoppiò in un'altra risata. Allorché Miss Crawley si alzò per andare a coricarsi, il ragazzo con passo malcerto attraversò la stanza, fece luce alla vecchia zia reggendo la candela e la salutò col più dolciastro sorriso che possa rimediare un ubriaco. Poi a sua volta si ritirò nella sua stanza, soddisfattissimo di sé e crogiolandosi dolcemente all'idea che i quattrini della zitella con ogni probabilità sarebbero finiti nelle tasche di suo padre e dei suoi familiari. Era lecito presumere che, una volta in camera da letto, non facesse nient'altro atto ad aggravare la situazione. E invece lo sciagurato giovanotto ci riuscì. La luna splendeva lucente sul mare, e Jim, affascinato dalla romantica visione del mare e del cielo - e di conseguenza attratto al davanzale della finestra pensò che avrebbe potuto gustarsi maggiormente lo spettacolo facendosi una fumatina con la pipa. Nessuno, pensò avrebbe potuto percepire l'odore del tabacco se avesse avuto la precauzione di tenere la pipa e la testa fuori della finestra, all'aria libera. Così fece, infatti; ma dato il suo stato di eccitazione Jim aveva dimenticato aperta la porta della camera, cosicché la brezza che entrava dalla finestra stabiliva una corrente perfetta portando nuvole di fragrante tabacco al piano di sotto, ove si trovavano Miss Crawley e Miss Briggs. Questa pipa e questo tabacco furono la goccia che fece traboccare il vaso, e la famiglia di Bute Crawley non seppe mai quante migliaia di sterline gli siano costati. La Firkin si precipitò da Mr. Bowls, che in quel momento era impegnato a leggere con voce possente e cavernosa al suo aiutante di campo qualche pagina de La padella e la brace. L'orrendo segreto gli venne rivelato dalla Firkin con uno sguardo talmente sconvolto dallo sgomento, che a tutta prima Bowls e il suo giannizzero pensarono a un'incursione ladresca e che la Firkin avesse scorto le gambe del malfattore sotto il letto di Miss Crawley. Ad ogni modo Bowls, una volta informato dell'avvenimento, senza por tempo in mezzo corse di sopra salendo i gradini a quattro a quattro ed entrò nella stanza dell'ignaro James gridando con voce soffocata dall'indignazione: «Mr. James, per l'amor del cielo, smettete subito di fumare quella pipa! Oh, Mr. James, che cos'avete fatto!» Poi con voce patetica e profondamente addolorato, mentre gettava l'abominevole oggetto dalla finestra aggiunse: «Miss Crawley non sopporta assolutamente il fumo!» «Chi obbliga Miss Crawley a fumare la pipa?» rispose James scoppiando in una risata clamorosa e del tutto inadatta alla circostanza, convinto com'era che si trattasse di uno scherzo bello e buono. Ma fu costretto a cambiare bruscamente idea quando l'indomani mattina l'aiutante di Mr. Bowls, il quale gli puliva gli stivali e gli portava l'acqua calda per radersi quei quattro peli che ambiva tanto a togliersi dalle guance, gli consegnò mentre ancora giaceva fra le coltri un bigliettino pugno di Miss Briggs. Egregio signore, diceva il biglietto in questione, Miss Crawley ha trascorso una pessima notte a causa del disgustoso odore di tabacco che si è sparso per tutta la casa. La signorina m'incarica di dirvi che non si sente bene; pertanto è spiacentissima di non potervi salutare prima della vostra partenza, e rimpiange di avervi indotto a lasciare quella bettola dove è sicura che potrete trascorrere in modo più piacevole e adeguato il periodo del vostro soggiorno a Brighton. Così crollò la candidatura del buon James quale nipote prediletto della zia. Forse, senza rendersene conto, aveva combattuto quell'incontro di pugilato «sportivo» che aveva proposto al cugino Pitt. Dove si trovava, nel frattempo, l'ex gran favorito nella corsa all eredità? Come abbiamo visto, dopo la battaglia di Waterloo Becky e Rawdon si erano riuniti e trascorrevano a Parigi l'inverno 1815 in un'atmosfera di festosa spensieratezza. Rebecca era un'oculata amministratrice, e il prezzo che il povero Jos Sedley aveva pagato per i due cavalli bastava di per sé a garantire per almeno un anno la sussistenza della famigliola. Di conseguenza non si rese necessario convertire in denaro «le mie pistole, quelle con cui ho ucciso in duello il capitano Marker», né il servizio da toeletta d'oro o il mantello foderato di zibellino. Becky l'aveva trasformato in una pelliccia per se e l'indossava per andare a cavallo nei viali del Bois de Boulogne suscitando la generale ammirazione. E avreste dovuto assistere all'incontro tra Rebecca e suo marito a Cambrai, ove la consorte lo aveva raggiunto dopo l'ingresso dell'esercito: nel momento in cui lei scucì la fodera del vestito e ne cavò orologi, gioielli, assegni, banconote e altri oggetti di valore che vi aveva nascosto quando aveva meditato di fuggire da Bruxelles! Tufto era affascinato e sbalordito a un tempo, mentre Rawdon scoppiava in una fragorosa risata e continuava a ripetere che, per Giove!, quella scena era più divertente di qualsiasi commedia a teatro. Quando poi lei descrisse in termini di strepitosa comicità in che modo fosse riuscita a turlupinare Jos, Rawdon si divertì moltissimo e credette d'impazzire a furia di risate. La sua fiducia nella moglie era cieca, proprio come i soldati francesi confidavano ciecamente in Napoleone. A Parigi Rebecca riportò il più vivo successo. Tutte le signore della capitale concordarono nel giudicarla affascinante. Parlava la loro lingua alla perfezione e in brevissimo tempo acquisì la loro grazia, la loro spigliatezza, il loro tratto. Il marito era uno sciocco (come tutti gli uomini inglesi, del resto), ma in fondo, a Parigi, un marito stupido faceva maggiormente risaltare le qualità della moglie. E poi era l'erede della ricca e spirituelle Miss Crawley, la cui dimora, durante la Rivoluzione, aveva accolto tanti esponenti della nobiltà francese. Tutti l'accolsero nei loro salotti. Una dama dell'alta aristocrazia scrisse una lettera a Miss Crawley, che in tempi ormai lontani aveva acquistato i suoi pizzi e i suoi gioielli senza discutere sul prezzo, e innumerevoli volte l'aveva accolta a cena nei momenti peggiori della Rivoluzione. «Perché la nostra cara Miss,» scrisse dunque, «non viene a Parigi a trovare i suoi nipoti e i suoi affezionati amici di Francia.? Tutti raffolent di quell'affascinante signora e della sua bellezza espiègle. Credete, noi ravvisiamo in lei lo stesso spirito, la stessa grazia, lo stesso charme della nostra diletta Miss Crawley. Ieri alle Tuileries è stata notata persino da Sua Maestà, e siamo tutte gelose delle attenzioni che le riserva Monsieur. Avreste dovuto vedere il dispetto di una certa Lady Bareacres (una cretina della quale spiccano, in qualsiasi riunione o ricevimento, il naso a becco e il cappello adorno di piume) quando la duchessa d'Angouléme, augusta figlia e parente di monarchi chiese che le venisse presentata Mrs. Crawley in qualità di vostra figlia e protégée, e le espresse i suoi ringraziamenti in nome della Francia per la benevola solidarietà di cui avete dato prova ai nostri sventurati amici durante il crudele periodo dell'esilio! Non c'è salotto nel quale non sia invitata, partecipa a tutti i balli. Ai balli notate: non alle danze. Sì, perché questa bella e intelligente creatura, sempre circondata dall'ammirazione del sesso mascolino sarà presto madre! A udirla parlare di voi, sua protettrice, oserei dire sui madre, farebbe piangere un orco! Vi è davvero affezionata come noi siamo affezionati alla nostra mirabile e rispettabile Miss Crawley!» Temo fortemente che questa lettera della gran dama parigina non sia stata l'espediente migliore per far tornare Becky nelle grazie della sua mirabile e rispettabile parente. Anzi, la vecchia zitella fu assalita da un accesso di collera senza precedenti, quando seppe come viveva Rebecca e con quale improntitudine avesse sfruttato il suo nome per ottenere un'entrée nell'alta società di Parigi. Troppo sconvolta qual era sia nel fisico, sia nella psiche, per redigere di suo pugno una risposta in francese, dettò a Miss Briggs una furibonda lettera nella propria lingua, nella quale ripudiava formalmente Mrs. Crawley e diffidava chiunque dal cadere nella pania di quell'astuta e perniciosa filistea. Ma siccome la duchessa di... era vissuta solo vent'anni in Inghilterra e non capiva un'acca d'inglese, si limitò a informare Mrs. Crawley, alla prima occasione, che la suddetta missiva trasudava di espressioni oltremodo benevole nei suoi confronti, cosicché Becky cominciò a nutrire serie speranze che finalmente l'anziana zitella avesse ceduto. Frattanto era la più brillante e ammirata fra le signore inglesi residenti a Parigi, e la sera in cui diede un ricevimento si può dire che in casa sua ci fosse un piccolo congresso europeo. Del resto, tutto il mondo era radunato a Parigi, in quel memorabile inverno: vi s'incontravano cosacchi e prussiani, spagnoli e inglesi. Quella profusione di fusciacche e decorazioni, nel modesto salotto di Becky, avrebbe fatto crepare d'invidia tutta Baker Street. Generali dal nome famoso cavalcavano accanto alla sua carrozza al Bois, o si mostravano nel suo piccolo palco all'Opera. Dal canto suo Rawdon non avrebbe potuto essere di un umore migliore: per ora, almeno a Parigi non si facevano vedere ufficiali giudiziari. Ogni giorno c'erano feste in casa di Véry o di Beauvilliers. Ovunque si giocava e la fortuna continuava ad assisterlo. Tufto invece appariva piuttosto imbronciato. Mrs. Tufto, dopo essersi autoinvitata, era piombata a Parigi; ma indipendentemente da questo inopinato contretemps, attorno alla poltrona di Becky ormai facevano ressa una buona dozzina di generali, onde lei aveva agio di scegliere tra una dozzina di mazzi di fiori quello che maggiormente gradiva portare a teatro la sera. Dal canto loro, Lady Bareacres e le signore più in vista della buona società inglese, donne tanto imbecilli quanto irreprensibili, si torcevano di rabbia, insofferenti del successo che riscuoteva quella piccola avventuriera, i cui scherzi velenosi raggiungevano sempre come strali i loro castissimi petti. Gli uomini erano tutti schierati con lei, e Rebecca combatteva facilmente contro le donne, dato che potevano sparlare di lei solo nella loro lingua. Così, tra fêtes, piacevoli trattenimenti e agi d'ogni genere, Mrs. Crawley trascorse l'inverno 1815-16, ed entrò a far parte della vita del bel mondo quasi la sua famiglia vi avesse appartenuto per secoli prima di lei. Del resto, in fatto di arguzia, talento, energia, nessuno, alla Fiera della Vanità, si meritava quel posto più di lei. All'inizio della primavera del 1816 il «Galignani's Journal» pubblicava con particolare risalto la seguente notizia: «Il 26 marzo u.s. la consorte del tenente colonnello Rawdon Crawley delle Life Guards Green ha dato alla luce il suo primogenito.» Questo annuncio venne ripreso dai giornali inglesi. Miss Briggs lo lesse e ne informò Miss Crawley all'ora di colazione. L'evento mandò la zitella su tutte le furie. Immediatamente fece convocare il nipote Pitt Crawley e Lady Southdown a Brunswick Square, e impose che venisse celebrato senza ulteriore indugio il matrimonio che da tanto tempo era stato deciso fra le due famiglie. Contemporaneamente dichiarò che vita natural durante avrebbe versato la somma di mille sterline annue a Pitt e alla cara Lady Jane Crawley, ai quali, dopo la sua morte, sarebbe andata la quasi totalità del suo patrimonio. Waxy venne appositamente da Londra per ratificare il contratto. Lord Southdown condusse la sorella all'altare e le nozze vennero celebrate dal vescovo anziché dal reverendo Bartholomew Irons, con grave disappunto del poco ortodosso ecclesiastico. Pitt avrebbe desiderato fare un viaggio di nozze in tutto degno delle persone appartenenti al suo rango sociale, ma l'attaccamento della vecchia zia a Lady Jane si era a tal punto cementato, ch'ella dichiarò di non potersi assolutamente separare dalla sua beniamina. Di conseguenza Pitt e sua moglie andarono ad abitare in casa di Miss Crawley, fra l'irritazione del povero Pitt che si reputava il più disgraziato degli uomini. Infatti era costretto a sopportare sia i capricci della zia che le fisime della suocera, perché dalla sua non distante abitazione Lady Southdown cominciò ad esercitare il suo implacabile dominio su tutta la famiglia: Pitt, Lady Jane, Miss Crawley, Miss Briggs, Mr. Bowls, Mrs. Firkin e tutti gli altri. Senza un'oncia di misericordia li obbligò a leggere i suoi opuscoli e a trangugiare le sue pozioni; inoltre congedò Creamer, installò Rodgers in qualità di medico di famiglia e non tardò a sottrarre a Miss Crawley le ultime parvenze di autorità. La povera vecchia divenne così timorosa, che smise di seviziare la povera Briggs e si abbarbicò alla nuova nipote con un misto di terrore e di affetto che andavano accentuandosi di giorno in giorno. Pace a te, vecchia pagana amabile ed egoista, generosa e vanagloriosa! Non ti vedremo più. Auguriamoci che Lady Jane ti abbia aiutata amorevolmente e guidata con mano affabile a uscire dalla farraginosa lotta della Fiera della Vanità. XXXV • VEDOVA E MADRE Le notizie delle grandi battaglie di Quatre Brase e di Waterloo giunsero in Inghilterra contemporaneamente. La «Gazette» pubblicò innanzitutto l'esito dei due combattimenti, e a questa nuova gloriosa tutto il paese fu scosso da un sentimento di trionfo e di timore. Poi si seppero i particolari, e all'annuncio della Vittoria seguì l'elenco dei morti e dei feriti. Chi potrebbe descrivere il sentimento di terrore e di panico col quale si apriva e si leggeva quell'elenco! Pensate che in ogni villaggio, praticamente in ogni singola abitazione o fattoria dei tre regni pervenivano le notizie delle grandi battaglie svoltesi nelle Fiandre; e provate a immaginarvi quali fossero le reazioni di giubilo e di gratitudine, oppure di sconforto e di disperazione quando, dopo la lettura delle perdite subite nel corso degli eventi bellici, si sapeva che un parente o un caro amico era incolume o era caduto. Chiunque si provi, oggi, a sfogliare i giornali dell'epoca, non può fare a meno di provare - sia pure con minor spasimo - l'ansia attanagliante di quell'attesa. Ogni giorno il giornale riportava l'elenco dei caduti, e si sapeva che il giorno successivo sarebbe continuato come se si fosse trattato di un romanzo a puntate. Pensate a ciò che debbono aver provato coloro che quotidianamente scorrevano i giornali freschi di stampa. E se un siffatto interesse animava i nostri concittadini dopo una battaglia che aveva impegnato ventimila uomini, pensate a quali debbono essere state le condizioni dell'Europa nei vent'anni precedenti, quando gli uomini si trovarono a combattere non a migliaia ma a milioni. Ognuno di quegli uomini, quando colpiva il proprio nemico, colpiva nel modo più orrendo un cuore innocente che pulsava a miglia e miglia di distanza. La notizia che la famosa «Gazette» recò agli Osborne fu un colpo terribile per tutta la famiglia e per il suo capo. Le ragazze si abbandonarono al loro dolore senza ritegno. Il vecchio padre, già cupo e afflitto, parve addirittura sopraffatto dal suo doloroso destino e si ostinò a coltivare la convinzione che il figlio fosse stato punito da Dio a causa della sua disubbidienza. Non osava ammettere che quella punizione, così severa, lo colmava di spavento, e che era giunta troppo presto, come causata dalle sue maledizioni. A volte rabbrividiva di terrore, come se fosse stato lui a firmare quella condanna, invocandola sul capo del proprio figliolo. Prima la possibilità di una riconciliazione era aperta: la moglie del figlio sarebbe potuta morire, oppure George avrebbe potuto far ritorno da lui e dire: «Padre mio, ho sbagliato.» Adesso invece non c'era più speranza. Ormai George aveva raggiunto la riva opposta del fiume: di quel fiume che non si può attraversare, e i suoi occhi tristi continuavano a fissare il genitore Tristi, sì: così ricordava gli occhi di George. Li aveva veduti tristi una volta, tanto tempo fa, quando si era ammalato e tutti avevano temuto per la sua vita. Era ancora un fanciullo e giaceva nel suo letto con espressione cupa e desolata. Ah, come il padre si era aggrappato alla parola dei medici, allora! Con quale ansia terribile aveva seguito il decorso della malattia Da quale peso spaventoso era stato liberato il suo cuore quando, superata la fase cruciale del morbo, il giovinetto era guarito e di nuovo i suoi occhi avevano riconosciuto il volto paterno! Ora invece tutto era vano: cure, assistenza, speranze di riconciliazione. Ma soprattutto nessuna parola che esprimesse sottomissione avrebbe placato la vanità offesa di Mr. Osborne o addolcito il suo sangue avvelenato dall'ira. È difficile determinare quale angoscia recasse maggior tormento al cuore del padre indignato: che il figlio non avesse più alcuna possibilità di accogliere il suo perdono, o che non potesse più rivolgergli quelle parole di scusa che l'orgoglio paterno esigeva. Ad ogni modo, quali che fossero in realtà i suoi sentimenti quel vecchio implacabile non volle palesarli a nessuno. Non profferì mai il nome di George davanti alle figlie, ma impose alla maggiore che in casa tutte le donne vestissero a lutto, e pretese altresì che la servitù portasse il lutto stretto. Inutile dire che feste e ricevimenti vennero disdetti. Nessuna comunicazione in proposito venne data al futuro genero circa il matrimonio del quale era già stata fissata la data, d'altra parte l'espressione di Mr. Osborne bastava di per se a dissuadere Mr. Bullock dal fargli qualsiasi domanda o dal tentare di accelerare le nozze. Pertanto si accontentava d'intrattenersi nel salottino parlando a bassa voce con le signorine, perché in quella stanza il vecchio non metteva mai piede. Mr. Osborne non si allontanava mai dal suo studio. Inoltre, per un lungo periodo dopo la fine del lutto, le finestre della facciata rimasero ermeticamente chiuse. Erano trascorse circa tre settimane dal 18 giugno, quando un conoscente di Mr. Osborne, Sir William Dobbin, si presentò alla casa di Russell Square e, turbato, pallido in volto, chiese con insistenza un abboccamento col padrone di casa. Venne pertanto introdotto nella sua stanza, e dopo qualche parola preliminare che riuscì inintelligibile, vuoi al padrone di casa, vuoi al suo ospite, quest'ultimo trasse da una busta una lettera chiusa da un vistoso sigillo di ceralacca scarlatta. «Mio figlio, il maggiore Dobbin,» prese a dire in tono alquanto esitante, «mi ha inviato una lettera per il tramite di un ufficiale del ...° Reggimento che è giunto oggi. La lettera di mio figlio ne contiene una anche per voi, Osborne.» Il consigliere posò la lettera sul tavolo e Osborne indugiò qualche istante a guardarla senza dir parola. Quello sguardo colmò di sgomento il latore della missiva che, dopo esser rimasto a sua volta a osservare per un momento l'anziano signore sopraffatto dal dolore, quasi si sentisse colpevole di qualcosa, si affrettò a lasciare silenziosamente quella stanza. La lettera recava i caratteri fermi e ben noti della scrittura di George, ed era la stessa che aveva scritto all'alba del 16 giugno, prima di accomiatarsi da Amelia. Il grosso sigillo rosso portava impresso lo stemma che George aveva tratto dal Peerage, col motto «Pax in bello»: lo stemma ducale del casato col quale il vecchio presuntuoso lasciava credere di essere imparentato. La mano che aveva vergato quelle parole non avrebbe più retto né la penna né la spada. Persino il sigillo era stato depredato sul campo di battaglia, dalla salma di George appena spirato. Questo particolare era ignoto al padre, che peraltro rimaneva seduto, fissando la lettera con occhi pervasi di angoscia e di smarrimento. Alla fine l'aprì e per poco non venne meno. Vi è mai accaduto di litigare con un intimo amico? Come vi fanno soffrire, quale rimorso suscitano in voi le lettere che costui vi ha scritto quando tra Voi regnavano solo affetto e confidenza! Quale malinconia indugiare sopra quelle impetuose attestazioni di un affetto ormai estinto! Quali epitaffi menzogneri recano, sulla tomba di quell'affetto! Quale squallido e crudele commento alla vanità delle cose terrene! Chi di noi non ne possiede (o non ne ha scritte) da colmarne cassetti interi? Sono cadaveri che teniamo celati, sforzandoci di scordarne l'esistenza. A lungo Osborne fu scosso da tremiti nel guardare la lettera del figlio morto. La lettera del povero giovane non diceva gran che. Era stato troppo orgoglioso, in vita, per affidare alla parola scritta la commozione che aveva provato in quel momento. Si limitava a dire come, alla vigilia della battaglia, desiderasse dire addio al padre e implorare solennemente il suo aiuto per la moglie e forse, per il figlio nascituro. Confessava il suo pentimento nei riconoscere senza riserve come la sua vita disordinata e scialacquatrice avesse già dilapidato gran parte dell'eredità materna. Infine ringraziava il padre per la generosità sempre dimostrata nei suoi riguardi e gli prometteva di comportarsi in modo degno del nome di George Osborne, sia che cadesse sul campo, sia che sopravvivesse al combattimento. Il suo orgoglio, la sua educazione prettamente britannica fors'anche una certa dose di goffaggine, gli avevano impedito di dire di più. Il padre non vide la crocetta che George aveva apposto in alto, prima del testo della lettera; il segno di un bacio. Mr. Osborne lasciò cadere il foglio in preda al dolore cocente e mortale dell'affetto respinto, della vendetta frustrata. Quel figlio era ancora adorato, non ancora perdonato. Tuttavia, trascorsi un paio di mesi, una volta che le sorelle Osborne si erano recate in chiesa insieme col padre, constatarono che quest'ultimo aveva scelto una panca diversa da quella ov'era solito sedere quando presenziava al servizio divino; e che dal suo posto fissava con insistenza la parete sopra le loro teste. Pertanto anche le signorine guardarono nella direzione ov'era fisso lo sguardo tetro del genitore, e sulla parete videro un complicato monumento ove Britannia era raffigurata nell'atto di piangere sopra un'urna, mentre una spada spezzata e un leone prostrato indicavano come quell'opera scultorea fosse stata eretta in onore di un guerriero caduto. A quell'epoca gli scultori si sbizzarrivano in siffatti simboli funerari, come si può osservare dando un'occhiata alle pareti della cattedrale di St. Paul, letteralmente rivestite di centinaia di siffatte, retoriche allegorie pagane delle quali vi fu continua richiesta nei primi tre lustri del nostro secolo. Sotto il monumento celebrativo in questione era scolpito il ben noto e pomposo stemma degli Osborne, mentre un'epigrafe dicava. «Dedicato alla memoria di George Osborne junior, capitano del ...° Reggimento di fanteria di Sua Maestà, caduto il 18 giugno 1815 all'età di 28 anni combattendo per il re e per la patria nella gloriosa battaglia di Waterloo. Dulce et decorum est pro patria mori.» La vista di quel monumento funebre sconvolse a tal punto le due sorelle, che Miss Maria si vide costretta a uscir di chiesa. I fedeli aprirono rispettosamente un varco per lasciar passare le due donne scosse dai singhiozzi, vestite a lutto, e guardarono con occhio compassionevole il povero vecchio padre, seduto di fronte alla pietra funeraria che ricordava l'eroe deceduto in combattimento. «Riuscirà mai a perdonare la moglie di George?» si chiesero le sorelle non appena ebbero superato il primo accesso di dolore. Anche gli amici degli Osborne, informati della rottura tra padre e figlio causata dalle nozze di quest'ultimo, si scambiavano innumerevoli congetture circa l'eventualità di una riconciliazione con la giovane vedova. Più d'uno, sia nella City che in Russell Square, arrischiava addirittura delle scommesse in proposito. Se le due sorelle nutrivano qualche ansietà circa l'ipotesi che Amelia venisse accettata in seno alla famiglia, le loro apprensioni si accentuarono quando in autunno il padre esternò il suo proposito di recarsi all'estero. Non precisò dove intendesse andare, ma le figlie compresero all'istante che la sua meta era il Belgio, così come sapevano che la vedova di George si trovava tuttora a Bruxelles. In effetti, esse erano abbastanza informate sulla sorte di Amelia tramite Lady Dobbin e le sue figliole. L'ottimo capitano Dobbin era stato promosso in seguito alla morte in battaglia del secondo maggiore del reggimento, e l'ardimentoso maggiore O'Dowd, che in quell'occasione aveva dimostrato una volta di più di esser dotato di coraggio e sangue freddo, era diventato colonnello nonché cavaliere dell'Ordine del Bagno. Nel corso di quell'autunno, innumerevoli combattenti del prode ...° Reggimento che nelle due battaglie avevano subito pesantissime perdite, si trovavano ancora a Bruxelles, quivi costretti a soggiornare per curarvi le loro ferite. Nel corso dei mesi successivi alla campagna di guerra, in pratica la città era diventata un immenso ospedale militare. Poi, a mano a mano che soldati e ufficiali guarivano, i giardini pubblici e i luoghi di divertimento andavano popolandosi di guerrieri invalidi vecchi e giovani, i quali, ormai scampati alla morte, cedevano alla tentazione del gioco e dei divertimenti, e riprendevano a fare all'amore secondo le inveterate regole che vigono alla Fiera della Vanità. Mr. Osborne non ebbe dunque difficoltà a imbattersi in qualcuno del ...° Reggimento. Ne conosceva benissimo l'uniforme e ne aveva sempre seguito promozioni e trasferimenti, così come in altri tempi si compiaceva di parlare dei suoi ufficiali quasi fosse stato uno di loro. Fu così che, il giorno stesso del suo arrivo a Bruxelles, uscendo dall'albergo che dava sul parco, vide un soldato con le ben note mostrine seduto su una panchina di pietra del giardino, e andò a sedere tremebondo accanto a quel ferito in via di guarigione. «Per caso facevate parte della compagnia del capitano Osborne?» domandò. E aggiunse dopo una pausa: «Era mio figlio.» Il soldato non apparteneva alla compagnia del capitano Osborne, ma sollevò il braccio incolume per portarvi la mano al chepì in segno di mesto e rispettoso saluto al vecchio smarrito e sconsolato che gli aveva rivolto quella domanda. «In tutto l'esercito,» disse il militare, «non c'era un ufficiale più bravo, più coraggioso.» Però il sergente della compagnia del capitano Osborne, che adesso era diventata la compagnia del capitano Raymond, si trovava in città, essendosi da poco ripreso da una ferita alla spalla. Sua Signoria poteva rivolgersi a lui: il sergente avrebbe potuto dirgli tutto quello che desiderava su... sull'azione del ...° Reggimento. Ma senza dubbio Sua Signoria si era già incontrata col maggiore Dobbin, che era grande amico del defunto capitano. E poi anche Mrs. Osborne si trovava ancora a Bruxelles; a quanto gli avevano riferito, era stata molto male. Per sei settimane, se non di più, avevano temuto che smarrisse la ragione. «Ma sicuramente Vostra Signoria è informata di tutto ciò. Chiedo scusa,» concluse l'uomo. Mr. Osborne mise una ghinea nelle mani del soldato e gli promise di dargliene un'altra se gli avesse condotto il sergente all'Hotel du Parc: argomento che ebbe l'effetto di condurre senza indugio l'ambito ufficiale alla presenza di Osborne. Poi il soldato se ne andò, e avendo raccontato a due o tre commilitoni che era giunto il padre del capitano Osborne, e che era un gentiluomo molto generoso, andarono insieme a consumare - mangiando e bevendo a volontà - le due ghinee uscite dalla borsa orgogliosa del vecchio padre in gramaglie. In compagnia del sergente Mr. Osborne si recò a Quatre Bras e a Waterloo: un pellegrinaggio che in quei giorni compivano, come lui, migliaia di suoi concittadini. Accolse il sergente a bordo della sua carrozza, e con quella guida percorse i due campi di battaglia. Vide in quale punto della strada il reggimento era entrato in azione il giorno 16, e il pendio dell'altura donde aveva respinto la cavalleria francese che incalzava le truppe belghe in rotta. In quel punto il nobile capitano aveva ucciso l'ufficiale francese impegnato in un corpo a corpo con l'alfiere per strappargli la bandiera, perché il sergente portabandiera era stato ucciso. Lungo quella stessa strada il giorno seguente si erano ritirati e quella era l'altura sulla quale la notte del 17 il reggimento aveva bivaccato sotto la pioggia. Più in là c'era la posizione che avevano conquistato e difeso per tutta la giornata, serrando di tanto in tanto le file per reggere l'assalto della cavalleria nemica, e gettandosi a terra sul pendio opposto dell'altura per proteggersi dal furioso cannoneggiamento francese. Ed era su quel declivio, ove la sera lo schieramento inglese aveva avuto l'ordine di avanzare sul nemico che si ritirava dopo l'ultima carica, che il capitano Osborne, gridando urrah e correndo a precipizio giù per la scarpata della collina a spada sguainata, era stato colpito da una fucilata stramazzando a terra esanime. «Come saprete, è stato il maggiore Dobbin a far riportare il corpo del capitano, a Bruxelles e a farvelo seppellire,» disse il sergente a bassa voce. Frattanto, mentre il sergente raccontava i particolari di quell'episodio attorno a loro si aggiravano contadini e venditori di reliquie belliche, i quali a gran voce offrivano ogni sorta di ricordi: croci, spalline, aquile, corazze. Dopo aver visitato i luoghi che avevano visto le gesta estreme di suo figlio, Osborne prese congedo dal sergente e gli diede una lauta ricompensa. Aveva già visitato la tomba di George: vi si era recato subito dopo il suo arrivo a Bruxelles. Le spoglie di George riposavano nel grazioso camposanto di Laeken, non lontano dalla città. Era il luogo nel quale, un giorno che vi si era recato nel corso di un'allegra scampagnata fra amici, aveva espresso il desiderio di essere seppellito. Quivi il corpo del giovane ufficiale era stato deposto dall'amico Dobbin, in un angolo sconsacrato del recinto che una piccola siepe separava dai tempietti, dalle cappelletto, dai monumenti di varia foggia, dai cespugli e dalle piantagioni fiorite sotto i quali dormono i defunti di fede cattolica romana Parve umiliante a! vecchio Osborne che suo figlio, un gentiluomo inglese, capitano dl un esercito glorioso come quello britannico, non fosse stato reputato degno di giacere nella stessa terra ove venivano sepolti i corpi di stranieri qualsiasi. Chi di noi può dire quanta vanità si celi dietro le premurose cure che abbiamo per gli altri e quanto egoistico sia, per contro, il nostro amore? Ad ogni modo il vecchio Osborne non indugiò molto a meditare sui suoi sentimenti così intricati, e sulla lotta in atto, nel suo intimo, tra affetto istintivo ed egoismo. Era saldamente convinto di aver sempre ragione, e che tutti dovessero agire in conformità a quanto lui diceva, e, al pari del pungiglione della vespa o del morso del serpente, il suo odio si avventava, velenoso, bellicoso, contro chiunque gli si opponesse. Era fiero del suo odio, com'era fiero di tutto ciò che lo riguardava. Aver sempre ragione, procedere calpestando tutto e tutti senza mai esser colti dal dubbio, non sono forse le eccelse qualità che consentono alla stoltezza d'imperare sul mondo? Mentre verso il tramonto, di ritorno da Waterloo la carrozza di Mr. Osborne rientrava in città, incrociò un'altra carrozza nella quale sedevano due signore e un uomo in borghese, e di fianco alla quale cavalcava un ufficiale. Osborne ebbe un sussulto, e il sergente, seduto accanto a lui, gli lanciò un'occhiata sorpresa mentre si portava la mano al chepì per salutare l'ufficiale, che meccanicamente rispose. Era Amelia, accanto alla quale sedeva il giovane sottotenente zoppo, mentre di fronte a lei aveva preso posto la fedele amica Mrs. O'Dowd. Sì, era proprio lei: Amelia. Ma quant'era mutata dalla fresca e leggiadra fanciulla che Osborne aveva conosciuto! Il viso era pallido, emaciato. I bei capelli bruni, spartiti sulla fronte, erano celati dalla cuffietta vedovile. Poverina! Il suo sguardo vagava nel vuoto, indifferente a tutto. E quegli occhi fissarono il viso del vecchio Osborne, mentre le carrozze s'incrociavano, ma non lo riconobbero. Nemmeno lui, del resto, la riconobbe, fin quando alzò lo sguardo e vide che l'ufficiale che cavalcava di fianco alla carrozza era Dobbin. Solo allora comprese chi era. La odiava non sapeva di odiarla tanto sino a quando non se la trovò davanti. Quando la carrozza fu passata, si volse a guardare il sergente con un'espressione mista di sdegno e di sfida, con la quale sembrava volesse dire al suo interlocutore, che non poteva esimersi dall'osservarlo: «Come osate guardarmi? La odio, certo che la odio. È lei che ha messo fine alle mie speranze e ha dilacerato il mio orgoglio.» «Dite a quel mascalzone che corra di più!» con una bestemmia urlò allo staffiere che sedeva a cassetta. Ma poco dopo dietro la carrozza risuonò uno scalpitio di zoccoli. Era Dobbin che si stava avvicinando. Nel momento in cui le due carrozze si erano incrociate il pensiero di Dobbin era rivolto altrove, e solo dopo gli era riuscito di puntualizzare e rendersi conto che nella carrozza passata accanto alla loro sedeva Mr. Osborne. Allora si era subito volto a guardare Amelia, per cercar di capire se la vista del suocero avesse suscitato in lei qualche emozione, ma la povera giovane non sapeva proprio chi fosse l'uomo che le era passato accanto. William, che era solito accompagnarla nel corso della sua quotidiana passeggiata in carrozza, dopo questa constatazione levò prontamente di tasca l'orologio, disse di essersi ricordato all'improvviso di un precedente impegno e, scusatosi con le signore, si allontanò. Ma Amelia non si accorse nemmeno di questo: i suoi occhi rimasero fissi a contemplare quel paesaggio ormai familiare, quei boschi che s'intravedevano in lontananza, verso i quali George, quel giorno, si era allontanato. «Mr. Osborne! Mr. Osborne!» gridò Dobbin mentre il suo cavallo si accostava alla carrozza del vecchio signore, e protendendo una mano. Osborne non si sporse per stringerla, ma al contrario gridò una volta ancora al conducente di accelerare l'andatura. «Signore, debbo parlarvi,» disse Dobbin appoggiando una mano allo sportello della carrozza. «Ho un messaggio per Voi.» «Da parte di quella donna?» chiese Osborne con voce alterata dalla collera. «No,» rispose Dobbin, «da parte di vostro figlio.» A queste parole Osborne ricadde sul sedile senza replicare, e Dobbin, continuando a cavalcare di fianco alla carrozza, attraversò l'intera città fino a quando giunsero all'albergo di Mr. Osborne senza scambiarsi una sola sillaba. Qui Dobbin seguì Osborne nelle sue stanze. George le conosceva bene quelle camere: erano le stesse che i Crawley avevano occupato durante il loro soggiorno a Bruxelles. «Desiderate forse qualcosa da me, capitano Dobbin? Oh scusatemi. Dovrei dire maggiore Dobbin, dal momento che uomini migliori di voi sono caduti in battaglia e voi avete avuto modo di soppiantarli tranquillamente!» esclamò Mr. Osborne facendo appello a quel tono sarcastico che a volte si compiaceva di assumere. «È vero,» confermò Dobbin, «uomini migliori di me sono morti. Ed è appunto di uno di loro che intendo parlarvi.» «Allora siate breve, signore,» rispose l'altro, sbottando in un'imprecazione e fissando il suo interlocutore con la fronti corrugata. «Se mi trovo qui è perché ero il migliore amico di George sono il suo esecutore testamentario,» riprese a dire il maggiore. «Vostro figlio ha fatto testamento prima che iniziassero le operazioni belliche. Sapete quanto siano scarsi i suoi mezzi e in quali strettezze viva la sua vedova?» «Non conosco la sua vedova, signore,» rispose Osborne. «Del resto, non ha che da tornare da suo padre.» Ma Dobbin era ben deciso a non perder le staffe e continuò a parlare, incurante delle astiose parole del vecchio. «Conoscete, signore, in quali condizioni fisiche e psichiche versi Mrs. Osborne? Ella è stata così scossa dalla calamità che si è abbattuta su di lei che difficilmente riuscirà a riprendersi. Le rimane una sola speranza, e di questo appunto sono venuto a parlarvi. Presto sarà madre. Vorreste dunque far ricadere la colpa del padre sul capo del bambino? O invece perdonerete al bimbo per amore di George?» Osborne esplose in un profluvio di imprecazioni e di lodi di se stesso. Le seconde miravano a dilatare la portata del cattivo comportamento di George, mentre con le prime cercava di mostrare la propria condotta di fronte alla sua coscienza. Nessun padre in tutta l'Inghilterra avrebbe potuto comportarsi così generosamente nei confronti di un figlio, il quale si era ignominiosamente ribellato alla sua volontà. Era morto senza nemmeno riconoscere i propri errori, quindi era giusto subisse le conseguenze della sua follia, della sua irresponsabilità. Quanto a lui, era una persona coerente: aveva giurato di ignorare quella donna e di non riconoscere mai in lei la moglie di suo figlio. «Vi autorizzo, anzi, a riferirglielo: ditele che sarò fedele a questo proposito sino alla fine dei miei giorni.» Dunque, da quella parte non c'era speranza alcuna. La vedova avrebbe dovuto vivere con la sua modesta pensione e con gli aiuti che eventualmente avrebbe potuto ricevere da Jos. «Anche se lo dicessi ad Amelia, la cosa la lascerebbe indifferente,» pensò Dobbin. Infatti dal giorno della disgrazia la mente della povera infelice non sembrava rendersi conto della realtà delle cose, ed ella, in muta e sconsolata contemplazione del proprio dolore, non reagiva né al bene né al male. E purtroppo reagiva allo stesso modo anche alla gentilezza e all'amicizia. Ne accoglieva le attestazioni senza accorgersene, per poi ritornare - dopo averle accettate - al suo disperato dolore. Ammettiamo che dal momento in cui si era svolta questa conversazione siano trascorsi dodici mesi di vita della nostra povera Amelia, una parte dei quali consumati in uno stato di così tragico dolore, di così cieca prostrazione, che persino noi, osservatori e commentatori di quel dolce, tenero cuore, abbiamo dovuto ritrarci al cospetto di quello strazio indicibile che lo faceva sanguinare. Ci siamo allontanati in silenzio dal letto su cui posava mestamente quella creatura sfiancata dalla sua pena. Dolcemente abbiamo richiuso la porta della stanza buia nella quale essa trascorreva il suo tempo soffrendo, come fecero i buoni che si presero cura di lei durante i primi cinque mesi del suo soffrire, e che non l'abbandonarono mai fino a quando il Cielo non le mandò qualcuno capace di recarle conforto. Poiché venne un giorno - un giorno di letizia straordinaria e quasi inverosimile - in cui la povera donna, così giovane e già vedova, strinse al seno un bambino: un bambino con gli occhi di George che non c'era più, un maschietto bello come un cherubino! Quale miracolo fu per lei udire il suo primo vagito! Come pianse e rise di felicità, mentre in lei rinascevano fede, speranza, amore! Amelia era salva. I medici che l'avevano curata e avevano temuto per la sua vita e per la sua ragione, avevano atteso ansiosamente quella crisi definitiva per potersi pronunciare e dichiarare che l'una e l'altra fossero salve. Il suo sguardo, che ora tornava a volgersi su di loro, luminoso e pervaso di tenerezza, ricompensava gli amici che senza requie l'avevano assistita nei lunghi mesi di dubbio e di angoscia. Fra questi amici figurava il nostro Dobbin. Era stato lui a ricondurla in Inghilterra in casa della madre quando Mrs. O'Dowd, in conseguenza di un perentorio appello giuntole dal colonnello suo consorte, era stata costretta ad abbandonare la sua paziente. La vista di Dobbin che reggeva tra le braccia il piccolo sotto lo sguardo trionfante di Amelia, che ora talvolta persino rideva, avrebbe divertito chiunque fosse stato dotato di un minimo senso dell'umorismo. Fu lui il padrino del bimbo, e con tutta la miglior volontà si diede ad acquistare scodelle, tazze, cucchiai e succhiotti per il suo figlioccio. Sarebbe ozioso, in questa sede, raccontare come la madre abbia allevato e vestito il suo bimbo, come abbia vissuto in funzione totale della di lui esistenza: come abbia rifiutato l'assistenza di bambinaie e solo in rarissime occasioni abbia permesso a mani diverse dalle sue di toccare il bambino; e come abbia sempre considerato un altissimo privilegio - il massimo che potesse accordare al padrino quello di consentirgli di cullare talvolta il piccino tra le sue braccia. Quel bimbo era tutta la sua vita. La sua esistenza era una carezza materna. Amelia avvolgeva quella tenera, ignara creatura nel suo amore, nella sua adorazione. Era la sua vita che il bimbo succhiava dal suo seno. Di notte, quando era sola, si abbandonava a segreti, intensi rapimenti materni: quelli che la meravigliosa Provvidenza divina ha ritenuto di concedere all'istinto femminile: gioie tanto più alte e tanto più basse di quelle offerte dalla ragione; cieca, meravigliosa devozione che solo il cuore di una donna conosce. A William Dobbin restava il compito di studiare queste manifestazioni di Amelia e indagare nei moti del suo cuore. E se in virtù del suo grande amore gli riusciva di interpretare tutti i sentimenti che lo agitavano, ahimè, la sua perspicacia fatalmente lo portava a concludere che in quel cuore non c'era posto per lui. Così Dobbin, rassegnato, accettava il proprio destino con una sorta di serena letizia. Ritengo che i genitori di Amelia interpretassero nel giusto senso i sentimenti del maggiore nei confronti di Amelia, e si guardassero bene dallo scoraggiarli. Infatti non c'era giorno in cui Dobbin non si recasse in visita da loro, trattenendosi per ore a conversare con Amelia, o col bravo padrone di casa, Mr. Clapp, e con i suoi familiari. Con vari pretesti portava sempre regali per tutti, e la bambina del padrone di casa, alla quale Amelia era molto affezionata, gli aveva appioppato il nomignolo di maggiore Zuccherofilato. Di solito spettava appunto a questa bimba fungere da cerimoniere, recando il maggiore alla presenza di Mrs. Osborne. E rise di gusto il giorno in cui vide il maggiore Zuccherofilato arrivare a Fulham in carrozza e scenderne con le braccia cariche di un tamburo, di una tromba, di un cavalluccio di legno e di altri balocchi del genere destinati al piccolo Georgy che non aveva ancora sei mesi e per il quale siffatti oggetti erano assolutamente prematuri! Il piccolo dormiva. «Ssst!» fece Amelia, forse indispettita perché gli stivali del maggiore scricchiolavano. Poi gli tese la mano, e sorrise perché, prima di stringergliela, Dobbin dovette liberarsi le braccia del suo carico di giocattoli. «Ora scendi al piano di sotto, Mary,» disse William dopo un poco, rivolto alla bambina «Devo parlare a Mrs. Osborne.» Amelia lo guardò sorpresa e posò il piccino sul letto. «Sono venuto a salutarvi, Amelia,» disse il maggiore, prendendole gentilmente la piccola mano affusolata. «A salutarmi? Dove andate?» chiese lei con un sorriso. «Se vorrete scrivermi indirizzate le lettere alla mia banca,» rispose Dobbin. «Provvederanno loro a farmele recapitare. Mi scriverete, vero? Starò via a lungo.» «Vi manderò notizie di Georgy,» disse Amelia. «Caro William, come siete stato buono con lui e con me. Guardatelo non sembra un angioletto?» La manina rosea del bimbo si strinse con moto meccanico intorno al dito del buon soldato, e gli occhi di Amelia brillarono di gioia materna. Lo sguardo più crudele non avrebbe potuto ferire Dobbin più di quell'occhiata, carica di una gentilezza che per lui escludeva ogni speranza. Si chinò sul bambino e sulla madre. Per qualche istante non riuscì a parlare, e solo con uno sforzo estremo riuscì a profferire un «Dio vi benedica». «Dio vi benedica!» rispose Amelia, e sollevando il viso gli diede un bacio. «Ssst! Non svegliate Georgy!» aggiunse, mentre William Dobbin si avvicinava alla porta con passo pesante. Amelia non udì il rumore delle ruote della carrozza che si allontanava: contemplava il bimbo che rideva nel sonno. XXXVI • COME RIUSCIRE A CAVARSELA. SENZA UN SOLDO DI RENDITA Suppongo che in questa nostra Fiera della Vanità non vi sia una sola persona così povera di spirito di osservazione da non interessarsi di tanto in tanto ai casi personali dei suoi conoscenti, o dotata di un così profondo spirito di carità da non chiedersi come facciano i loro vicini Mr. Jones o Mr. Smith a sbarcare il lunario. Per esempio (e tenuto conto che la famiglia in questione m'invita a cena due o tre volte all'anno) con tutto il riguardo per gli Jenkins, non posso fare a meno di confessare che il vederli comparire per i viali di Hyde Park con una favolosa carrozza e tre granatieri in veste di staffieri, non cesserà di stupirmi fino all'ultimo dei miei giorni. So perfettamente che la carrozza è in affitto e gli staffieri sono a mezzo servizio; tuttavia so altrettanto bene che quella carrozza e quei tre domestici significano una spesa di seicento sterline all'anno, come minimo. Ci sono poi gli splendidi pranzi, gli studi a Eton per i due ragazzi, l'istitutrice e gli insegnanti per le ragazze, un viaggio all'estero ogni tanto e, in autunno, i soggiorni a Worthing o a Eastbourne, senza contare l'annuale cena danzante da Gunter (che, tra parentesi, allestisce buona parte dei pranzi di prim'ordine che gli J. sono soliti offrire: circostanza a me nota per esser stato invitato a uno di essi onde colmare il posto lasciato vacante da un commensale che non si era presentato. Ho avuto agio così di constatare che detti pranzi sono di gran lunga superiori a quelli normali, ai quali vengono invitati i conoscenti degli Jenkins di condizione sociale più modesta). Ebbene, dico io: chi, anche se si tratta della persona più benevola di questa terra, può esimersi dal domandarsi come gli Jenkins riescano a cavarsela? Chi è questo Jenkins, alla resa dei conti: lo sappiamo tutti: è un funzionario dell'Ufficio del Sigillo, con uno stipendio di 1.200 sterline annue. Forse sua moglie fruisce di un cospicuo patrimonio personale? Nemmeno per sogno! Era una certa Miss Flint, una degli undici figli di un nobile del Buckinghamshire, per nulla danaroso! Al massimo, la famiglia le manderà il tacchino a Natale, e lei in compenso dovrà provvedere al mantenimento di due o tre sorelle a Londra (non però durante la stagione) e ospitare i fratelli quando calano in città. Dunque, come fa Jenkins a barcamenarsi se le sue entrate sono quelle menzionate poc'anzi? Io mi chiedo come mai non lo abbiano ancora messo al Bando; e come mai l'anno scorso (tra la sorpresa generale) sia rientrato da Boulogne. Naturalmente il pronome «io» nel caso in questione vuole alludere alla gente in generale, la Mrs. Grundy della cerchia personale di ogni cortese lettore, il quale senza dubbio conosce almeno tre o quattro famiglie delle quali proprio non si sa come riescano a campare. Dubito che a qualcuno di noi non sia capitato di bere Dio sa quanti bicchieri di vino chiacchierando del più e del meno col munifico anfitrione, e domandandosi nel frattempo come diavolo riuscisse a pagare quella costosa bevanda. Orbene; circa tre o quattro anni dopo la loro permanenza a Parigi, Rawdon Crawley e signora abitavano in una confortevole casa di Curzon Street, in Mayfair e non c'era uno dei numerosi amici ch'erano soliti invitare a cena, che al loro riguardo non si ponesse il sopraddetto interrogativo. Come già abbiamo detto, il romanziere sa tutto; e siccome io sono in grado di rivelare al pubblico come facessero Rawdon e sua moglie a vivere senza un quattrino di rendita, desidero invitare i giornali che usano pubblicare romanzi a puntate di non ristampare questa storia, e men che meno i calcoli che sto per esporre: da questi, infatti, spetta a me cavare i benefici del caso, perché sono stato io a farli e non senza fatica. Figlio mio, gli direi, se Dio mi avesse accordato la benedizione di esser padre, tu potrai sempre riuscire a scoprire - frequentando una data persona e indagando sul suo conto - come riesca a vivere senza un soldo di rendita. Ma è meglio non entrare in rapporti d'intima amicizia con questa gente: questi calcoli è meglio farli fare agli altri e poi essere messi al corrente, proprio come si fa coi logaritmi: fatti di persona, vengono sempre a costare piuttosto cari. Dunque, senza un soldo per annum, e per un periodo di due o tre anni sui quali non avremo agio d'indugiare a lungo, Rawdon e Rebecca vissero a Parigi felici e contenti. In questo periodo lui diede le dimissioni dalle Guardie e dall'Esercito. Al momento in cui lo ritroviamo i baffi, e la qualifica di colonnello sono tutto quanto gli rimane della sua carriera militare. Abbiamo riferito come Rebecca, poco dopo il suo arrivo nella capitale francese, fosse riuscita a raggiungere un ruolo di rilievo nell'alta società di Parigi, ed era sempre accolta con la massima cordialità nelle case dell'aristocrazia, che con la restaurazione monarchica aveva ritrovato il suo antico ruolo. Gli inglesi della buona società che vivevano a Parigi le facevano la corte, suscitando il risentimento delle legittime consorti, che provavano la più viva antipatia per quella parvenue. Per qualche mese i salotti del Faubourg Sait-Germain, ove ormai il suo posto era assicurato, e gli splendori della nuova Corte, ov'era accolta con il massimo riguardo, colmarono d'intima soddisfazione Mrs. Crawley, e forse le diedero alla testa: infatti, per tutto il tempo in cui durò quella breve, esaltante stagione, ella manifestò la tendenza a trattare con albagia tutti coloro (per lo più giovani e onesti ufficiali) che costituivano l'entourage del marito. Ma il colonnello - spettacolo miserando! - sbadigliava fra le duchesse e le dame di Corte. Le vecchie signore che giocavano all'écarté facevano tali scene per cinque franchi, che il colonnello pensò non valesse la pena sedersi al tavolo da gioco. Ignorando il francese, non poteva nemmeno gustare lo spirito della loro conversazione. Quali vantaggi, si chiedeva, avrebbe tratto sua moglie da tutti gli inchini che ogni sera elargiva a una tribù di principesse? Pertanto lasciò che Rebecca partecipasse da sola a quelle soirées per abbandonarsi ai semplici divertimenti ai quali era assuefatto, tra i cordiali amici che si era scelto spontaneamente. La verità sta nel fatto che, quando noi diciamo che un uomo riesce a condurre una vita brillante senza un soldo in tasca, con l'espressione «senza un soldo» noi alludiamo a qualcosa su cui non siamo informati: e cioè sul «come» si procura il denaro necessario per provvedere alle spese di casa. Ora, l'amico Rawdon era abilissimo in tutti i giochi d'azzardo, e dedicandosi continuamente alle carte e ai dadi, nonché allenandosi al biliardo, logicamente aveva acquisito con questi oggetti una dimestichezza e un'abilità assai superiore a quella di coloro che se ne servono solo sporadicamente. Usar bene la stecca da biliardo equivale a saper usare bene la matita, oppure il flauto o la spada. Non si può è logico - usare a dovere questi aggeggi appena li si prende in mano: solo in seguito a incessante e tenace applicazione, unita a una naturale disposizione, si riesce a primeggiare nell'uso di uno di essi. Crawley, per esempio, dopo esser stato un ottimo dilettante nel gioco del biliardo, adesso era diventato un vero e proprio «maestro». Come accade spesso dei grandi generali, il suo genio sembrava manifestarsi particolarmente nell'ora del periglio, e quando una partita sembrava volgere al peggio, con alcuni colpi prodigiosi sapeva capovolgerne le sorti a suo vantaggio: dalle perdite considerevoli che stava per subire, passava al trionfo della vittoria che mutava anche l'andamento pecuniario della situazione, lasciando gli astanti allibiti; intendendo per astanti quelli che ignoravano il suo modo di giocare, perché gli altri stavano in guardia ed erano molto cauti nel mettere a repentaglio il proprio denaro giocandolo contro un tizio dotato di tanta abilità e di così inopinate, brillanti risorse. Anche al gioco delle carte manifestava altrettanta destrezza: all'inizio della serata cominciava a perdere, e commetteva errori così marchiani che i nuovi venuti non credevano di doverlo temere. Ma ecco che dopo aver ripetutamente perduto somme di modesta entità, Crawley si concentrava e il suo modo di giocare cambiava, e tutti capivano che, prima della fine della serata, avrebbe inflitto una clamorosa sconfitta al suo avversario. In effetti, ben pochi potevano vantarsi di aver avuto la meglio su di lui. Tale era la costanza della sua fortuna che gli sconfitti e gli invidiosi sparlavano di lui senza riserve, cosa del resto affatto naturale. I francesi, per esempio, affermano che se il duca di Wellington non ebbe mai a patire delle sconfitte, fu solo per una serie di fortunate congiunture tali da permettergli di uscir sempre vincitore da una battaglia. Nondimeno sono costretti a riconoscere che a Waterloo seppe giocare d'astuzia e a trarli in inganno. Parimenti in Inghilterra correva voce che, se il colonnello Crawley vinceva sempre o quasi, ciò dipendeva solo dal fatto che giocava in modo scorretto. In quegli anni a Parigi le sale da gioco alla moda erano il «Frascati» e il «Salon», ma la smania di giocare era così diffusa che i locali pubblici erano numericamente inadeguati, onde si giocava anche nelle case private, come se non vi fossero luoghi più idonei a un simile passatempo. Anche nelle squisite, piccole réunions che si svolgevano la sera dai Crawley ci si abbandonava con notevole frequenza a questo fatale divertimento, con gran dolore della buona, piccola Mrs. Crawley, la quale parlava con accenti di autentica desolazione di quel vizio del marito per i dadi, e se ne doleva con tutti coloro che frequentavano la sua casa. Supplicava i giovani di stare in. guardia, di tenersi lontani dal bossolo dei dadi; e quando il giovane Green della Compagnia Fucilieri perse una somma rilevante di denaro, Rebecca trascorse in pianto l'intera nottata, come poi l'indomani la servitù ebbe modo di riferire allo sfortunato giocatore, e arrivò al punto di gettarsi ai piedi del marito supplicandolo di condonare il debito al povero giovanotto. Ma come era possibile che Rawdon cedesse al desiderio di Bechy? Aveva perso l'identico ammontare con Blackstone degli Ussari e con il conte Punter della Cavalleria di Hannover. D'accordo, avrebbe concesso a Green un poco di respiro; ma in quanto a permettere di non pagare... Suvvia, parlare di bruciare l'obbligazione era, da parte di Rebecca, una prova di candore quasi colpevole. Altri ufficiali soprattutto quelli più giovani che facevano crocchio intorno alla padrona di casa - tornavano dai suoi ricevimenti imbronciati, dopo aver dovuto lasciare sul tavolo da gioco somme più o meno elevate. Su casa Crawley cominciarono a correre voci per nulla lusinghiere. I vecchi ammonivano i giovani sul pericolo al quale andavano incontro. Il colonnello O'Dowd del ...° Reggimento avverti il tenente Spooney del suo stesso reggimento. Tra il colonnello di fanteria e sua moglie che stavano cenando al Café de Paris e il colonnello Crawley e consorte scoppiò una scenata violentissima. Furono le signore a cominciare: facendo schioccare le dita sulla faccia di Rebecca, Mrs. O'Dowd disse chiaro e tondo che suo marito «non era altri che un baro». Risultato: il colonnello Crawley sfidò a duello il colonnello O'Dowd dell'Ordine del Bagno. Ma la notizia della sfida giunse alle orecchie del comandante in capo. Questi convocò il colonnello Crawley che stava tirando fuori le pistole «con le quali aveva fatto fuori il capitano Marker», ed ebbe con lui un colloquio in seguito al quale il duello non ebbe luogo. Se Rebecca non si fosse buttata in ginocchio davanti a Tufto supplicandolo di intervenire, Rawdon sarebbe stato rispedito in Inghilterra. Fatto sta che nelle settimane successive Rawdon badò a giocare soltanto con dei borghesi. Ma dopo questi fatti, e ad onta della innegabile abilità di suo marito e della fortuna costante che lo assisteva, Rebecca capì che la loro posizione si stava facendo critica e che, anche non pagando nessuno, la loro modesta rendita era destinata ad assottigliarsi fino a ridursi a zero. «Caro mio, il gioco può servire ad arrotondare le entrate, ma non può diventare l'unica entrata,» gli disse sua moglie. Prima o poi la gente potrebbe anche stancarsi di giocare, e allora cosa sarebbe di noi?» Rawdon si dichiarò d'accordo: del resto aveva cominciato ad accorgersi che dopo i loro pranzetti gli uomini si mostravano sempre meno inclini a giocare con lui, ed anche meno disposti a parteciparvi, nonostante lo charme di Rebecca. Per quanto facile e piacevole, la vita, a Parigi, altro non era che un'oziosa perdita di tempo, un gradevole svago. Rebecca si convinceva vieppiù ch'ella doveva tentare di fare la fortuna di suo marito in patria. Si trattava di ottenergli un posto, un incarico purchessia in Gran Bretagna o nelle colonie. Decise pertanto di dare inizio a una nuova battaglia in patria, non appena avesse avuto libero accesso alla medesima. Per prima cosa aveva convinto Crawley a congedarsi dalle Guardie e a chiedere la pensione. Già da tempo, inoltre, non era più aiutante di campo del generale Tufto. Poi Rebecca aveva preso a burlarsi di quest'ultimo con tutti i conoscenti: lo prendeva in giro per il busto, perché aveva la dentiera, per le sue velleità di donnaiolo e soprattutto per quella ridicola presunzione in forza della quale credeva di conquistare all'istante tutte le donne che avvicinava. Ora le attenzioni del generale andavano a Mrs. Brent dalle folte sopracciglia, moglie del commissario Brent: a lei andavano i regaletti, i mazzi di fiori, i palchi all'opera. Quanto alla povera Mrs. Tufto, questo cambio della guardia non giovò in minima misura a suo favore, e continuò a trascorrere le serate in solitudine, con la sola compagnia delle figlie, sapendo perfettamente che il generale, impettito e profumato, sedeva a teatro nel palchetto in compagnia di Mrs. Brent. Quanto a Becky, aveva intorno a sé una tribù di ammiratori che in un battibaleno avevano sostituito il generale; e, data l'arguzia e l'intelligenza di cui era dotata, avrebbe potuto (se solo lo avesse voluto) sgominare all'istante la rivale. Ma, come abbiamo detto poc'anzi, era ormai sazia di quell'esistenza vacua: i pranzetti, i palchi all'opera ormai le dicevano ben poco. I mazzi di fiori non potevano essere messi da parte in previsione degli anni futuri, né si poteva vivere di gingilli, di trine e guanti di capretto. Cominciò ad accorgersi dell'inconsistenza di quei piaceri, e a puntare su altri più sostanziosi. Nel frattempo giunse a Parigi una notizia che tosto dilagò fra i molti creditori del colonnello, colmandoli di motivata e gaia speranza. Miss Crawley, la facoltosa zia di cui Rawdon Crawley attendeva la colossale eredità, era moribonda, e il colonnello doveva accorrere al suo capezzale. Quanto a Mrs. Crawley e al bambino, sarebbero rimasti a Parigi fino a quando lui non avesse fatto ritorno per venirli a prendere. Rawdon parti per Calais, ove logicamente avrebbe dovuto imbarcarsi per Dover. Invece prese la diligenza per Dunkerque, e di lì salì su una diligenza per raggiungere Bruxelles, città per la quale non aveva cessato di nutrire un'indubbia predilezione. La verità era che aveva più creditori a Londra che a Parigi, e che preferiva la piccola, quieta capitale del Belgio a qualsiasi altra capitale più vasta e rumorosa. La zia era morta. Mrs. Crawley prescrisse il lutto più stretto per sé e per il piccolo Rawdon. Ormai perché non passare al primo piano, invece di continuare ad abitare nel piccolo appartamento nell'entresol? Mentre il colonnello si stava occupando dell'eredità, Mrs. Crawley e il padrone di casa si consultarono sulle nuove tappezzerie delle quali rivestire le pareti, discussero amichevolmente sui tappeti e alla fine concordarono su ogni particolare tranne uno: il conto. Rebecca partì a bordo di una delle carrozze del suddetto padrone di casa insieme col piccino e con la bonne francese. Saputo della sua partenza, il generale Tufto si arrabbiò moltissimo, e Mrs. Brent si arrabbiò con lui perché si era arrabbiato. Quanto al tenente Spooney, ne fu ferito al cuore, mentre il padrone di casa allestiva elegantemente il suo miglior appartamento in vista del prossimo ritorno dell'elegante signora e del suo consorte. Ripose altresì con la massima cura i bauli che Mrs. Crawley gli aveva affidato raccomandandoglieli con particolare calore. Ciò non toglie che, quando di lì a qualche tempo vennero aperti, si scoprì che contenevano suppellettili di valore irrisorio. Ad ogni modo, prima di raggiungere il marito a Bruxelles, Rebecca fece una puntata in Inghilterra, lasciando il bimbo al di qua della Manica, affidato alla bambinaia francese. Una separazione che non fu causa di particolare sofferenza né per l'uno né per l'altra. In effetti, da quando il piccolo era venuto alla luce, non si può dire che lei lo avesse visto molto spesso. Aveva adottato senz'altro l'uso delle madri francesi mettendolo a balia in un villaggio non lontano da Parigi, dove il bimbo aveva trascorso abbastanza lietamente i primi mesi di vita, in compagnia di una turba di fratelli di latte in zoccoletti. Il padre, invece, andava spesso a trovarlo, e il suo cuore gioiva di fierezza paterna vedendolo roseo e sudicio strillare a squarciagola, felice di fare le formine di terra sotto lo sguardo vigile della sua balia, moglie di un giardiniere. Rebecca invece non provava lo stesso desiderio di andare a trovare il suo primogenito, che una volta si era permesso di insudiciare il suo nuovo mantello color tortora. Del resto, il bambino mostrava. di gradire le carezze della balia assai più di quelle di sua madre, e quando giunse il momento di separarsi da quella ridente, cordiale creatura che gli aveva fatto quasi da madre, pianse e urlò per ore e ore. Per consolarlo, fu necessario che la madre gli promettesse di riportarlo dalla balia il giorno dopo. In effetti ma anche alla balia, che probabilmente avrebbe sofferto per quella separazione, fu detto che il bimbo le sarebbe stato riportato senza indugio, sicché per qualche tempo attese con ansia il momento di rivederlo. I nostri amici possono infatti essere annoverati tra gli antesignani di quella stirpe di sordidi avventurieri inglesi che più tardi sarebbero dilagati per tutto il continente, commettendo truffe in tutte le capitali d'Europa. A quel tempo - siamo negli anni 1817-1818 - l'onore dell'Inghilterra e il rispetto per la medesima erano tenuti in altissima considerazione. Si direbbe che i nostri compatrioti non avessero ancora imparato a discutere dei prezzi con quella pervicacia che oggi li distingue. Le grandi città europee non erano ancora diventate teatro delle malefatte dei grandi imbroglioni d'oltre Manica. Ora invece si può tranquillamente affermare che in qualsiasi città di Francia o d'Italia si aggira qualche nostro distintissimo compatriota il quale, con la sua aria sufficiente e il suo tono altezzoso, non esita a truffare il padrone dell'albergo, emette assegni a vuoto approfittando della buonafede di qualche ingenuo banchiere, deruba i carrozzieri delle loro carrozze, i gioiellieri dei loro gioielli, alleggerisce i viaggiatori dei loro quattrini giocando a carte e depreda persino le pubbliche biblioteche dei libri che le corredano. Tant'anni fa bastava essere un Milord anglais per incontrare persone pronte e felicissime di far credito, ed in verità gli inglesi erano più facilmente i truffati che non i truffatori. Orbene, solo parecchie settimane dopo la partenza dei Crawley, il loro padrone di casa si rese conto di esser stato raggirato; Madame Marabou, la sarta, lo comprese, dopo aver sollecitato ripetutamente e invano il pagamento del conto per gli abiti forniti a Mrs. Crawley; e Monsieur Didelot, della Boule d'Or al Palais Royal, dal quale Rebecca aveva acquistato bracciali e orologi, solo dopo aver chiesto Dio sa quante volte se la charmante Milady fosse finalmente de retour. Fatto sta che nemmeno la povera moglie del giardiniere, colei che aveva fatto da balia per i primi sei mesi di vita al figlio di madame, venne mai pagata per il latte e per il sincero affe
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