(William Makepeace Thackeray - La Fiera Delle Vanit\340)

Thackeray William Makepeace
La Fiera delle Vanità
DAVANTI AL SIPARIO
Il Regista che siede sul palcoscenico davanti al sipario a contemplare la
Fiera, si sente pervadere dal sentimento di profonda malinconia che gli ispira quel
luogo brulicante di folla. Non si fa che mangiare e bere, amoreggiare e piantarsi,
ridere e piangere; non si fa che fumare, imbrogliare il prossimo, altercare, ballare
e strimpellare. Ci sono smargiassi che si aprono un varco a spintoni, bellimbusti
che fanno l'occhio dolce alle donne, ladruncoli pronti a svuotar le tasche, poliziotti
all'erta, imbonitori (altri imbonitori, che il diavolo se li porti!) che strepitano
davanti ai loro baracconi, zotici col naso all'aria a guardare i ballerini in vesti
multicolori, i poveri acrobati dal viso impiastricciato di belletto, mentre individui
dalle dita agili e leggere armeggiano con le loro tasche posteriori. Sì, questa è la
FIERA DELLA VANITÀ: non è certo un luogo morale, e nemmeno allegro, ad
onta di tanto chiasso. Guardate la faccia degli attori e dei pagliacci quando fanno
ritorno tra le quinte: Tom il Tonto che si lava le guance spalmate di trucco prima
di sedere a cena dietro il fondale di tela insieme con la moglie e col piccolo Jack
Budino. Tra qualche istante si alzerà il sipario, e lui sarà lì a saltare e a
sgambettare strillando: «Buongiorno a tutti!»
Camminando in mezzo a una siffatta compagine umana, una persona incline
alla riflessione non si sentirà oppressa, ritengo, dalla propria o dall'altrui ilarità.
Una scenetta amena o gentile può saltuariamente commuoverla o divertirla: un
grazioso bimbetto che sosti davanti a un banco di pan pepato; una bella ragazza
che arrossisce mentre il suo innamorato le parla e le compra un regaluccio. Tov il
Tonto, poveraccio che se ne sta laggiù dietro il carro a rosicchiare le sue ossa
insieme con la famiglia che sbarca il lunario con le capriole. Ma l'impressione
generale tende alla malinconia più che all'allegrezza. Tornati a casa, vi ponete a
sedere indugiando a uno stato d'animo pacato, contemplativo, non esente da
spirito di carità, e vi dedicate ai vostri libri o ai vostri affari.
Non vedo, al di fuori di questa, altra morale applicabile alla presente storia
della Fiera della vanità. C'è chi giudica le fiere affatto immorali, e le evita, come
le evitano i suoi domestici e i suoi familiari. Molto probabilmente costoro hanno
ragione. Ma le persone che la pensano altrimenti, e sono indolenti benevole o
portate al sarcasmo, possono forse compiacersi di trascorrervi una mezz'ora e dare
un'occhiata agli spettacoli. Ce ne sono per tutti i gusti; accanite contese, nobili e
solenni cavalcate, scene di vita aristocratica, altre di vita decisamente meschina;
un certo sentimentalismo e qua e là qualche sprazzo di comicità. Il tutto fruisce di
uno scenario acconcio illuminato a giorno dalle candele fornite dallo stesso
Autore.
Che altro può aggiungere il Regista? Dare atto della lusinghiera accoglienza
che hanno salutato lo spettacolo in tutte le principali città dell'Inghilterra in cui è
stato presentato, e dove è stato valutato positivamente dai rappresentanti della
pubblica Stampa e del pari dalle persone ragguardevoli per censo e per ceto. È
fiero di constatare che le sue marionette hanno incontrato i gusti della miglior
società dell'Impero. La vezzosa, piccola marionetta di nome Becky è stata
giudicata straordinariamente flessibile nelle giunture e agilissima sotto i fili. A sua
volta la bambola Amelia, sebbene abbia avuto una cerchia più esigua di
estimatori, è stata scolpita e vestita dall'artista con la massima cura. Dobbin,
sebbene goffo nella figura, balla peraltro in modo molto spontaneo e naturale.
Qualcuno ha mostrato di apprezzare la Danza dei Bambini. Si prega infine di
osservare attentamente il personaggio fastosamente abbigliato del Perfido
Nobiluomo, per il quale non si è badato a spese, e che Belzebù si porterà via al
termine di questa singolare rappresentazione.
Ciò detto, e non senza un profondo inchino ai suoi sovvenzionatori, il
Regista s'inchina e il sipario si alza.
Londra, 28 giugno 1848.
I • CHISWICK MALL
In una splendida mattina di giugno, nel secondo decennio del nostro secolo,
davanti al grande cancello di ferro dell'educandato femminile di Miss Pinkerton, a
Chiswick Mall, si fermò una vistosa carrozza padronale trainata da due floridi
cavalli dai finimenti lucentissimi e guidata alla velocità di quattro miglia all'ora da
un grasso cocchiere in parrucca e tricorno. Un servitore negro, che sedeva in serpa
accanto al cocchiere, scese stirandosi le gambe storte non appena il cocchio si fu
arrestato davanti alla lucida targa di ottone dell'educandato. Non appena ebbe dato
uno strattone al campanello, una ventina almeno di testoline fece capolino dalle
strette finestre che si aprivano in quel vecchio, maestoso edificio di mattoni. Ma
non è tutto: un attento osservatore avrebbe potuto scorgere, al di sopra dei vasi di
geranio che adornavano la finestra del salottino, anche il nasetto rosso della buona
Miss Jemima Pinkerton.
«È la carrozza di Mrs. Sedley, sorella,» disse Miss Jemima. «Sambo, il
servo negro, ha suonato or ora il campanello. Il cocchiere ha un panciotto rosso,
nuovo di zecca.»
«Hai terminato i preparativi necessari in vista della partenza di Miss
Sedley?» chiese l'imponente signora, ossia Miss Pinkerton in persona la
Semiramide di Hammersmith, l'amica del dottor Johnson nonché corrispondente
dell'eccelsa Mrs. Chapone.
«Stamattina le ragazze si sono alzate alle quattro per prepararle i bagagli,
sorella,» rispose Miss Jemima. «E le abbiamo fatto anche un mazzo di fiori.»
«Di' "bouquet", Jemima. È più distinto.»
«E va bene: le abbia fatto un bocché grosso quasi come un covone di fieno.
Nella valigia di Mrs. Sedley ho messo anche due boccette di essenza di
violacciocca e la ricetta per fabbricarla.»
«Voglio sperare, Jemima, che tu abbia provveduto a preparare anche una
copia del conto di Miss Sedley. È questo, vero? Benissimo: novantatré sterline e
quattro scellini. Abbi la cortesia di indirizzarlo a Mr. Sedley e di sigillare questo
biglietto che ho scritto a sua moglie.»
Agli occhi di Miss Jemima una lettera di pugno di sua sorella costituiva un
oggetto degno della più profonda venerazione, come se fosse stato vergato da una
sovrana. Solo quando le allieve prendevano congedo dall'istituto, o quando si
accingevano a sposarsi, Miss Pinkerton scriveva di persona ai genitori, ma lo
aveva fatto anche quando la povera Mrs. Birch era morta di scarlattina. Per parte
sua Miss Jemima era convinta che, se mai qualcosa al mondo aveva esercitato
poteri consolatori su Mrs. Birch in occasione della perdita di sua figlia, si era
trattato certamente dell'eloquente nonché edificante scritto col quale Miss
Pinkerton le aveva dato la ferale notizia.
In questo caso, peraltro, il billet di Miss Pinkerton era formulato nei seguenti
termini:
The Mall, Chiswick, 15 giugno 18...
Signora,
Dopo sei anni di permanenza al Mall ho l'onore e il piacere di presentare ai
suoi genitori Miss Amelia Sedley nella sua qualità di giovinetta ormai degna di
occupare il posto che le compete nel mondo raffinato ed elegante. Le virtù che
caratterizzano le gentildonne inglesi, quei tratti particolari che loro derivano
dalla nascita e dal ceto sociale, non fanno certo difetto in Miss Sedley, la cui
docile e laboriosa diligenza è valsa a procacciarle l'affetto dei suoi insegnanti e
la cui dolcezza di carattere ha conquistato tutte le sue compagne, dalle più
giovani alle più anziane.
Nella musica, nelle danza, nell'ortografia, nei lavori di ricamo e di cucito
ella non è venuta meno alle trepide attese di chi le vuole bene. Nondimeno in
geografia lascia ancora alquanto a desiderare, mentre si raccomanda
caldamente l'uso costante della tavoletta dorsale durante quattro ore giornaliere
per i prossimi tre anni onde Miss Sedley acquisti quel portamento dignitoso che si
addice alle giovinette della buona società. Quanto ai principi religiosi e morali
Miss Sedley è in tutta degna di un istituto che è stato onorato dalla presenza del
"Grande Lessicografo" e del patronato della illustre Mrs. Chapone. Lasciando il
Mall, Miss Amelia porta seco il cuore delle sue compagne e gli affettuosi saluti
della sua insegnante che ha l'onore di firmarsi,
della signoria vostra devotissima serva
Barbara Pinkerton.
P.S. Miss Sharp accompagna Miss Sedley. Si raccomanda caldamente che la
permanenza di Miss Sharp in Russell Square non superi i dieci giorni. La
famiglia d'alto bordo dalla quale verrà assunta desidera fruire al più presto dei
suoi servigi.
Quando ebbe terminata la lettera, Miss Pinkerton vergò il proprio nome e
quello di Miss Sedley sul frontespizio del dizionario del dottor Johnson,
l'interessante opera di cui ella faceva dono a tutte le sue allieve quando lasciavano
il Mall. Alla copertina era unita una copia delle Parole indirizzate a una
giovinetta che lascia l'educandato di Miss Pinkerton al Mall, del compianto
reverendo dottor Samuel Johnson. Occorre aggiungere che la maestosa dama
menzionava con estrema frequenza il nome del Lessicografo da quando una visita
di quest'ultimo all'istituto era valsa a consacrarne la fama e la fortuna.
Ricevuto dalla sorella maggiore l'ordine di prelevare «il dizionario» dallo
scaffale, Miss Jemima aveva tolto dal mobile due copie del volume in questione.
Poi, quando Miss Pinkerton ebbe terminato di redigere la dedica sulla prima, Miss
Jemima con aria timida e incerta le porse la seconda.
«E questo per chi è?» domandò la Pinkerton con terrificante freddezza.
«Per Becky Sharp,» rispose la tremebonda Jemima, facendosi rossa in volto
e persino sul collo risecchito; e volse le spalle alla sorella. «Sì, per Becky Sharp:
anche lei se ne va...»
«MISS JEMIMA!» esclamò la sorella, quasi parlasse in lettere maiuscole.
«Ti ha forse dato di volta il cervello? Rimetti il dizionario sullo scaffale e non
arrischiarti più ad assumere iniziative del genere!»
«Va bene, sorella, ma dopo tutto costa soltanto due scellini e nove pence, e
Becky, poveretta, ci resterà malissimo se non lo riceverà.»
«Mandami subito Miss Sedley,» disse Miss Pinkerton: al che Miss Jemima
trottò via, turbata e nervosissima, incapace di aggiunger parola.
Il padre di Miss Sedley era un commerciante londinese che godeva di una
solida agiatezza, mentre Miss Sharp era stata accettata all'educandato alla pari: per
lei Miss Pinkerton era convinta di aver fatto abbastanza, e riteneva del tutto
superfluo accordarle il privilegio del dizionario all'atto della partenza.
Sebbene per solito le lodi tributate dalla direttrice di una scuola non siano
più attendibili di quelle incise su una pietra tombale, nondimeno, come avviene
che un individuo si congedi da questa terra meritandosi appieno gli elogi incisi
dallo scalpellino sulla sua tomba - che sia stato, cioè, un buon cristiano, un buon
padre, un buon figlio, una buona moglie o un buon marito, e che veramente lasci
la sua famiglia in lacrime - così negli educandati maschili e femminili può talvolta
accadere che l'allievo si sia mostrato degno del plauso tributatogli da un direttore
disinteressato. Miss Amelia Sedley rientrava nel novero di queste eccezioni; e non
saltato era in tutto meritevole degli elogi di Miss Pinkerton, ma vantava del pari
altre preclare virtù che quella vecchia, presuntuosa Minerva non era stata in grado
di notare per il divario di temperamento e di età che la separava dalla sua allieva.
Giacché non solo Miss Sedley cantava come un usignolo, o come una
Billington e danzava come una Hillisberg o una Parisot; non solo ricamava alla
perfezione e scriveva con un'ortografia impeccabile come quella del dizionario,
ma in petto le batteva un cuore sensibile, tenero, gioioso, longanime, tale da
assicurarle l'affetto di chiunque avesse a che fare con lei: dalla vecchia Minerva
alla sguattera e alla figlia guercia di una venditrice di dolciumi che una volta la
settimana era autorizzata a offrire la propria merce alle educande del Mall. Delle
sue ventiquattro compagne, dodici potevano considerarsi sue intime amiche.
Nemmeno l'invidiosa Miss Briggs si arrischiava a sparlare di lei: la grande e
potente Miss Saltire (nipote di Lord Dexter) non esitava a riconoscerle un
portamento aristocratico. Quanto a Miss Swartz, una ricca e facoltosa mulatta
giunta a Londra da St. Kitt, il giorno della partenza di Amelia fu colta da un tale
accesso di disperazione che si rese necessario l'intervento del dottor Floss e poco
mancò dovessero narcotizzarla col sal volatile. Per contro, l'affetto di Mrs.
Pinkerton si esprimeva in forma calma e compassata, come l'alta posizione sociale
e le eminenti virtù di questa signora lasciano facilmente immaginare, ma per parte
sua Miss Jemima aveva pianto ripetutamente nell'imminenza del distacco da
Amelia, e se il timore di sua sorella non glielo avesse impedito avrebbe ceduto
anch'essa a un attacco isterico al pari dell'ereditiera di St. Kitt (la quale, per parte
sua, pagava una retta doppia). Naturalmente queste estrinsecazioni di soverchio
dolore erano concesse soltanto alle allieve di prima categoria. Invece la povera
Jemima doveva badare ai conti, al bucato, alle riparazioni, ai dolci, alle stoviglie,
al pentolame e alla servitù. D'altro canto, perché insistere a parlare di lei? Molto
probabilmente, d'ora in poi non la sentiremo più menzionare, e quando il pesante
cancello di ferro battuto si sarà richiuso su di lei, né lei né Miss Pinkerton lo
varcheranno per entrare nel piccolo mondo di cui ci accingiamo a raccontare la
storia.
Poiché invece avremo occasione di parlare a lungo di Amelia, è più che
lecito dire, sin dall'inizio della nostra conoscenza con lei, che era un'adorabile
creatura; e non è cosa da poco, nella vita come nei romanzi dove (specie in questi
ultimi) abbondano mascalzoni di ogni genere, avere costantemente a che fare con
una persona così candida e lietamente disposta verso il prossimo. Dal momento
che non si tratta di un'eroina, descrivere il suo aspetto fisico è senza scopo:
diciamo che, per essere un'eroina, aveva forse il naso troppo corto e le guance
troppo piene, ma il suo era un colorito sano e il suo sorriso era fresco e radioso. I
suoi occhi brillavano di una vivida, scintillante serenità, tranne quando le si
colmavano di lacrime: circostanza, questa, che per vero dire si verificava un po'
troppo spesso. Giacché infatti questa candida fanciulla piangeva per la morte di
un canarino, o per quella di un topo che il gatto avesse destramente acciuffato, o
per la fine di un romanzo, foss'anche il più sciocco. Peggio che mai se accadeva
che qualcuno le rivolgesse parole scortesi, ammesso che qualcuno osasse farlo.
Persino l'austera e onnipotente Miss Pinkerton l'aveva rimproverata una sola
volta, e sebbene capisse la sensibilità altrui come capiva l'algebra, aveva imposto
a tutto il corpo insegnante di trattare Miss Sedley con la massima cortesia. Con lei
i toni aspri e perentori andavano completamente banditi.
Fu così che, al momento del commiato, Miss Sedley non seppe come
comportarsi, incerta qual era tra il riso e il pianto, suoi consueti strumenti di
espressione. Era contenta di tornare a casa, e al tempo stesso le dispiaceva lasciare
il convitto. Per tre giorni, prima della sua partenza, Laura Martin, l'orfanella, le
era rimasta incessantemente alle calcagna come se fosse stata un cagnolino.
Inoltre aveva fatto e ricevuto una dozzina di regali, e quattordici promesse di
scrivere almeno una volta la settimana. «Spediscimi la lettera in doppia busta
all'indirizzo del conte di Dexter, mio nonno,» le disse la Saltire (che, sia detto per
inciso, era decisamente tirchia). «Non importa che tu metta il francobollo, sai?
Quello che conta è che tu mi scriva tutti i giorni,» le aveva detto invece
l'esuberante Swartz dai capelli lanosi, una ragazza dall'indole generosa e cordiale.
Per parte sua la piccola Laura Martin, che da poco aveva imparato a scrivere, le
prese una mano e con espressione compunta le disse: «Sai, Amelia? Nelle mie
lettere ti chiamerò "mamma".» Particolari, questi, che Mr. Jones, il quale sta
leggendo il libro nel suo circolo, senz'alcun dubbio reputerà sciocchi,
inconsistenti, sentimentali e pretestuosi. Proprio così: mi pare di vederlo, Mr.
Jones, alquanto acceso da una cenetta a base di montone arrosto annaffiato da una
mezza pinta di vino, nell'atto d'armarsi di matita e di sottolineare gli aggettivi
«inconsistenti e pretestuosi», aggiungendovi sicuramente le parole «proprio così»,
a titolo di commento personale. Mr. Jones è un uomo di genio che ammira la
grandezza e l'eroismo, nella vita come nei romanzi. Accetti pertanto un buon
consiglio: meglio cercarli altrove.
Ma torniamo ai fatti. Quando Mr. Sambo ebbe sistemato con ogni cura sulla
carrozza i fiori, i regali, i bauli e le cappelliere di Miss Sedley, oltre a un vecchio
bauletto di pelle alquanto scalcagnato sul quale era stato inchiodato saldamente il
biglietto da visita di Miss Sharp, e che il suddetto Sambo si affrettò a consegnare
con un risolino al cocchiere il quale a sua volta lo sistemò col resto del bagaglio,
non senza una smorfia di spregio, venne finalmente l'ora della partenza. In quel
momento il dolore del distacco fu sensibilmente attenuato dall'edificante discorso
rivolto da Miss Pinkerton alla sua alunna. Non che quel discorso di addio
alimentasse in Amelia uno stato d'animo più sereno, o le ispirasse una calma che
fosse frutto di razionalità. Al contrario lo sproloquio della Pinkerton risultò
noioso, conclamante, rettorico, letteralmente insopportabile, né Miss Sedley,
timorosa com'era della dama in questione, si arrischiò ad esternare alla di lei
presenza i suoi segreti affanni. Poi in salotto furono recati una bottiglia di vino e
una ciambella, come avveniva in circostanze solenni quali le visite dei genitori
delle allieve; dopo di che, consumato il rinfresco, Miss Sedley fu libera di
andarsene.
«Andate a salutare Miss Pinkerton, Becky,» disse Miss Jemima a una
ragazza che nessuno aveva notato, e che in quel momento scendeva le scale
reggendo una cappelliera.
«Temo proprio di esser tenuta a farlo,» rispose Miss Sharp imperturbabile,
lasciando Miss Jemima stupefatta. Miss Sharp bussò alla porta, e dopo aver
ricevuto l'invito ad entrare varcò la soglia con fare disinvolto, dicendo in un
francese dall'accento impeccabile:
«Mademoiselle, je viens vous faire mes adieux.»
Miss Pinkerton non conosceva il francese: si limitava a dirigere chi lo
conosceva; onde si morse le labbra, e alzando il capo adorno di un bel naso
romano e coronato da un grande e solenne turbante, si accontentò di rispondere:
«Miss Sharp, vi do il buongiorno.» E nel profferire queste parole la Semiramide
di Hammersmith agitò la mano in un gesto che recava in sé il duplice scopo di
salutare Miss Sharp e offrirle il destro di stringerle un dito, sicché per qualche
istante la mano le rimase sollevata.
Miss Sharp, per parte sua, incrociò le mani con un freddo sorriso, si piegò in
un inchino e non raccolse l'onore che le veniva accordato. La Semiramide reagì
con un moto indignato del turbante: era l'ultima scaramuccia tra la giovane e la
vecchia, e quest'ultima aveva avuto la peggio. «Che Dio vi benedica, mia cara,»
disse abbracciando Amelia, e al tempo stesso dardeggiando la Sharp con sguardi
di corruccio al di sopra delle spalle della giovane. «Suvvia, venite, Becky,» disse
Miss Jemima estremamente preoccupata, trascinando via Miss Sharp, poi la porta
del salotto si chiuse per sempre alle loro spalle.
Poco dopo, al piano di sotto, si venne alla dolorosa separazione. Le parole
non sono in grado di descriverla. Nell'atrio si erano radunate la servitù al
completo, le amiche del cuore, tutte le compagne e le insegnanti, nonché il
maestro di danza sopraggiunto proprio in quel momento. Tali furono l'agitazione
collettiva, lo scambio di baci e di abbracci conditi dagli strilli isterici provenienti
dalla stanza di Miss Swartz, l'alunna di riguardo, che nessuna penna sarebbe in
grado di dipingerli, e ogni cuore gentile sarà ben lieto di non indugiarvi. Ad ogni
modo anche gli abbracci ebbero termine e si separarono, ossia Miss Sedley si
separò dalle sue amiche. Già da qualche minuto Miss Sharp era salita quietamente
in carrozza: nessuno pianse per doverla lasciare.
Sambo, il servo negro dalle gambe storte, chiuse la portiera della carrozza
dietro la padroncina in lacrime, poi balzò sul predellino posteriore. «Ferma!»
gridò Miss Jemima, correndo verso il cancello con un pacchetto in mano.
«Eccoti qualche panino, cara,» disse ad Amelia. «Durante il tragitto
potrebbe venirti appetito. Becky, Becky Sharp, qui c'è un libro che mia sorella...
cioè, io... sì, il dizionario di Johnson, insomma. Non puoi andartene senza! E
adesso addio! Avanti pure, cocchiere! Addio! Che Dio vi benedica!»
E la buona creatura rientrò in giardino sopraffatta dall'emozione.
Ma, oh sorpresa! Proprio mentre la carrozza si metteva in moto, Miss Sharp
sporse il pallido viso dal finestrino e scaraventò il dizionario in giardino.
Per poco Miss Jemima non svenne per lo sgomento. «Ma... ma... non mi è
mai capitato... Quale audacia!» esclamò. L'emozione le impedì di portare a
compimento le due frasi. La carrozza si allontanò; il grande cancello venne
richiuso. Suonò una campanella che annunciava l'inizio della lezione di ballo. Il
mondo si schiudeva davanti alle due fanciulle. Addio per sempre, Chiswich Mall.
II • NEL QUALE MISS SEDLEY E MISS SHARP SI PREPARANO A DAR
BATTAGLIA
Non appena Miss Sharp ebbe compiuto il gesto poc'anzi descritto e vide che
il dizionario, dopo esser volato sul lastricato del giardino, era caduto ai piedi
dell'esterrefatta Miss Jemima, il suo volto, che sino a quel momento aveva
espresso un livido rancore, si atteggiò ad un sorriso non molto più gradevole, poi
si abbandonò soddisfatta sui cuscini della carrozza e disse: «Il dizionario l'ho
bell'e sistemato. E grazie a Dio sono fuori da Chiswick.»
Quel gesto di ribellione scombussolò Miss Sedley non meno di Miss
Jemima. Basti infatti considerare che aveva lasciato il collegio da pochi minuti, un
lasso di tempo insufficiente per sgombrare il campo dalle sensazioni ch'era andata
accumulando nell'arco di sei anni. Si consideri come esistano persone alle quali
non basta una vita per sbarazzarsi dalla paura e dai timori reverenziali. Si faccia,
per esempio, il caso di un signore di mia conoscenza: un uomo di sessantotto anni
che una mattina, a colazione, mi disse con volto estremamente turbato: «Stanotte
ho sognato che il dottor Raine mi frustava.» Quella notte le sue reminiscenze lo
avevano riportato indietro di cinquantacinque anni, e nel segreto della sua psiche,
il dottor Raine e la sua bacchetta erano stati terribili come a tredici. E se il dottor
Raine gli fosse apparso in carne ed ossa armato della sua verga di betulla, e gli
avesse ingiunto: «Abbassati i calzoni, ragazzo»? .. Pertanto Miss Sedley era
rimasta semplicemente sconvolta da quel gesto d'insubordinazione.
«Come hai potuto fare una cosa simile, Rebecca?» disse alla fine, dopo una
pausa di silenzio.
«Perché? Credi forse che salterà fuori Miss Pinkerton per ordinarmi di
tornare indietro e stare in castigo nello stanzino buio?» disse Rebecca ridendo.
«No, ma...»
«Odio quella casa,» continuò Rebecca furibonda, «e spero solo di non
vederla mai più. Vorrei che finisse in fondo al Tamigi, ecco cosa vorrei. E se ci
fosse dentro Miss Pinkerton, sta' pur certa che non muoverei un dito per tirarla
fuori. Ah, cosa darei per vederla galleggiare a pelo d'acqua col suo turbante, la
coda del suo vestito e quel suo naso che sembra la prua di un barca!»
«Zitta!» supplicò Amelia.
«Perché? Temi forse che il lacchè negro vada a spifferare quel che sente?»
obiettò Rebecca ridendo. «Che torni indietro, se gli garba, e vada a raccontare alla
Pinkerton che la odio con tutta l'anima. Sì, vorrei proprio che lo facesse. Vorrei
dimostrarle quanto la detesto. Per due anni non ho avuto che insulti e offese. Sono
stata trattata peggio dell'ultima delle sguattere. Non ho mai avuto un'amica;
nessuno, tranne te, mi ha mai rivolto una parola buona. Sono stata costretta a
occuparmi delle piccole delle elementari e a parlare francese con le allieve del
corso superiore, al punto che la mia lingua materna mi è venuta a noia. Però,
salutare la Pinkerton in francese è stata un'idea proprio buffa, non ti pare? Non ne
sa una sola parola, ma si dà troppe arie per confessarlo. Credo sia stato proprio
questo a indurla a lasciarmi andare. Quindi, benedetto sia il francese! Vive la
France! Vive l'Empereur! Vive Bonaparte!»
«Oh, Rebecca, Rebecca! Non ti vergogni?» esclamò Amelia. Quella era
certamente la bestemmia più nefanda che la bocca di Becky avesse mai profferito.
In quel momento, gridare in Inghilterra «Viva Bonaparte!» era come gridare
«Viva il diavolo!» «Ma come puoi, come osi nutrire propositi tanto vendicativi?»
«La vendetta sarà forse malvagia, ma è naturale,» rispose Rebecca. «Non
sono un angelo, io». E in verità non lo era davvero.
Giacché infatti, come si è potuto dedurre da questa pur breve conversazione
(che si snodava mentre la carrozza arrancava lentamente in direzione del Tamigi),
se per due volte Rebecca Sharp aveva ringraziato il Cielo, lo aveva fatto
innanzitutto perché finalmente si era liberata da una persona che odiava, e in
secondo luogo perché aveva colto l'occasione propizia per confondere i suoi
nemici: motivi che senza dubbio alcuno non possono ascriversi a devota
gratitudine, e che non si affacciano alla mente delle persone dotate di
temperamento mite e sottomesso. Rebecca non era certamente mite, né
sottomessa. Tutti la trattavano male, diceva la giovane misantropa, e possiamo
esser certi che una persona trattata male da tutti merita in fondo il trattamento di
cui vien fatta oggetto. Il mondo è uno specchio che ad ogni uomo rimanda la sua
immagine. Se lo fissi con espressione accigliata, ti risponderà con un'occhiataccia.
Se ridi di lui e con lui, diventerà un amico allegro e compiacente. Pertanto i
giovani non hanno che da scegliere: se il mondo non si curava di Miss Sharp, lei a
sua volta non si era mai prodigata per nessuno. Di conseguenza non era lecito
aspettarsi che ventiquattro ragazze fossero gentili come Miss Sedley, l'eroina di
questo libro (e che alla quale abbiamo affidato questo ufficio proprio perché tale
era il suo carattere, altrimenti la scelta sarebbe potuta cadere su Miss Swartz, o
Miss Crump, o Miss Hopkins.) No, non si poteva attendersi che fossero tutte
d'indole gentile e mansueta come Miss Amelia Sedley, che tutte cogliessero ogni
possibile occasione per trionfare della cattiveria e del pessimo carattere di
Rebecca, e che infine tutte riuscissero - profondendosi in cortesie e in buone
parole - a debellare almeno una volta l'avversione di Rebecca per i suoi simili.
Il padre di Rebecca era un artista, e in tale sua qualità aveva dato lezioni di
disegno nell'educandato di Miss Pinkerton. Era un uomo intelligente, di gradevole
compagnia, piuttosto indolente nel lavoro, con una pronunciata inclinazione
soverchia a contrarre debiti e a frequentare le osterie. Quando era ubriaco
picchiava, la moglie e la figlia; poi, la mattina, in preda all'emicrania, imprecava
contro il mondo che disprezzava il suo genio, e per giunta insultava in termini
molto incisivi (e a volte non senza valide ragioni) quegli stupidi dei pittori suoi
colleghi. Dal momento che stentava alquanto a sbarcare il lunario, e a Soho, il
quartiere dove abitava, era in debito con tutto il vicinato per un miglio all'intorno,
aveva ritenuto di migliorare la propria situazione impalmando una giovane
ballerina francese. Per parte sua, Miss Sharp evitò sempre di alludere alla modesta
professione di sua madre: anzi, a partire da un certo momento, prese ad asserire
categoricamente che gli Entrechats erano una famiglia di nobile schiatta originaria
della Guascogna, e a menare gran vanto dei suoi antenati. E non è tutto: per
quanto la cosa possa sembrar curiosa, a mano a mano che la fanciulla avanzava
negli anni, questi antenati crescevano per rango e per splendore.
Nondimeno la madre di Rebecca era una persona abbastanza istruita, onde
sua figlia si esprimeva in un francese purissimo, dall'impeccabile accento
parigino. A quell'epoca si trattava di una virtù alquanto rara, e tale, in effetti, fu la
ragione del contratto con la rigorosa Miss Pinkerton. Dopo la morte della moglie,
il padre di Rebecca, consapevole di avere ben poche probabilità di guarire dopo
un terzo attacco di delirium tremens, scrisse una dignitosa e patetica lettera a Miss
Pinkerton raccomandando la figlia orfana alla di lei benevolenza, dopo di che
discese nella tomba al cospetto di due ufficiali giudiziari che litigavano fra loro.
Rebecca aveva diciassette anni quando si recò a Chiswick nella sua duplice
qualità di allieva e di insegnante. I suoi doveri, lo abbiamo visto, consistevano nel
parlar francese, e i suoi diritti nell'essere mantenuta, nel ricevere uno stipendio di
poche ghinee all'anno e nell'attingere briciole di sapere dai professori che
insegnavano nell'educandato.
Era piccola e minuta, piuttosto pallida, coi capelli castano-chiaro e due occhi
che, solitamente chini, quando si alzavano apparivano molto grandi, belli e dotati
di una straordinaria intensità. Erano così belli che il reverendo Crisp, che proprio
allora aveva concluso i suoi studi a Oxford ed era coadiutore del vicario di
Chiswick, il reverendo Flowerdew, si era invaghito di Miss Sharp solo per esser
stato ferito da uno sguardo di quegli occhi che lei gli aveva lanciato dal banco
dell'educandato nella chiesa di Chiswick, raggiungendolo sul pulpito. Il
giovanotto pervaso da codesti amorosi sensi prendeva talvolta il tè nel salotto
della Pinkerton, alla quale era stato presentato da sua madre, e aveva spinto il
proprio ardire sino a vergare una specie di dichiarazione su un biglietto, affidando
alla venditrice guercia l'incarico di recapitarlo alla destinataria, ma il biglietto in
questione era stato intercettato. Mrs. Crisp, tempestivamente informata del fatto,
giunse da Boxton e si portò via il suo caro ragazzo. La semplice idea che in quel
nido di colombelle si celasse quell'aquila rapace aveva letteralmente
scombussolato Miss Pinkerton, la quale non avrebbe esitato a scacciare Rebecca
se non fosse stata legata da un contratto; né mai si mostrò disposta a credere alle
proteste della fanciulla, che giurava di non aver mai scambiato una parola con Mr.
Crisp, eccetto nelle due circostanze in cui lo aveva incontrato all'ora del tè sotto i
suoi occhi.
Al confronto delle altre educande, tutte alte e slanciate, Rebecca sembrava
una bambina, e tuttavia aveva la melanconica precocità dei poveri. Le circostanze
l'avevano costretta ad affrontare tanti creditori e a chiudere loro la porta in faccia,
ad adulare tanti fornitori per ammansirli e convincerli ad accordarle ancora a
credito un po' di cibo. Trascorreva gran parte del suo tempo col padre, costretta a
porger l'orecchio ai discorsi dei suoi innumerevoli compagni di bisboccia, sovente
assai poco adatti alle orecchie di una fanciulla. Ma Rebecca, diceva lui, non era
mai stata una ragazza: a otto anni era già una donna. Perché dunque Miss
Pinkerton aveva permesso che un uccello tanto pericoloso penetrasse nella sua
gabbia?
Il fatto è che la vecchia signora credeva che Rebecca fosse la più innocua
creatura di questo mondo, tanto perfetta era l'arte con la quale ella mostrava di
saper recitare la parte dell'ingénue ogni qual volta il padre la portava con se a
Chiswick. Circa una anno prima dell'accordo in base al quale era stata ammessa
all'educandato, Rebecca, allora sedicenne aveva ricevuto in dono da Miss
Pinkerton una bambola (che, sia detto per inciso, apparteneva a Miss Swindle, cui
era stata sequestrata perché vi giocava durante le ore di scuola) e il dono era stato
accompagnato da un discorsetto edificante e solenne. Come ridevano, padre e
figlia, mentre bel bello rientravano a casa dopo il ricevimento (ossia il giorno
della premiazione, cui assisteva tutto il corpo insegnante) e come si sarebbe
infuriata la Pinkerton se avesse potuto vedere la caricatura che quella mima
impeccabile di Rebecca faceva della sua persona, servendosi della bambola in
questione! Con lei Becky intrecciava certi dialoghi estremamente spiritosi che
esilaravano Newman Street, Gerrard Street e tutto il quartiere degli artisti. I
giovani pittori che venivano a bersi un bicchiere di gin-and-water insieme col loro
pigro, dissoluto e gioviale maestro, avevano l'abitudine di chiedere
scherzosamente a Rebecca se Miss Pinkerton fosse in casa. E ormai la
conoscevano, poveretta: eccome se la conoscevano! Quasi come Mr. Lawrence o
il presidente West. Una volta Rebecca ebbe l'onore di trascorrere qualche giorno a
Chiswick Mall, e tornò a casa con Jemima, un'altra bambola alla quale fu
assegnato il nome di Miss Jemmy. E questo perché, sebbene la poveretta le avesse
offerto marmellata e ciambelle in quantità sufficiente per sfamare tre bambini, e
per di più quando se n'era andata le avesse regalato una moneta da sette scellini, in
Rebecca il senso del comico era decisamente superiore alla gratitudine, cosicché
Miss Jemmy fu sacrificata senza misericordia, seguendo la sorte della di lei
sorella.
Poi sopravvenne la catastrofe, e Rebecca venne condotta al Mall, che d'ora
innanzi sarebbe stata la sua casa. Il rigido formalismo che vi dominava le dava
l'impressione di soffocare: il susseguirsi - impietosamente ritmato - delle
preghiere, dei pasti, delle lezioni e delle passeggiate, come si fosse trattato di un
convento, le riusciva opprimente altre ogni dire; il che la induceva a ripensare alla
libertà del miserando studio di Soho con un sentimento di così struggente
nostalgia che tutti, lei compresa, furono indotti a ritenere che a consumarla fosse
il dolore causatole dalla morte del padre... Aveva una stanzetta negli abbaini, e di
notte le domestiche la udivano piangere e camminare. Ma piangere di rabbia: non
di dolore. Non era mai stata un'ipocrita, sino a quando la solitudine le insegnò
l'arte della simulazione. I suoi contatti con le donne erano sempre stati molto
scarsi. Suo padre, per quanto deplorevole, era un uomo geniale, e la sua
conversazione le riusciva mille volte più stimolante di quella offertale dalle
persone del suo sesso che le circostanze le facevano conoscere. L'altezzosa
vanagloria della vecchia direttrice, l'ottusa bonomia della sorella, le chiacchiere
insulse e i pettegolezzi delle ragazze più grandicelle, il tono gelido e compassato
delle istitutrici: tutto la indispettiva in egual misura. Rebecca non aveva il minimo
sentimento di tenerezza materna, altrimenti il chiacchiericcio delle più piccine, di
cui era suo compito occuparsi, sarebbe valso a interessarla e a distrarla. Invece,
pur essendo vissuta accanto a loro per due anni, nessuna mostrò di dolersi della
sua partenza. La buona e gentile Amelia Sedley fu l'unica persona alla quale poté,
sia pure in modesta misura, legarsi di un sentimento di amicizia; ma chi avrebbe
potuto non affezionarsi ad Amelia?
La gioia e i privilegi di cui fruivano le fanciulle che la circondavano
causavano a Rebecca indicibili spasimi di invidia. «Quella si dà tante arie perché
è la nipote di un conte,» diceva di una. «Come s'inchinano, come scodinzolano
tutti davanti a quella creola, per via delle sue centomila sterline! Lei è ricca, ma io
sono mille volte più intelligente e più affascinante di lei! Sono colta e educata
come la nipote di un conte, con tutto il suo albero genealogico... Ma qui sono
l'ultima di tutte. E pensare che, quando vivevo con mio padre, i giovanotti erano
pronti a rinunciare ai balli e alle feste, pur di trascorrere una serata in mia
compagnia!» Fu a questo punto che Becky decise di uscire ad ogni costo dalla
prigione nella quale era reclusa, e prese a fare progetti concreti per l'avvenire.
Sfruttò tutte le possibilità che il luogo le offriva in materia di studio e, dal
momento che aveva inclinazione per la musica non meno che per le lingue, non
tardò a portare a termine il corso d'istruzione che a quell'epoca veniva reputato un
necessario compendio all'educazione di una fanciulla. Si esercitava senza posa al
pianoforte, e un giorno che tutte le sue compagne erano uscite, e lei era rimasta
sola in casa, fu udita eseguire un brano con tale maestria, che Minerva coltivò
senza indugio il saggio proposito di risparmiare la spesa di un insegnante per le
più piccole e ordinò a Miss Sharp di impartir loro lezioni di musica. Ma la ragazza
per la prima volta, e non senza lo stupefatto disappunto della maestosa direttrice,
oppose un secco rifiuto. «Sono qui per parlare il francese alle bambine,» disse
Rebecca, asciutta, «non per insegnare musica e farvi risparmiare dei quattrini.
Pagatemi, e io la insegnerò.»
Minerva si vide costretta a cedere, ma da quel giorno inutile dirlo, prese a
detestarla. «In trentaquattro anni,» disse (ed era vero), «nessuno ha mai osato
ribellarsi alla mia autorità. Mi sono nutrita una serpe in seno.»
«Serpe... un corno,» rispose Miss Sharp alla vecchia dama prossima a
svenire per la sorpresa. Mi avete accolta perché vi tornavo utile. Tra noi non ha
senso parlare di gratitudine. Odio questo luogo e voglio andarmene. Non intendo
far niente più di quanto sia obbligala a fare.»
Inutilmente la vecchia dama le chiese se si rendeva conto di parlare a Miss
Pinkerton. Rebecca le rispose con una risata: un orrida, sarcastica, diabolica risata
che mancò poco non facesse venire un attacco isterico alla direttrice.» «Datemi un
po' di soldi,» continuò la ragazza, «e liberatevi di me; oppure, se preferite,
trovatemi un buon posto d'istitutrice presso una famiglia dell'aristocrazia:
potrebbe essere una soluzione, se siete d'accordo.» E in tutte le discussioni che
seguirono Rebecca continuò a insistere su questo punto: «Trovatemi un lavoro.
Noi due ci odiamo ed io sono pronta ad andarmene.»
La degna Miss Pinkerton, col suo naso romano e il suo turbante, sebbene
fosse alta come un granatiere e sino a quel momento fosse stata una specie di
monarca assoluto al quale nessuno osava opporsi, non aveva la tenacia della sua
giovane allieva, e invano lottava contro di lei nel tentativo di intimorirla. Una
volta che si era arrischiata a rimproverarla in pubblico, Rebecca aveva fatto
ricorso al sopradescritto espediente di risponderle in francese, cosa che aveva
letteralmente distrutto la poveretta. Se intendeva conservare la sua autorità
nell'educandato, era ormai necessario allontanare la ribelle, levarsi di torno quel
mostro, quella serpe, quel tizzone d'inferno; cosicché, serpe o tizzone che fosse,
avendo appreso proprio allora che la famiglia di Sir Pitt Crawley aveva bisogno di
un'istitutrice, Miss Pinkerton non esitò a raccomandare Miss Sharp. «Non posso
certo affermare che il contegno di Miss Sharp sia disdicevole, se non nei miei
confronti, e devo riconoscere che le sue doti e le sue qualità sono di altissimo
livello. Per lo meno per quanto riguarda il cervello, posso asserire che esso rende
onore ai metodi didattici seguiti nel mio istituto.»
Così la direttrice riuscì a stabilire un accordo tra la raccomandazione e la
propria coscienza: le cattiverie furono dimenticate e la giovane apprendista fu
finalmente libera di andarsene. Beninteso, la battaglia che abbiamo testé descritta
in poche righe durò in realtà parecchi mesi, e dal momento che Miss Sedley, che
aveva ormai diciassette anni e si accingeva a lasciare l'educandato, era amica di
Miss Sharp («Questo è l'unico neo che la sua direttrice le rimproveri,» diceva
Minerva), Rebecca fu invitata a trascorrere una settimana a casa sua, prima di
assumere le sue mansioni di istitutrice presso una famiglia.
Dunque, davanti alle due fanciulle si schiudeva il mondo: davanti ad Amelia
un mondo affatto nuovo, brillante e pervaso di rosee prospettive; davanti a
Rebecca un mondo non del tutto nuovo (occorre dire, a onor del vero, che in
merito all'affare Crisp la venditrice di dolciumi aveva lasciato intendere a
qualcuno, il quale lo aveva riferito a qualcun altro, come tra Miss Sharp e Mr.
Crisp ci fosse assai di più di quanto non si credesse, e come la lettera del
giovanotto fosse la risposta a un'altra lettera). Ma chi riuscirà mai ad accertare la
verità? Sta di fatto, comunque, che per Rebecca il mondo non si apriva, ma si
riapriva.
Quando la carrozza che recava le due fanciulle raggiunse la barriera di
Kensington, Amelia non aveva ancora dimenticato le compagne, ma aveva
quantomeno asciugato le lacrime; ed era arrossita di piacere quando un giovane
ufficiale della Guardia le era passato accanto, e dopo aver spiato all'interno del
cocchio aveva esclamato: «Bella ragazza, perdio!». Prima che la carrozza
arrivasse in Russell Square lei e Rebecca avevano già tenuto un lungo sproloquio
sulla Corte e discusso dell'opportunità o meno che le ragazze dovessero incipriarsi
e indossare la crinolina per essere presentate alle Loro Maestà, e se ad Amelia
sarebbe spettato o meno tanto onore. Sapeva per certo che sarebbe andata al ballo
del Lord Mayor. Quando finalmente arrivarono a casa, e Amelia dalle braccia di
Sambo si lasciò cadere a terra, era la fanciulla più bella e felice di tutta Londra.
Sambo e il cocchiere concordavano su questo punto, e parimenti suo padre e sua
madre, e così pure tutta la servitù della casa, mentre s'inchinava e sorrideva
nell'atrio dove si era radunata per dare il benvenuto alla sua padroncina.
Inutile dire che Amelia mostrò a Rebecca tutte le stanze della casa e tutto ciò
che contenevano i suoi cassetti, e così pure i suoi libri e il pianoforte e i vestiti e le
collane e le spille e i merletti e le cianfrusaglie. Insistette perché Rebecca
accettasse l'anello con la corniola bianca e quello con la turchese, nonché un
delizioso abito di mussola a fiori che ormai le andava stretto, ma che sarebbe
andato a pennello alla sua amica. Decise poi di chiedere alla madre se potesse
farle dono anche dello scialle di cachemire bianco. Poteva benissimo privarsene:
suo fratello non gliene aveva portati proprio allora due nuovi dall'India?
Quando Rebecca vide i due splendidi scialli che, Joseph Sedley aveva
portato alla sorella dall'India, dichiarò in tutta sincerità che «doveva essere
delizioso avere un fratello», suscitando all'istante un sentimento di pietà nel tenero
cuore di Amelia, dal momento che la povera Becky era sola al mondo, orfana,
senza parenti, senza amici.
«Non sei sola, Rebecca,» disse Amelia, «tu sai che ti sono sempre amica e
che ti sarò sempre affezionata come una sorella. Credimi!»
«Ah, se avessi dei genitori come li hai tu! Dei genitori gentili, ricchi,
affettuosi, pronti a darti tutto ciò che desideri... e il loro affetto, soprattutto, che è
la cosa più preziosa! Il mio babbo non poteva darmi nulla, ed io avevo soltanto
due vestiti. E poi, avere un fratello! Un fratello affezionato! Chissà quanto bene
gli vuoi!...»
Amelia rise.
«Come! Non gli vuoi bene, forse? Ma se dici di amare tutti quanti!»
«Sì che gli voglio bene, ma...»
«Ma?...»
«Be', non credo che a Joseph importi gran che io gli voglia bene o no.
Quando è tornato a casa dopo esser stato assente per dieci anni, in tutto e per tutto
mi ha dato due dita da stringere! È buono, è gentile, ma non mi rivolge quasi mai
la parola. Credo che voglia bene alla sua pipa molto più che a sua...» Amelia
s'interruppe. Perché avrebbe dovuto dir male di suo fratello? «Con me è sempre
stato molto gentile quando ero piccola. Avevo solo cinque anni quando è partito.»
«È ricchissimo, vero?» chiese Rebecca. «Ho sentito dire che tutti i nababbi
indiani sono pazzamente ricchi.»
«Sì, credo abbia una grossa rendita,» disse Amelia.
«E tua cognata è simpatica?»
«No, no, Joseph non è sposato, «rispose Amelia, tornando a ridere. Forse
glielo aveva già detto, ma a quanto pareva Rebecca se n'era scordata. Anzi, eccola
ripetere ch'era convinta di vedere una mezza dozzina di nipotini e nipotine di
Amelia. Sembrava proprio contrariata che Mr. Sedley non fosse sposato. Era certa
che Amelia le avesse detto che aveva moglie, e poi a lei i bambini piacevano
immensamente.
«Secondo me dovresti averne abbastanza, dopo tutti quelli che hai visto a
Chiswick,» disse Amelia, alquanto sorpresa da quell'impeto subitaneo di
tenerezza materna da parte della sua amica. In seguito, occorre dirlo, Miss Sharp
si sarebbe guardata del compromettersi con asserzioni del genere, delle quali era
sin troppo facile svelare la falsità. Ma non dobbiamo dimenticare che
quell'innocente fanciulla aveva solamente diciassette anni, e che ancora non era
esperta nell'arte dell'inganno. Nella mente dell'ingegnosa ragazza le domande
poc'anzi riportate comportavano la seguente implicazione: «Se Mr. Joseph Sedley
è ricco e scapolo, perché non dovrebbe riuscirmi di sposarlo? Certo, ho solo
quindici giorni di tempo, ma dopotutto tentar non nuoce.» Pertanto, nel segreto
del suo cuore decise di porre in atto quel lodevole tentativo: raddoppiò le sue
moine ad Amelia, baciò la collana di pietre bianche mentre se la metteva al collo,
giurando e spergiurando che non se ne sarebbe mai separata. Più tardi, quando
suonò la campanella che annunciava il pranzo, scese le scale cingendo la vita
dell'amica con un braccio, come sogliono fare le ragazze. Giunta davanti alla
porta del salotto, si sentì così turbata da non trovare il coraggio di entrare. «Senti
il mio cuore, cara: senti come batte!» disse all'amica.
«Ma no, ma no,» le rispose Amelia. «Suvvia, entra, non aver paura: papà
non ha certo l'intenzione di mangiarti.»
III • REBECCA AL COSPETTO DEL NEMICO
Quando le due ragazze entrarono, un uomo corpulento e rubicondo in
calzoni di daino e alti stivali all'ungherese, il collo avvolto in vistosi cravattoni
che gli salivano sin quasi al naso, il panciotto a strisce bianche e rosse, la giacca
verde mela adorna di bottoni d'acciaio grossi quasi come monete da una corona
(l'abbigliamento da mattina degli elegantoni dell'epoca) smise di leggere il
giornale accanto al fuoco, balzò dalla poltrona, si fece rosso come un pomodoro e
quasi occultò la faccia nei cravattoni che gli fasciavano il collo.
«Suvvia, sono soltanto tua sorella, Joseph,» disse Amelia ridendo e
stringendo le due dita che lui le porgeva. «Sono tornata a casa per sempre, sai? E
questa è la mia amica Miss Sharp: ne hai già sentito parlare...»
«No, mai, parola mia,» rispose la testa nascosta nei cravattoni. Cioè... sì...
Che freddo, che tempo infame... nevvero, signorina?» Ciò detto, prese ad attizzare
il fuoco, sebbene si fosse ormai alla metà di giugno.
«Che bell'uomo!» disse Rebecca ad Amelia, in un sussurro perfettamente
udibile.
«Davvero?» disse quest'ultima. «Glielo dirò.»
«No, no, te ne scongiuro, cara!» esclamò Miss Sharp ritraendosi come una
colomba spaurita. Aveva già fatto un rispettoso e verginale inchino al gentiluomo,
e i suoi occhi fissavano il tappeto con insistenza tanto modesta e schiva, che solo
un miracolo - si sarebbe detto - le avrebbe permesso di vederlo.
«Grazie per gli splendidi scialli, caro fratello,» disse Amelia al pingue
giovanotto, tuttora impegnato ad attizzare il fuoco. «Vero che sono meravigliosi,
Rebecca?»
«Ah, divini!» confermò Miss Sharp, e i suoi occhi si spostarono dal tappeto
al candelabro.
Joseph sbuffò, soffiò, arrossì nei limiti consentitigli dal suo colorito
giallognolo, e non smise di armeggiare intorno al fuoco.
«Io non posso permettermi regali così sontuosi,» continuò la sorella, «ma in
collegio ti ho ricamato un bel paio di bretelle.»
«Santo Dio, Amelia, dici davvero?» esclamò il fratello, seriamente
allarmato.
Diede un violento strattone al cordone del campanello, che gli rimase in
mano: un piccolo incidente che valse ad accrescere l'imbarazzo del brav'uomo.
«Per l'amor di Dio, guarda se il mio buggy è alla porta. Non posso attendere
oltre... Sì, debbo proprio andarmene. Accidenti a quel dannato domestico!»
In quel momento entrò il padre di famiglia, facendo tintinnare le monete che
aveva in tasca con un tipico gesto da bravo mercante inglese. «Che cosa c'è,
Emmy?» domandò.
«Joseph vuole che vada a vedere se è arrivato il suo buggy. Che cos'è un
buggy, papà?»
«È un palanchino trainato da un cavallo,» rispose il vecchio, che a modo suo
non mancava di spirito.
A questo punto Joseph scoppiò in una risata sonora; ma nel momento in cui
incontrò lo sguardo di Miss Sharp, il suo riso si spense come se fosse stato colpito
dal fulmine.
«Questa fanciulla è forse la tua amica? Sono lieto di conoscervi, Miss Sharp.
Ma avete forse litigato con Joseph, voi ed Emmy? Vedo infatti che vuole già
andarsene...»
«Ho promesso a Bonamy di pranzare con lui. È un mio collega...»
«Come! Non avevi detto a tua madre che avresti pranzato a casa?»
«Ma vestito così è impossibile!»
«Davvero? Guardatelo, dunque! Non vi sembra che sia abbastanza bello per
pranzare in qualsiasi posto, Miss Sharp?»
Miss Sharp guardò Amelia, e le due amiche scoppiarono in una risata che
giunse oltremodo accetta alle orecchie del vecchio signore.
«Vi è mai capitato di vedere un paio di calzoni di daino come questi, da
Miss Pinkerton?» continuò il vecchio, impietoso.
«Papà, vi prego!» esclamò Joseph.
«Santo Dio, ora l'ho offeso. Mia cara Mrs. Sedley, ho offeso vostro figlio.
Mi sono permesso di fare commenti sui suoi calzoni di daino. Non è vero, Miss
Sharp? Suvvia, Joseph, fa' amicizia con Miss Sharp e andiamo tutti a pranzo.»
«C'è il pillau Joseph. Proprio come piace a te. E poi papà ha mandato a casa
il miglior rombo che abbia potuto trovare in tutta Billingsgate.»
«Venite, signore, prego! Accompagnate a pianterreno Miss Sharp; io vi
seguirò con queste due fanciulle,» disse il padre prendendo moglie e figlia
sottobraccio, e si avviò allegramente verso la sala da pranzo.
Se in cuor suo Miss Rebecca Sharp aveva deciso di conquistare quel pingue
bellimbusto, io non credo, gentili signore, che sia nei nostri diritti deplorarlo. È
pur vero che per solito il compito di rimediare un marito spetta alle madri, in
omaggio al modesto riserbo che si addice alle giovinette; ma non dimentichiamoci
che Miss Sharp era priva di una affettuosa e trepida genitrice pronta ad adoperarsi
per svolgere una siffatta, delicata incombenza, e che, se non si fosse trovata un
marito da sola, non c'era persona al mondo disposta a risolvere per lei questo
problema. Quale forza induce le ragazze a «uscire dal guscio», se non la nobile
ambizione di giungere al matrimonio? Perché frequentano in massa le stazioni
termali? Perché ballano sino all'alba nel corso di un'interminabile e stressante
stagione mondana? Perché si rassegnano a imparare alla meno peggio quattro
sonate al pianoforte, quattro canzoni alla moda, pagando un insegnante una
ghinea la lezione? Perché, se sono dotate di belle braccia e bei gomiti, s'ingegnano
di suonare l'arpa? Perché mai indossano cappelli svettanti di piume color verde
Lincoln, se non allo scopo di servirsi di quelle frecce, di quelle armi fatali per
colpire qualche «desiderabile» giovanotto? Che cosa spinge genitori affatto
rispettabili ad arrotolare i tappeti, a mettere la casa sottosopra, a spendere un
quinto del loro reddito in balli, cene e champagne ghiacciato? Forse per amore
incondizionato dei propri simili e per il sincero desiderio di vedere i giovani
spassarsela allegramente? Nemmeno per idea! Vogliono accasare le loro figlie, e
come la brava Mrs. Sedley aveva già predisposto nel profondo del suo cuore
benevolo innumerevoli piccoli espedienti volti a trovar marito alla sua Amelia,
così anche la nostra carissima quanto indifesa Rebecca aveva deciso di fare il
possibile per assicurarsi un consorte, a lei necessario ancor più di quanto lo fosse
per la sua amica. Rebecca aveva una fervida fantasia: aveva letto Le Mille e una
notte e la Geography di Guthrie; e per dire la verità, mentre si preparava per il
pranzo, dopo aver chiesto ad Amelia se suo fratello fosse ricco, aveva
mentalmente costruito uno splendido castello in aria nel quale ella fungeva da
incontrastata castellana, con un marito che sfumava in lontananza (non lo aveva
ancora individuato, cosicché la sua immagine appariva tuttora indefinita), si era
prontamente abbigliata con scialli, turbanti e collane di diamanti, ed era montata
in groppa a un elefante al suono della marcia di Bluebeard per recarsi in visita
ufficiale al Gran Mogol. Ah, magiche visioni di Alnaschar! Voi siete un privilegio
della giovinezza! Quante fanciulle, prima di Rebecca, si sono già smarrite dietro
questi sogni deliziosamente impossibili!
Joseph Sedley aveva dodici anni più di Amelia. Era un funzionario della
Compagnia delle Indie, e nel momento in cui scriviamo egli figurava
nell'Annuario della Compagnia delle Indie, sezione Bengala, in qualità di
ricevitore di Boggley Wollah, carica notoriamente dignitosa e redditizia. Chi fra i
lettori desiderasse sapere a quali gradi più prestigiosi sia giunto Joseph in
prosieguo di tempo, non ha che da consultare i numeri successivi del
summenzionato Annuario.
Boggley Wollah si trova in una regione acquitrinosa della giungla, non priva
di bellezza nella sua solitudine, famosa per la caccia alle beccacce e dove talvolta
si può persino stanare la tigre. Ramguge, sede di tribunale, è situata a sole
quaranta miglia. A una trentina di miglia c'è anche una guarnigione di cavalleria.
Ciò, per lo meno, è quanto scrisse Joseph a suo padre e a sua madre allorché prese
possesso della ricevitoria. E in quel luogo incantevole aveva vissuto per otto anni
assolutamente solo, senza posare gli occhi su anima viva tranne due volte l'anno,
quando arrivava il distaccamento che doveva portare a Calcutta il denaro delle
imposte da lui riscosso.
Fortunatamente in quel periodo aveva contratto una malattia di fegato che lo
aveva costretto a ritornare in Europa per sottoporsi alle cure del caso e che, una
volta in patria, gli era stata pretesto per concedersi ogni sorta di comodità e di
svaghi. A Londra non abitava coi familiari, ma in un comodo appartamentino
personale, come si conviene a uno scapolo allegro e spensierato. Quando era
partito per l'India, era ancora troppo giovane e non aveva potuto concedersi la
dose di ineffabili piaceri che spetta a un giovane di mondo, ma al suo rientro vi si
era tuffato col massimo trasporto. Guidava la carrozza ad Hyde Park, pranzava
nelle taverne alla moda (giacché l'Oriental Club non era stato ancora fondato);
frequentava i teatri secondo l'usanza mondana del tempo, e faceva la sua
comparsa all'Opera con un cappello a tricorno e un paio di calzoni attillatissimi
che gli erano causa d'indicibili sofferenze.
Tornato in India, aveva preso a parlare in termini entusiastici di quel periodo
della sua vita e dei piaceri che gli aveva elargito: si compiaceva di lasciar credere
che lui e lord Brummel fossero i due giovanotti più eleganti del momento. Invece
a Londra la sua situazione non era diversa che a Boggley Wollah. Non conosceva
nessuno, nella capitale, e se non avesse avuto la compagnia del medico, delle
pillole e del mal di fegato, sarebbe morto di malinconia. Era pigro, bizzoso e bon
vivant. La presenza di una signora lo terrorizzava, cosicché raramente metteva
piede nella casa paterna di Russell Square, dove regnava l'allegria e dove gli
scherzi di quel vecchio buontempone di suo padre lo ferivano nel suo amour
propre. La corporatura massiccia era motivo, per Joseph, di ansietà e di paura. Di
tanto in tanto metteva in atto qualche tentativo per attenuare la sua pinguedine, ma
ben presto l'ingordigia e l'indolenza prevalevano sui suoi sforzi di snellire la
propria figura, e Joseph non tardava a tornare ai tre pasti giornalieri. Non vestiva
mai con autentica eleganza, ma si preoccupava di agghindare la sua tozza figura e
trascorreva ore e ore in una siffatta occupazione. Il suo lacchè si arricchiva
sfruttando il suo guardaroba smesso. Sul suo tavolo da toeletta c'erano più essenze
e belletti che su quello di una bella donna in declino. Per riuscire a farsi una vita
snella aveva fatto ricorso ad ogni tipo di ventriera, di busto, di corsetto che
esistesse in commercio. Al pari della maggior parte degli uomini corpulenti, si
faceva confezionare abiti molto attillati, ed anzi li voleva di taglio brillante e
giovanile. Quando alla fine era vestito di tutto punto, usciva per una solitaria
scarrozzata pomeridiana in Hyde Park, poi tornava a casa per cambiarsi d'abito e
recarsi a pranzo (sempre da solo, inutile dirlo) al Piazza Coffee-House. Era
vanitoso come una ragazza, e forse la sua estrema timidezza era solo frutto di
un'estrema vanità. Se Miss Rebecca segnava un punto a suo favore proprio con
lui, e in concomitanza con il suo ingresso in società, dava prova di essere una
giovane di intelligenza non comune.
La prima mossa rivelava una notevole astuzia. Quando aveva dichiarato ad
Amelia che Sedley era un bell'uomo, era certa che lei l'avrebbe riferita a sua
madre, e che a sua volta quest'ultima l'avrebbe ripetuta a Joseph, e che in ogni
caso lei ne sarebbe stata lusingata. Tutte le mamme si compiacciono dei
complimenti rivolti al figlio. Se qualcuno avesse detto a Sicorace che suo figlio
Calibano era bello come un Apollo, per quanto strega ne sarebbe stata lusingata.
Poi, forse, lo stesso Joseph aveva captato l'eco di quel complimento (Rebecca
aveva parlato in tono intelligibile): anzi, non c'era dubbio che lo avesse udito, e
nella sua certezza di essere oltremodo avvenente si era sentito correre un brivido
di piacere per tutto il corpo. Subito peraltro si ricredette: «Che si stia burlando di
me, questa ragazza?» si disse; e senza un attimo di esitazione balzò verso il
cordone del campanello. Stava per andarsene (già lo abbiamo visto) quando le
facezie del padre e le esortazioni della madre lo indussero a trattenersi. Pertanto
condusse a cena la fanciulla in preda a uno stato d'animo misto di esitazione e di
turbamento. «È davvero convinta che io sia un bell'uomo,» pensava, «o mi sta
prendendo in giro?» Dicevamo poc'anzi che Joseph era vanitoso come una
ragazza, ma per parte loro le ragazze non hanno che da capovolgere la frase e dire
di una qualsiasi del loro sesso: «È vanitosa come un uomo.» Né, in tal caso, si
potrà dire che abbiano torto. Gli esseri umani provvisti di barba sono avidi di
complimenti, ambiziosi in fatto di vestiario, orgogliosi delle proprie doti fisiche e
consapevoli del proprio fascino né più né meno come qualsiasi civetta di sesso
femminile.
Scesero dunque a pianterreno: Joseph Sedley rosso in volto, e Rebecca in
atteggiamento modesto, gli occhi verdi rivolti verso terra. Indossava un abito
bianco, e aveva le spalle nude, di un candore di neve. Era l'incarnazione
dell'innocenza verginale, di un'umile, indifesa giovinezza. «Devo starmene quieta
e buona,» pensava Rebecca, «e manifestare vivo interesse per l'India.»
Abbiamo già appreso come Mrs. Sedley avesse fatto cucinare un Curry coi
fiocchi, in ossequio ai gusti del figlio, e durante il pasto questo piatto venne
offerto anche a Rebecca.
«Che cos'è?» chiese la ragazza, rivolgendo uno sguardo interrogativo al
giovanotto.
«Ah, una cosa semplicemente divina,» rispose Joseph, la bocca piena e il
volto acceso dalla gioia di masticarlo. «Credi, mamma: è buono come i curries
che mangio in India!»
«Se si tratta di una specialità indiana, voglio assaggiarla,» esclamò Rebecca.
«Sarà buono come tutto ciò che viene dall'India.»
«Da' un po' di curry a Miss Sharp,» disse ridendo Mr. Sedley. Rebecca non
lo aveva mai assaggiato in vita sua.
«Davvero trovate che sia buono come tutto ciò che viene dall'India?» chiese
Mr. Sedley.
«Oh, sì, è squisito,» rispose Rebecca, nonostante soffrisse per il pizzicore
del pepe di Caienna.
«Perché non ci mettete anche un poco di chili?» propose Joseph con molta
convinzione.
«Un po' di chili? E perché no?» disse Rebecca ansante. Quel nome evocava
in lei l'immagine di un possibile refrigerio. «Sono così freschi, così verdi...»
esclamò, facendosene servire qualcuno; poi se ne mise uno in bocca. Bruciavano
più del curry, e Rebecca non riuscì a sopportarli. «Un po' d'acqua, per l'amor di
Dio!» supplicò, posando la forchetta. Mr. Sedley scoppiò a ridere in modo
alquanto sguaiato, assuefatto com'era alle facezie un po' volgari dei funzionari di
Borsa. «Eppure vengono dall'India, ve lo assicuro!» disse. «Sambo, versa un po'
d'acqua a Miss Sharp.»
Alla risata del padre fece eco quella di Joseph, cui lo scherzo era sembrato
divertentissimo. Le signore si mantennero entro i limiti del sorriso. A loro
giudizio, Rebecca aveva già sofferto sin troppo. Costei aveva già patito le pene
dell'inferno, e sarebbe stata lietissima di strozzare il vecchio Sedley; ma preferì
inghiottire la propria umiliazione come aveva inghiottito il curry, e non appena le
riuscì ancora di parlare disse in tono comicamente cordiale:
«Avrei dovuto ricordare che la principessa delle Mille e una notte mette il
pepe nelle focaccette alla panna. Anche voi, signore, mettete il pepe nelle
focaccette alla panna, quando siete in India?»
Il vecchio Sedley ricominciò a ridere. Pensava che Rebecca era proprio una
ragazza di carattere gioviale. «Focaccette alla panna, dite?» rispose Joseph. «La
panna è pessima, nel Bengala. Di solito beviamo latte di capra. Anzi, che lo
crediate o no, ormai lo preferisco!»
«Ora credo che abbiate cambiato parere, Miss Sharp; oppure continuate a
preferire tutto ciò che viene dall'India?» chiese il vecchio con aria furbesca ma
quando al termine del pranzo le signore si furono ritirate, si rivolse al figlio e gli
disse:
«Attento Jos: quella ragazza cerca d'incastrarti.»
«Sciocchezze!» rispose Jos, che si sentiva estremamente lusingato.
«Ricordo una ragazza, signore, figlia di un certo Cutler dell'Artiglieria. È
stato nel '4, a Dumdum. Quella sì, aveva cercato di mettermi in trappola! Poi ha
sposato Lance, il chirurgo. Aveva cercato di accalappiare anche Mulligatawney; è
magistrato a Budge-budge e tra qualche anno entrerà senza dubbio a far parte del
Consiglio. Stavo dicendovi, signore, che l'Artiglieria ha dato una festa da ballo, e
che Quintin, uno del XIV Artiglieria, mi ha detto: "Ehi; Sedley, scommetto tredici
contro dieci che Sophie Cutler incastra te o Mulligatawney prima che inizi la
stagione delle piogge." "Accetto," ho detto io. Ottimo, questo chiaretto: è di
Adamson o di Carbonell?»
Gli rispose un sommesso russare: il bravo agente di cambio si era
addormentato, e per quel giorno il resto della storia andò disperso. Ma dal
momento che Joseph era sempre molto loquace quando si trovava in compagnia di
uomini, il dottor Gallop, il farmacista, che di tanto in tanto andava a fargli visita
per informarsi sulle condizioni del suo fegato e per aver notizia delle pillole, si era
già sentito raccontare quell'episodio una ventina di volte.
Visto che era in cura, Joseph ritenne opportuno accontentarsi di una bottiglia
di chiaretto in aggiunta al madera che aveva bevuto a cena, poi trovò il modo di
trangugiare due piatti di fragole alla panna, un paio di dozzine di pasticcini
ch'erano stati dimenticati in un piatto nelle sue immediate vicinanze, e nel
frattempo (i romanzieri sanno sempre tutto) lasciò che il suo pensiero
vagheggiasse la ragazza che stava al piano superiore.
«Una creatura così semplice, così vivace, così spontanea!» pensava. «E
come mi ha guardato quando le ho raccolto il fazzoletto, dopo pranzo! Lo ha
lasciato cadere due volte! Chi canta, in salotto? Perdio! E se andassi a dare
un'occhiata?»
Ma la timidezza lo assalse, dominandolo con forza incontrollabile. Il padre
dormiva. Il suo cappello era in anticamera. C'era un posteggio di carrozze a pochi
passi di lì, in Southampton Row. «Vado a vedere i Forty Thieves con la De
Camp,» si disse. E nonostante indossasse gli stivali, riuscì a sgusciar via in
silenzio, senza destare l'esimio genitore.
«Joseph se n'è andato,» disse Amelia, che osservava dalla finestra mentre
Rebecca cantava, seduta al pianoforte.
«Miss Sharp lo ha spaventato e lui ha preferito andarsene,» commentò Mr.
Sedley. «Povero Jos, mi chiedo perché sia tanto timido.»
IV • LA BORSA DI SETA VERDE
Il panico del povero Jos si protrasse per due o tre giorni, durante i quali lui
non si mostrò nella casa paterna, né Rebecca si arrischiò a nominarlo. La ragazza
si atteneva a un atteggiamento di rispettosa gratitudine nei confronti di Mrs.
Sedley: era felice nei negozi, stupefatta e al settimo cielo nei teatri ove la buona
signora la conduceva. Un giorno Amelia aveva l'emicrania e non si sentiva di
partecipare a un ricevimento cui le due fanciulle erano state parimenti invitate.
Ebbene: nulla poté indurre Rebecca a recarsi senza l'amica. «Come! Io, lasciarti?
Lasciare te che hai insegnato a una povera orfana cosa siano felicità e l'affetto?
Non sarà mai!» E gli occhi verdi, levati verso il cielo, brillarono di lacrime. Mrs.
Sedley fu costretta a riconoscere che anche l'amica di sua figlia aveva un cuore
buono e generoso.
Quanto agli scherzi di Mr. Sedley, Rebecca ne rideva con tanto cordiale
disponibilità, che il brav'uomo se ne sentì compiaciuto e intenerito. Ma Miss
Sharp non si limitò ad attirarsi la simpatia della famiglia: si assicurò la
considerazione di Mrs. Blenkinsop palesando il più vivo interesse per la
preparazione della marmellata di more: operazione che in quel momento era in
corso nella camera della governante. Ostentava di chiamare Sambo «signore» o
«Mr. Sambo», cosa che lusingava altamente il domestico, e ogni qual volta
spingeva il proprio ardire fino a suonare il campanello si scusava con la cameriera
per il disturbo che le causava in termini di tale umiltà e dolcezza, che la servitù
subiva il suo fascino non meno di chi abitava il salotto.
Un giorno, mentre osservavano certi disegni che Amelia aveva inviato a
casa quando ancora si trovava all'educandato, Rebecca, che ne aveva preso in
mano uno, scoppiò in lacrime e uscì dalla stanza. Fu questo il giorno in cui Joseph
Sedley fece la sua seconda apparizione. Amelia si affrettò a seguire l'amica per
scoprire quale fosse il motivo di quella profonda e subitanea commozione, e poco
dopo la brava fanciulla ritornò sui suoi passi, sola e parimenti emozionata.
«Sapete, mamma, suo padre era il nostro insegnante di disegno, a Chiswick.
Le parti migliori dei nostri disegni sono di suo pugno.»
«Eppure sono sicura di aver sentito dire da Miss Pinkerton che lui si
limitava a correggerli.»
«Lo chiamavamo "correggere", mamma. A Rebecca è tornato in mente il
momento in cui eseguiva quel disegno, e ha rivisto mentalmente suo padre mentre
vi lavorava... E allora, capirai...»
«Quella cara figliola ha un cuore d'oro,» disse Mrs. Sedley.
«Vorrei tanto che si trattenesse un'altra settimana con noi,» disse Amelia.
«Assomiglia moltissimo a Miss Cutler, quella ragazza che conoscevo a
Dumdum. Solo che è più bella. Adesso ha sposato Lance, il chirurgo
dell'Artiglieria. Una volta Quentin, nel XIV Artiglieria, ha scommesso...»
«Basta, Joseph, la sappiamo a memoria questa storia,» esclamò Amelia
ridendo. Piuttosto, cerca di convincere la mamma a scrivere a quel... come si
chiama?... A quel Sir Crawley perché conceda qualche altro giorno alla povera
Rebecca. Eccola: ha gli occhi arrossati, a furia di piangere!»
«Ora mi sento meglio,» disse la ragazza col più suadente dei suoi sorrisi.
Prese la mano che Mrs. Sedley le porgeva e la baciò.
«Siete tutti così gentili con me!» aggiunse poi. «Tutti tranne voi Mr.
Joseph,» precisò con una risatina.
«Io!» esclamò Joseph, subito tentato di svignarsela. «Santo Cielo! Che dite,
Miss Sharp!»
«Proprio così! Come avete potuto esser così crudele da farmi mangiare
quella pietanza così pepata il giorno stesso che ci siamo conosciuti? Non siete
buono come la mia cara Amelia!»
«Non ti conosce bene quanto me,» intervenne Amelia.
«Sfido chiunque a non essere buono con voi, mia cara!» disse Mrs. Sedley.
«Quel curry era fantastico,» disse Joseph con la massima compunzione.
«Forse non c'era abbastanza limone... Ecco, sì, il limone non bastava.»
«E i chili?»
«Come vi hanno fatto piangere, per Giove!» esclamò Joseph rievocando la
comicità della scena e prorompendo in una risata che, al solito, si spense
all'improvviso.
«Un'altra volta eviterò con cura di lasciarvi scegliere per me,» disse Rebecca
mentre di nuovo scendevano le scale per andare a pranzo. «Non pensavo che gli
uomini prendessero gusto a far del male alle povere ragazze indifese.»
«Perdio, Miss Rebecca, non vi farei del male per nessuna ragione al
mondo!»
«Ma certo,» disse lei, «lo so che non me ne fareste.» E gli strinse
leggermente il braccio con la piccola mano, per poi ritrarla sgomenta,
guardandolo fuggevolmente e tosto chinando lo sguardo al tappeto: non posso
negare che il cuore di Jos sussultò sotto l'effetto di quella brevissima, garbata e
involontaria attenzione di evanescente interesse da parte della candida fanciulla.
Si trattava nondimeno di un gesto alquanto audace, e non c'è dubbio che,
come tale, certe signore di insindacabile correttezza e nobiltà lo giudicheranno
affatto deplorevole. Ma non dimentichiamo che la povera Rebecca doveva fare
tutto da sé. Se una persona è così povera da non potersi pagare una domestica,
anche se si tratta di una persona d'alto bordo sarà costretta a rassettarsi la casa da
sé, e se una brava ragazza non dispone di una mammina affettuosa che provveda
direttamente a prendere i dovuti accordi col giovanotto, è indispensabile che si
aggiusti da sola. Ed è una fortuna che donne del genere non esercitino più sovente
i loro poteri. Impossibile resistergli, quando lo fanno. Basta che palesino una pur
minima inclinazione, ed ecco gli uomini buttarglisi ai piedi, belle o brutte che
siano. Questa, a mio avviso, è un'incontestabile verità. Una donna alla quale
venga offerta l'occasione propizia, e che non sia proprio deforme, trova il modo di
sposare CHIUNQUE LE AGGRADI. Grazie al Cielo quelle creature sono simili
ad animali selvatici: non si rendono conto del potere di cui dispongono.
Diversamente, non esiterebbero a sopraffarci. «Perdio,» pensò Joseph entrando in
sala da pranzo, «comincio a provare né più né meno quel che provavo a Dumdum
con Miss Cutler.» Poi, nel corso del pasto, Miss Sharp continuò a rivolgergli la
parola in un tono tra l'affettuoso e il faceto. Giacché ormai era in rapporti
confidenziali con tutti i membri della famiglia. Le due ragazze si volevano bene
come due sorelle, come suole accadere di tutte le fanciulle che si trovino a vivere
per dieci giorni sotto lo stesso tetto.
E Amelia, quasi pensasse soltanto ad assecondare i progetti di Rebecca,
ricordò al fratello una promessa ch'egli le aveva fatto durante le vacanze di
Pasqua ( «quando ero ancora a scuola», disse ridendo): la promessa che lui,
Joseph, l'avrebbe portata a Vauxhall. «Quale migliore occasione, ora che Rebecca
è con noi?» concluse Amelia.
«Ah, che bellezza!» esclamò Rebecca; e stava per battere le mani per la
contentezza, ma si trattenne in ossequio a un contegno modesto.
«Stasera no,» disse Joseph.
«Domani, allora.»
«Domani tuo padre ed io siamo fuori a cena,» disse Mrs. Sedley.
«Non penserai che io ci vada, Mrs. Sed!» obiettò il marito. «O che ci vada
una donna della tua età. Si beccherebbe i reumatismi, in quell'orrendo,
umidissimo luogo!»
«Ma le ragazze hanno bisogno di un accompagnatore!» disse Mrs. Sedley.
«Ci vada Jos. Direi che è grande e grosso quanto basta.» E a queste parole
persino Sambo, che se ne stava in piedi accanto alla credenza, non poté trattenere
uno scoppio di risa. Il povero Jos fu tentato di macchiarsi del reato di parricidio.
«Slacciategli il busto!» ingiunse Mr. Sedley, spietato. «Spruzzategli la faccia
con un po' d'acqua, Miss Sharp! Portatelo di sopra. Sta per svenire, povero tesoro!
Suvvia, portatelo di sopra: è leggero come una piuma!»
«Se credete che io sia disposto a subire una cosa simile signore, io... io...»
sbottò Joseph.
«Fa' venire l'elefante di Mr. Jos, Sambo,» esclamò il padre. «E manda
qualcuno all'Exeter Change. «Poi, accorgendosi che Jos era prossimo a piangere
per l'umiliazione, il vecchio mattacchione smise di ridere e tese una mano al
figlio. «In Borsa ogni scherzo è lecito, Jos... Ehi, Sambo, lascia perdere l'elefante
e porta piuttosto dello champagne per me e per Mr. Jos. Nemmeno quel dannato
Boney ne ha uno come il mio, nella sua cantina!»
Una coppa di champagne valse a ripristinare il buonumore di Jos, che prima
di essersi scolato la bottiglia (della quale, sempre per il fatto di essere in cura,
bevve solo due terzi) acconsentì ad accompagnare le ragazze a Vauxhall.
«Ma ciascuna delle ragazze deve avere un cavaliere,» disse il vecchio
Sedley. «Sono certo che Jos si dimenticherà di Emmy in mezzo alla folla, tanto le
sue attenzioni saranno rivolte a Miss Sharp. Mandate qualcuno al numero 96 e
chiedete se George Osborne sia disposto a venire con voi.»
Nell'udire queste parole, Mrs. Sedley (e non saprei dirne il motivo), Mrs.
Sedley guardò il marito e sorrise. Gli occhi di Mr. Sedley ammiccarono maliziosi,
poi si posarono su Amelia. Questa chinò il capo e arrossì come solo può arrossire
una fanciulla di diciassette anni, e come Miss Rebecca Sharp non arrossì in tutto
l'arco della sua vita, o quanto meno dal giorno in cui, all'età di otto anni, la sua
madrina l'aveva colta in flagrante nell'atto di rubare la marmellata nella credenza.
«Sarebbe più cortese che Amelia scrivesse un biglietto,» disse il padre. «Così
George avrebbe modo di apprezzare la bella scrittura che abbiamo imparato alla
scuola di Miss Pinkerton. Ti ricordi, Emmy, quando gli hai mandato quel biglietto
d'invito perché venisse con noi a vedere La dodicesima notte, e hai scritto "notte"
con una t sola?»
«Sono passati tanti anni!» disse Amelia.
«Sembra ieri, nevvero John?» disse Mrs. Sedley al marito quella notte stessa
durante una conversazione che aveva luogo in una camera al secondo piano,
dentro un'alcova chiusa da un tendaggio di chinz dai vivaci e fantasiosi disegni
indiani con la fodera di calicò rosa pallido. In quella specie di grande tenda da
campo c'era un letto enorme con due guanciali sui quali posavano due volti accesi
e rubicondi: l'uno in cuffietta di pizzo, l'altro con una berretta di cotone
completata da un fiocco. Durante quella specie di redde rationem coniugale, Mrs.
Sedley riproverò al consorte il suo comportamento crudele verso il povero Jos.
«Sei stato cattivo, John, a tormentare così quel povero ragazzo,» disse Mrs.
Sedley.
«Mia cara,» rispose il berretto a pompon, deciso a difendere il suo
comportamento, «Joseph è ancora più vanitoso di quanto tu lo sia mai stata in vita
tua, ed è tutto dire. È pur vero che trent'anni fa, verso il 1780, forse tu avevi buon
motivo per esserlo... non oso negarlo. Ciò che in Jos mi riesce insopportabile è
quella sua timidezza piena di pompa altezzosa. È più Giuseppe di Giuseppe. È
invasato di se stesso ed è convinto di essere un'autentica meraviglia. Io invece,
cara consorte, sono convinto che ben presto avremo delle noie per causa sua.
Tanto per cominciare, è evidentissimo che l'amichetta di Emmy gli sta facendo
una corte spietata, e se non riesce ad assicurarselo lei ci penserà qualcun'altra.
Quel bel tipo è destinato a finire nelle grinfie di una donna, né più né meno come
a me tocca in sorte di andare in Borsa tutti i giorni. Ringraziamo il cielo che non
ci abbia portato a casa una nuora negra, cara mia. Ma tieni a mente quel che ti
dico: la prima donna che gli getta l'amo se lo pesca di sicuro.»
«Domani mi sbarazzo di quella piccola intrigante,» dichiarò recisa Mrs.
Sedley.
«E perché non permettere che se lo sposi lei invece di un'altra, Mrs. Sedley.
Ha una carnagione bianchissima, comunque. Per me Joseph faccia pure come gli
garba: non m'importa di chi se lo sposerà.»
Ancora qualche istante, e alle voci dei due subentrò una sommessa ma poco
romantica musica nasale. Così, fatta eccezione per le campane che scandivano le
ore e la voce della guardia notturna che le ripeteva, tutto fu silenzio in Russell
Square, nella casa di John Sedley, Esq., di professione agente di cambio allo
Stock Exchange.
La mattina dopo la nostra Mrs. Sedley non pensava più di tradurre in atto i
suoi propositi minacciosi nei confronti di Miss Sharp. Sebbene non esista
sentimento più scoperto, più diffuso e più comprensibile della gelosia materna,
ella non osava credere che quella piccola, umile, melliflua istitutrice si
permettesse di metter gli occhi su un fuori classe come il ricevitore di Boggley
Wollah. Senza contare che ormai era già stata spedita la richiesta di
prolungamento delle vacanze della ragazza, onde sarebbe stato arduo trovare un
pretesto plausibile per sbarazzarsene.
Come se ogni circostanza volesse collaborare alle fortune di Miss Sharp,
persino gli elementi naturali (ed ella, dapprima, non fu disposta a credervi) fecero
di tutto per darle una mano. Infatti la sera in cui era stata programmata la gita a
Vauxhall (George era stato invitato a cena, e i genitori si erano recati in visita dal
consigliere Balls a Highburry Barn, in forza di un invito precedente) si mise a
piovere come piove soltanto quando qualcuno decide di andare a Vauxhall,
cosicché i giovani si videro costretti a restare a casa. Ma Mr. Osborne non parve
esserne contrariato. In tête-à-tête con Joseph, indugiò in sala da pranzo e scolò
una buona dose di vino di Porto, mentre Joseph sciorinava gran numero delle sue
migliori storielle indiane, dal momento che in compagnia di soli uomini diventava
molto più loquace. Più tardi Amelia fece gli onori di casa in salotto, e i quattro
giovani trascorsero una serata così piacevole che finirono per dichiararsi contenti
che il temporale li avesse costretti a rinviare la gita a Vauxhall.
Osborne era figlioccio di Sedley, cosicché da ventitré anni era ospite
abituale in quella casa. Quando aveva sei settimane, Sedley gli aveva regalato un
bicchiere d'argento, e a sei mesi un corallo con un fischietto e dei campanellini
d'oro. Poi, da ragazzo, ogni Natale il vecchio gli aveva sempre elargito una
«mancetta». George ricordava tuttora come una volta, quando a dieci anni era un
monello scatenato, prima di tornare in collegio le aveva buscate di santa ragione
da Joseph Sedley, che a quel tempo era un giovanottone goffo che si dava un
mucchio di arie. Insomma, George Osborne era di casa dai Sedley quanto
comportavano questi scambi quotidiani di cortesie.
«Ti ricordi, Sedley, quella volta che sei andato su tutte le furie perché avevo
tagliato i fiocchi dei tuoi stivali ungheresi e miss... sì, voglio dire... Amelia mi ha
salvato dai tuoi ceffoni mettendosi in ginocchio e scongiurando suo fratello Jos di
non voler picchiare il piccolo George?»
Joseph ricordava perfettamente quell'episodio memorando, ma finse di
essersene dimenticato.
«E ti ricordi che prima di partire per l'India sei venuto in carrozza a farmi
una visitina nel collegio del dottor Swishtail, e che mi hai regalato mezza ghinea
dandomi uno schiaffetto sul capo? Allora avevo l'impressione che tu fossi alto
almeno due metri, e quando hai fatto ritorno dall'India mi ha sorpreso scoprire che
eri alto non più di me.»
«È stato davvero molto gentile, Mr. Sedley, a venirvi a trovare in collegio e
a regalarvi quella mezza ghinea!» esclamò la Sharp, in tono ammirato.
«Proprio così! Eppure gli avevo tagliato i fiocchi degli stivali! Quando sono
in collegio i ragazzi non dimenticano mai il denaro che ricevono in dono, e
tantomeno il donatore!»
«Gli stivali coi fiocchi mi piacciono moltissimo,» dichiarò Rebecca. E
questa osservazione non mancò di lusingare Joseph Sedley, convinto com'era di
essere titolare di due splendide gambe, onde indossava sempre quelle chaussures
particolarmente decorative. Nondimeno, nell'udire quelle parole nascose le
suddette gambe sotto la sedia.
«Miss Sharp,» intervenne Osborne, «voi che siete un'eccellente artista.
Dovreste dunque dipingere un grande quadro che illustrasse l'episodio degli
stivali: Sedley in pantaloni di daino che regge in una mano uno degli stivali
rovinati, mentre con l'altra mi tiene stretto per il colletto della camicia. Amelia,
inginocchiata ai suoi piedi, protende le mani in un gesto di supplica. Al quadro
bisognerebbe dare un titolo allegorico, come quelli che si leggono sul frontespizio
dei sillabari e di certi libri di scuola.»
«Qui non avrei il tempo di dipingerlo. Ma lo farò quando... quando me ne
sarò andata.» E nel profferire queste parole abbassò la voce assumendo
un'espressione così mesta e afflitta che tutti meditarono sulla sorte avversa della
fanciulla e sulla crudeltà dell'imminente distacco da lei.
«Ah, potessi fermarti di più, mia cara Rebecca!» esclamò Amelia.
«E perché dovrei farlo?» rispose l'altra. «Forse per soffrire ancor di più, per
sentirmi ancor più infelice quando ti perdessi?» E distolse il capo. Al che Amelia
si abbandonò a quella sua naturale inclinazione al pianto che, già lo abbiamo
visto, costituiva uno dei difetti più irritanti di quella sciocchina. George Osborne
fissava le ragazze tra il commosso e l'incuriosito, mentre Joseph sollevava il petto
in una specie di sospiro e chinava lo sguardo in contemplazione dei prediletti
stivali ungheresi.
«Vorreste farci un poco di musica, Miss Sedley... cioè... Amelia?» propose
George, che in quel momento aveva un gran desiderio di prender la ragazza tra le
braccia e baciarla davanti a tutti. Lei gli gettò una rapida occhiata; e se io asserissi
che in quell'istante s'innamorarono, probabilmente affermerei il falso, dal
momento che i loro rispettivi genitori li avevano cresciuti col preciso proposito di
pervenire a quel risultato; anzi, si sarebbe detto che le pubblicazioni di nozze
fossero già avvenute da dieci anni. Pertanto si diressero nel salottino sul retro ove,
secondo l'usanza, si trovava il pianoforte; e dal momento che faceva quasi buio,
con gesto del tutto naturale Amelia posò la sua mano in quella di George, il quale,
inutile dirlo, era in grado di destreggiarsi meglio di lei fra poltrone e canapè. La
cosa ottenne a meraviglia lo scopo di lasciare a tu per tu Joseph e Rebecca,
accanto al tavolo nel salone ove la fanciulla era intenta a confezionare
all'uncinetto una borsa di seta verde.
«Non mi sembra il caso di chiedervi se si tratta di un segreto di famiglia, dal
momento che George e Amelia non fanno mistero dei loro sentimenti,» osservò
Rebecca.
«Appena George otterrà il comando di una compagnia, sarà affare fatto,»
rispose Joseph. «Quel giovanotto è in gamba, credetemi.»
«E vostra sorella è una ragazza deliziosa,» continuò di rincalzo Rebecca.
«Beato l'uomo che riuscirà a farla sua!» esclamò con un profondo sospiro.
Quando avviene che due persone di sesso diverso e non sposate abbiano il
destro di avviare tra loro una conversazione così delicata, tra loro si stabilisce
fatalmente un certo grado di confidenza. Non fa conto riferire nei dettagli il
colloquio tra Joseph Sedley e Rebecca Sharp, dal momento che il campione
elargito ai lettori ne rivela il parco interesse. Del resto è raro che nella vita
quotidiana la conversazione possa dirsi interessante, come del resto in qualsiasi
circostanza, fatta eccezione per le pagine dei romanzi di grande valore e di eletta
ispirazione. Nel salottino accanto si faceva musica, onde la conversazione
avveniva a bassa voce; ma anche se Rebecca e Joseph avessero urlato a
squarciagola, i due nell'altra stanza non ne sarebbero stati disturbati, tanto
fittamente erano immersi nel loro intimo dialogare.
Era forse la prima volta in vita sua che Mr. Sedley si rivolgeva a
un'esponente del sesso opposto senza provare timidezza o perplessità di sorta.
Rebecca gli fece varie domande sull'India, il che offrì a Joseph il pretesto per
raccontare molti episodi curiosi su quel paese e sulla sua esistenza in quelle
remote contrade.
Descrisse le feste da ballo nel palazzo del governatore e come si riuscisse a
ottenere un certo refrigerio nella stagione della massima calura per mezzo di
punkah, di stuoie bagnate e di altri espedienti del genere. Parlò degli innumerevoli
scozzesi protetti dal governatore Lord Minto; poi descrisse la caccia alla tigre e le
circostanze in cui il mahout del suo elefante era stato sbalzato di sella da una tigre
inferocita. Miss Rebecca si divertiva moltissimo a sentir parlare delle feste da
ballo del governatore, e rideva di cuore di certe storielle riguardanti gli aides de
camp scozzesi. Anzi, dichiarò a Mr. Sedley che aveva uno spirito tremendamente
caustico. Quanto alla storia dell'elefante, ostentò il massimo raccapriccio: «Per
amore di vostra madre e dei vostri amici,» lo pregò, «promettetemi che d'ora in
poi non prenderete più parte a quelle terrificanti spedizioni!»
«Ma no, ma no,» Miss Sharp, «rispose Joseph sollevando il grande collo
della sua camicia,» il pericolo è uno degli elementi più elettrizzanti, nella caccia.
In realtà, a caccia era stato una sola volta, e proprio in occasione dell'episodio
testé riferito, quando aveva rischiato di morire non a causa della tigre ma di puro
spavento. A mano a mano che procedeva in quelle chiacchiere si faceva sempre
più ardito, al punto che ebbe l'audacia di chiedere a Rebecca per chi mai stesse
confezionando quella borsa di seta verde. E intimamente si compiaceva di sé, del
suo garbo, della sua signorile disinvoltura.
«Per chiunque desideri una borsa come questa,» fu la risposta di Rebecca. E
la ragazza gli scoccò un'occhiata dolcissima, maliarda. E Sedley si accingeva a
sciorinare un discorsetto di straordinaria eloquenza (e già esordiva con un «Oh,
Miss Sharp, davvero...») quando la canzone che echeggiava nel salotto accanto si
tacque all'improvviso, ed egli udì risuonare la propria voce con tale nitore e
sonorità che tosto s'interruppe, arrossì e prese a soffiarsi il naso.
«Mai prima d'ora vostro fratello è stato così eloquente, Amelia,» commentò
Osborne. «La vostra amica ha operato un miracolo.»
«Me ne compiaccio,» rispose Amelia, la quale, non diversamente da ogni
donna dabbene, celava in cuore la smania di combinar matrimoni, e sarebbe stata
entusiasta di veder suo fratello ripartire per l'India con una moglie al suo fianco.
Per giunta, nei brevi giorni che aveva trascorso con lei, aveva sentito nascere in sé
un'amicizia vivissima per Rebecca, nella quale ravvisava innumerevoli virtù e
qualità delle quali non si era punto accorta quando vivevano insieme a Chiswick.
Infatti l'affetto che una ragazza prova per un'altra cresce con la velocità del
fagiolo della favola, e in una sola notte è capace di giungere alle stelle. E non
bisogna volergliene se, una volta maritate, questa Sehnsucht nach der Liebe vien
meno. I sentimentali, che sono altrettanti parolai, lo definiscono brama d'idealità.
In pratica, la cosa sta a significare che le donne non si sentono appagate fino a
quando non hanno marito e figli sui quali riversare il loro affetto; così, in
mancanza d'altro, lo sfogano per ripiego su qualcun altro.
Avendo esaurito il suo modesto repertorio di canzoni, o forse perché aveva
indugiato troppo a lungo nel salottino del pianoforte, Amelia aveva ritenuto
opportuno esortare l'amica a venire a sua volta a cantare. «Non sareste stato
disposto ad ascoltarmi se aveste udito Rebecca prima di me,» disse a George,
quantunque sapesse benissimo che quell'affermazione era priva di senso.
«Tuttavia non posso non confessare a Miss Sharp,» rispose Osborne, «che
considero Miss Amelia Sedley la prima cantante del mondo. Può anche darsi che
abbia torto, ma sinceramente questa è la mia opinione.»
«Adesso avrete agio di confrontarci,» disse Amelia, mentre Joseph spingeva
la propria cortesia fino a trasportare i candelabri sul pianoforte. Osborne lasciò
intendere che avrebbe gradito starsene al buio in quel salotto, ma Amelia ridendo
affermò di non esser disposta a restarsene da sola a fargli compagnia, cosicché
entrambi seguirono Joseph. Anche se Osborne era liberissimo di non mutar
parere, è indubbio che Rebecca cantava molto meglio di Amelia. Fece sfoggio di
tutta la sua bravura, con gran stupore dell'amica, che non l'aveva mai sentita
cantare così. Intonò una canzone francese, della quale Joseph non comprese
un'acca e che lo stesso Osborne ammise di non aver capito; poi cantò alcune di
quelle ballate senza pretese, di gran moda quarant'anni addietro, che aveva per
tema principale il re, i marinai inglesi, la povera Susanna e Mary dagli occhi di
cielo. Non sono certo un gran che dal punto di vista musicale, ma contengono
chiare allusioni all'amore che la gente capisce molto meglio delle svenevoli
lagrime, sospiri e felicità di quell'eterna musica donizettiana, che al giorno d'oggi
ci viene ammannita a ogni piè sospinto.
L'ultima canzone del concerto diceva così:
Ah, buia e desolata appariva la landa,
Ah, tuonava e gemeva la tempesta,
Il tetto della casa era sicuro usbergo,
Il focolare era caldo e luminoso.
Davanti alla finestra passò un orfanello,
E sedotto da quel gaio bagliore,
Sentì doppiamente la sferzata del vento notturno,
E doppiamente il gelo della neve caduta.
L'osservarono accelerare il passo,
Con il cuore esausto e le membra dolenti;
Voci garbate lo invitarono a volgersi e a fermarsi,
Dolci visi gli diedero il benvenuto.
È l'alba ormai, l'ospite se n'è andato,
Dentro la casa il focolare splende ancora;
Abbi pietà, Signore, di tutti i poveri, solinghi viandanti!
Ascolta il sibilo del vento sulla collina.
Le parole di questa romanza sembravano rievocare quelle che Rebecca
aveva profferito poc'anzi: «Quando me ne sarò andata»... Quando fu all'ultimo
verso la calda voce di Miss Sharp parve venir meno, e tutti compresero ch'ella
pensava alla partenza, alla sua miseranda condizione di povera orfana. Joseph
Sedley, che amava la musica ed era facile alla commozione, rimase in preda a una
sorta di rapimento estatico per tutta la durata della canzone, e alla fine della
romanza si sentiva profondamente turbato. Se avesse avuto più coraggio, e se
George e Amelia si fossero trattenuti più a lungo nei salottino accanto, come lo
stesso George aveva proposto, Joseph Sedley avrebbe posto fine al suo celibato e
questo libro non avrebbe mai visto la luce. Ma, terminata la romanza, Rebecca
abbassò il coperchio del pianoforte, diede la mano ad Amelia e si dileguò nella
penombra dell'altra sala. In quell'istante entrò Sambo reggendo un vassoio carico
di sandwiches, gelatine di frutta e caraffe e bicchieri di cristallo scintillante che
subito attirarono lo sguardo di Joseph. Quando poi i padroni di casa rientrarono
dalla cena alla quale erano stati invitati, constatarono che i giovani erano immersi
in una fitta conversazione, e infatti non avevano udito arrivare la carrozza. In quel
momento Joseph stava dicendo: «Miss Sharp, ve ne prego, accettate almeno un
cucchiaino di gelatina di frutta onde ristorarvi dopo la vostra eccezionale, la
vostra... la vostra encomiabile fatica.»
«E bravo il nostro Jos,» esclamo Mr. Sedley. E al suono familiare della voce
che lo dileggiava, Joseph fu assalito dalla consueta inquietudine, ritrovò il suo
imbarazzato silenzio e subito prese congedo. Non posso certo affermare che abbia
trascorso la notte in bianco domandandosi se fosse innamorato o meno di Miss
Sharp. In verità l'amore non aveva mai compromesso l'appetito e il sonno del
nostro Joseph. Nondimeno egli pensava a come sarebbe stato delizioso
abbandonarsi all'ascolto di siffatte canzoni dopo il cutcherry, a com'era distinguée
quella ragazza che si esprimeva in un francese migliore di quello della moglie del
governatore... e alla figura strepitosa che avrebbe fatto se avesse partecipato alle
feste da ballo di Calcutta. «Povera ragazza,» si diceva, «è chiaro che è cotta di
me. È povera, d'accordo, ma non più di tutte le altre ragazze che capitano in India,
e del resto potrei imbattermi in qualcosa di molto peggio, per Diana!» E sull'onda
di queste considerazioni si addormentò.
Per contro, è inutile precisare che Miss Sharp vegliò dominata dal pensiero
«se Mr. Sedley sarebbe venuto o meno l'indomani». Inesorabile come il destino, il
giorno dopo Joseph comparve prima di pranzo. Mai prima di allora la casa di
Russell Square era stata onorata da un evento del genere. Da parte sua George
Osborne era già arrivato, mettendo «sottosopra» Amelia, intenta a scrivere alle
sue dodici amiche predilette di Chiswick Mall, mentre Rebecca era impegnata
nello stesso lavoro del giorno innanzi. Quando il calesse di Joseph si fermò, e
quando, dopo il violento colpo di batacchio alla porta e il rumoroso tramestio in
anticamera l'ex ricevitore di Bogley Wollah ebbe arrancato su per le scale fino al
salotto, Amelia e Osborne si scambiarono uno sguardo d'intesa. Dopo di che i due
ebbero un sorriso malizioso fissarono ostentatamente Rebecca che chinò i suoi
riccioli sul suo lavoro.
Il cuore le batteva all'impazzata mentre Joseph faceva il suo ingresso: un
Joseph ansimante, ansioso, il volto acceso, vestito di un panciotto nuovo di zecca
e di un paio di lucidi stivali scricchiolanti. E dietro lo spropositato cravattone il
suo rossore andava accentuandosi sempre più. Tutti, d'altronde, si sentivano
agitati, e forse più di ogni altro lo era Amelia.
Sambo, dopo aver annunciato il ricevitore, entrò nella stanza sulle orme di
Joseph. Ridacchiando reggeva due splendidi mazzi di fiori che il nostro singolare
personaggio, in preda a un impeto di galanteria, aveva acquistato quella mattina
stessa al mercato di Covent Garden. Non erano proprio enormi come quelle specie
di covoni avvolti in carta velina che oggigiorno le signore si compiacciono di
portarsi appresso; tuttavia sia Rebecca che Amelia parvero estasiate di
quell'omaggio, mentre Joseph ne offriva un mazzo per ciascuna piegandosi in un
inchino pieno di sussiego.
«Ottima idea, Joseph,» commentò Osborne.
«Grazie, grazie, carissimo Joseph!» esclamò Amelia. E le sarebbe piaciuto
moltissimo baciare suo fratello se questi avesse palesato un simile desiderio. (Io
pur di ottenere un bacio di Miss Amelia, avrei comperato tutte le serre di Mr.
Lee.)
«Magnifici; sono davvero magnifici!» disse Rebecca, accostando
delicatamente il naso al mazzo di fiori; poi se lo strinse al seno e levò lo sguardo
al cielo, in preda a una sorta di estatica ammirazione. Può darsi che prima avesse
sbirciato nel mazzo, caso mai vi fosse celato un billet doux, ma non ce n'era
nemmeno l'ombra.
«Anche a Bogley Wollah si sa cosa sia il linguaggio dei fiori, Sedley?»
chiese Osborne ridendo.
«Bah, stupidaggini!» fu la risposta di quel giovanotto sentimentale. Li ho
comperati da Nathan. Ad ogni modo sono contento che vi siano giunti graditi. Ho
comperato anche un ananasso, Amelia, l'ho consegnato a Sambo. Se lo
mangiassimo per merenda? Con questo caldo, è veramente fresco e gradevole.»
Rebecca si affrettò a confessare che non aveva mai assaggiato un ananasso in vita
sua e non vedeva l'ora di gustarne il sapore.
La conversazione andò avanti di questo passo, né saprei dire quale pretesto
trovasse Osborne per lasciare il salotto, imitato poco dopo da Amelia. Forse
voleva presiedere alla preparazione dell'ananasso... Fatto sta che Jos ebbe modo di
trovarsi a tu per tu con Rebecca, la quale aveva ripreso il suo lavoro. La seta verde
e i ferri luccicanti si muovevano e balenavano sotto le sue candide, agili dita.
«La canzone che avete cantato ieri sera era stupenda, Miss Sharp, veramente
stu-pen-da.» disse il ricevitore. «Vi giuro che quasi mi venivano le lacrime agli
occhi.»
«Evidentemente celate in voi sentimenti gentili, Mr. Joseph. Come tutti i
membri della vostra famiglia, d'altronde.»
«La notte scorsa non ho chiuso occhio e stamattina ho cercato di
canticchiarla. Non mi credete? Alle undici è venuto Gollop, il mio medico. Eh, sì;
perché dovete sapere che sono malato, e Gollop viene ogni giorno a visitarmi.
Cribbio, quando è arrivato stavo cantando come un pettirosso!»
«Ah, siete un vero spasso! Volete farmi un favore? Cantatemela adesso.»
«No, no, cantatela voi! Ve ne prego, cara Miss Sharp, cantatela!»
«No, adesso no, Mr. Sedley,» disse Rebecca sospirando. «Devo finire la
borsa. Sareste così gentile da aiutarmi, Mr. Sedley?» E prima ancora che avesse il
tempo di chiedere in che forma potesse offrire il suo contributo, Mr. Sedley,
funzionario della Compagnia delle Indie, si trovò seduto di fronte a Rebecca
dardeggiandole sguardi carichi di passione. Aveva le braccia protese in un gesto
implorante, e le mani tendevano la matassa di seta verde ch'ella andava
dipanando.
In tale romantico atteggiamento Osborne e Amelia sorpresero l'interessante
coppia quando entrarono per annunciare che la merenda era pronta. Ormai la
matassa era del tutto avvolta intorno al rocchetto, ma Jos non aveva avuto l'ardire
di parlare.
«Sono sicura che stasera si deciderà, mia cara,» disse Amelia, e strinse la
mano di Rebecca. Dal canto suo anche Sedley aveva parlato, sia pure a se stesso.
«Per Dio,» si era detto, «a Vauxhall affronterò definitivamente la questione.»
V • IL NOSTRO DOBBIN
La lotta fra Cuff e Dobbin e i suoi imprevedibili risultati rimarranno a lungo
nel ricordo di coloro che furono educati nel celebre collegio del dottor Swishtail.
Il secondo dei due, che tutti erano soliti chiamare «Coraggio, Dobbin, coraggio,
Dobbin, arrì, arrì, Dobbin» e in vari altri modi atti a designare il loro modo
infantile di manifestare il disprezzo, era il più taciturno, il più impacciato ed
anche il più tonto di tutti i convittori di Swishtail. Il padre faceva il droghiere, e si
diceva che il ragazzo fosse stato accettato al collegio «alla pari», vale a dire che la
retta per l'insegnamento e il vitto venivano pagati in mercanzie varie anziché in
denaro. Dall'ultimo banco in fondo all'aula emergeva quel vestituccio malandato
di velluto a coste dentro il quale si sarebbe detto che le membra ossute del
ragazzo da un momento all'altro avrebbero fatto scoppiare le cuciture: quelle
membra che rappresentavano un numero imprecisato di libbre in candele,
zucchero, sapone da bucato, prugne (una parte risibile delle quali finivano nei
budini destinati agli alunni), e altri generi coloniali. Fu davvero terribile per il
povero Dobbin, il giorno in cui uno dei ragazzi, durante una puntata in città per
far scorta di croccante e salsicce, aveva scoperto il carro di Dobbin & Rudge
(Generi coloniali e Olii, Thames Street, Londra) davanti all'ingresso del collegio,
proprio mentre scaricava un carico delle derrate in cui commerciava la ditta in
questione.
Da quel momento il giovane Dobbin non ebbe più pace. Era vittima di
continui scherzi, terribili, crudeli. «Ciao, Dobbin,» lo salutava uno, «buone notizie
per te, sul giornale: il prezzo dello zucchero sta salendo.» Un altro tirava in ballo
problemi come questo: «Se una libbra di candele di sego costa sette pennies e
mezzo, quale sarà il prezzo di Dobbin?» E tutte quelle giovani canaglie, ivi
compreso l'assistente, scoppiavano a ridere come pazzi, convinti com'erano che il
commercio al minuto fosse un'attività disdicevole, indecorosa, e che di
conseguenza meritasse il dileggio e lo spregio di qualsiasi autentico gentiluomo.
«In fin dei conti anche tuo padre fa il negoziante, Osborne,» disse Dobbin al
ragazzo che era stata la causa di tutti i suoi guai. Ma l'altro, in tono solenne e
altezzoso, aveva risposto: «Mio padre ha tanto di carrozza e cavalli.» Il povero
William Dobbin era andato a rifugiarsi sotto una specie di tettoia in fondo al
cortile che serviva per la ricreazione dei ragazzi, e quivi aveva trascorso gran
parte di un giorno di festa in preda alla più nera malinconia. Chi di noi non ha
vissuto simili ore di cupo dolore infantile? E chi più di un ragazzo dotato di
generosi sentimenti soffre nel patire un'ingiustizia? Chi tende a rinchiudersi in se
stesso a causa di un'offesa subita? Chi prova tanta amarezza per un torto ricevuto
e tanta gratitudine per una gentilezza? Quante povere, innocenti creature
subiscono umiliazioni, conoscono la solitudine e ogni sorta di sevizie morali in
cambio di quattro nozioni di latino e di aritmetica!
Pertanto William Dobbin, data la sua ritrosia ad apprendere gli elementi di
latinorum contenuti in quel fantastico libro denominato Eton Latin Grammar, era
condannato a figurare tra gli ultimi allievi del dottor Swishtail, e subiva le
umiliazioni dei compagni in grembiule e faccino bianco e rosso mentre, simile a
un gigante fra i nani, marciava ancora frammisto a quelli di prima, lo sguardo
chino, i calzoncini lisi e il libro tutto sgualcito, con le orecchie a ogni angolo.
Tutti lo deridevano, piccoli e grandi. Gli scucivano i calzoni, già di per sé troppo
stretti, gli tagliavano le fettucce della branda, rovesciavano secchi e panche perché
lui andasse a sbattervi contro ammaccandosi gli stinchi, cosa che accadeva
infallibilmente. Gli indirizzavano certi pacchetti che contenevano il sapone e le
candele di suo padre. Non c'era bambino, per piccolo che fosse, il quale non
provasse un gusto matto a burlarsi di lui; e Dobbin sopportava tutto, paziente e
avvilito, senza far parola.
Cuff invece era il numero uno, la perla del convitto Swishtail. Faceva
entrare del vino di straforo e faceva a pugni coi monelli di strada. Il sabato lo
venivano a prendere con due ponies e se ne andava in sella a uno di quei cavallini.
In camera aveva un paio di stivali che usava durante le vacanze per andare a
caccia. Aveva un orologio d'oro e fiutava prese di tabacco come il rettore. Era
stato all'Opera e si permetteva di disquisire sulla bravura dei vari attori,
dichiarando di preferire Kean a Kemble. Era capace d'imparare quaranta versi
latini in un'ora, scriveva poesie in francese, e per concludere sapeva dire e fare
qualunque cosa. Persino il rettore, dicevano, provava nei suoi confronti una sorta
di timore.
Cuff, il re del convitto, regnava sui sudditi e si permetteva di maltrattarli
dall'alto della sua albagiosa superiorità. Chi gli tostava il pane, chi gli lucidava le
scarpe; altri si mettevano spontaneamente al suo servizio, e d'estate consumavano
interi pomeriggi a raccattargli le palle da cricket. Ma il ragazzo che Cuff
disprezzava più di ogni altro era «Figs». Non gli rivolgeva mai la parola, tranne
che per schernirlo e insultarlo.
Un giorno, trovandosi a tu per tu, i due pivelli avevano avuto un battibecco.
Mentre Figs era in aula e stava arrancando su una lettera da spedire a casa sua,
Cuff entrò e gli ingiunse di andargli a fare una commissione (probabilmente si
trattava di andare a comperare dei dolci).
«Ora non posso,» rispose Dobbin, «devo finire questa lettera.»
«Cosa? Non puoi?» rispose Cuff. E s'impadronì di quel foglio, pieno di
parole cancellate e di errori di ortografia, e che Dio sa quanta fatica, quanta
concentrazione, quante lacrime fosse costato al povero Dobbin: poveraccio, stava
scrivendo a sua madre, che gli voleva bene anche se era solo l'umile consorte di
un droghiere e passava la vita in un retrobottega di Thames Street. «Non puoi?»
ripeté il giovincello. «Sarei veramente lieto di sapere perché. Non puoi scrivere
domani la tua lettera a mamma Figs?»
«Smettila con le tue villanie,» rispose Dobbin alzandosi dal banco al colmo
del nervosismo.
«Insomma, bello mio, vuoi sbrigarti ad andare sì o no?» strillò il galletto del
collegio.
«Posa la lettera,» disse Dobbin, «una persona che si rispetti non si permette
di leggere le lettere altrui.»
«Allora ci vai sì o no?» rispose l'altro, imperturbabile.
«No che non ci vado! E bada di non provarti a menar le mani altrimenti ti
spacco il muso!» urlò Dobbin accostandosi a un calamaio di piombo. Sul volto
aveva un'espressione così inferocita che Cuff si fermò, abbassò le maniche e si
allontanò con un sorrisetto.
Da quel giorno pose ogni cura nell'evitare di trovarsi faccia a faccia col
figlio del droghiere, sebbene (occorre sottolinearlo) non desistesse dal dirne peste
e corna alle sue spalle.
Qualche tempo dopo avvenne che in un pomeriggio di sole Cuff capitasse
davanti al povero Dobbin il quale, sdraiato all'ombra di un albero in giardino, era
profondamente assorto nella lettura di una novella delle Mille e una Notte, di cui
possedeva una copia. Era lì tutto solo, quasi felice, a debita distanza dai giochi dei
suoi compagni. Se i ragazzi venissero lasciati in pace, se gli insegnanti la
smettessero di sgridarli, se i genitori non perseverassero nella pretesa di voler
giudicare i loro pensieri e influire sui loro sentimenti, pensieri e sentimenti che
sono ignoti a tutti (giacché, in conclusione, cosa ne sappiamo, io e voi, l'uno
dell'altro, e dei nostri figli, dei nostri genitori, dei nostri vicini di casa? Chissà
quanto sono più limpidi e puri i pensieri dei ragazzini che pretendiamo di
«educare» di quelli dello stolido e del corrotto che esercita la sua influenza su di
loro); se, dicevo, genitori e insegnanti si decidessero a lasciare in pace i fanciulli
affidati alle loro attenzioni, ne verrebbe ben poco danno, anche se i bimbi in
questione si curerebbero un po' meno d'imparare as in praesenti.
Stavo dunque dicendo che quella volta Dobbin aveva die monticato il
mondo che lo circondava ed era lontano, nella Valle dei Diamanti, con Sindibàd il
Marinaio, col principe Ahmed e con la fata Peribanu in quella caverna favolosa
dove il principe l'ha scovata e dove tutti saremmo lieti di fare una scorribanda,
quando a distrarlo da quel sogno delizioso sopravvennero strida acutissime,
tipiche di un bimbetto che pianga. Alzò lo sguardo e vide Cuff impegnato a
picchiare uno dei convittori più piccoli.
Era il bambino che aveva raccontato a tutto il collegio la storia del carro del
droghiere, ma William non sapeva serbare rancore, e menchemeno nei confronti
di un ragazzo più piccolo di lui. «Dunque, vi siete permesso di rompere la
bottiglia, vero, signorino?» diceva Cuff agitando minaccioso davanti agli occhi
del poverino la sua gialla bacchetta da cricket.
Il ragazzo aveva avuto ordine di scavalcare il muro del giardino
(approfittando di un tratto in cui erano stati rimossi i cocci di vetro conficcati
nella malta ed erano state praticate delle tacche per dare appoggio al piede nello
spessore del muro di mattoni), di percorrere a tutta velocità un quarto di miglio, di
andare a comperare (a credito, beninteso) una mistura di rhum, di scansare tutte le
spie del Censore disseminate per ogni dove, di inerpicarsi nuovamente su per il
muro e di rientrare nel giardino. Ma nel corso di quella spedizione gli era
scivolato un piede, la bottiglia si era rotta macchiando di rhum i pantaloncini e lui
si era presentato al cospetto del suo «padrone» tremebondo e contrito, anche se
affatto innocente.
«Come vi siete permesso di romperla, signorino?» disse ancora Cuff. «Non
siete altro che uno sciocco ladruncolo. Il rhum ve lo siete bevuto voi ed ora
vorreste dare ad intendere di aver rotto la bottiglia. Stendete la mano, presto.»
E la bacchetta si abbatté con rumore sordo sulle mani del bimbo. Dobbin udì
un gemito e sollevò lo sguardo. La fata Peribanu si dileguò insieme al principe
Ahmed nel profondo della caverna; il marinaio scomparve dalla Valle dei
Diamanti quasi fosse stato carpito in volo dalle nubi e agli occhi di William si
presentò un quadro che rifletteva la realtà nuda e cruda: un ragazzo che ne
picchiava un altro più piccolo di lui.
«L'altra mano!» urlò Cuff al suo piccolo compagno che aveva il volto
alterato dalla sofferenza. Dobbin ebbe un brivido e si strinse nel suo vestituccio
malandato.
«Beccati questo, canaglia!» E di nuovo la bacchetta cadde con violenza sulla
mano del bimbo. No, caro signore, guardatevi bene dall'inorridire: tutti i ragazzi
lo hanno fatto, in collegio. Probabilmente succederà anche ai vostri figli, di
prenderle come di darle. La bacchetta si abbatté per la terza volta, mentre Dobbin
si alzava in piedi.
Non saprei dirvi perché mai lo abbia fatto. In collegio le punizioni corporali
sono di prammatica, come lo knut in Russia. Sotto un certo aspetto, chi cercasse
di evitarle non si comporterebbe da gentiluomo. Forse la debole anima di Dobbin
provò un impulso di ribellione davanti alla tirannia, o forse celava in cuore un
desiderio di vendetta ed ora voleva competere con quel tiranno irriducibile che in
collegio si procacciava tutto il possibile: gloria, onori, fastigi, sventolio di
bandiere, rullo di tamburi, presentat'arm delle guardie. Ad ogni modo, quale che
fosse il suo impulso, Dobbin balzò in piedi e gridò: «Smettila, Cuff; se continui a
picchiare quel ragazzo, io...»
«Tu cosa?» domandò Cuff, esterrefatto per quell'interruzione. «Stendi la
mano anche tu, carogna!»
«Te ne darò tante quante non ne hai mai prese in tutta la tua vita,» rispose
Dobbin rispondendo alle prime parole di Cuff, mentre il piccolo Osborne,
ansimante, il viso coperto di lacrime, alzava due occhi increduli su quell'inopinato
difensore emerso di punto in bianco in suo soccorso. Né lo stupore di Cuff fu da
meno. Immaginate il nostro re Giorgio III quando ebbe la notizia della rivolta
scoppiata nelle colonie del Nord America; immaginate l'indomito Golia quando il
piccolo David gli si fece accosto col proposito di misurarsi con lui, e vi farete
un'idea del sentimento che provò Reginald Cuff quando si vide sfidato con tanta
improntitudine.
«Ci rivedremo dopo scuola,» disse, dopo una breve pausa. E il suo sguardo
voleva significare: «Pensa pure a far testamento e ad esprimere agli amici le tue
ultime volontà.»
«Come ti pare,» rispose Dobbin. «Tu, Osborne, mi farai da padrino.»
«D'accordo. Se proprio ci tieni...» disse Osborne. Non dimenticatevi, infatti,
che suo padre aveva una carrozza, e lui si vergognava un poco di quel suo
campione.
Proprio così: al momento della battaglia, Osborne provò una certa vergogna
mentre gridava: «Forza, Figs!» E nemmeno uno dei ragazzi che assistevano in
cerchio ripeté quel grido d'incoraggiamento durante le prime battute di quel
celebre combattimento, giacché all'inizio Cuff; con un sorriso sprezzante sulle
labbra, allegro e noncurante come fosse stato a una festa da ballo, scaricò una
tempesta di pugni sul malcapitato e per ben tre volte stese a terra il povero
campione. Ed ogni volta echeggiavano gli applausi: tutti morivano dalla voglia di
flettere il ginocchio davanti al vincitore.
«Quando tutto sarà finito, toccherà a me prenderne un sacco e una sporta,»
pensava Osborne, aiutando il suo campione a rimettersi in piedi. «Faresti meglio
ad arrenderti,» disse a Dobbin, «dopo tutto alle botte ci sono abituato, io, lo sai
benissimo.» Ma Figs, tutto tremante, le narici dilatate dalla collera, respinse il suo
piccolo padrino e si apprestò ad affrontare l'urto della quarta ripresa.
Non sapeva assolutamente come fare a parare i colpi dell'avversario: infatti
nei tre rounds precedenti era stato Cuff a muovere all'attacco, senza permettergli
di mandare a segno un solo colpo. Pertanto in questa ripresa decise di andar subito
alla carica: era mancino, cosicché mise in azione il braccio sinistro, e con tutte le
forze colpì due volte: la prima all'occhio sinistro, la seconda al bellissimo naso
aquilino di Cuff.
Stavolta toccò a quest'ultimo crollare nella polvere fra lo stupore di tutti gli
astanti. «Bel colpo, perbacco!» esclamò Osborne con l'aria di chi se ne intende;
«suonagliele col sinistro, vecchio mio!»
Durante le fasi successive del combattimento il sinistro di Figs fu autore di
spaventosi e stupefacenti prodigi: ad ogni round Cuff finì per terra. A conclusione
della sesta ripresa i ragazzi che gridavano: «Forza, Figs!» erano ormai in numero
quasi eguale a quelli che incitavano Cuff, e alla fine del dodicesimo round
quest'ultimo era, come si suol dire, praticamente «spacciato»: la sua presenza di
spirito era andata a farsi benedire e non sapeva più né attaccare né difendersi.
Invece Figs era tranquillo come un quacchero. Il volto pallidissimo, gli occhi
sgranati e scintillanti, un taglio profondo al labbro inferiore dal quale sgorgava
sangue in abbondanza, conferivano a Dobbin un che di feroce e al tempo stesso di
spettrale che forse valse a sgomentare più d'uno fra gli spettatori. Ciò non toglie
che il suo avversario non demordesse e si apprestasse ad attaccare per la
tredicesima volta.
Se avessi la penna di Napier o fossi un cronista del «Bell's Life» non esiterei
a descrivere nel modo dovuto questa lunga tenzone. Era l'ultima carica della
Guardia (o diciamo meglio che si sarebbe potuta designarla così se la battaglia di
Waterloo avesse già avuto luogo), erano le truppe di Ney che muovevano
all'attacco del colle di La Hay Sainte, irto di diecimila baionette e sovrastato da
dieci aquile; ed era il grido del britanno carnivoro che, precipitandosi giù dal
crinale del colle si avventava sul nemico per stringerlo nella sua morsa. In poche
parole, mentre Cuff, non senza dar prova di coraggio, barcollante e intontito,
tornava ad alzarsi, una volta di più il figlio del mercante di fichi secchi lo colpiva
al naso di sinistro scaraventandolo al suolo per l'ultima volta.
«Credo che possa bastargli,» fu il commento di Figs, mentre l'avversario
rotolava sull'erba in modo definitivo, proprio come una palla da biliardo quando
finisce nella buca.
Infatti, quando finirono di contare, Mr. Reginald Cuff non si era rialzato
(oppure aveva preferito non farlo).
A questo punto tutti i ragazzi presero ad inneggiare a Figs, proprio come se
fosse sempre stato il loro beniamino, e fecero un tal baccano che il dottor
Swishtail uscì dal suo studio, desideroso di apprenderne la causa. Naturalmente
non esitò un istante a esternare il proposito di frustare Figs, ma Cuff, che nel
frattempo era tornato in sé, si fece avanti e disse: «È stata colpa mia, signore, non
di Figs... cioè... di Dobbin. Stavo picchiando un ragazzo e mi sono meritato la
lezione.» Un magnanimo discorso che valse non soltanto a risparmiare le frustate
a Figs, ma a fargli ritrovare presso i compagni quel prestigio che la sconfitta
aveva rischiato di fargli perdere.
Quanto a Osborne, descrisse l'episodio in una lettera ai suoi genitori.
Sugarcane House, Richmond, 18 marzo.
Cara mamma,
vi spero in buona salute e vi sarei grato se voleste mandarmi una focaccia e
cinque scellini. Qui c'è stato un pugilato tra Cuff e Dobbin. Come sapete, Cuff è il
capo dei convittori. I rounds sono stati tredici e Dobbin lo ha sconfitto. Così
adesso Cuff è secondo nella graduatoria. Sono stato io la causa del
combattimento. Cuff mi picchiava perché avevo rotto una bottiglia di latte e Figs
non ha voluto. Lo chiamiamo Figs perché suo padre fa il droghiere, Figs &
Rudge, Thames Street, City, e io sono dell'idea che voi dovreste comperare il tè o
lo zucchero da suo padre, dal momento che ha combattuto per me. Cuff va a casa
sua ogni sabato, ma questo sabato non ci va perché ha gli occhi pesti. Viene
sempre a prenderlo un lacchè in livrea su una cavalla bianca, con pony bianco
per lui. Sarei così contento se papà mi regalasse un pony.
Il vostro devotissimo figlio
George Sedley Osborne
P.S. Tanti saluti da parte mia alla piccola Emmy. Le sto fabbricando una
carrozza ritagliandola nel cartone. Vi prego, non mandatemi un seed-cake, ma un
plum-cake.
Dopo quella vittoria, le quotazioni di Dobbin salirono vertiginosamente
presso i suoi compagni, e Figs cessò di essere un soprannome spregiativo per
diventare un nomignolo rispettabile, non diverso da quelli che i ragazzi erano
soliti affibbiarsi a scuola. «In fin dei conti, che colpa ne ha, lui, se suo padre è un
droghiere?» disse Osborne, che sebbene fosse uno dei piccoli, era molto
considerato dai ragazzi dell'istituto Swishtail. E le sue parole furono salutate da
calorosi applausi. Si convenne che era spregevole burlare Dobbin a causa della
modestia dei suoi natali. Figs diventò un soprannome cortese quasi affettuoso;
persino quello spione dell'assistente smise di prenderlo in giro.
Il mutare della situazione servì del pari ad aprire la mente di Dobbin, che a
partire da quella data fece clamorosi progressi anche nello studio. Lo stesso Cuff,
ad onta della sua prosopopea, lo aiutò in latino, con gran stupore di Dobbin che
arrossiva tutto, sorpreso di tanta benevola condiscendenza. Gli dava ripetizione
durante le ore di ricreazione e non solo lo portò dalla classe dei piccoli a quella
dei più grandicelli, ma seppe addirittura trovargli un buon posto. Inoltre tutti
poterono constatare, che se da un lato non riusciva gran che nelle lingue classiche,
in compenso era bravissimo in matematica. Tra la generale soddisfazione, agli
esami estivi riuscì terzo in algebra: il che gli valse in premio un libro francese.
Non si può descrivere la faccia di sua madre quando, alla presenza di tutti i
convittori, dei loro familiari e di tutta la compagnia, il dottor Swishtail gli regalò
quel delizioso libro che è Télémaque con dedica autografa a Guglielmo Dobbin.
Tutti i ragazzi applaudirono, in segno di ammirata simpatia, mentre nessuno
riuscirebbe a descrivere il rossore di William, né a dire quante volte incespicò e
quanti piedi calpestò facendo ritorno al suo posto. Dobbin padre, che solo allora
cominciò a provare una certa considerazione per il figliolo, gli regalò due ghinee
che William spese in gran parte per invitare i suoi compagni a un piccolo
ricevimento. Alla fine delle vacanze tornò con l'abito a code.
D'altra parte Dobbin era troppo modesto per attribuire quel lieto
capovolgimento della situazione alla prova di fermezza e di carattere che aveva
saputo dare. Al contrario, e Dio sa per quale strana elucubrazione della sua mente
volle ravvisarne il merito nel piccolo Osborne, al quale da allora in poi si sentì
legato da quell'affetto incondizionato che solo i bambini sanno provare: un affetto
paragonabile a quello del goffo Orson per il meraviglioso, giovane Valentine,
argomento di un incantevole libro di fiabe. Si potrebbe dire che Dobbin si prostrò
ai piedi di George Osborne e ne fece la sua divinità. Già prima di diventare suo
amico provava per lui una segreta ammirazione, ma ora divenne il suo lacchè, il
suo cane, il suo Venerdì. Credeva sinceramente che Osborne fosse la perfezione
incarnata, che fosse il ragazzo più bello, più attivo, più intelligente, più generoso
di quanti ve ne sono sulla faccia della terra. Spartiva con lui il suo denaro e lo
colmava di doni: temperini, portapenne, caramelle, sigilli d'oro, copie del Little
Warber e libri di avventure corredate di splendide illustrazioni a colori che
raffiguravano ora briganti ed ora prodi cavalieri, e nei quali si leggeva sovente
questa dedica: «A George Sedley Osborne, dal suo affezionato William Dobbin.»:
attestazioni di omaggio e devozione che Osborne accettava con garbata
degnazione, come si conviene ad una persona che fruisca di ben altri meriti.
Per questa ragione, quando il tenente Osborne si presentò alla casa di
Russell Square il giorno della gita a Vauxhall, disse alle signore: Mrs. Sedley, oso
sperare che ci sia posto anche per il nostro Dobbin: l'ho invitato a cena da voi, e
poi a venire a Vauxhall in nostra compagnia. È molto timido, sapete? Quasi
quanto Joseph.
«Timido? Per carità!» esclamò il grasso individuo lanciando uno sguardo
vainqueur a Miss Sharp.
«Certo che è timido,» replicò Osborne ridendo. «Ma voi, Sedley, avete più
linea, avete maggior tatto. L'ho incontrato al Bedrord quando sono andato a
cercarvi e gli ho detto che Miss Amelia era tornata e che avevamo in programma
di uscire una sera a divertirci tutti assieme. E che ormai Mrs. Sedley lo aveva
perdonato di aver mandato in briciole la coppa del punch durante la festa dei
bambini. Ricordate, signora, che malestro ha combinato, sei anni fa?»
«Il punch è finito tutto sull'abito di seta viola di Mrs. Flamingo!» rispose
Mrs. Sedley. Era così impacciato! Del resto le sue sorelline non sono certo più
aggraziate di lui! L'altra sera a Highbury c'era anche Lady Dobbin con tre di loro.
Veramente impeccabili: potete credermi, miei cari!»
«Se non erro il consigliere è pieno di quattrini,» disse Osborne, sfacciato.
«Non credete, signora, che potrei sposarmi una delle sue figlie?»
«Suvvia, scioccherellone! Vorrei proprio vedere chi sarebbe disposta ad
accettarvi come marito, con quella faccia gialla che vi ritrovate !»
«Ah, sì? Secondo voi avrei la faccia gialla. Aspettate piuttosto di vedere
quella di Dobbin. Ha avuto la faccia gialla tre volte: due a Nassau e una a St.
Kitts.»
«Sarà. Comunque, la vostra per noi è già abbastanza gialla; nevvero,
Amelia?» Quest'ultima si limitò a sorridere e ad arrossire delle considerazioni
materne. Poi il suo sguardo si posò con insistenza sul volto di Osborne, così
pallido e interessante, su quei baffi neri, lucenti e ritorti dei quali lo stesso titolare
non mancava di compiacersi; e nel segreto del suo cuore pensò che in tutto
l'esercito di Sua Maestà non c'era un eroe come Osborne, un uomo con un viso
tanto attraente. «Non m'importa niente del pallore e della goffaggine del capitano
Dobbin,» disse. «A me piace e non cesserà mai di piacermi.» Non poteva essere
altrimenti, visto che Dobbin era l'amico e il paladino di George.
«È l'uomo migliore di tutto l'esercito,» continuò Osborne, «ed è un ufficiale
veramente in gamba. Che importanza ha se non è un Apollo?» Dopo di che si
diede un'occhiata allo specchio, con molta naïveté, e colse lo sguardo di Miss
Sharp che lo fissava intensamente. Egli arrossì appena, mentre Rebecca pensava:
«Eh, mon beau Monsieur! Credo proprio di averti capito.» Che furbacchiona!
Quella sera stessa, quando Amelia, agile e lieve come una piuma, in abito di
mussola bianca e pronta a conquistare tutta Vauxhall, entrò nel salotto fresca
come una rosa e gorgheggiante come un'allodola, le venne incontro un
giovanottone alto e dinoccolato, con enormi mani, enormi piedi, enormi orecchie
rese tanto più evidenti dai capelli neri tagliati corti. Indossava l'orrenda divisa
adorna di alamari, con cappello a tricorno, che a quel tempo portavano i militari;
ed eccolo piegarsi nella più goffa riverenza che sia mai stata eseguita da un essere
umano.
Era, costui, il capitano William Dobbin del ...mo reggimento di Fanteria di
Sua Maestà, convalescente della febbre gialla buscatasi nelle Indie Occidentali
dove le circostanze lo avevano scaraventato, mentre tanti suoi validi commilitoni
si coprivano di gloria nella penisola iberica.
Per annunciarsi aveva battuto alla porta con un colpo così timido e
impercettibile, che al piano di sopra le signore non lo avevano udito. Infatti è
evidente che in caso contrario Miss Amelia si sarebbe guardata bene dall'entrare
in salotto cantando. Invece vi entrò, e quella fresca, incantevole vocetta giunse
dritta dritta al cuore del capitano, e vi rimase. E quando lei gli porse la mano,
prima ancora di stringerla egli pensò: «È mai possibile? È proprio lei la bimbetta
in abito rosa di cui conservavo il ricordo? Quella che ho visto poco tempo
addietro, la sera della mia nomina, quando ho rovesciato la coppa del punch?
Dunque è lei la fanciulla che George Osborne, a quanto dichiara, si propone di
portare all'altare! Che soave creatura, e che splendido fiore si porterà via quel
brutto furfante!» Sì, ebbe il tempo di pensare a tutto ciò prima di stringere tra le
sue la mano di Amelia, mentre il tricorno gli cadeva sul pavimento.
La sua storia dal momento in cui era uscito dal collegio fino ad ora che
abbiamo il piacere di ritrovarlo, per quanto non venga narrata per esteso, mi
sembra risulti intuibile a un attento lettore, almeno nelle sue linee essenziali, da
quanto affiora nella conversazione delle pagine precedenti. Il disprezzato
droghiere Dobbin era diventato il consigliere Dobbin. Il consigliere Dobbin era
colonnello delle guardie a cavallo della City, che in quel momento fremevano di
militaresco ardore, smaniosi com'erano di respingere l'invasore francese. Il suo
reggimento, nel quale persino il vecchio Osborne non era che un modesto
caporale, era stato passato in rivista da Sua Maestà in persona e dal duca di York.
Adesso il colonnello-consigliere era stato fatto cavaliere, suo figlio era entrato nei
ranghi dell'esercito e il giovane Osborne non aveva tardato a seguirlo nel
medesimo reggimento. Avevano prestato servizio nelle Indie Occidentali e in
Canada, ed il loro reggimento era appena rientrato in patria; ma nel frattempo
nulla era mutato nel trasporto d'affetto che Dobbin provava per George Osborne
sin da quando erano compagni di scuola.
Pertanto i rispettabili componenti di questa compagnia sedettero a tavola e
presero a parlare di guerra e di gloria, di Boney e di Lord Wellington, nonché
dell'ultima «Gazette». In quei giorni aureolati d'eroismo ogni «Gazette» riportava
la notizia di una nuova vittoria: i due baldi giovanotti fremevano dal desiderio di
veder figurare il proprio nome nell'elenco dei valorosi e imprecavano alla
malasorte che li aveva aggregati a un reggimento cui non era offerta l'occasione di
farsi onore. Quei discorsi elettrizzavano Miss Sharp, tutt'al contrario della povera
Amelia, che al solo ascoltarli tremava tutta e si sentiva prossima al deliquio.
Joseph raccontò innumerevoli episodi di caccia alla tigre e concluse con la storia
di Miss Cutler e del chirurgo Lance, mentre si premurava di riempire il piatto di
Rebecca di tutte le cibarie che si trovavano sulla tavola. Per parte sua, s'ingozzò
più che poté di cibo e di bevande.
Quando le signorine si ritirarono, balzò in piedi per aprire la porta con gesto
d'indicibile grazia e galanteria. Poi tornò a tavola, e con gesti rapidi e nervosi
prese a tracannare un bicchiere di vino dopo l'altro.
«Beve per sentirsi in forma,» sussurrò Osborne a Dobbin. Dopo di che,
finalmente, venne il momento di uscire, e arrivò anche la carrozza che li avrebbe
portati a Vauxhall.
VI • VAUXHALL
Mi rendo perfettamente conto che per ora sto intonando una canzoncina
piuttosto leggera (ma faranno seguito capitoli terribili); però debbo pregare il
gentile lettore di rammentarsi che fino a questo momento mi sono limitato a
descrivere la famiglia di un agente di cambio residente in Russell Square, i
componenti della quale vanno a spasso, vanno a pranzo, vanno a cena e si
vogliono bene né più né meno di come accade nella vita di ciascuno di noi, cioè
senza che nessun avvenimento patetico o fuori dell'ordinario conferisca una luce
particolare ai loro amori. Le cose, pertanto, stanno in questi termini: Osborne,
innamorato di Amelia, ha invitato un vecchio amico a cena e ad unirsi a loro per
una gita a Vauxhall. Quanto a Jos Sedley, ormai ama Rebecca. Riuscirà a farne la
sua sposa? Ecco, per il momento, la questione più importante.
Gli stessi avvenimenti avrebbero potuto essere raccontati in chiave
aristocratica, romantica, oppure comica. Se, poniamo, avessimo spostato l'azione
in Grosvenor Square proponendo gli stessi casi tali e quali... ebbene, non
avremmo trovato un nostro pubblico? Per esempio, chi mi avrebbe impedito di
riferire in quali circostanze Lord Joseph Sedley si fosse innamorato, e come il
marchese di Osborne si fosse invaghito di Lady Amelia, col pieno consenso del
duca, il di lei nobile genitore... Oppure, anziché attingere i miei personaggi all'alta
società avrei potuto sceglierli fra la gente del popolo e descrivere quanto avveniva
nella cucina di Mr. Sedley: dire che il negro Sambo era innamorato della cuoca (il
che, d'altronde, era vero) e raccontare che per causa sua si era preso a cazzotti col
cocchiere; come lo sguattero fosse stato colto in flagrante mentre rubava un
cosciotto di montone freddo e come la nuova femme de chambre di Mr. Sedley
rifiutasse di andare a letto se non le veniva accordata una candela di cera. Non è
difficile descrivere fatti del genere in termini atti a suscitare le più fragorose
risate, e si può spacciarli per una raffigurazione realistica della vita. Se invece
avessi voluto indulgere ai toni truculenti, e alla nuova femme de chambre avessi
assegnato come amante un ladro matricolato il quale fa irruzione con la sua
ghenga, uccide Sambo sotto gli occhi del padrone, rapisce Amelia in camicia da
notte e non la lascia più libera sino al terzo volume, forse avrei scritto una storia
raccapricciante e del più vivo interesse, densa di capitoli procacciatori di brividi
che il lettore avrebbe affannosamente divorato. Ma i miei lettori si disilludano:
questa è una storia semplice, scevra da elementi così romanzeschi. Si
accontentino dunque di un capitolo nel quale si parla di Vauxhall: un capitolo così
breve che a stento e fatica merita di esser qualificato come tale, e che tuttavia è un
capitolo, molto importante per giunta. Del resto, non esistono forse nella vita di
tutti noi dei capitoli di breve durata che sembrano privi d'importanza e invece
esercitano un peso determinante sulla nostra sorte?
Pertanto saliamo in carrozza insieme con tutto il gruppo di Russell Square e
andiamocene ai giardini. Jos e Miss Sharp hanno preso posto sui sedili anteriori e
sono piuttosto pigiati; quanto a Mr. Osborne, siede di fronte, tra Amelia e il
capitano Dobbin.
I personaggi che siedono in carrozza sono affatto persuasi che in serata Jos
chiederà a Rebecca di diventare Mr. Sedley. Quanto ai genitori di costui, rimasti a
casa, si sono assuefatti a questa ipotesi, sebbene - detto fra noi - il vecchio Sedley
provasse nei confronti del figlio un sentimento molto affine al disprezzo. Diceva
che era vanesio, egoista, pelandrone, effemminato. Trovava esasperanti quelle sue
arie di uomo alla moda, e rideva a crepapelle delle fandonie che raccontava. «Gli
lascerò metà delle mie sostanze» diceva, «tanto più che ne avrà da vendere del
suo; ma siccome non dubito che se io, te e sua sorella ce ne andassimo all'altro
mondo domani stesso, lui direbbe "Mio Dio!" per poi pranzare con l'appetito di
tutti i giorni, non ho la minima intenzione di prendermela per lui. Sposi chi gli
pare, la cosa non m'interessa.»
Invece Amelia - ed era naturale in una ragazza prudente e dotata di un indole
come la sua - era semplicemente entusiasta di quel matrimonio. Un paio di volte
Jos aveva lasciato capire di volerle dire qualcosa di molto importante, qualcosa
che lei era disposta di buon grado ad ascoltare; ma il pingue giovanottone non si
decideva, non riusciva a liberarsi del suo grande segreto: tra la più viva delusione
di sua sorella era riuscito soltanto a liberarsi di un gran sospiro e se n'era andato
per i fatti suoi.
Questo mistero contribuiva a mantenere il tenero cuore di Amelia in uno
stato di perpetuo subbuglio. Quando non parlava con Rebecca di quel delicato
argomento, si abbandonava a lunghe e riservatissime conversazioni con Mrs.
Blenkinsop, la governante, la quale ne faceva cenno alla cameriera, la quale,
forse, ne riferiva vagamente alla cuoca, la quale - non ne ho il minimo dubbio raccontava la faccenda a tutti i fornitori del quartiere, per cui nella zona di Russell
Square non erano poche, ormai, le persone che parlavano del matrimonio di Mr.
Jos.
Inutile dire come Mrs. Sedley fosse convinta che suo figlio, sposando la
figlia di un pittore, commettesse una mésaillance.. «Ma, buon Dio, Signora,»
commentava Mrs. Blenkinsop, «voi venivate da una famiglia di droghieri quando
vi siete maritata con Mr. Sedley, e lui era soltanto l'impiegato di un agente di
cambio. Fra tutti e due avevate sì e no cinquecento sterline, mentre adesso potete
considerarvi abbastanza ricchi.» Amelia era perfettamente d'accordo con lei, e alla
fine anche la conciliante Mrs. Sedley finì con il far sua questa opinione. Quanto a
Mr. Sedley, non aveva un parere personale: «Sposi chi crede,» continuava a
ripetere, «non è affar mio. Questa ragazza non ha un centesimo, ma non ne aveva
nemmeno Mrs. Sedley. È intelligente, mi sembra di buon carattere e forse saprà
come farlo filar diritto. Sempre meglio lei, cara mia, che una Mrs. Sedley dalla
pelle nera e una dozzina di nipotini color mogano.»
Dunque, tutto sembrava arridere al futuro di Rebecca, la quale con assoluta
naturalezza si appoggiò al braccio di Joseph per andare a cena e sedette accanto a
lui a cassetta, nella carrozza aperta. E che figura faceva il nostro, guidando la
pariglia tutto tronfio e borioso! Nessuno parlava delle sue nozze, ma tutti le
davano ormai per cosa fatta. Mancava soltanto una dichiarazione esplicita, e in tal
senso Rebecca in quel momento sentì dolorosamente la mancanza di una madre
trepida e affettuosa che in dieci minuti avrebbe sistemato ogni cosa. Sarebbero
bastate poche parole a quattr'occhi per strappare la confessione decisiva dalle
timide labbra del giovanotto.
La situazione, dunque, si prospettava in questi termini mentre la carrozza
percorreva il ponte di Westminster.
Giunsero ai Royal Gardens. E quando il pomposo Jos scese dal cigolante
veicolo, la folla accolse con uno scroscio di applausi il grasso signore, il quale si
fece rosso e s'avviò, enorme, imponente, al braccio di Rebecca. Per parte sua,
com'è naturale George si occupò di Amelia, che aveva l'aspetto radioso di un
alberello di rose illuminato dal sole.
«Dobbin,» disse George, «ti spiacerebbe occuparti tu degli scialli e del
resto? Da bravo, suvvia!» Così, mentre lui si allontanava al braccio di Amelia e
Jos cercava di rimpicciolirsi il più possibile per riuscire a passare attraverso il
cancello al fianco di Rebecca, il buon Dobbin dovette accontentarsi di dare il
braccio agli scialli e di pagare all'ingresso per tutto il gruppo.
Dopo di che, timidamente guidò i suoi passi dietro la comitiva. Non voleva
essere di disturbo. Del resto, non gl'importava un bel niente di Rebecca e di Jos,
ma in quanto ad Amelia, la riteneva persino all'altezza del portentoso George
Osborne; e quando vide l'avvenente coppia avviarsi lungo i viali (Amelia era allo
zenith della felicità e del più incantato stupore) indugiò in contemplazione di
quella visione di gioia tutta naturale con una sorta di compiacimento paterno.
Forse provava il desiderio di portarsi anche lui qualcuno a braccetto, invece degli
scialli, tanto più che la gente scoppiava a ridere, nel vedere quel giovane ufficiale
goffamente onusto d'indumenti femminili.
Ma William Dobbin era per abitudine incurante di se stesso. Il suo amico si
divertiva, dunque anche lui non poteva che sentirsi appagato e soddisfatto. La
verità è che il capitano Dobbin non prestò la benché minima attenzione a tutto
quanto lo circondava: non agli incantevoli giardini; non alle centomila lampade
perennemente accese; non ai violinisti in tricorno che eseguivano melodie di
sogno sotto il padiglione dorato al centro dei giardini; non ai cantanti di ballate
comiche o sentimentali che giungevano grate all'orecchio degli astanti; non alle
danze campestri intrecciate da agili popolani che saltellavano e battevano i piedi
ridendo; non al segnale che annunciava come Madame Saqui si accingesse a salire
su una fune che arrivava alle stelle; non all'eremita che sedeva nel suo
eremitaggio sempre illuminato; non ai viali immersi nella penombra che
invitavano le coppie d 'innamorati ai loro teneri e segreti colloqui; non ai boccali
di birra serviti da camerieri in vecchie livree malridotte; non ai padiglioni festosi
di luci ove la folla banchettava in allegria, fingendo di mangiare fettine di
prosciutto pressoché invisibili. Insomma, non ebbe occhio per nessuna di queste
cose, né per il gentilissimo Mr. Simson, quel dolce, sorridente imbecille che, se
non erro, fin d'allora dirigeva il luogo in questione.
Si aggirava tirandosi appresso il bianco scialle di Amelia; e dopo aver
ascoltato sotto il padiglione dorato La battaglia di Borodino - una cantata
guerresca contro l'avventuriero corso che proprio in quei giorni aveva subito
quella grave sconfitta sul suolo di Russia - eseguita dalla Salmon, Dobbin si
allontanò provando a cantarellarne il motivo, ma a un certo punto si accorse che
stava ripetendo il ritornello che aveva udito cantare da Amelia mentre lei
scendeva le scale prima di cena.
Al che scoppiò a ridere. Rideva di se stesso, dal momento che, a dire il vero,
la sua voce non era certo più gradevole di quella di un gufo.
È del tutto naturale che i nostri giovani, spartiti in coppie com'erano, dopo
essersi solennemente promessi di non lasciarsi per tutto il corso della serata, si
separassero nel giro di una decina di minuti. Finisce sempre così, a Vauxhall: le
coppie immancabilmente si lasciano per ritrovarsi di bel nuovo all'ora di cena e
raccontarsi a vicenda le avventure reciprocamente vissute in quel lasso di tempo.
Quali furono le avventure di Miss Amelia e Mr. Osborne? È un segreto.
Tuttavia di una cosa possiamo esser certi: furono assolutamente felici e si
comportarono nel modo più corretto. Da quindici anni ormai stavano insieme ogni
qual volta lo volevano, cosicché il loro tête-à-tête non offriva alcun sapore di
novità.
Ma allorché Miss Rebecca e il suo corpulento cavaliere si persero nei
meandri di un viale solitario, ove vagavano non più di un centinaio di coppie
smarrite al pari di loro, entrambi compresero come il momento fosse oltremodo
critico e spinoso, e Miss Sharp pensò che in quel frangente o mai più sarebbe
maturata la dichiarazione che già tremava sulle timide labbra di Mr. Sedley. Già si
erano recati a contemplare il panorama di Mosca, e lì un villanzone aveva pestato
i piedi a Miss Sharp, costringendola a lasciarsi cadere fra le braccia di Mr. Sedley.
Ora, quell'incidente da nulla era valso nondimeno ad accrescere la tenerezza e la
fiducia del signore in questione, tanto da indurlo a raccontarle forse per la sesta
volta un buon numero dei suoi aneddoti indiani.
«Come mi piacerebbe vedere l'India!» disse Rebecca.
«Vi piacerebbe davvero?» chiese Joseph con tenerezza veramente indicibile,
e stava per proseguire in quell'abile interrogatorio (sbuffava e ansimava a un
punto tale, che la mano di Rebecca, posata vicino al suo cuore, poteva captarne
ogni febbrile pulsazione) quando, accidenti!, ecco suonare la campanella che
annunciava l'inizio dei fuochi d'artificio. Ne seguì un gran correre, una gran
confusione, e questa interessante coppia d'innamorati fu indotta a seguire la
corrente della folla.
Il capitano Dobbin aveva pensato di riunirsi agli altri per la cena, dal
momento che, a dir la verità, i divertimenti di Vauxhall non lo interessavano
molto. Due volte venne a passare davanti al piccolo padiglione ove le due coppie
si erano riunite, ma nessuno gli badò. La tavola era imbandita per quattro, le due
coppie erano impegnate in allegri conversari, e Dobbin comprese di esser stato
completamente dimenticato, come non fosse mai apparso sulla faccia della terra.
«Decisamente sarei de trop,» pensò malinconicamente il capitano, «tanto
vale che vada a far due chiacchiere con l'eremita.» S'allontanò dal brusio della
ressa, dal baccano, dal rumor di piatti e di posate del banchetto e imboccò il buio
sentiero in fondo al quale viveva il ben noto Solitario di cartapesta.
Be', non si può dire che sia stato un vero spasso per Dobbin. Io stesso so per
esperienza personale che quando non si è in compagnia Vauxhall è uno dei posti
più deprimenti e desolati del mondo.
Frattanto le due coppie erano perfettamente a loro agio nel piccolo
padiglione, ove si stava svolgendo una conversazione oltremodo intima e
divertente. Pienamente e pomposamente consapevole del proprio ruolo, Jos in
tono solenne dava ordini ai camerieri. Fu lui a condire l'insalata, a sturare la
bottiglia di champagne, a scalcare il pollo, oltre a mangiare e a bere gran parte di
quanto era posato sulla tavola.
Alla fine volle a tutti i costi che si ordinasse una coppa di rack punch. A
Vauxhall tutti bevevano il rack punch. «Cameriere, del rack punch!»
Alle origini della storia che stiamo raccontando figura una coppa di rack
punch. E perché il rack punch non dovrebbe rivestire l'importante funzione che
può assumere qualsiasi altra cosa? Non fu una coppa di acido prussico a
provocare la morte della bella Rosmunda? E non fu una coppa di vino a causare
quella di Alessandro Magno? O, per lo meno, non è quanto asserisce il dottor
Lemprière? Ebbene, parimenti avvenne che la coppa di punch esercitasse un ruolo
determinante sul destino dei principali personaggi di questo «Romanzo senza
eroe».
Influì sulla vita di tutti e quattro, sebbene tre di loro non ne avessero
tracannato nemmeno un sorso.
Le signore non lo assaggiarono, a Osborne non piaceva; di conseguenza Jos,
quel pingue gourmand, bevve l'intero contenuto della coppa, col risultato di
manifestare una vivacità che da principio risultò sorprendente, e poi divenne né
più né meno penosa. Prese infatti a chiacchierare a voce alta e a ridere in modo
così fragoroso, da radunare davanti al padiglione un capannello di almeno venti
persone, mentre l'innocente comitiva quivi raccolta si trovava al colmo
dell'imbarazzo. Poi volle a tutti i costi intonare una canzone, cosa che fece in quel
tono stridulo e miagolante che caratterizza la voce delle persone in stato di
ubriachezza. Per poco non calamitò sul posto l'uditorio raccolto davanti al
padiglione dorato della musica, e la sua esibizione venne salutata dagli scroscianti
battimani dei presenti.
«Bravo ciccione!» gridò un tale.
«Encore, encore, Daniel Lambert!» gridò un altro.
«Guardate, guardate: ha il fisico ideale per ballare sulla corda,» commentò
un altro buontempone, suscitando la costernazione delle due signorine e un
violento impeto di collera in Mr. Osborne.
«Per l'amor del Cielo, Jos, alziamoci e andiamocene!» esclamò il
giovanotto, mentre le signorine si alzavano in piedi.
«Fermati, tesoruccio, coccolina mia!» gridò Jos. E, fattosi audace come un
leone, afferrò Rebecca per la vita. Rebecca fece l'atto di andarsene, ma non le
riuscì di staccare da sé la mano di Joseph. Fuori, gli scrosci di risa raddoppiarono,
mentre Jos continuava a bere, a cantare, a profondersi in goffe galanterie.
Strizzava l'occhio al pubblico, e ondeggiando vezzosamente il suo bicchiere
esortava tutti a bere del punch assieme a lui.
Mr. Osborne si accingeva a fare a pugni con un tizio che indossava un paio
di vistosi stivali e sembrava incline ad approfittare di una simile occasione. Ormai
sembrava impossibile che la situazione non degenerasse in un grave incidente
quando l'amico Dobbin, che fino a quel momento aveva passeggiato su e giù per i
giardini, si avvicinò al padiglione. «Via di qua, imbecilli!» prese a strillare,
respingendo a spallate gran parte della folla che, nel vedere il suo cappello a
tricorno e il suo aspetto alquanto truce, non tardò un istante a darsela a gambe.
Poi, tutto sconvolto, entrò nel padiglione.
«Mio Dio, Dobbin, dove diamine eri andato a finire?» chiese Osborne. E
afferrò lo scialle bianco appeso al braccio dell'amico per posarlo sulle spalle di
Amelia. «Renditi utile e occupati di Jos, mentre io riaccompagno le signore alla
carrozza.»
Jos si alzò in piedi per palesare la sua contrarietà, ma bastò una piccola
spinta delle dita di Osborne per rispedirlo a bofonchiare sulla sua sedia, cosicché
il tenente ebbe modo di portare in salvo Amelia e Miss Rebecca. Mentre queste si
allontanavano, Jos mandò loro un bacio con le dita, mentre esclamava in una sorta
di singulto: «Benedetta! Benedetta voi!» Poi, afferrata la mano del capitano
Dobbin e singhiozzando da straziar l'anima, gli confidò il segreto del suo amore.
Adorava la ragazza che proprio in quel momento si era allontanata. Era certo che
il suo contegno le avesse spezzato il cuore; l'avrebbe sposata l'indomani mattina
nella chiesa di St. George in Hanover Square; per Giove, avrebbe fatto uscire
l'arcivescovo di Canterbury da Lambeth Palace e l'avrebbe costretto a tenersi
pronto alla cerimonia. Astutamente, il capitano Dobbin lo indusse a lasciare senza
indugio i giardini per recarsi immantinenti a Lambeth Palace; dopo di che,
superati i cancelli, non incontrò difficoltà a issare Mr. Joseph Sadlev su una
carrozza pubblica e a scaricarlo sano e salvo a casa sua.
A sua volta George Osborne condusse a casa sane e salve le due ragazze.
Poi, quando la porta venne richiusa dietro di loro ed egli prese ad attraversare
Russell Square, si abbandonò a un tale accesso d'ilarità che la guardia notturna lo
squadrò, interdetta.
Nel salire le scale, Amelia ebbe per l'amica uno sguardo colmo di tristezza,
poi la baciò e andò a coricarsi senza aggiungere una sola parola.
«Non può non dichiararsi, domani,» pensava Rebecca. «Per ben quattro
volte mi ha chiamata "amore dell'anima mia"; mi ha stretto forte le mani sotto gli
occhi di Amelia... Sì, domani si dichiarerà.» Del resto, anche Amelia ne era
sicura. E forse si arrischiò perfino a pensare all'abito che avrebbe indossato nella
sua qualità di damigella d'onore, nonché ai regali che avrebbe fatto alla sua diletta
cognatina. Poi il suo pensiero corse ad un'altra cerimonia, nel corso della quale
sarebbe spettato a lei il ruolo primario... e così via.
Ah, ingenue fanciulle! Davvero non conoscete gli effetti del rack punch! Il
rack nel punch è una bazzecola in confronto al rack in testa, la mattina dopo! E
questa è la pura verità, ve lo posso garantire: non esiste un mal di testa più feroce
di quello provocato dal rack punch di Vauxhall. Sono passati vent'anni da quando
ne ho bevuti due bicchieri, e mi ricordo ancora delle conseguenze, parola di
gentiluomo. Immaginatevi Joseph Sedley, che era malato di fegato e aveva
mandato giù almeno due pinte di quella spaventevole mistura!
L'indomani mattina, che secondo la convinzione di Rebecca avrebbe dovuto
segnare l'inizio della sua lieta sorte, trovò il povero Sedley gemebondo e in preda
a torture che la mia penna si rifiuta di descrivere. L'acqua di soda non era stata
ancora inventata. Lo crediate o no, la birra chiara era l'unica bevanda con la quale
gli sventurati bevitori riuscivano in qualche modo a placare l'arsura causata dalle
soverchie libagioni della sera innanzi. George Osborne trovò appunto l'ex
ricevitore di Boggley Wollah con un bicchiere di quel beverone davanti a sé. Il
poveraccio gemeva, seduto su un divano, mentre Dobbin, che già si trovava sul
posto, si occupava bonariamente del suo infermo come già aveva fatto la sera
prima. I due ufficiali contemplavano quel Bacco sfiancato dai suoi eccessi, e
sogghignavano guardandosi con la coda dell'occhio. Persino il cameriere
personale di Sedley, un uomo dall'aspetto solenne e impassibile, muto e grave
come un impresario di pompe funebri, faticava a trattenere le risa quando posava
lo sguardo sul suo disgraziato padrone.
«Mr. Sedley era furibondo, ieri sera, signore. Una cosa veramente
inconsueta. Voleva, nientemeno, prendere a pugni il vetturino. Il capitano è stato
costretto a portarlo di sopra in braccio come un lattante.» E nel profferire queste
parole un vago sorriso affiorò sui lineamenti di Mr. Brush, che peraltro si
ricompose subito ritrovando la sua calma insondabile, mentre apriva la porta del
salone e annunziava: «Mr. Hosbin.»
«Come va, Sedley»? chiese il giovane, dopo aver gettato un'occhiata alla sua
vittima. «Niente ossa rotte? Da basso c'è un vetturino con un occhio pesto e la
testa fasciata che vuole denunciarti ad ogni costo.»
«Come sarebbe a dire "denunciarti?"» chiese Sedley con un fil di voce.
«Tu l'hai picchiato la notte scorsa, vero, Dobbin? Gliene hai date un sacco,
caro mio, sembravi Molyneux. La guardia notturna ha dichiarato di non aver mai
visto nessuno crollare a terra steso a quel modo. Chiedi pure a Dobbin, se non ci
credi.»
«Sì, sì, hai combattuto un vero e proprio round col vetturino,» confermò
Dobbin. «E ce l'hai messa tutta, anche!»
«E quel tale in giacca bianca, a Vauxhall. Come l'ha fatto correre, Jos! E le
donne! Che strilli!... Confesso che questo spettacolo mi ha fatto veramente
piacere. Credevo che voialtri borghesi non sapeste nemmeno dove sta di casa, il
coraggio. Ad ogni modo, per parte mia starò attento a schivarvi, Jos, quando avete
bevuto!»
«Eh, quando voglio so essere terribile,» rispose Jos dal suo sofà con voce
flebile. E nel dir questo fece una smorfia così contrita e al tempo stesso così
ridicola, che persino il capitano, sempre così compunto, non poté trattenersi e
sbottò in una fragorosa, incontenibile risata.
Osborne aveva il coltello per il manico e volle approfittarne senza pietà. Non
aveva smesso di pensare all'eventualità di quel matrimonio fra Jos e Rebecca; e
l'idea che un membro nella famiglia della quale lui, George Osborne del ...mo
Reggimento, sarebbe entrato quale parte integrante della medesima, commettesse
una mésaillance con una ragazzuccia da quattro soldi, con un'istitutrice, con
un'intrigante, non gli garbava affatto. «Tu avresti picchiato qualcuno? Tu, povero
vecchiardo? Ma figuriamoci!» disse dunque Osborne. «Tu terribile! Ma se non ce
la facevi nemmeno a reggerti sulle gambe! Ai Giardini stavi quasi per piangere, e
intorno la gente sghignazzava. Miagolavi, Jos, proprio così. Hai cantato
addirittura una canzone, te ne ricordi sì o no?»
«Cosa?» domandò Jos.
«Dico se ti ricordi di aver cantato una canzone sentimentale, e di aver
chiamato Rosa... cioè, volevo dire Rebecca, o come diavolo si chiama quell'amica
di Amelia, "Tesoruccio, cocchina mia".» Dopo di che quel perfido giovanotto
afferrò Dobbin per una mano e rifece la scena, tra l'inorridito sconcerto
dell'autentico protagonista, e ad onta delle suppliche del buon Dobbin, che lo
pregava di aver pietà.
«Perché dovrei aver pietà?» rispose Osborne all'amico che lo rimproverava,
quando ebbero lasciato il malato affidandolo alle cure del dottor Gollop. «Ma si
può sapere quale diritto ha di far tanto il gradasso e di mettersi alla berlina a
Vauxhall? E chi è quella scolaretta che gli fa le moine? Perdio, la famiglia è già di
bassa estrazione, se poi ci s'intrufola costei... Non ho niente da dire sul conto delle
istitutrici, però come cognata preferisco avere una signora. Sono uomo di larghe
vedute, però ho una dignità da difendere e so perfettamente quale sia la mia
condizione! Quindi è opportuno che anche lei sia consapevole della sua. Dunque
spetta a me far intendere le cose a quel Nababbo ciccione, e impedirgli di
comportarsi da cretino più di quanto lo sia di natura. Per questo gli ho detto di
stare in guardia, perché lei potrebbe anche vendicarsi.»
«Può darsi che tu abbia ragione,» rispose Dobbin, perplesso. «Tu sei sempre
stato un Tory e la tua famiglia è una delle più antiche d'Inghilterra. Però...»
«Va' a trovare le ragazze e fa' la corte a miss Sharp,» propose il tenente
interrompendo Dobbin. Ma quest'ultimo non si disse disposto ad accompagnarlo
nelle sue visite quotidiane alle signorine di Russell Square.
George, che da Holborn scendeva lungo Southampton Row, scoppiò a ridere
quando vide che due teste erano affacciate a spiare la strada dal primo e dal
secondo piano di casa Sedley.
Sul balcone del salotto, Amelia guardava ansiosamente nella direzione
opposta, dove abitava Osborne, smaniosa di vederlo arrivare, e Miss Sharp, dalla
sua stanza al secondo piano, se ne stava all'erta, speranzosa di veder apparire la
grossa sagoma di Joseph Sedley.
«Sorella Anna è sulla torre di vedetta,» disse Osborne ad Amelia. E tra mille
risate le descrisse nel modo più comico le condizioni deplorevoli in cui versava
suo fratello, divertendosi moltissimo del proprio racconto.
«Siete cattivo a riderne così, George,» disse Amelia, al colmo della
desolazione. Ma la sua espressione così afflitta e costernata non fece che
accentuare le risate di Osborne, convinto com'era che la situazione fosse quanto
mai divertente. E quando poi comparve Miss Sharp, non desistette dal proprio
atteggiamento: anzi, la prese in giro sottolineando l'effetto che il suo fascino
aveva esercitato su quel ciccione di Jos.
«Ah, Miss Sharp, se l'aveste veduto stamani, avvolto in una vestaglia a fiori,
mentre si lamentava e si torceva sul sofà! Se l'aveste veduto nell'atto di tirar fuori
la lingua per farla vedere al dottor Gollop!»
«Chi avrei dovuto vedere?»
«Chi? Come sarebbe a dire, chi? Ma il capitano Dobbin naturalmente, per il
quale, fra parentesi, abbiamo avuto tante premure, ieri sera.»
«Al contrario, siamo stati tutti molto scortesi con lui,» disse Emmy,
arrossendo vivamente.» Io... Io mi ero letteralmente dimenticata di lui.»
«Ma è logico,» rispose Osborne, che non smetteva di ridere. «Non si può
passar la vita a occuparsi del capitano Dobbin, nevvero Amelia? Nevvero, Miss
Sharp?»
«Tranne quando ha rovesciato quel bicchiere di vino sulla tavola,», disse
Miss Sharp in tono altezzoso e sospingendo il capo all'indietro, «ho
semplicemente ignorato l'esistenza del capitano Dobbin. Non mi sono accorta di
lui un solo momento.»
«Perfetto, Miss Sharp, non mancherò di dirglielo,» disse Osborne. E mentre
parlava, Miss Sharp sentiva nascere in lei un sentimento di odio e di diffidenza
per il giovane ufficiale, che quest'ultimo non pensava nemmeno lontanamente di
aver suscitato. «Ho il sospetto che costui voglia burlarsi di me,» pensava Rebecca.
«Chissà, magari ha riso di me anche con Joseph. E se lo avesse spaventato? Forse
non si farà più vedere.» Le si annebbiò la vista e il cuore prese a pulsarle
all'impazzata.
«Voi mi prendete sempre in giro,» disse Rebecca sforzandosi di sorridere
con tutto il candore possibile. «E va bene, scherzate pure, Mr. George; io non ho
nessuno che possa prendere le mie difese.» Dopo di che se ne andò, e mentre
Amelia gli rivolgeva un tacito rimprovero, da gentiluomo qual era, Osborne provò
un tenue palpito di rimorso per aver usato un'inutile sgarberia a quella fanciulla
indifesa.
«Vedete, cara Amelia,» disse, «voi siete troppo buona, troppo gentile. Non
conoscete il mondo. Io sì, invece. E miss Sharp, la vostra piccola amica, deve
imparare a comportarsi come le si conviene.»
«Non credete che Jos voglia...»
«Non ne so nulla, mia cara, ve lo giuro. Forse sì e forse no. Non sono il suo
padrone, io. So soltanto che è molto sciocco, molto vanesio, e che ieri sera ha
messo il mio tesoruccio in una situazione quanto mai sgradevole e imbarazzante.
Il mio tesoruccio, la cocchina mia...» E di nuovo scoppiò a ridere, ma in modo
così comico che anche Emmy si unì alla sua risata. Per tutta la giornata Jos non si
fece vivo. Ma Amelia non se ne diede pensiero; le venne l'idea di mandare il
ragazzo, il piccolo aiutante di Sambo, a casa di Joseph per sollecitare un libro che
lui le aveva promesso e per chiedere notizie. Mr. Brush, il cameriere di Joseph,
fece sapere, a titolo di risposta, che il suo padrone era a letto ammalato e che poco
prima il dottore si era recato a visitarlo.
«Verrà domani,» pensò Amelia, ma non ebbe il coraggio di farne parola con
Rebecca. Del resto, nemmeno Rebecca fece la minima allusione a Joseph per tutto
il giorno successivo alla serata di Vauxhall.
Tuttavia l'indomani, mentre le signorine sedevano sul divano fingendo di
lavorare, di scriver lettere o di leggere un romanzo, Sambo entrò nel salotto col
suo solito sorriso accattivante. Recava un involto sotto braccio e un biglietto
posato su un vassoio.
«Un biglietto da Mr. Jos, signorina,» disse Sambo.
Come tremava Amelia, mentre lo apriva!
Il biglietto diceva:
Cara Amelia,
ti mando The Orphan of the Forest. Ieri non sono potuto venire, stavo
troppo male. Oggi parto per Cheltenham. Ti prego, se puoi di scusarmi presso
l'amabile Miss Sharp per il mio comportamento a Vauxhall. Supplicala di
concedermi il suo perdono e di voler dimenticare le parole che in un momento di
eccitazione inconsulta posso aver pronunciato durante quella cena fatale. Non
appena sarò guarito (la mia salute ha subìto una grave scossa) me ne andrò in
Scozia per qualche mese.
Tuo devotissimo
Jos Sedley
Era la sentenza di morte. La fine di tutto. Amelia non osò posare lo sguardo
sul volto pallidissimo e sugli occhi brucianti di Rebecca, ma lasciò cadere la
lettera in grembo all'amica, si alzò e salì in camera sua ove diede libero sfogo al
suo dolore e alla sua delusione.
Mrs. Blenkinsop, la governante, accorse a consolarla. Amelia si abbandonò
singhiozzando sulla sua spalla e ben presto si sentì racconsolata. «Non
affliggetevi così, signorina,» le disse, avrei preferito non dirvelo, ma credetemi:
dopo i primi giorni quella ragazza non è piaciuta più a nessuno. L'ho sorpresa io
in persona mentre leggeva le lettere di vostra madre. La Pinner continua a ripetere
che fruga nel vostro stipo, nei vostri cassetti e nei cassetti di tutti noi. È sicura,
dice, che ha cacciato il vostro nastro bianco dentro la sua valigia.
«Sono stata io a darglielo, sono stata io!» Ma queste parole non valsero a
mutare l'opinione di Mrs. Blenkinsop su Miss Sharp.
«Quelle istitutrici non mi vanno giù, Pinner,» disse alla cameriera, «si danno
arie e tono da gran signore, ma alla resa dei conti hanno un salario come voi e me,
e non è certo migliore.»
Ormai, fatta eccezione per la povera Amelia, tutti in casa erano convinti che
la partenza di Rebecca era una realtà necessaria e inevitabile, e sia i servitori, sia i
padroni (esclusa Amelia) concordavano nel pensare che dovesse andarsene il più
presto possibile.
La nostra brava bambina fece man bassa nei suoi cassetti e armadi,
saccheggiò le scatole in cui teneva i gingilli, passa in rassegna i vestiti, gli scialli,
i fermagli, le reticelle, i pizzi, le calze di seta e ogni cianfrusaglia di cui
disponeva, e fece una selezione di effetti personali che mise in disparte per farne
dono a Rebecca.
Poi andò dal suo papà, che era un commerciante inglese davvero generoso e
aveva promesso di darle tante ghinee quanti erano i suoi anni, e lo supplicò di
regalare quel denaro alla povera Rebecca che ne aveva tanto bisogno, mentre lei
non mancava di nulla.
Riuscì persino a estorcere un'elargizione a George Osborne, e niente affatto
irrisoria, dal momento che il giovanotto era forse l'ufficiale più scialacquatore di
tutto l'esercito: George si recò in Bond Street e vi acquistò il più grazioso cappello
e la più bella casacchina che si potesse comperarvi a suon di palanche.
«Questo è un regalo che ti manda George, cara Rebecca,» disse Amelia,
tutta fiera dell'elegante scatola che conteneva quei doni. «Ha veramente un gusto
eccezionale, non ne esiste un altro come lui.»
«Proprio così,» rispose Rebecca, «ed io gli sono profondamente grata.» Ma
tra sé e sé pensava: «È stato George Osborne a mandare a monte il mio
matrimonio,» onde non ci è difficile immaginare quali fossero i veri sentimenti
che provava per lui.
Serena, rassegnata, si preparò alla partenza, e accettò tutti i doni della gentile
Amelia, non senza mostrare dapprima quel minimo di esitazione e di riluttanza
imposto dalle regole della buona educazione. Naturalmente esternò la sua eterna
gratitudine a Mrs. Sedley, ma senza insistere troppo: la brava signora era
imbarazzatissima ed era evidente che cercava in tutti i modi di evitarla. Quando
Mr. Sedley le regalò la borsa gli baciò la mano; e trovò accenti di tale
commozione quando gli chiese il permesso di considerarlo d'ora in poi il suo
amico e protettore, ch'egli fu sul punto di sottoscriverle un assegno per altre venti
sterline, ma si trattenne in tempo: doveva prender parte a una cena, la carrozza lo
attendeva e si affrettò a congedarsi. «Dio vi benedica, mia cara. Quando verrete a
Londra, troverete la nostra casa sempre pronta ad accogliervi. Alla Mansion
House, James.»
Alla fine giunse il momento di separarsi da Amelia, e su questo quadro
preferisco stendere un velo. Mi limiterò a riferire che, dopo una scena nel corso
della quale ci fu chi faceva sul serio e chi recitava perfettamente la sua parte, dopo
che le più affettuose carezze, le lacrime più sconsolate, la bottiglia del sale
volatile e alcuni dei migliori sentimenti di cui è capace il cuore umano ebbero
svolto la loro singola funzione, Rebecca ed Amelia si lasciarono, mentre la prima
giurava che avrebbe amato l'amica per sempre, per sempre, per sempre.
VII • CRAWLEY DI QUEEN'S CRAWLEY
Tra i nomi più rispettabili che figuravano alla lettera C nel Court Guide del
18..., c'era quello di sir Pitt Crawley, baronetto, residente in Great Gaunt Street,
oppure a Queen's Crawley, nell'Hampshire. Quel nome onorato era apparso altresì
costantemente nella lista dei candidati al parlamento, accanto a quello di altri
gentiluomini d'alto rango che si presentavano a turno alle elezioni per quella
circoscrizione.
A proposito di Queen's Crawley, si narra che la regina Elisabetta ebbe a
sostarvi per colazione nel corso di uno dei suoi viaggi, e a tal punto ebbe ad
apprezzarvi un'ottima birra offerta dal Crawley del tempo (un uomo aitante dalla
barba ben curata e dalle solide gambe) che lì per lì accordò al paese il diritto
d'inviare due suoi esponenti al Parlamento. E dal giorno della visita di Sua Maestà
il villaggio assunse la denominazione di Queen's Crawley, che conserva ancor
oggi. Per la verità a causa del tempo trascorso e dei mutamenti che intervengono
nel corso dei secoli, vuoi negli imperi, vuoi nelle città e nei villaggi, Queen's
Crawley non era più la popolosa borgata ch'era stata ai tempi della regina Bess,
anzi era declinata allo stato di quello che suole essere definito un lurido villaggio.
Nondimeno sir Pitt Crawley, con rigoroso senso della giustizia e con
quell'eleganza di tratto che gli era peculiare, diceva: «Lurido? Lurido un corno!
Mi rende 1.500 sterline buone all'anno!»
Sir Pitt Crawley, così chiamato dal nome del grande parlamentare, era figlio
di Walpole Crawley, primo baronetto, ministro del Sigillo durante il regno di
Giorgio II, quando fu incriminato per peculato al pari di molti intemerati
gentiluomini dell'epoca: Walpole Crawley, non fa conto precisarlo, era figlio di
sir John Churchill Crawley, così chiamato in onore del famoso comandante
militare del tempo della regina Anna. Sull'albero genealogico appeso a Queen's
Crawley non manca nemmeno Charles Stuart, che più tardi fu denominato Charles
Barebones, figlio del Crawley vissuto durante il regno di Giacomo I; e prima di
ogni altro il Crawley della regina Elisabetta, rivestito della sua armatura e con la
sua bella barba a doppia punta. Dal suo giustacuore, secondo l'uso dell'epoca,
fuoruscivano gli innumerevoli rami di un albero fronzuto, sui quali erano scritti
gli illustri nomi poc'anzi menzionati. Accanto al nome di sir Pitt Crawley (del
quale si parla nel nostro racconto) si legavano altresì quelli del fratello, il rev.
Bute Crawley (il grande parlamentare era in disgrazia quando lui nacque) rettore
di Crawley-cum-Snailby, e di parecchi altri membri d'ambo i sessi della famiglia
Crawley.
Sir Pitt in prime nozze aveva sposato Grizzel, sesta figlia di Lord Mungo
Binkie, e di conseguenza cugina di Mr. Dundas. Da costei aveva avuto due figli:
Pitt, così chiamato non in onore di suo padre, ma del grande ministro, l'inviato
della provvidenza, e Rawdon Crawley, che ebbe il suo nome in onore del grande
amico del principe di Galles, dal quale, una volta divenuto re Giorgio IV, venne
completamente dimenticato. Molti anni dopo la morte di Lady Crawley, Sir Pitt
condusse all'altare Rosa, figlia di Mr. G. Dewson di Mudbury; ed essa gli diede
due figlie per la cui educazione ora veniva assunta come istitutrice Miss Rebecca
Sharp. Di conseguenza la madamigella in questione stava per entrare in una
famiglia di antico lignaggio, si sarebbe trovata in un ambiente oltremodo distinto,
di gran lunga superiore a quello assai mediocre che aveva testé lasciato in Russell
Square.
Aveva ricevuto l'ordine di raggiungere le sue allieve per mezzo di due righe
scritte su una vecchia busta, e che dicevano testualmente:
Sir Pitt Crawley prega Miss Sharp di trovarsi qui con il suo bagaglio
martedì, perché devo partire per Queen's Crawley domenica mattina presto.
Great Gaunt Street.
Rebecca, per quanto ne sapeva, non aveva mai visto un baronetto in vita sua.
Pertanto, preso congedo da Amelia, contate le ghinee che quel brav'uomo di Mr.
Sedley aveva messo in una borsa per lei, asciugatisi gli occhi col fazzoletto
(concludendo quest'operazione non appena la carrozza ebbe svoltato l'angolo),
cominciò a chiedersi quale fosse, verosimilmente, l'aspetto di un baronetto:
«Forse porta una stella sulla giacca... O la stella è riservata ai Lords? Ad ogni
modo sarà molto elegante; senza dubbio indosserà l'abito di Corte a sbuffi e avrà i
capelli incipriati come quelli di Mr. Wroughton, il celebre attore del Covent
Garden. È sarà pieno di superbia; sono quasi certa che mi tratterà dall'alto in
basso. Dovrò adattarmi alla bell'e meglio e accettare la situazione: sarà sempre
meglio vivere tra la nobiltà che in mezzo a quella rozza gentucola della City...»
Ma occorre aggiungere come queste considerazioni sui suoi amici di Russell
Square fossero impregnate della stessa amara filosofia con la quale, in una celebre
favola apologetica, si dice che la volpe parlasse dell'uva.
Dopo aver attraversato Gaunt Square e svoltato in Great Gaunt Street, la
carrozza si fermò davanti ad una casa alta e tetra fiancheggiata da due case
parimenti alte e tetre; e tutte e tre recavano sopra la finestra del salone centrale
uno stemma abbrunato: una peculiarità, questa, che può sempre essere registrata
in Great Gaunt Street, ove si direbbe che la morte regni sovrana in qualsiasi
momento dell'anno. Le imposte del primo piano della casa di Sir Pitt erano chiuse,
quelle della finestra della sala da pranzo erano semiaperte, mentre le tende
apparivano avvolte con somma cura entro vecchi giornali.
John, lo staffiere, aveva guidato da solo la carrozza. Pertanto, non essendoci
altri a cassetta, non aveva la minima voglia di scendere a tirare il campanello.
Così pregò un garzone di lattaio che passava in quel mentre di sostituirlo in quella
bisogna. Quando costui ebbe tirato il campanello, dalle imposte della sala da
pranzo si sporse una testa, mentre la porta d'ingresso veniva aperta da un
domestico in brache corte, ghette, una casacca vecchia e sudicia e un lurido
fazzoletto avvolto intorno al collo villoso. La testa era lucidissima e calva; il volto
rubizzo, dall'espressione ambigua, gli occhi ammiccanti e la bocca piegata in un
continuo sogghigno.
«Abita qui Sir Pitt Crawley?» chiese John senza scendere di cassetta.
Dalla porta l'uomo assentì con un cenno del capo.
«Allora tira giù queste valigie!» ribatté John.
«Perché non lo fai tu?» rispose l'uomo, sempre fermo sulla soglia.
«Non posso mollare i cavalli. Lo vedi che sono solo, sì o no? Coraggio, da'
una mano e vedrai che la signorina ti pagherà una birra,» disse John con una
risataccia da cavallo e affatto incurante di Miss Sharp dal momento che
quest'ultima aveva rotto coi suoi padroni e, andandosene, non aveva lasciato la più
piccola mancia per il personale di servizio.
L'uomo dalla testa calva si levò le mani di tasca e, fattosi avanti, si caricò
sulle spalle il baule di Miss Sharp, portandolo in casa.
«Prendete anche questo cesto e questo scialle, per piacere, e apritemi la
porta,» disse Miss Sharp mentre scendeva dalla carrozza al colmo
dell'indignazione. E aggiunse, rivolta a John: «Scriverò a Mr. Sedley per riferirgli
come vi siete comportato.»
«Se fossi in voi non lo farei,» rispose lo staffiere. «Voglio sperare che non
abbiate dimenticato niente. I vestiti di Miss Amelia, per esempio... li avete presi sì
o no? Erano destinati alla cameriera, speriamo almeno che vi vadano bene. Chiudi
la porta, Jim; tanto da quella lì non caverai mai niente di buono, puoi starne
certo.» E indicò Rebecca con il pollice. «Un brutto tipo, credimi, un brutto tipo.»
E nel dir questo lo staffiere di Mr. Sedley diede una frustata ai cavalli e ripartì. La
verità è che se la faceva con la suddetta cameriera, ed era indignato che
quest'ultima fosse stata defraudata del vestiario destinatole.
Su esortazione dell'uomo con le ghette, Rebecca entrò nella sala da pranzo,
che non le parve più allegra di quanto siano solitamente locali del genere in
assenza dei nobili padroni di casa. Le fedeli stanze sembrano in lutto a causa di
quell'assenza. Il tappeto è arrotolato ai margini della credenza; i quadri celano la
loro effigie dietro fogli di carta, il lampadario pende dal soffitto avvolto in un
deprimente sacco di juta scura; le tende alle finestre sono dissimulate da lerce
fodere rimediate alla bell'e meglio. Dal suo angolo buio il busto in marmo di Sir
Walpole Crawley fissa i tavoli sgombri da ogni oggetto, gli alari lucidi d'olio, i
portacarte vuoti posati sulla mensola del caminetto. La scansia delle bottiglie è
pressoché nascosta sotto il tappeto, le sedie sono capovolte e allineate contro le
pareti, e in un altro angolo altrettanto immerso nella penombra, di fronte alla
statua e appoggiata a un tavolino a rotelle per le vivande, c'è una rozza e antiquata
cassetta da posate, chiusa a chiave.
Accanto al caminetto c'erano due seggiole da cucina, un tavolo rotondo, un
vecchio paio di molle e un attizzatoio. Una pentola bolliva, appesa sopra uno
stento fuocherello. Sul tavolo c'era del pane, un po' di formaggio, un candeliere di
stagno e un poco di birra scura dentro un boccale.
«Avrà già mangiato, immagino. Fa troppo caldo, qua dentro, per voi? Vi
andrebbe un sorso di birra?»
«Dov'è Sir Pitt Crawley?» chiese Miss Sharp in tono maestoso.
«Sir Pitt? Ah! Ah! Sono io, Sir Pitt, e se non vado errato mi dovete una birra
perché ho scaricato i vostri bagagli. Chiedetelo alla Tinker se non è vero che sono
proprio io Sir Pitt. Mrs. Tinker, vi presento Miss Sharp. Signora istitutrice, questa
è la signora cameriera.»
La donna che era designata con l'appellativo di Mrs. Tinker entrava in quel
momento nella stanza recando una pipa e un cartoccio di tabacco che era stata
spedita a comperare poco prima dell'arrivo di Miss Sharp. La Tinker porse pipa e
tabacco a Sir Pitt, che nel frattempo si era messo a sedere di fianco al fuoco.
«E il resto dove lo avete cacciato? Vi ho dato un penny e mezzo. Fuori il
resto, vecchia Tinker.»
«Eccolo, il vostro resto,» rispose la Tinker gettandogli gli spiccioli. «Non ci
sono che i baronetti per correr dietro ai centesimi.»
«Un centesimo al giorno fa sette scellini all'anno,» rispose il deputato, «e
sette scellini sono l'interesse di sette ghinee. Preoccupatevi dei centesimi, cara la
mia Tinker, e vedrete che le ghinee spunteranno da sole.»
«Eh, sì, cara la mia ragazza, questo è proprio Sir Pitt Crawley. Per capirlo
basta guardare com'è attaccato al quattrino,» commentò Mrs. Tinker, contrariata.
«Non impiegherete molto tempo a conoscerlo.»
«Non per questo ho qualche demerito,» replicò Sir Pitt in tono quasi
compito. «Prima che generosi occorre esser giusti, Miss Sharp.»
«Non ha mai regalato un centesimo in tutta la sua vita, «brontolò la Tinker.
«E non lo farò mai, dal momento che è contro i miei principi. Se volete
sedervi con noi andate a prendervi un'altra seggiola in cucina, vecchia Tinker. Poi
manderemo giù un boccone.»
Ciò detto, Sir Pitt introdusse la forchetta nella pentola posata sul fuoco, ne
trasse un pezzo di trippa e una cipolla, divise l'uno e l'altra in parti eguali dandone
a Mrs. Tinker. «Vedete, Miss Sharp, quando non sono in città, il vitto di Mrs.
Tinker è a mio carico; quando invece sono qui, cena con noi. Ah! Ah! Sono
proprio contento che Miss Sharp non abbia fame. E anche voi, Tink, non è vero?»
E presero a consumare quella cena frugale.
Terminato che ebbero di mangiare, Sir Pitt si mise a fumare la pipa, e
quando fu completamente buio accese la candela infilata nel candeliere di stagno,
levò di tasca un enorme fascio di carte e cominciò a leggerle e a riordinarle.
«Sono qui per via di una causa, mia cara, in virtù della quale domani mi
godrò una così vezzosa compagna di viaggio.»
«Lui ne ha sempre di cause,» commentò la Tinker, prendendo il boccale
della birra.
«Suvvia, coraggio, bevete,» disse il baronetto. «Eh, sì, cara mia, Mrs. Tinker
ha perfettamente ragione. Ho vinto e perso più cause io di qualsiasi altro in
Inghilterra. Ecco qua: questa è la causa di Sir Pitt Crawley versus Snaffle. Gliela
farò perdere, o io non mi chiamo più Pitt Crawley. Poi c'è questa di Podder e
un'altra versus Crawley. I fabbricieri della parrocchia di Snaily contro Sir Pitt
Crawley! Non possono assolutamente provare che si tratta di terreno pubblico. Li
sfido. Quella è roba mia. Non è della parrocchia, quella terra. Sarebbe come dire
che è vostra, o della Tinker. Li sconfiggerò, dovessi rimetterci anche mille ghinee.
Guardate, guardate pure se vi garba. Leggete. Avete una bella scrittura? Quando
saremo a Queen's Crawley mi farò dare una mano da voi, potete esserne certa,
Miss Sharp. Adesso che mia madre è morta ho bisogno di qualcuno che svolga le
sue mansioni.»
«Era un'attaccabrighe come lui, tale e quale. Faceva causa a tutti i fornitori.
In quattro anni ha licenziato quarantotto servitori.»
«In quanto ad avara, era avara,» disse il baronetto senza scomporsi, «ma mi
rendeva dei servigi preziosi. Quando c'era lei, potevo fare a meno di un
amministratore.» E la conversazione continuò a lungo su questo tono
confidenziale, con grande divertimento della nuova venuta. Quali che fossero le
qualità di Sir Pitt Crawley, buone o cattive, un fatto è certo: non si curava
minimamente di nasconderle. Parlava solo e soltanto di se stesso, e alternava il
più scoperto e grossolano accento dello Hampshire ai toni signorili di un uomo
del gran mondo. Pertanto, dopo aver ordinato perentoriamente a Miss Sharp di
esser pronta l'indomani mattina alle cinque, le augurò la buona notte. «Dormirete
con Mrs. Tinker, stanotte. È un letto così grande che in due ci si sta benone. Ci è
morta Lady Crawley. Buona notte.»
Con questa benedizione Sir Pitt se ne andò; dopo di che la solenne Tinker,
reggendo il lucignolo in mano, fece strada su per la nuda e grande scalea di pietra,
passò davanti alle alte e lugubri porte del salone, con le maniglie avvolte nella
carta, e penetrò nella camera da letto padronale ove Lady Crawley aveva dormito
il suo ultimo sonno. Sia il letto che la camera erano così tetri e funerei, che, oltre
ad essere la stanza in cui Lady Crawley aveva esalato l'ultimo respiro, si sarebbe
detto che vi aleggiasse il suo spettro. Ciò non impedì a Rebecca di fare il periplo
della stanza andando allegramente su e giù, curiosando nel guardaroba e negli
armadi, provandosi ad aprire i cassetti chiusi a chiave, osservando i quadri ed
esaminando gli oggetti di toeletta. Nel frattempo la vecchia domestica era
immersa nelle sue preghiere. «Se avessi la coscienza sporca, non vorrei proprio
dormire in questa camera» disse costei. «Qui c'è posto per noi e per una mezza
dozzina di fantasmi,» rispose Rebecca. «Mia cara Mrs. Tinker, raccontatemi tutto
di Lady Crawley, di Sir Pitt Crawley e degli altri.»
Ma la vecchia Tinker non era certo il tipo da abbandonarsi alle confidenze
sollecitate da quell'indiscreta. E lasciandole intendere che il letto era destinato al
sonno, non ai conversari, si piazzò a un'estremità del medesimo e russando diede
inizio a un concerto quale può essere intonato solo dal naso dell'innocenza.
Rebecca tardò ad addormentarsi: pensava al domani, al nuovo mondo nel
quale entrava e alle occasioni di successo che t le venivano offerte. Il lucignolo
baluginava nella coppetta. Il caminetto proiettava una larga ombra nera sulla metà
di un vecchio arazzo muffito che senza dubbio Lady Crawley aveva ricamato con
le sue mani, e sul ritratto di due giovincelli: l'uno in toga da universitario e l'altro
in uniforme militare scarlatta. E di quest'ultimo, mentre era ormai prossima al
sonno, Rebecca decise di fare l'oggetto dei suoi sogni.
Alle quattro di un mattino d'estate così roseo da rendere allegro un luogo
sconfortante come Great Gaunt Street, la fedele Tinker svegliò la sua compagna
di letto esortandola a prepararsi per la partenza; poi tolse catenacci e chiavistelli al
portone d'ingresso in anticamera, suscitando un fragore che echeggiò
paurosamente in tutta la strada, e alla fine si diresse in Oxford Street per chiamare
una carrozza ferma a un posteggio. È inutile precisare quale fosse il numero della
carrozza; e tantomeno sottolineare come il vetturino stazionasse di prima mattina
nelle adiacenze di Swallow Street, nella speranza che qualche allegro
buontempone uscito dalla taverna e diretto barcollando verso casa sua, avesse
bisogno del suo veicolo, per poi ricompensarlo con la ben nota munificenza degli
ubriachi. E del pari è ozioso puntualizzare come il suddetto vetturino, se mai
aveva accarezzato la speranza sopra descritta, patisse la più cocente delusione, dal
momento che l'illustre baronetto da lui condotto fino alla City non gli accordò un
centesimo di più del prezzo della corsa.
Invano pregò, invano andò in furia e scaraventò il bagaglio di Miss Sharp
nel rigagnolo di scarico davanti alla locanda delle diligenze, giurando che avrebbe
fatto ricorso in tribunale contro un cliente del genere.
«Te lo sconsiglio,» disse uno degli stallieri, «questo signore è Sir Pitt
Crawley.»
«Proprio così, Joe,» confermò il baronetto, «e vorrei proprio veder la faccia
di un tale che riuscisse a spuntarla contro di me.»
«Già, piacerebbe anche a me,» disse Joe con un ghigno sardonico, mentre
issava il bagaglio di Sir Pitt sul tetto della diligenza.
«Riservami il posto a cassetta, capo,» gridò il membro del parlamento al
postiglione. «Benissimo, Sir Pitt,» rispose quest'ultimo toccandosi educatamente
il cappello, ma livido di rabbia perché aveva promesso quel posto a uno studente
di Cambridge che certamente gli avrebbe dato una corona di mancia. Quanto a
Miss Sharp, fu sistemata su un sedile posteriore all'interno di quel veicolo, a
bordo del quale doveva, in un certo senso, fare il suo ingresso in questo vasto
mondo.
Tralascerò di raccontarvi come lo studente di Cambridge s'inerpicasse
seccatissimo, coi suoi cinque mantelli, sull'imperiale, e come il suo umore
migliorasse prontamente quando Miss Sharp fu costretta a lasciare l'interno della
diligenza e a sistemarsi lassù, accanto a lui, che subito la coprì con una delle sue
pellegrine; o come il vecchio signore asmatico, la signora tutta smorfie che giurò
su quanto aveva di più sacro al mondo di non aver mai prima d'ora affrontato un
viaggio in diligenza (c'è sempre una signora del genere in una diligenza; o meglio
c'era, dal momento che ormai le diligenze... dove sono finite?) e la grassa vedova
con la fiaschetta del brandy si accomodassero all'interno; o come il facchino
sollecitasse quattrini da tutti i passeggeri, ottenendo un sixpence dal signore e due
soldi e mezzo unti e bisunti dalla grassa vedova; o come finalmente la diligenza
s'inoltrasse lungo le strade tetre e anguste di Aldersgate, passasse rumorosamente
davanti alla cupola azzurra della cattedrale di St. Paul, per poi accelerare
all'altezza della porta di Fleet Market che, al pari dell'Exeter Change, è ormai
entrata a far parte del regno delle ombre; o, ancora, come proseguisse transitando
davanti al White Bear a Piccadilly e i viaggiatori vedessero la rugiada imperlare le
ortaglie di Knightsbridge, finché si lasciarono alle spalle Turnham Green,
Brentford e Bagshot. Tuttavia chi scrive queste pagine, avendo intrapreso in tempi
lontani lo stesso viaggio, e in una giornata altrettanto radiosa, non può esimersi
dal ricordarlo con un rimpianto denso di dolore e di soave malinconia. Dov'è, ora,
quella strada? Dov'è finita la festosa gaiezza di quei giorni remoti? Non esistono
dunque più Chelsea e Greenwhich e quei bravi, vecchi postiglioni col naso
bitorzoluto? Dov'è finita quella brava gente? E il vecchio Weller è forse ancora al
mondo? E quei simpatici camerieri, e le locande dove prestavano servizio, e quei
bei pezzi di manzo freddo, e il garzone un po' tonto col suo naso paonazzo e i
secchi tintinnanti? Dov'è, ora? E con lui dov'è finita tutta la sua generazione? Per i
grandi geni del futuro che ora indossano il grembiulino e un giorno scriveranno
romanzi ad uso dei figli del mio beneamato lettore, questi uomini e queste cose
apparterranno ormai al mondo della storia e della leggenda come Ninive,
Riccardo Cuor di Leone e Jack Sheppard. Per loro una diligenza sarà qualcosa di
fiabesco, un tiro a quattro qualcosa di mistico come Bucefalo e Black Bess. Come
luccicava il pelo dei cavalli quando gli stallieri li liberavano dalla coperta ed essi
ripartivano al galoppo! E come agitavano la coda quando, al termine della tappa,
coi fianchi fumanti, si avviavano verso il cortile dietro la locanda! Ahimè, non
udremo mai più echeggiare il corno a mezzanotte, né vedremo aprirsi gli alti
cancelli del dazio. Ad ogni modo, dove ci sta portando il veloce omnibus di
Trafalgar? Ci conviene scendere a Queen's Crawley senza indulgere ad altre
divagazioni, e vediamo un po' come si comporta Miss Rebecca Sharp.
VIII • STRETTAMENTE CONFIDENZIALE
Miss Rebecca Sharp a Miss Amelia Sedley, Russell Square,
Londra.
(In franchigia - Pitt Crawley)
Mia cara, carissima amica,
Con quanta gioia e con quanto dolore prendo la penna per scriverti, per
scrivere alla mia più cara amica! Ah, quale mutamento fra il passato e il
presente! Oggi sono sola e senza amici; ieri per me era come vivere in casa mia,
in dolce compagnia di una sorella alla quale non cesserò mai di voler bene.
Rinuncio a dirti quante lacrime abbia versato, quale sia stata la mia
tristezza durante la notte fatale in cui mi sono separata da te. Martedì tu sei
andata verso la felicità e la gioia insieme con tua madre e col tuo devoto, giovane
ufficiale; ed io per tutta la notte non ho fatto che pensare a te che danzavi dai
Perkins e senza dubbio eri la ragazza più graziosa. John, lo staffiere che sedeva a
cassetta della vecchia carrozza, mi ha condotto fino alla casa di città di Sir Pitt
Crawley; e qui, dopo essersi comportato in modo quanto mai disobbligante e
impertinente, (ahimè, si corre forse qualche rischio ad esser villani coi poveri e
gli afflitti?) mi ha lasciato in balia di Sir Pitt Crawley e sono stata costretta a
trascorrere la notte in una tetra camera da letto, accanto a un'orrida vecchia
servente che bada alla casa. Non ho chiuso occhio per tutta la notte.
Sir Pitt non ha niente a che vedere con l'immagine che noi, povere ingenue,
ci eravamo fatte di un baronetto quando in collegio leggevamo Cecilia. Anzi, è
impossibile immaginare una persona sprovvista quanto lui dei connotati di Lord
Orville. Per dartene un'idea, sappi che è un vecchio tarchiato, dalle maniere
grossolane, di una sporcizia indicibile, con una giacca logora e certe ghette
decrepite. Fuma una pipa puzzolente e si cucina la cena da solo mettendo
qualcosa a cuocere dentro una pignatta appesa sopra il fuoco del caminetto.
Parla inglese con l'accento dei contadini, e non ha fatto che imprecare contro la
vecchia serva e contro il vetturino della carrozza con la quale siamo andati alla
locanda donde parte la diligenza sulla quale ho viaggiato. E per quasi tutto il
tragitto mi è toccato stare sull'imperiale!
La fantesca mi ha svegliata all'alba. Poi, giunti alla locanda, mi hanno fatta
entrare nella diligenza. Ma quando siamo arrivati in un villaggio che si chiama
Leakington, ebbene... vorresti crederlo? Proprio mentre la pioggia aumentava
sono stata costretta a issarmi sull'imperiale! Sir Pitt, praticamente, si comporta
da padrone della diligenza, e quando a Mudbury è salito un altro passeggero che
voleva un posto all'interno, sono stata obbligata a cedergli il mio e ad uscire
sotto la pioggia, dove per fortuna c'era uno studente di Cambridge molto gentile
che mi ha riparata con uno dei suoi numerosi mantelli.
A quanto pareva, sia il giovanotto che il postiglione conoscevano benissimo
Sir Pitt, e hanno riso molto di lui. Alludevano a lui usando lo stesso appellativo di
vecchio taccagno, perché è di un'avarizia e di una grettezza inimmaginabili. Pare
che non dia mai un centesimo a chicchessia (ed io che detesto l'avarizia!), e il
giovanotto mi ha fatto osservare come durante le ultime due tappe del viaggio
fossimo andati a passo di lumaca perché erano stati attaccati i cavalli di Sir Pitt,
il quale di conseguenza stava a cassetta. «Ma vedrete come li farò filare fino a
Squashmore, quando monterò io a cassetta a guidarli!» ha detto il giovane
Cantab
«Benone, Master Jack,» ha risposto il postiglione; e quando ho captato il
senso di quella frase e ho capito che Master Jack si proponeva di guidare lui per
il rimanente tragitto sfogandosi per vendetta a far correre all'impazzata i cavalli
di Sir Pitt, naturalmente anch'io ho riso di cuore.
A Mudbury, che dista quattro miglia da Queen's Crawley, era ad attenderci
una carrozza adorna di stemmi e trainata da quattro splendidi cavalli, sulla quale
abbiamo fatto il nostro solenne ingresso nel parco del baronetto. Per arrivare
alla casa si deve percorrere un bel viale lungo un miglio, e la custode si è profusa
in inchini al nostro passaggio, mentre si affannava a spalancare il vecchio
cancello di ferro battuto, che assomiglia parecchio a quello dell'aborrita
Chiswick, e reca sui pilastri che lo fiancheggiano i serpenti e la colomba dello
stemma dei Crawley.
«Il viale è lungo un miglio,» ha detto Sir Pitt, «ci sono seimila sterline di
legname, in questi alberi. Vi pare poco?» Il tutto farcendo il suo inglese
d'idiotismi dialettali. A Mudbury aveva fatto salire sulla carrozza uno dei suoi
fattori, un certo Mr. Hodson, e per tutto il percorso hanno fatto un gran parlare
di espropri, di vendite, di bonifiche, di fittavoli e di coltivi, tutte faccende di cui io
non capisco un'acca.
Sam Miles era stato sorpreso a pescare di frodo e Peter Bainley era finito in
un ricovero di mendicità. «Gli sta bene,» è stato il commento di Sir Pitt, «sono
centocinquant'anni che questo qui e tutta la sua genìa mi truffano di quella
fattoria.» Probabilmente si trattava di qualche vecchio fittavolo che non era in
grado di pagare l'affitto. Sir Pitt avrebbe dovuto dire «egli», ma a quanto pare i
ricchi signori non sono tenuti a rispettare le regole della grammatica, a
differenza delle povere istitutrici.
A un certo punto ho notato la cuspide di un bellissimo campanile che
emergeva da certi vecchi olmi del parco, e davanti a questi, in mezzo a un prato e
tra le serre, una vecchia costruzione di mattoni rosso cupo rivestita d'edera, con
alti comignoli e le finestre che luccicavano al sole. «È la vostra chiesa, signore?»
ho domandato.
«Eccome se è la mia chiesa, maledizione!» mi ha risposto Sir Pitt (ma
usando un'espressione, molto, molto più volgare). «A proposito, Hodson? Come
sta Buty? Buty, mia cara, è mio fratello Bute, il curato. Io lo chiamo Buty and the
Beast. Ah! Ah! Ah!»
Hodson si è unito alla risata, dopo di che ha risposto: «Credo proprio che
stia meglio, Sir Pitt. Ieri è uscito a cavallo per dare un'occhiata al nostro grano.»
«Per dare un'occhiata alle sue decime, altro che al nostro grano,
maledizione! (E anche questa volta ha usato l'altra volgarissima espressione di
poco prima.) Possibile che non crepi mai? Con tutta l'acquavite che manda giù!
Quello è destinato a campare come quel vecchio... come si chiamava? Ah, sì...
Matusalemme.»
Nuova risata di Hodson. «I ragazzi sono tornati dall'università. Hanno dato
un mucchio di botte a Scroggins. Per poco non l'hanno accoppato.»
«Cosa? Hanno picchiato il mio secondo guardiacaccia?» ha urlato Sir Pitt.
«Era sulla terra del curato,» ha risposto Hodson; al che Sir Pitt ha giurato
che se avesse beccato i ragazzi mentre cacciavano di frodo sulla sua terra, li
faceva schiaffare in galere com'era vero Dio. «Comunque,» ha continuato, «ho
venduto il beneficio della cura, e nessuno di quei maledetti riuscirà a
procacciarselo, parola mia.» Mr. Hodson non ha esitato a dargli ragione, e
questo discorso è valso a farmi capire che i due fratelli sono in rotta, cosa che
avviene molto spesso tra fratelli, e anche tra sorelle.
Ti ricordi le due Scratchley, a Chiswick? Non facevano che litigare. E Mary
Box, che picchiava sempre Louisa?
Poco dopo abbiamo visto due ragazzini che raccattavano ramoscelli nel
bosco; al che Hodson, su ordine di Sir Pitt, è sceso dalla carrozza e ha preso ad
inseguirli brandendo la frusta. «Suonagliele, Hodson,» sbraitava il baronetto,
«dagliele di santa ragione, e trascina fino al castello quei due manigoldi. Li
denuncerò com'è vero che mi chiamo Pitt.» Abbiamo udito il sibilo della frusta
che ricadeva sul dorso di quei due poveri disgraziati e tremebondi; allora Sir
Pitt, pago di constatare che i due delinquenti erano stati catturati, ha deciso di
proseguire verso casa.
Tutta la servitù era in nostra attesa
e................................................................
..................................................
Mia cara, giunta a questo punto ieri sera sono stata bruscamente interrotta
da colpi concitati battuti alla porta. Sai chi era? Sir Pitt in persona, in berretto e
camicia da notte! Una visione impagabile, come puoi immaginarti. Io, al cospetto
di un visitatore abbigliato in quella guisa, mi sono ritratta, ma lui è avanzato,
afferrando la mia candela. «Niente candele accese dopo le undici, Miss Becky,»
ha detto, «andate a letto al buio, mia bella civettina,» (è così che gli piace
interpellarmi) «e cercate di andare a letto ogni sera entro le undici, altrimenti vi
sequestro la candela.» Al che se n'è andato ridendo insieme a Mr. Horrocks, il
maggiordomo. Puoi esser certa che farò tutto il possibile per evitare il ripetersi
di simili visite. La sera sguinzagliano due mastodontici cani da guardia che ieri
notte hanno abbaiato e urlato incessantemente alla luna. «L'ho chiamato Gorer,»
ha detto Sir Pitt riferendosi a uno dei due cani, «ha ammazzato un uomo ed è
capace di tenere a bada anche un toro; sua madre una volta si chiamava Flora,
ma adesso preferisco chiamarla Ringhiosa. È troppo vecchia, ormai, non ce la fa
a mordere. Ah! Ah! Ah!»
Davanti alla casa di Queen's Crawley, una costruzione antiquata,
antipaticissima, tutta frontoni, cimase e comignoli altissimi come quelle dei tempi
della regina Elisabetta, c'è una terrazza, adorna come il cancello del serpente e
della colomba, sulla quale si aprono le porte del grande atrio d'ingresso: un
atrio, cara amica, immenso e tetro come quello del castello di Udolpho. C'è un
camino gigantesco nel quale potrebbe entrare metà dell'istituto della Pinkerton, e
la grata è così enorme che a dir poco ci si potrebbe arrostire un bue intero.
Tutt'intorno sono appesi i ritratti di non so quante generazioni di Crawley: alcuni
con la barba e la gorgiera pieghettata, altri in parrucca e piedi divaricati, mentre
le figure femminili mostrano un busto rigido e lunghissimo e gonne rigide come
torri, e altre hanno le chiome pettinate a boccoli copiosi e... be', mia cara,
diciamo semplicemente che non hanno busto. In fondo all'atrio sale un'imponente
scalea di legno di quercia, nera e funebre quanto mai, sovrastata sui due lati da
teste di cervo. Di qui si accede al biliardo, alla biblioteca, al salone giallo e ad
altri salottini Al primo piano ci sono per lo meno venti camere da letto, e in una
di queste c'è il letto nel quale ha dormito la regina Elisabetta. Stamattina le mie
allieve mi hanno illustrato tutte queste bellissime stanze. Tengono sempre le
imposte chiuse; cosicché sembrano ancora più sinistre; quando lasciavano
filtrare uno spiraglio di luce, mi aspettavo sempre di scorgere uno spettro. Al
piano superiore c'è lo studio. Di qui una porta mette nella mia camera, e un'altra,
al capo opposto, dà accesso alla stanza delle signorine. Poi ci sono gli
appartamenti del figlio maggiore, Mr. Pitt, che qui chiamano Mr. Crawley, e le
stanze di Mr. Rawdon Crawley, che è ufficiale come qualcuno di nostra
conoscenza e attualmente presta servizio al reggimento. Di stanze ce n'è in
abbondanza, te lo assicuro: potrebbero trovarvi alloggio tutti gli abitanti di
Russell Square, e avanzerebbe ancora un po' di spazio disponibile.
Mezz'ora dopo il nostro arrivo, il suono di una grossa campana ha
annunciato che il pranzo era servito, ed io sono scesa insieme alle mie due
allieve, che hanno otto e dieci anni e sono due ragazzine magre magre,
insignificanti. Indossavo il tuo vestito di mussola, a me particolarmente caro
(quello che ha mandato in furia Mrs. Pinner quando ha saputo ch'era stato
destinato a me). Infatti pranzerò sempre con la famiglia: solo quando ci sono
invitati, le signorine ed io pranzeremo al piano di sopra.
Stavo dunque dicendoti che al suono della campana ci siamo radunati nel
salottino di Lady Crawley, che per l'esattezza è la seconda Lady Crawley, la
madre delle due ragazzine. Suo padre, un commerciante di ferramenta, deve aver
creduto di farle fare chissà che matrimonio! Forse un tempo non era brutta e lo
sguardo melanconico dei suoi occhi sembra rimpiangere la perduta bellezza. È
pallida, magra, ha le spalle strette: non dev'essere il tipo in grado di esercitare
un'effettiva autorità. Nel salottino c'era anche il figliastro, vestito a puntino,
solenne e austero come un impresario di pompe funebri. È pallido, magro, niente
affatto avvenente. E non apre mai bocca! Ha le gambe magre, il torace incavato,
i baffi color fieno e i capelli di un biondo paglierino: tale e quale la madre, come
si può constatare dal quadro appeso sopra il caminetto, che ne onora l'immagine.
Il suo nome era Griselda, nel nobile casato dei Binkie.
«Questa è la nuova istitutrice, Mr. Crawley,» ha detto Lady Crawley,
avanzando alla mia volta e prendendomi una mano: «Miss Sharp..»
«Oh!» è stato tutto ciò che ha risposto Mr. Crawley sollevando fugacemente
il capo dall'opuscolo che stava leggendo.
«Spero che sarete gentile con le mie bambine,» ha aggiunto Lady Crawley;
e come sempre i suoi occhi arrossati erano pieni di lacrime.
«Ma certo, mamma,» ha detto la maggiore delle due bimbe, «perché non
dovrebbe essere gentile?» Mi è bastato uno sguardo per capire che di quella
donna non era assolutamente il caso di aver timore.
«Il pranzo è servito, Milady,» ha detto il maggiordomo vestito di nero.
Indossava una camicia con una gala così vistosa da assomigliare alle gorgiere
dei tempi della regina Elisabetta che indossavano gli antenati nei ritratti appesi
in anticamera.
Al che Lady Crawley ha preso il braccio di Mr. Crawley e si è avviata verso
la sala da pranzo. Io le ho tenuto dietro tenendo per mano le mie due piccole
allieve.
Sir Pitt, che già sedeva a tavola, reggeva in mano una brocca d'argento.
Era risalito in quel momento dalla cantina, ed anche lui appariva vestito di tutto
punto: in altri termini, si era tolto le ghette lasciando vedere le gambe tozze
coperte da un paio di calze nere lavorate a maglia. Sulla credenza posava una
quantità di suppellettili luccicanti in metallo prezioso: c'erano antiche coppe
d'oro e d'argento, antichi vassoi e ampolle come quelle che sono in vendita nella
bottega di Rundell & Bridge. Anche sulla tavola le posate e tutto il resto era
d'argento, e ai due lati della credenza sostavano in attesa due domestici dai
capelli rossi, in livrea giallo canarino.
Mr. Crawley ha detto una preghiera alquanto lunga e Sir Pitt ha risposto
«Amen»; dopo di che sono stati tolti i grandi copri vivande d'argento.
«Che cosa c'è per pranzo, Betsy?» ha domandato il baronetto.
«Montone bollito, se non sbaglio, Sir Pitt,» ha risposto Lady Crawley..
«Mouton auxnavets,» ha precisato il maggiordomo in tono grave
(pronunciando per l'esattezza muttonnenavett), e la minestra è potage de mouton
à l'écossaise. Per contorno ci sono pommes de terre au naturel e choufleur à l'eau.
«Il montone è sempre una gran cosa, una pietanza prelibata,» ha
commentato il baronetto. «Che agnello era, Horrocks? E quando l'hai
macellato?»
«Era uno di quelli scozzesi col muso nero, Sir Pitt. L'abbiamo ammazzato
giovedì.»
«Qualcuno ne ha comperato una parte?»
«Steel, quello di Mudbury, ha comperato la schiena e due cosciotti; ma dice
che era troppo giovane e maledettamente lanoso, Sir Pitt.»
«Gradite un po' di potage, Miss... Miss Blunt?» ha chiesto Mr. Crawley.
«Ottimo questo brodo, mia cara,» ha detto Sir Pitt, «ed è un vero piatto
scozzese, anche se gli danno un nome francese.»
«Credo proprio, Signore, che la buona società lo chiami come lo chiamo
io,» ha replicato Mr. Crawley in tono altezzoso.
I due domestici in livrea giallo canarino ci hanno servito la minestra in
scodelle d'argento; poi hanno portato in tavola la birra annacquata che a me e
alle due bambine è stata servita in bicchieri da vino. Non m'intendo di birra, ma
francamente confesso di preferire l'acqua pura.
Mentre consumavamo il pranzo, Sir Pitt ha chiesto che fine avessero fatto le
spalle del montone.
«Credo che le abbia mangiate la servitù,» ha risposto Lady Crawley, con
l'aria, quasi, di chieder scusa.
Sir Pitt è scoppiato in una risata fragorosa, poi ha ripreso a parlare con
Horrocks: «Ormai credo proprio che quel porcellino nero della nidiata della
scrofa di Kent dovrebbe essere al punto giusto»
«Non al punto di scoppiare, Sir Pitt,» ha risposto il maggiordomo, serio e
impassibile, tanto che Sir Pitt e le due ragazzine si sono messe a ridere
rumorosamente.
«Esatto, Milady,» ha detto Horrocks, «e oltre a quelle abbiamo avuto ben
poco.»
«Miss Crawley e Miss Rose Crawley,» ha detto Mr. Crawley, «la vostra
risata mi sorprende. Debbo dire che mi pare estremamente fuori luogo.»
Per quanto me ne ricordo, direi che a questo si riduce tutta la
conversazione svoltasi durante il pranzo.
Terminato il pasto, davanti a Sir Pitt è stata posata una caraffa d'acqua
calda e una bottiglia di cristallo che credo contenesse del rhum. Poi Horrocks ha
servito a me e alle signorine un bicchierino di vino, e a Lady Pitt un bicchiere
grande, colmo sino all'orlo. Quando ci siamo ritirate nel salottino, la signora ha
preso dal cestino un lavoro a maglia che aveva tutta l'aria di non voler finire
mai, e le signorine si sono messe a giocare con un mazzo di carte bisunte. In un
magnifico candelabro d'argento antico ardeva un'unica candela.
Dopo aver risposto a poche domande di Milady non ho avuto altra scelta,
per passare il tempo, se non leggere un libro di sermoni, oppure un opuscolo
sulle leggi agrarie: lo stesso che Mr. Crawley aveva tra le mani prima di pranzo.
Finalmente, trascorsa un'ora, si è udito un suono di passi.
«Via, via le care, bambine» ha esclamato la signora con voce tremebonda,
«e voi, Miss Sharp, posate i libri di Mr. Crawley.» E abbiamo avuto appena il
tempo di obbedire a queste ingiunzioni quando Mr. Crawley è entrato nella
stanza.
«Riprendiamo il sermone di ieri sera, signorine,» ha detto. «Leggetene una
pagana a turno, così Miss... Miss Short avrà modo di rendersi conto di come
leggete.» Dopo di che le due poverine hanno cominciato a leggere sillabando un
noiosissimo sermone ch'era stato recitato nella cappella di Betsheda a favore
della missione che opera fra gli Indiani Chickaso. Una serata veramente
piacevole, non ti pare?
Alle dieci i servitori hanno ricevuto l'ordine di chiamare Sir Pitt e tutto il
resto della servitù per recitare le preghiere. Il primo ad entrare nel salotto è stato
Sir Pitt, che aveva il naso scarlatto e si reggeva male sulle gambe. A lui hanno
fatto seguito il maggiordomo, i canarini, il cameriere personale di Mr. Crawley,
tre individui che puzzavano orrendamente di stallatico e quattro donne, una delle
quali, abbigliata con ogni sorta di fronzoli e falpalà, mi ha lanciato un'occhiata
sprezzante prima da lasciarsi cadere pesantemente in ginocchio.
Quando Mr. Crawley ha finalmente terminato di illustrare il significato del
sermone, a ciascuno è stata distribuita una candela e ce ne siamo andati a letto.
Dopo di che, come ho detto poc'anzi alla mia cara, alla mia dolce Amelia, le
circostanze mi hanno costretto a interrompere questa lettera
Buonanotte. E abbiti mille, mille, mille baci!
Sabato. Stamattina alle cinque ho udito i grugniti del porcellino nero. Ieri
Rose e Violet me l'avevano mostrato, al pari delle stalle, del canile e del
giardiniere, che era intento a raccogliere la frutta per mandarla al mercato, ed è
stato insistentemente pregato dalle signorine perché regalasse loro un grappolo
d'uva. Ma lui ha risposto che Sir Pitt aveva contato gli acini uno per uno, e che
da parte sua non voleva rimetterci il posto per averne ceduti anche pochissimi.
Dopo di che le mie deliziose pupille si sono impadronite di un pony che
pascolava nel recinto e mi hanno chiesto se mi sarebbe piaciuto cavalcarlo; poi
hanno cominciato a cavalcare loro fino a quando lo stalliere, tra orribili
imprecazioni, non è riuscito a farle desistere.
Lady Crawley passa il suo tempo a lavorare a maglia. La sera Sir Pitt è
sempre un po' brillo: non mi stupirebbe affatto che indugiasse a bere insieme con
Horrocks, il maggiordomo. La sera Mr. Crawley legge regolarmente un sermone
e la mattinata la trascorre chiuso nel suo studio, oppure va a Mudbury per affari,
o a Squashmore dove il mercoledì e il venerdì fa la predica ai fittavoli.
Ti prego di esternare ai tuoi cari papà e mamma il mio affetto e mille
ringraziamenti da parte mia. E il tuo povero fratello si è rimesso dalle
conseguenze del rack-punch? Santo cielo, se gli uomini imparassero, una buona
volta, a stare alla larga da quelle terribili bevande!
Tua per sempre
affezionatissima
Rebecca
Tutto sommato, ritengo sia stato vantaggioso, per la nostra cara Amelia
Sedley, che Miss Sharp e lei siano state costrette a separarsi. Non c'è dubbio che
Rebecca sia una persona molto divertente e dotata di spirito: le sue descrizioni
della povera signora che piange sulla sua bellezza tramontata e del signore con le
basette color fieno e i capelli biondo paglierino sono innegabilmente molto vivaci
e rivelano un acuto spirito di osservazione. Forse entrambi siamo stati colti
dall'idea che, mentre era inginocchiata in preghiera, avrebbe potuto pensare a
qualcosa di più consistente dei fronzoli e dei falpalà di Miss Horrocks.
Nondimeno il gentile lettore è pregato di non dimenticare che il titolo di questa
storia è La Fiera della Vanità, e che la Fiera della Vanità è un luogo dove tutto è
molto vano, stolido e perverso, un luogo brulicante d'imposture e di falsità. Ora,
quantunque il moralista che vedete in copertina (ritratto dal vero del vostro umile
servitore) giuri di non indossare né toga né stola, ma solo il berretto a sonagli che
costituisce la divisa e il simbolo della sua confraternita, è bene tuttavia dir sempre
la verità, quantomeno quella che ci è nota, sia che si indossi il berretto a sonagli,
sia che si porti un cappello da predicatore. E nel momento in cui ci si dispone a
dire la verità, fatalmente vengono a galla molte cose spiacevoli.
Una volta, a Napoli, mi è capitato di ascoltare un collega cantastorie mio
pari, mentre sulla spiaggia raccontava a un gruppo di innocui buontemponi le
abominevoli imprese da lui inventate e attribuite a certi malfattori; e nel suo
resoconto poneva accenti di così accalorato sdegno, che a un certo punto il
pubblico e il suo poeta esplosero in una gragnola di insulti, imprecazioni e
improperi contro l'ignobile protagonista della storia. Il risultato fu che il cappello
fece il giro riempiendosi di baiocchi, mentre scrosciava una tempesta di applausi.
Invece nei piccoli teatri di Parigi, non solo il pubblico grida «Ah, gredin! Ah
monstre!» e lancia dai palchi maledizioni all'indirizzo del tiranno, ma gli stessi
attori rifiutano nel modo più categorico di interpretare il ruolo dei malvagi, come
ad esempio quello degli «infâmes Anglais» o dei brutali cosacchi o di altri
personaggi siffatti, e preferiscono incarnare la parte di onesti cittadini francesi
(quali sono nella realtà) adattandosi a percepire una paga più bassa. Ho scelto
questi due esempi per dimostrare come i motivi d'interesse non siano i soli a
stimolare l'autore di questa storia nel suo desiderio di segnare a dito e darle di
santa ragione ai suoi malvagi, ma anche la schietta e insuperabile avversione
ch'egli prova nei loro confronti: un odio ch'egli sente il bisogno di sfogare a suon
d'insulti e senza mezzi termini.
Pertanto avverto il mio «gentile lettore» che racconterò una storia densa di
orride infamie e di intricati (ancorché appassionanti, così per lo meno io spero)
misfatti. I miei furfanti non sono furfanti all'acqua di rose, di questo siate pur
certi. E quando le circostanze lo esigeranno non esiterò ad usare il linguaggio
adatto. Ma fino a quando ci muoviamo in un paesaggio sereno, dobbiamo per
forza di cose esser sereni anche noi. Le tempeste in un bicchier d'acqua sono
un'assurdità. Riserveremo per tanto questo genere di cose per quando saremo in
pieno oceano e nel cuore della notte. Il presente capitolo è indubbiamente sereno.
Altri invece... ma non è il caso di anticiparli.
A mano a mano che i personaggi appariranno sulla scena, chiederò licenza
come uomo e come fratello non solo di presentarli, ma altresì di scendere ogni
tanto dal palcoscenico per commentarne le azioni. Se si comportano da persone
dabbene sarò lieto di elogiarli e di stringer loro la mano; se sono stolidi ne riderò
di sottecchi in complicità col lettore; se infine sono malvagi e senza cuore, li
insulterò senza pietà facendo ricorso agli epiteti più drastici consentiti dalle regole
della buona creanza.
Altrimenti voi potreste pensare che sia io a dileggiare le pratiche di
devozione che Miss Sharp trova così ridicole: che sia io a divertirmi un mondo nel
contemplare quel vecchio Sileno del baronetto, mentre invece ride unicamente chi
prova rispetto soltanto per la ricchezza e non apprezza altro che il successo. In
questo mondo vive e prospera gente di questa fatta... senza Fede, senza Speranza,
senza Carità. Diamogli addosso, amici, diamogli addosso senza misericordia.
Taluni incontrano grande successo, e in realtà sono solo buffoni e impostori. Una
cosa è certa: il ridicolo è stato creato al solo scopo di combattere e sbeffeggiare
gente di questa sorta.
IX • RITRATTO DI FAMIGLIA
Sir Pitt Crawley era un filosofo che manifestava un'inclinazione assai
accentuata per quanto siamo soliti definire gusti plebei. Il suo primo matrimonio
con la figlia del nobile Blinkei era stato celebrato sotto gli auspici dei genitori, e
nel corso della sua vita coniugale Sir Pitt non si era peritato di ripetere con
estrema frequenza a Lady Crawley di considerarla la più detestabile attaccabrighe
d'alto bordo mai apparsa sulla faccia della terra. Il giorno in cui fosse morta,
diceva, si sarebbe fatto impiccare piuttosto che risposarsi con una strega della
stessa risma. Orbene, al decesso di Milady, rimase fedele alla promessa,
scegliendo di portare all'altare Miss Rose Dawson, figlia di Mr. John Thomas
Dawson, mercante di ferramenta a Mudbury. Quale fortuna, per Rose, esser
diventata Lady Mudbury!
Proviamoci a fare l'inventario di tanta felicità. Prima di tutto si vide costretta
a rinunciare a Peter Butt, un giovanotto che le faceva la corte e che, in
conseguenza della delusione amorosa, si diede al contrabbando, alla caccia di
frodo e ad innumerevoli altre attività parimenti illecite. Poi, com'era logico
aspettarsi si mise in urto con tutti i suoi amici e i conoscenti che lei, data la nuova
posizione sociale, non poteva ricevere a Queen's Crawley; né d'altro canto trovò
nell'ambito del suo rango e della vita domestica chi fosse disposto a frequentarla.
Chi, infatti, avrebbe dovuto farlo? Forse Sir Huddleston Fuddleston, che aveva tre
femmine ognuna delle quali aveva sperato di diventare Lady Crawley? Oppure Sir
Giles Wapshot e famiglia, offesi perché la favorita non era stata una delle
signorine Wapshot? O gli altri baronetti della contea, scandalizzati per il fatto che
Sir aveva fatto un matrimonio indegno del suo lignaggio? Senza parlare della
gente comune, i cui malevoli commenti restano confinati nell'anonimato.
Ma di tutti costoro a Sir Pitt non importava un soldo bucato, e non esitò a
dirglielo in faccia. Lui aveva la sua bella Rose, e del resto che cosa può desiderare
un uomo, se non di fare ciò che più gli aggrada? Ed eccolo ubriacarsi tutte le sere,
eccolo che ogni tanto picchiava la sua bella Rose. E quando se ne andava a
Londra per le sessioni del Parlamento, la piantava in asso nello Hampshire senza
una sola persona amica. Perfino la moglie di Bute Crawley non si degnava di farle
visita, perché - diceva - non avrebbe mai ceduto il pas alla figlia di un negoziante.
Gli unici doni che Madre Natura avesse elargito a Lady Crawley erano due
guance porporine e una pelle candida. A parte questo, Rose non aveva carattere né
qualità di sorta. Sprovvista di opinioni e di occupazioni, incapace di godere di un
passatempo purchessia, priva di quell'energia e di quel temperamento che talvolta
sono retaggio di donne anche mediocri, non si può certo dire che fosse riuscita a
far breccia nel cuore di Sir Pitt. Dopo la nascita delle figlie le guance porporine
diventarono pallide, il fresco incarnato svanì nel nulla, e da allora in poi non fu
che una specie di semovente nella casa del marito, un oggetto altrettanto inutile, o
quasi, del pianoforte a coda della compianta Lady Crawley. Avendo la carnagione
chiara, indossava sempre abiti chiari, proprio come son solite fare le bionde.
Prediligeva colori come il verde smunto e l'azzurro scialbo, ed era senza posa
impegnata in lavori a maglia e cose del genere. Nel giro di pochi anni aveva
confezionato coperte da letto per tutta la casa. Inoltre curava personalmente un
giardinetto ricolmo di fiori, ma al di fuori di ciò non c'era niente che le piacesse o
dispiacesse. Era indifferente agli sgarbi del marito, e quando lui la picchiava,
scoppiava a piangere. Non aveva abbastanza carattere per abbandonarsi al bere, e
girava tutto il giorno in pantofole e coi diavolini in testa, lamentandosi in
continuazione per ogni minima cosa. O Fiera della Vanità, Fiera della Vanità! Se
non fosse stato per causa tua Rose sarebbe stata una ragazza allegra e soddisfatta.
Insieme con Peter Butt avrebbe formato una coppia serena e appagata che in
un'accogliente fattoria avrebbe cresciuto, tra innocui e onesti svaghi, tra affanni,
speranze e lotte, una sana famiglia. Ma alla Fiera della Vanità un titolo nobiliare o
un tiro a quattro sono gingilli molto più ambiti della felicità, e se ai nostri giorni
Barbablù o Enrico VIII fossero ancora al mondo, credete forse che non sarebbero
in grado di procacciarsi la più graziosa fra tutte le ragazze che quest'anno
verranno presentate a corte?
La languida apatia della mamma non poteva, logicamente, suscitare nelle
figlie un particolare affetto. Al contrario le ragazze si sentivano perfettamente a
loro agio nelle stalle, o con la servitù. E dal momento che, grazie al cielo, il
giardiniere scozzese aveva una brava moglie e una nidiata di bambini, esse
trovarono nella sua casa una sana compagnia e una certa istruzione: l'unica dalla
quale avessero avuto modo di trar partito prima dell'arrivo di miss Sharp.
L'assunzione di quest'ultima era conseguente alle rimostranze di Mr. Pitt
Crawley, l'unico amico e sostenitore sul quale Lady Crawley avesse mai potuto
fare assegnamento; l'unica persona alla quale, oltre alle sue bambine, si sentisse in
qualche modo legata. Ma Pitt aveva ereditato i tratti caratteristici dei Blinkei, la
famiglia materna, ed era quindi un gentiluomo molto dignitoso e compito.
Quand'ebbe raggiunta la maggiore età, una volta tornato dal Christchurch
s'impegnò a riformare la rilassata disciplina del servitorame, nonostante l'opposto
parere del padre al quale egli ispirava una certa soggezione. Pitt era così
ossequiente alle regole dell'etichetta, che magari sarebbe morto di fame, ma non
avrebbe mai accondisceso a presentarsi a tavola senza colletto bianco. Una volta,
poco dopo il suo ritorno dall'università, Horrocks si permise di recapitargli una
lettera senza averla precedentemente posata su un vassoio. Pitt lo fulminò con una
tale occhiata e lo rimproverò con parole così aspre, che da quel giorno in poi il
maggiordomo al suo cospetto tremava. Quando era a casa, i diavolini di carta di
Lady Crawley scomparivano di prima mattina, e Sir Pitt eliminava le sue ghette
imbrattate di fango. E sebbene quel vecchio irriducibile non rinunciasse a certe
sue radicate abitudini, certo evitava di ubriacarsi di rhum in presenza del figlio e
si rivolgeva alla servitù in tono educato e in termini contenuti. Non solo: i
servitori constatarono che davanti al figlio Sir Pitt non insultava mai Lady
Crawley.
Era stato Mr. Pitt Crawley a insegnare al maggiordomo che bisognava dire:
«Milady, la cena è servita,» e aveva insistito per condurre Lady Crawley a tavola.
Le rivolgeva raramente la parola, ma lo faceva con molto rispetto, e quando lei
usciva da una stanza, non mancava di alzarsi in modo cerimonioso e di aprirle la
porta con un elegante inchino.
A Eton era stato soprannominato Miss Crawley, e in quel collegio (mi duole
doverlo dire) si prendeva regolarmente un sacco di botte dal fratello minore,
Rawdon. Mr. Pitt non aveva qualità brillanti, ma compensava questa carenza di
talento con un'accanita dedizione ai suoi doveri: basti dire che in otto anni di
scuola sembra non abbia subito le punizioni che, a quanto si dice, solo un angelo
riesce ad evitare.
I suoi studi all'università andarono naturalmente a gonfie vele. Quivi si
preparò alla vita pubblica, nella quale in seguito sarebbe stato introdotto grazie
all'appoggio del nonno materno, Lord Binkie, studiando con accanimento gli
oratori antichi e moderni e parlando in ogni occasione nei circoli studenteschi. Ma
sebbene fosse dotato di una certa eloquenza e si compiacesse oltre ogni dire
dell'intonazione magniloquente che sapeva conferire alla sua voce di modesta
vibrazione; sebbene evitasse scrupolosamente di esprimere concetti ed opinioni
che non fossero frusti e risaputi, e sostenuti da un detto latino; ad onta della
mediocrità che solitamente elargisce il successo a chicchessia, Mr. Pitt per
qualche oscura ragione non seppe farsi strada. Non riuscì nemmeno a farsi
conferire il premio di poesia che, a detta dei suoi amici, era certissimo di ottenere.
Terminati gli studi, diventò segretario personale di Lord Binkie ed esercitò
le mansioni di addetto alla legazione di Pumpernickel, incarico al quale adempì
col massimo scrupolo recando di persona all'allora ministro degli Esteri certi
dispacci riservatissimi consistenti per lo più in pasticci di foiegras di Strasburgo.
Successivamente fu addetto d'ambasciata per dieci anni (sette dei quali successivi
alla morte di Lord Binkie), ma dal momento che la carriera diplomatica procedeva
così lentamente, finì col rinunciarvi e decise di fare il gentiluomo di campagna. Di
ritorno in Inghilterra, scrisse un opuscolo sul malto (poiché infatti era ambizioso e
gli era sempre piaciuto mettersi in vista), e prese parte attivamente alle discussioni
inerenti il problema dell'emancipazione dei negri. Poi divenne amico di Mr.
Wilberforce di cui ammirava le opinioni politiche, ed ebbe un famoso carteggio
col reverendo Silas Hornblower, intorno alla missione nell'Ashanti. Spesso
andava a Londra, per le sessioni del Parlamento o quantomeno a maggio, quando
vi si tenevano le riunioni religiose. In campagna faceva il magistrato e si
prodigava in visite e prediche presso coloro che mancavano di un'adeguata
preparazione religiosa. Si diceva che corteggiasse Lady Jane Sheepshanks, terza
figlia di Lord Southdown, autrice di due squisiti libretti intitolati La vera coffa del
marinaio e La venditrice di mele di Finchley Common.
La descrizione che Rebecca aveva fatto dei compiti che Mr. Pitt si era
assunto a Queen's Crawley non erano per niente caricaturali. Era perfettamente
vero che costringeva la servitù a soggiacere alle già descritte pratiche di pietà, ed
era altrettanto vero che aveva dovuto piegarvisi (non senza vantaggio, del resto)
anche suo padre. Inoltre presiedeva una congregazione religiosa dissidente, ma
associata alla stessa parrocchia di Crawley, suscitando lo scandalizzato stupore di
suo zio rettore e per contro il divertimento di Sir Pitt, il quale una volta si lasciò
persino trascinare sul posto: circostanza, quest'ultima, che provocò veementi e
sdegnati sermoni contro l'inginocchiatoio in stile gotico del baronetto. Ma quei
discorsi non ebbero il minimo effetto sul bravo Sir Pitt, perché durante i sermoni
era solito schiacciare un pisolino.
Mr. Crawley sosteneva in tutta sincerità che, per il bene del paese e della
cristianità, il vecchio gentiluomo avrebbe dovuto cedere a suo favore il seggio in
Parlamento; ma il baronetto aveva insistito nell'opporre un pervicace rifiuto.
Naturalmente, entrambi erano troppo avveduti per rinunciare alle quindicimila
sterline annue che incassavano per il secondo seggio (a quel tempo era occupato
da un certo Mr. Quadroon, il quale aveva avuto carta bianca sul problema dello
schiavismo). Infatti il patrimonio familiare versava in condizioni alquanto
precarie, e il reddito dovuto alla cessione del secondo seggio contribuiva in larga
misura a sostenere le spese di casa di Queen's Crawley.
La famiglia non si era più riassestata dopo il pagamento dell'onerosissima
ammenda per peculato al primo baronetto, Walpole Grawley, quando era stato
ministro del Sigillo. Sir Walpole era un allegrone sempre disposto ad arraffare e a
sperperare quattrini («alieni appetens, sui profusus», commentava Mr. Crawley
con un sospiro) e ai suoi tempi era amatissimo in tutta la contea, sia per le
abbondanti libagioni che offriva a tutti, sia per l'ospitalità che elargiva senza
riserve a Queen's Crawley. A quel tempo le cantine erano rifornite di Borgogna, i
canili di cani da caccia e le scuderie di splendidi stalloni. Ora invece i cavalli di
Queen's Crawley servivano per trainare l'aratro o la diligenza di Trafalgar, ed era
stato proprio con una coppia di questi cavalli che, in un giorno di riposo, Miss
Sharp era stata condotta al castello. Infatti, per quanto zotico, Sir Pitt teneva
moltissimo alla salvaguardia del proprio decoro, quand'era a casa. Quando usciva,
era raro che non si servisse del tiro a quattro, e se a tavola pranzava con semplice
montone lesso, si faceva servire da tre domestici.
Se di per se stessa la parsimonia bastasse a render facoltosi, Sir Pitt avrebbe
potuto esser ricchissimo. Se avesse fatto l'avvocato in una piccola città di
provincia senz'altro capitale che le risorse del suo cervello, probabilmente avrebbe
saputo sfruttarle nel modo migliore e assicurarsi una notevole competenza e
influenza. Sfortunatamente, invece, egli apparteneva all'alta aristocrazia ed era
proprietario di una vastissima tenuta, ancorché gravata da ipoteche; due
circostanze che gli erano più di danno che di vantaggio. La sua vera e propria
mania per le cause giudiziarie gli costava migliaia di sterline ali anno, e siccome
era troppo furbo - diceva - per farsi derubare da un solo amministratore, ne aveva
una dozzina che lo imbrogliavano in pari misura, e dei quali - del resto - diffidava
senza distinzione fra l'uno e l'altro. A causa della sua esosità, trovava solo fittavoli
svogliati e inetti. Era un agricoltore così avaro che misurava il seme da spargere
nelle zolle; onde la natura, vendicativa, gli elargiva raccolti molto più magri di
quanti ne concedesse a coltivatori più generosi di lui. S'ingolfava in ogni genere di
speculazioni: gestiva miniere comperava azioni per la gestione di canali, cavalli
da diligenza; assumeva appalti per il governo, ed era, di conseguenza l'uomo e il
magistrato più affaccendato di tutta la contea. Siccome non li pagava
adeguatamente, non trovava mai funzionari onesti per la direzione della sua cava
di granito, ed ebbe il piacere dl constatare che quattro di costoro avevano tagliato
la corda con una fortuna, riparando in America. Prive delle necessarie misure di
sicurezza, le sue miniere di carbone s'inondavano d'acqua; la sua carne di manzo
risultò avariata e il governo lo privò del diritto di approvvigionamento annonario.
Quanto ai suoi cavalli da posta, tutti i proprietari di diligenze postali sapevano
come avesse perduto più animali di qualsiasi altro proprietario del paese, perché
non li nutriva abbastanza e comperava bestie di seconda scelta per poterle pagare
a buon mercato. Era di carattere abbastanza socievole e andava esente da qualsiasi
forma di altezzosità: anzi, mostrava di preferire la compagnia di un contadino o di
un cavallante a quella di un gentiluomo dello stampo di suo figlio. Indulgeva
all'alcool e alla bestemmia e non disdegnava di scherzare con le figlie dei
contadini. A quanto se ne sapeva, non aveva mai regalato uno scellino o compiuto
un'azione magnanima in vita sua, ma aveva un temperamento allegro, sornione,
incline alla risata. Poteva accadere che scherzasse con un affittuario e bevesse un
bicchiere in sua compagnia, per metterlo sul lastrico il giorno dopo, oppure
scherzare con lo stesso buonumore con un cacciatore di frodo, per poi schiaffarlo
in galera il giorno dopo. Quanto al suo garbo nei confronti del sesso gentile, ne ha
già riferito Miss Sharp. In conclusione si può dire ch'egli fosse il vecchio più
meschino, astuto, egoista, sciocco e spregevole fra quanti baronetti, lord e
semplici borghesi annoverava il suolo d'Inghilterra. La mano rossa di Sir Pitt
Crawley era sempre nelle tasche di tutti eccetto che nella sua, ed è con un
sentimento di pena e di dolorosa mortificazione, nella nostra qualità di ammiratori
dell'aristocrazia britannica, che ci vediamo costretti a ravvisare tante
manchevolezze in una persona il cui nome figura nel Debrett.
L'influenza che Mr. Crawley esercitava sul padre aveva le sue radici
principali in questioni finanziarie. Sir Pitt era debitore al figlio di una quota del
patrimonio materno che non aveva la minima intenzione di versargli. Tale era la
sua ripugnanza a pagare chiunque e qualsiasi cosa, che solo l'esercizio della forza
poteva indurlo a saldare un debito. Miss Sharp ebbe modo di stabilire (giacché, e
non tarderemo a constatarlo, ben presto ella fu messa al corrente di tutti i segreti
di famiglia) che il solo pagamento degli interessi ai creditori costava al baronetto
varie centinaia di sterline all'anno. D'altra parte Sir Pitt provava un piacere
indicibile nel far attendere quei poveracci e nel procrastinare il momento della
restituzione di quanto dovutogli spostando di continuo la data fissata da un
tribunale a un altro, da un termine ad uno successivo. A che pro essere membro
del Parlamento, diceva, se poi ci si deve abbassare a pagare i propri creditori? Dal
che si può dedurre che la sua qualifica senatoriale gli era preziosa, e non poco.
Ah, Fiera della Vanità, Fiera della Vanità! Eccoci al cospetto di un uomo
che faceva errori di ortografia, che non aveva mai letto un libro in vita sua, che
aveva le abitudini e le astuzie di un bifolco, che nella vita cercava solo di attaccar
briga, che conosceva solo sentimenti mediocri e coltivava gusti scadenti e
deteriori. Eppure fruiva di un rango elevato, di onori e di poteri. Era un dignitario
del suo paese ed un pilastro delle istituzioni nazionali. Importanti ministri e
uomini di Stato gli facevano la ronda attorno, e alla Fiera della Vanità gli
competeva un posto più prestigioso di quello spettante a una persona di vivida
intelligenza o di immacolata virtù.
Sir Pitt aveva una sorellastra nubile la quale aveva ereditato da sua madre un
immenso patrimonio. Egli glielo aveva sollecitato più volte dietro ipoteca, ma lei
aveva sempre respinto quella proposta preferendo investire il suo denaro in titoli
di Stato. Nondimeno aveva esternato il proposito di spartire quelle ricchezze,
dopo la sua morte, tra il secondogenito di Sir Pitt e la famiglia del vicario. Già un
paio di volte, del resto, aveva accondisceso a pagare i debiti di Rawdon Crawley,
quando il giovane aveva frequentato l'università o era stato di stanza al
reggimento. Di conseguenza, in occasione delle sue visite a Queen's Crawley,
Miss Crawley veniva trattata da tutti con la massima deferenza, perché il suo
conto in banca non poteva non farne, agli occhi di chicchessia, una creatura
semplicemente adorabile.
Quale dignità conferisce a una vecchia signora un conto in banca! E con
quale indulgenza siamo disposti a giudicare i suoi eventuali difetti, se la sorte
vuole che sia nostra parente (auguro ad ogni lettore di avere una ventina di parenti
consimili)! Come la troviamo garbata, buona, affettuosa! Con quanto ossequio il
socio più giovane di Hobbs & Dobbs l'accompagna sorridendo fino alla carrozza
adorna dello stemma in forma di losanga, col grasso cocchiere asmatico a
cassetta! E quando è ospite a casa nostra, come ci affanniamo a far sapere agli
amici quale sia la sua posizione sociale! Diciamo, per esempio (e siamo
assolutamente sinceri): «Vorrei proprio che Miss MacWhirters mi firmasse un
assegno per cinquemila sterline.» «Per lei sarebbe una bazzecola,» replica vostra
moglie. E se qualcuno vi domanda se si tratta di una vostra parente, voi rispondete
con una certa noncuranza: «È mia zia.» Vostra moglie si prodiga in attenzioni nei
riguardi di costei, e le vostre figlie le preparano un numero infinito di cestelli a
maglia, cuscini ricamati e sgabelli posapiedi. Quando viene a trovarvi, nella sua
camera arde sempre un bel fuoco, anche se vostra moglie deve rinunciarvi e si
vede costretta ad allacciarsi il busto in una stanza gelata. Durante il suo soggiorno
la casa assume un aspetto lindo, festoso, caldo, gioviale, confortevole, a
differenza dell'atmosfera che vi regna in altri momenti dell'anno. Voi stesso, caro
signore, senza nemmeno avvedervene rinunciate ad andare a dormire dopo
pranzo, e all'improvviso scoprite (sebbene perdiate sempre) che vi piace
moltissimo fare una partitina a carte. E che buone cenette imbandite: ogni giorno
la tavola è imbandita con cacciagione, madera, malvasia, e ogni sorta di pesce
arrivato espressamente da Londra. Perfino i domestici, in cucina, godono i riflessi
di questa generale prosperità. Inoltre, guarda caso, durante la permanenza del
grasso cocchiere di Miss MacWhirters, la birra diventa molto più forte, e il
consumo di tè e di zucchero nella stanza dei bambini (dove la cameriera della
suddetta MacWhirters consuma i suoi pasti) non è oggetto del consueto controllo.
Ho ragione o no? Mi rivolgo alla borghesia. Ah, benigne potenze celesti! Perché
non mi mandate una vecchia zia - una zia nubile, per essere esatti - con lo stemma
sulla carrozza e una frangetta di capelli color caffè chiaro? Quante borse da lavoro
confezionerebbero per lei, le mie figlie! Che daffare ci daremmo io e Giulia, per
render piacevoli le sue giornate in casa nostra! Ah, dolce, dolce visione! Ah,
insensato, stolido sogno!
X • MISS SHARP COMINCIA A FARSI DEGLI AMICI
Entrata dunque a far parte dell'amabile famiglia di cui abbiamo abbozzato il
ritratto nelle pagine precedenti, è inutile precisare come Rebecca si facesse un
dovere (in conformità a quanto lei stessa ebbe a dire) di rendersi accetta ai suoi
benefattori e di meritarsi, per quanto era nei suoi poteri, la loro fiducia. Chi
potrebbe esimersi dall'ammirare, in una povera orfana, una virtù come la
gratitudine? E se anche i suoi calcoli non escludevano una certa dose di egoismo,
chi non sarebbe disposto ad ammettere che la sua prudenza fosse motivata? «Sono
sola al mondo,» rifletteva quella povera ragazza priva di amicizie, «non ho niente
su cui fare assegnamento ad eccezione del mio lavoro; e mentre quella
scioccherella di Amelia, con le sue gote rosse e nemmeno la metà del mio
cervello possiede diecimila sterline e ha in vista un matrimonio soddisfacente, la
povera Rebecca (molto più bella di lei, tra parentesi) può fare assegnamento solo
su se stessa e sulle sue risorse innate. Vedremo dunque se le risorse in questione
sapranno procacciarmi una posizione rispettabile, e se giorno verrà in cui avrò
modo di provare a Miss Amelia la mia vera superiorità su di lei. Amelia, per la
verità, non mi è antipatica: a chi potrebbe essere antipatica una creatura così
innocua e d'indole mite? Tuttavia sarebbe certo un gran giorno, per me, quello in
cui potessi fruire di una posizione sociale superiore alla sua. E del resto, perché
non dovrei riuscirci?» In tal modo la nostra romantica amica galoppava con la
fantasia e immaginava il proprio avvenire, e non e certo il caso di scandalizzarci
se il principale abitatore dei suoi molteplici castelli in aria era un marito. A che
dovrebbero pensare le signorine, se non ad un marito? E a che pensano le loro
mamme? «Bisognerà che sia la mamma di me stessa,» pensò Rebecca, non senza
un amaro sentimento di sconfitta al pensiero della sua disavventura con Jos
Sedley.
Pertanto prese la saggia decisione di cementare al massimo la propria
posizione in seno alla famiglia Crawley, e a tale scopo si propose di stabilire
rapporti amichevoli con tutte le persone che in vario modo avrebbero potuto
ostacolare il raggiungimento dell'agognata sicurezza.
Lady Crawley non rientrava nel novero di costoro, senza contare che l'apatia
e la totale mancanza di carattere le impedivano di rivestire qualsiasi ruolo
effettivo nella sua stessa casa. Pertanto Rebecca non tardò ad accertare che non
soltanto era inutile assicurarsi la sua benevolenza, ma che addirittura non era
possibile conquistarsela. Parlando di lei alle sue allieve diceva sempre «la vostra
povera mamma», e pur badando a rispettare nei suoi confronti il massimo
ossequio formale, rivolse il suo fattivo interesse agli altri membri della famiglia.
Con le ragazze, delle quali riuscì ad accattivarsi l'incondizionata simpatia,
adottò un metodo molto semplice. Non afflisse le loro giovani menti cercando di
farcirle ad ogni costo di nozioni, ma le lasciò libere d'istruirsi in conformità alle
loro naturali inclinazioni. Chi impara meglio di chi decide di fare a modo suo? La
maggiore delle bambine amava entro certi limiti dedicarsi alla lettura. Ora, dal
momento che la biblioteca di Queen's Crawley annoverava un discreto numero di
romanzi d'evasione del secolo precedente, sia in inglese sia in francese (acquistati
dal ministro del Sigillo quand'era caduto in disgrazia), e siccome nessuno eccetto lei - andava mai a dare un'occhiata agli scaffali della libreria, Rebecca si
trovò nella piacevole condizione d'impartire, quasi giocasse, un'adeguata
istruzione a Miss Rose Crawley.
Lesse quindi con Miss Rose molte divertenti opere di letteratura francese e
inglese, tra le quali meritano menzione quelle dell'erudito dottor Smollet, del
geniale Mr. Henry Fielding, dell'elegante e fantasioso Monsieur Crébillon figlio,
tanto ammirato dal nostro immortale poeta Gray, e di Monsieur de Voltaire, genio
universale. Una volta Mr. Crawley chiese cosa stessero leggendo le ragazze.
«Smollett,» rispose l'istitutrice. «Oh, Smollett,» commentò Mr. Crawley
soddisfatto. «È un autore meno brillante di Mr. Hume, ma anche meno pericoloso,
in un certo senso. State leggendo un'opera di storia, suppongo.» «Sì,» rispose
Rose, senza peraltro precisare che si trattava della storia di Mr. Humphrey
Clinker.
Un'altra volta Mr. Crawley manifestò una certa contrarietà nel vedere tra le
mani di sua sorella un libro di commedie francesi: ma quando Miss Sharp gli
disse che glielo aveva dato per impratichirla nella conversazione in francese, non
trovò altro da obiettare. Da buon diplomatico qual era, Mr. Crawley menava un
vanto esagerato della sua conoscenza del francese (si trattava, dopo tutto, di un
uomo di mondo) e si sentiva altamente lusingato dei complimenti che l'istitutrice
gli faceva di continuo circa la sua ottima conoscenza di quella lingua.
Al contrario, i gusti di Miss Violet erano molto più triviali e rumorosi di
quelli di sua sorella. Conosceva gli anfratti più reconditi nei quali le galline
andavano a deporre le uova. Sapeva arrampicarsi sugli alberi per sottrarre ai nidi
dei piumati cantori il loro maculato peculio naturale, le piaceva pazzamente
cavalcare i puledri e correre per la pianura come una novella Camilla. Prediletta
da suo padre e dagli stallieri, era altresì croce e delizia per la cuoca, perché
riusciva a stanare i vasi di marmellata nei più riposti nascondigli e ne smantellava
il contenuto. Con la sorella erano continui litigi. Quando le scopriva, Miss Sharp
non faceva parola di queste birichinate con Lady Crawley, che si sarebbe
affrettata a riferirle al marito o, peggio che andar di notte, a Mr. Crawley. Per
contro si dichiarava disposta a tacere a patto che Violet promettesse di far la brava
in avvenire e di voler bene alla sua istitutrice.
Con Mr. Crawley, Miss Sharp aveva assunto un atteggiamento di obbediente
rispetto. Lo consultava sul significato di molti passi francesi che lei non capiva
sebbene fosse di madre francese, e che lui invece interpretava senza la minima
esitazione. Oltre ad aiutarla nella lettura dei libri profani, Mr. Crawley era così
gentile da scegliere per lei altri libri di maggior costrutto, ed era a Rebecca che
per lo più rivolgeva la parola quando si degnava di aprir bocca. Ella manifestò la
massima ammirazione per la conferenza che Mr. Crawley aveva tenuto
all'Associazione per gli aiuti a Quashimaboo e del pari palesò il più vivo interesse
per il suo opuscolo sul malto. Sovente si commuoveva (addirittura fino alle
lacrime) ascoltando le sue prediche serali. «Grazie, signore,» gli diceva
sospirando, lo sguardo levato al cielo, tanto che lui qualche volta arrivava la punto
di stringerle la mano. «Tutto, in fondo, sta nel sangue,» commentava tra sé
quell'aristocratico baciapile. «Miss Sharp si commuove sentendomi parlare,
mentre gli altri alle mie parole restano indifferenti. I miei sermoni sono di
contenuto troppo complesso, per loro, sono troppo ispirati. Bisogna che adotti uno
stile più piano. Lei invece li capisce. Non per nulla sua madre era una
Montmorency.»
Era dunque da questa famosa famiglia, a quanto pare, che Miss Sharp
discendeva da parte di madre. Naturalmente si guardava bene dal dire che sua
madre aveva fatto l'attrice, ciò che avrebbe turbato gli scrupoli religiosi di Mr.
Crawley. Erano un'infinità i nobili emigrés che quella spaventosa rivoluzione
aveva piombato nella miseria! Nel giro di pochi mesi - da quanti, cioè, si trovava
in quella casa - Rebecca aveva già manipolato un buon numero di storie sul conto
dei propri antenati, che poi Crawley ebbe modo di ritrovare per puro caso
nell'Hozier conservato in biblioteca, avendo così conferma della loro veridicità e
dell'antica stirpe nobiliare donde discendeva Rebecca. Questa curiosità e questa
ricerca nei dizionari deve forse lasciarci supporre (o lasciar supporre alla nostra
eroina) che Mr. Crawley provasse un autentico interesse per la sua persona? Ma
no, ma no, si trattava di pura e semplice amicizia. Non abbiamo già precisato che
faceva la corte a Lady Jane Sheepsbanks?
Un paio di volte cercò di convincere Rebecca a non giocare con Sir Pitt a
backgammon, che si trattava di un passatempo assolutamente empio e sarebbe
stato molto più proficuo per lei leggere L'eredità di Thrump, La lavandaia cieca
di Noorfields o altri libri del genere, edificanti e istruttivi. Ma Miss Sharp replicò
che la sua povera mamma era solita intrattenersi in quel gioco col conte di
Trictrac e col venerando Abbé du Cornet: ottima scusa per questo e per altri
divertimenti mondani.
Ma non fu solo giocando a backgammon col baronetto che la piccola
istitutrice seppe rendersi accetta al suo datore di lavoro. Trovò mille espedienti
per renderglisi utile. Leggeva, dando prova d'inesauribile scorta di pazienza, tutte
le comparse delle innumerevoli cause con le quali, prima ancora ch'ella arrivasse
a Queen's Crawley, Sir Pitt aveva promesso di divertirlo. Si offri di copiare molte
delle sue lettere, e con grande abilità corresse l'ortografia, in conformità a quella
ormai entrata nell'uso corrente. Manifestò il più vivo interesse per tutto ciò che
concerneva la proprietà: per il parco e per il giardino, per la fattoria e per le
scuderie. Riuscì a fare di se stessa una così piacevole compagnia, che raramente il
baronetto rinunciava a fare la sua passeggiata mattutina con lei (e con le bambine,
beninteso); dava consigli sugli alberi da potare, sulle aiole da vangare, sulle messi
da raccogliere, sui cavalli da attaccare ai carri o all'aratro. In meno di un anno
seppe conquistarsi la fiducia del baronetto, mentre a tavola la conversazione, che
una volta si svolgeva tra lui e Mr. Horrocks, il maggiordomo, ora aveva luogo
quasi esclusivamente tra Sir Pitt e Miss Sharp. Quando Mr. Crawley era assente,
Rebecca diventava, si può dire, la padrona di casa; ma pur assumendo di fatto un
ruolo di tanto prestigio, sapeva man tenere un contegno così umile e prudente, da
non ledere l'autorità del personale sia in cucina sia nelle scuderie, verso il quale, al
contrario, si mostrava sempre affabile e riservata. Era ormai una persona
completamente diversa dalla ragazzina orgogliosa, timida e inappagata che
abbiamo avuto modo di conoscere in precedenza, e questo mutamento di carattere
costituiva la miglior prova ch'ella potesse dare della sua prudenza, della sua
sincera volontà di correggersi, o quantomeno di una incontestabile forza morale.
Se fosse il cuore, oppure no, a suggerire a Rebecca questa nuova condotta basata
sulla sottomissione e la condiscendenza, lo dimostrerà il seguito della nostra
storia. È difficile che una ragazza di ventun anni sappia mantenere a lungo un
atteggiamento basato sull'ipocrisia programmatica e consapevole senza tradirsi
una sola volta. Tuttavia, sebbene così giovane, i nostri lettori non avranno
dimenticato come la nostra eroina fosse vecchia d'esperienze di vita; e se essi non
avessero ormai capito che Rebecca era molto intelligente, quanto abbiamo scritto
finora sarebbe affatto privo di senso.
Al pari di quei barometri dai quali due figurine - un uomo e una donna escono alternativamente per indicare il bello e il brutto tempo, così il maggiore e
il minore dei figli Crawley non si trovavano mai in casa contemporaneamente.
Infatti si detestavano a vicenda fin nei precordi. Per essere più esatti, Rawdon
Crawley l'ufficiale dei dragoni, spregiava altamente tutta la casa e vi capitava
pertanto in rarissime occasioni, cioè in concomitanza con l'annuale visita della
zia.
Abbiamo già illustrato in che cosa consistesse la miglior qualità di costei: la
vecchia signora possedeva un patrimonio personale di settantamila sterline. Aveva
quasi adottato Rawdon, mentre non dissimulava la più viva antipatia per il
maggiore dei nipoti, che disprezzava reputandolo una madonnina infilzata.
Quest'ultimo, per parte sua, non esitava a proclamare apertamente che l'anima
della vecchia era dannata senza rimedio, e parimenti era convinto che suo fratello
avesse pochissime probabilità di varcare la soglia del regno dei cieli. «È una
donna senza timor di Dio,» diceva, «frequenta atei e francesi. La mia mente
rabbrividisce quando mi vien fatto di considerare la sua situazione; quando penso
che, sebbene sia prossima alla morte, è così dedita a tutto ciò che è folle, profano,
futile, licenzioso.» In effetti la vecchia dama si rifiutava nel modo più categorico
di ascoltare i suoi sermoni serali, e quando arrivava a Queen's Crawley si vedeva
costretto a metter da canto le abituali pratiche di devozione.
«Piantala con le tue prediche, Pitt, quando viene Miss Crawley,» gli diceva
il padre. «Ha scritto che non ha la minima intenzione di sopportare le tue lagne
religiose.»
«Ma, signore, voi non tenete conto della servitù...»
«La servitù? Che s'impicchi!» rispondeva Sir Pitt. Ma Mr. Crawley era
convinto che, privati del dono morale di un'istruzione religiosa, i domestici
avrebbero avuto in sorte una situazione di gran lunga peggiore.
«Maledizione, Pitt,» sbottava il padre alle sue rimostranze, «non sarai così
idiota da permettere che escano dalla famiglia tremila sterline all'anno!»
«Cos'è mai il denaro, signore, paragonato alla nostra anima?»
«Vuoi forse dire che in ogni caso la vecchia si guarderà bene dal lasciare i
suoi quattrini a te?» (E non è da escludere che Mr. Crawley facesse proprio questa
considerazione.)
Indubbiamente la vecchia Miss Crawley rientrava nel novero dei reprobi.
Aveva una casa in Park Lane, piccola ma piacevolissima, e siccome a Londra,
durante la stagione, mangiava e beveva assai più del ragionevole, d'estate andava
ad Harrowgate e a Cheltenham. Era una vecchia vestale oltremodo espansiva e
ospitale. Ai suoi tempi, a farle fede, era stata una bellezza (come ben sappiamo,
tutte le vecchie signore lo sono state, ai loro tempi). Era un bel esprit e allora
veniva considerata una terribile radicale. Era stata in Francia dove a quanto si
diceva Saint-Just le aveva ispirato un'infelice passione, e da allora in poi aveva
adorato i romanzi francesi, la cucina francese, i vini francesi. Conosceva a
memoria le opere di Voltaire e Rousseau; parlava con la massima disinvoltura del
divorzio, e con grande energia dei diritti delle donne. In tutte le stanze della sua
casa teneva ritratti di Mr. Fox, e sono convinto che parteggiasse per Fox anche
quando era all'opposizione. Quando Poi Fox divenne ministro, ella si vantò di
avergli procacciato l'adesione di Sir Pitt e del suo collega di Queen's Crawley,
cosa che peraltro Sir Pitt avrebbe fatto indipendentemente dal solerte intervento
della brava signora. Inutile precisare come, dopo la morte del grande statista
Whig, Sir Pitt si affrettasse a cambiar parere.
La spiccata simpatia della nobile dama per Rawdon Crawley ebbe inizio
quando quest'ultimo era ancora un ragazzo, e per far dispetto all'altro nipote che
studiava a Oxford, lo mandò a Cambridge. Poi, allorché le alte sfere di questa
università esortarono il giovanotto a sgombrare il campo, dopo una permanenza di
due anni, lei gli comperò un brevetto di ufficiale nelle Guards Green.
Il giovane ufficiale era un perfetto e ben noto esemplare di «bellimbusto», o
dandy. Il pugilato, la caccia ai ratti, il gioco del fives' court e la mania di guidare i
tiri a quattro, erano a quell'epoca le occupazioni di gran moda tra i giovani
dell'alta aristocrazia britannica, ed egli era un adepto di queste arti sublimi.
Inoltre, sebbene appartenesse al corpo delle Guardie Reali che, essendo alle
dirette dipendenze del Principe Reggente, non aveva ancora avuto modo di dar
prova del suo valore combattendo oltre i confini della patria, Rawdon Crawley era
già stato coinvolto in tre cruenti duelli à propos del gioco, una passione che non
riusciva a domare. E in tali occasioni aveva potuto ostentare nei termini più
eloquenti il suo totale disprezzo per la morte.
«E altresì di quanto ci attende dopo la morte,» commentava Mr. Crawley
levando al soffitto i suoi occhietti iniettati di sangue. Preoccuparsi dell'anima di
suo fratello, o di chiunque altro la pensasse diversamente da lui, gli era di
consolazione, non diversamente da quanto accade a tante altre persone
caratterizzate da analoga «serietà».
Da parte sua, la frivola e romantica Miss Crawley, invece di inorridire al
cospetto del temerario contegno del suo beniamino, dopo ogni duello si affrettava
a pagarne i debiti, rifiutandosi per giunta di prestar l'orecchio ad aperti commenti
o a chiacchiere sommesse che ne vituperassero la condotta. «D'accordo,» soleva
dire, «corre la cavallina; ma vale molto di più di quel piagnucolone ipocrita di suo
fratello.»
XI • ARCADICA SEMPLICITÀ
Oltre ai rispettabili abitatori del castello, la cui semplicità e il cui seducente
candore rurale provano quanto la vita in campagna sia preferibile a quella
cittadina, è giusto presentare al lettore i loro parenti e vicini del presbiterio, cioè
Bute Crawley e la di lui consorte.
Il reverendo Bute Crawley era un uomo alto, imponente, incline alla
cordialità. Soleva portare il cappello a larghe tese tipico del clero anglicano, e
nella contea era di gran lunga preferito al fratello baronetto. All'università era
stato capo-vogatore della barca del Christchurch e aveva sconfitto i migliori pugili
della città. Del resto, nella vita privata aveva conservato questa passione per il
pugilato e per gli esercizi ginnastici. Qualunque gara di boxe si svolgesse entro un
raggio di venti miglia, poteva contare sulla sua partecipazione, e altrettanto dicasi
per le corse, le cacce alla lepre, le regate, le feste da ballo, le elezioni e i banchetti
ecclesiastici, cui trovava sempre il modo di presenziare. La sua cavalla baia e i
fanali del suo calesse erano visibili a parecchie miglia di distanza dal presbiterio
ogni qual volta si dava un pranzo a Fuddleston, a Roxby, a Wapshot Hall o in casa
delle famiglie altolocate della contea con le quali intratteneva rapporti d'intima
amicizia. Aveva una bella voce: cantava A southerly wind and a cloudy sky e
dirigeva il coro, tra il plauso generale. Partecipava alle cacce alla volpe in giacca
sale e pepe ed era considerato uno dei più abili pescatori della contea.
Sua moglie, Mrs. Crawley, era una donna piccola e minuta, ma tutt'altro che
insipiente: non per nulla era lei a scrivere i sermoni per il degno ecclesiastico.
Apprezzava la vita domestica, onde trascorreva in casa gran parte del suo tempo
in compagnia delle figliole. Nel presbiterio era lei a comandare con piglio
inflessibile, ma a parte ciò aveva il buonsenso di concedere piena libertà al
marito, il quale poteva andare e venire a sua discrezione e pranzare fuori come e
quando gli garbava, anche perché Mrs. Crawley era molto economa e conosceva il
prezzo del vino di Porto. Da quando aveva gettato l'amo all'allora giovane rettore
di Queen's Crawley (figlia del defunto colonnello Hector McTavish, apparteneva
a un'ottima famiglia, e nel perseguimento dei suoi intenti aveva trovato appoggio
nella madre) e Bute aveva abboccato, era stata per lui una moglie sagace e
parsimoniosa. Ma ad onta della sua oculatezza finanziaria Bute era sempre
oberato dai debiti. Non meno di dieci anni gli erano occorsi per saldare i debiti
contratti all'università, quando suo padre era ancora in vita. Se n'era appena
districato quando, nel 179..., giocò cento sterline contro Kangaroo, che vinse il
derby. Costretto a farsi prestare il denaro a un interesse disonestamente elevato,
da quel momento non aveva avuto più pace. Di tanto in tanto la sorella gli dava
una mano con qualche centinaio di sterline, ma naturalmente le speranze di Bute
erano puntate sulla morte di lei: «Quel giorno,» diceva, «Matilda dovrà pur
lasciarmi metà dei suoi quattrini, maledizione!»
Di conseguenza il baronetto e suo fratello avevano tutte le ragioni che due
fratelli possono avere per essere come cane e gatto. Sir Pitt l'aveva spuntata in un
numero infinito di beghe familiari; e in quanto al giovane Pitt, non solo non
andava a caccia, ma addirittura aveva creato una congregazione sotto il naso dello
zio. Rawdon, chi non lo sapeva?, avrebbe ereditato gran parte della fortuna di
Miss Matilda Crawley. Alla Fiera della Vanità l'amor fraterno si fonda
essenzialmente sulle questioni finanziarie, sulle speculazioni in vita e in morte,
sulle silenziose battaglie per assicurarsi il possesso delle vestigia ereditarie. Io,
per esempio, sono in grado di citare il caso di un biglietto da cinque sterline che è
diventato il pomo della discordia tra due fratelli, distruggendo un rapporto
d'affetto che durava da mezzo secolo. In verità, quando osservo su cosa si basi
l'edificante, durevole amore che lega le persone attaccate ai beni di questo mondo,
non posso che provarne la più viva ammirazione!
È inverosimile che l'arrivo a Queen's Crawley di un personaggio come
Rebecca e il suo graduale inserimento nelle grazie di tutti, potesse passare
inosservato alla moglie del rettore. Mrs. Crawley sapeva per filo e per segno
quanto durava al castello la lombata di bue, quanti capi di biancheria finissero in
bucato, quante pesche c'erano sulla spalliera a sud e quanti cucchiai di purgante
prendeva Milady quando era indisposta: tutti argomenti, questi, di preciso
interesse per certa categoria Gli persone che vive in campagna. Di conseguenza
Mrs. Crawley non poteva ignorare l'istitutrice del castello fino a quando non ne
avesse saputo vita, morte e miracoli. Tra la servitù del castello e quella del
presbiterio era sempre regnato il massimo accordo. Un bicchiere di ottima birra
non mancava mai, nella cucina del presbiterio, per i domestici del castello,
assuefatti a mandar giù un beverone piuttosto acquoso (anzi, la moglie del vicario
sapeva esattamente quanto malto veniva usato al castello per ogni barile di birra).
Per giunta, come tra relativi padroni, così tra i servitori del presbiterio e quelli del
castello sussistevano legami di parentela; ed era attraverso questi canali che
ciascuna delle due famiglie sapeva per filo e per segno quanto accadeva nell'altra.
Questa circostanza c'induce a una considerazione d'ordine generale: quando tra
due fratelli regna l'accordo, essi manifestano la più assoluta indifferenza per il
loro rispettivo comportamento, mentre il contrario è vero quando sono nemici, e
arrivano al punto di spiarsi a vicenda.
È così che, poco dopo il suo arrivo, Rebecca cominciò a figurare
regolarmente nel bollettino del castello compilato regolarmente da Mrs. Crawley.
Eccone un esempio: «Ucciso il porcellino nero, pesava x libbre. Salati i prosciutti.
Per cena, zampone e torta di sfoglia farcita con frattaglie di maiale. Mr. Cramp di
Mudbury si è recato da Sir Pitt per discutere sull'opportunità di far incarcerare o
meno John Blackmore. Riunione nella congregazione di Mr. Pitt (seguivano i
nomi di tutti i partecipanti). Milady, come sempre, oltre all'istitutrice con le
signorine.»
Poi cominciarono ad affluire notizie dettagliate: «La nuova istitutrice è
un'eccellente direttrice di casa. Sir Pitt è molto gentile con lei, e anche Mr. Pitt,
che le legge dei brani dei suoi sermoni.» «Che faccia tosta deve avere costei!»
commentava, per parte sua, la piccola, bruna, attiva e zelante Mrs. Crawley.
Finché, dai suddetti rapporti, risultò che l'istitutrice «aveva in pugno tutta la
famiglia»; scriveva le lettere di Sir Pitt e trattava gli affari per conto suo, così
come teneva i conti di casa ed esercitava la sua autorità su tutti quanti: su Lady
Crawley, su Mr. Crawley e sugli altri abitanti del castello. Al che Mrs. Crawley
concluse che si trattava di una piccola astuta intrigante la quale senz'ombra di
dubbio celava in cuor suo qualche piano diabolico. Tutto ciò che avveniva al
castello serviva ad alimentare la conversazione in casa del vicario, mentre gli
occhietti penetranti di Mrs. Martha Crawley scrutavano implacabili il campo
nemico, scoprendovi tutto e molto altro ancora.
Mrs. Martha Crawley a Miss Pinkerton,
The Mall, Chiswick
Parrocchia di Queen's Crawley, dicembre...
Gentile signorina,
sono ormai trascorsi molti anni da quando, per mia lieta ventura, mi sono
stati impartiti i vostri deliziosi e inestimabili insegnamenti. Nondimeno conservo
tuttora, di Voi e di Chiswick il più affettuoso e reverente ricordo. Mi auguro che
la vostra salute sia ottima. Per molti e molti anni ancora la buona società e il
prestigio dell'insegnamento d'alta classe non potranno fare a meno di Miss
Pinkerton. Quando la mia amica Lady Fuddlestone mi ha detto che le sue care
figliole avevano bisogno di un'istitutrice (io sono troppo povera per assumere
una governante che si occupi delle mie ma per fortuna sono stata educata a
Chiswick) ho esclamato: «Chi mai potremmo interpellare se non l'ottima,
l'incomparabile Miss Pinkerton? In una parola, cara signorina, non avreste sotto
mano qualche ragazza che potesse venire assunta dalla mia gentile amica e
vicina? Posso assicurarvi ch'ella non è disposta ad assumere una governante se
non è stata scelta da voi.
Il mio caro marito si compiace di ripetere che apprezza tutto ciò che
proviene dalla scuola di Miss Pinkerton. Come sarei lieta di poter presentare lui e
le mie care ragazze all'amica dei miei anni giovanili, a colei che fu ammirata dal
grande lessicografo della nostra patria! Mio marito m'incarica di dirvi che,
qualora un giorno veniste nell'Hampshire, si augura vorrete onorare della vostra
presenza la nostra umile parrocchia di campagna. Tale essendo la modesta ma
felice dimora della vostra affezionata
Martha Crawley
P.S. Il fratello di mio marito, il baronetto, con cui purtroppo non intratteniamo
rapporti di affettuosa intesa, come invece sarebbe logico e naturale, ha assunto
per le sue figliole un'istitutrice la quale, mi è stato riferito, ha avuto la fortuna di
essere educata a Chiswick. Ho sentito parlare di lei in termini contrastanti, e
siccome seguo le mie nipotine col più affettuoso interessamento (tanto che, ad
onta degli screzi familiari, spero di vederle entrare in rapporto con le mie
bambine) e desidero inoltre mostrarmi gentile con qualsiasi vostra allieva, vi sarò
davvero grata, gentile Miss Pinkerton se vorrete raccontarmi la storia di questa
signorina, alla quale per amor vostro intendo esternare i sentimenti di tutta la
mia amicizia.
M.C.
Miss Pinkerton a Mrs. Martha Crawley
Johnson House, Chiswick dicembre 18...
Cara signora
ho l'onore di accusare ricevuta della vostra lettera, alla quale mi affretto a
rispondere. È oltremodo lusinghiero e motivo di intima soddisfazione, per chi si
dedichi a un compito arduo come il mio, constatare come le proprie materne cure
abbiano suscitato in contraccambio un così duraturo affetto; e riconoscere
nell'amabile Mrs. Crawley, l'ottima allieva di un tempo, la brillante e colta
Martha McTavish. Sono lieta di aver qui, affidate alle mie attenzioni le figlie di
numerose ragazze che furono vostre compagne nel mio collegio; e davvero
sarebbe per me un gran piacere se anche le vostre amate figliole avessero
bisogno della mia guida ai fini della loro istruzione!
Mentre porgo i miei rispettosi ossequi a Lady Fuddleston, ho l'onore di
presentare (per lettera) a sua signoria due mie amiche: Miss Tuffin e Miss
Hawkins.
Queste due signorine sono parimenti in grado di insegnare greco, latino,
rudimenti di ebraico, matematica, storia, spagnolo, francese, italiano, geografia,
musica vocale strumentale, danza senza la guida di un maestro apposito e
qualche elemento di scienze naturali. Inoltre vantano entrambe un'ottima
conoscenza dell'astronomia. Miss Turpin, figlia del defunto reverendo Thomas
Tuffin, docente al Corpus College di Cambridge, è poi in grado di insegnare il
siriaco e le nozioni basilari del diritto costituzionale. Ma ha solo diciotto anni e il
suo aspetto è oltremodo attraente: potrebbe quindi risultare inadatta a una
famiglia come quella di Lady Fuddlestone.
Al contrario, la fortuna non ha assistito Miss Letitia Hawkins per quanto
concerne le sembianze fisiche. Ha ventinove anni, il viso fittamente butterato dal
vaiolo e i capelli rossi. Per giunta zoppica un tantino e ha lo sguardo poco
accattivante per effetto di un leggero strabismo. Entrambe queste signorine sono
irreprensibili per quanto concerne virtù morali e religiose. Le loro pretese sono
naturalmente adeguate ai loro meriti. Mentre porgo i miei migliori e grati saluti
al reverendo Bute Crawley, ho l'onore di essere, cara signora,
la vostra fedelissima e umilissima serva
Barbara Pinkerton
P.S. La signorina di cui parlate, Miss Sharp, istitutrice in casa dell'onorevole Sir
Pitt Crawley, è stata in effetti mia allieva e non ho niente da dire a suo sfavore. Il
suo aspetto è alquanto sgradevole, ma d'altro canto non possiamo dettar legge a
Madre Natura. Sebbene i suoi genitori non avessero buona stampa (il padre era
un pittore squattrinato e senz'arte né parte; la madre, come ho saputo più tardi
con un sentimento d'inorridita indignazione, faceva la ballerina all'Opera), è
dotata di un'intelligenza rimarchevole e non rimpiango dì averla tenuta per puro
spirito di carità. Nondimeno ho motivo di temere che i principi della madre (della
quale mi avevano parlato come di una contessa francese costretta ad emigrare
per sfuggire agli orrori della rivoluzione e che invece era, come ho scoperto in
prosieguo di tempo, una persona d'infima estrazione sociale e deplorevolissima
moralità) possano prima o poi riaffiorare come una tara ereditaria in quella
sventurata giovane, da me accolta perché era una povera derelitta. D'altra parte
suppongo che, a tutt'oggi, ella abbia dato prova di esser ligia ai princìpi
dell'onestà, e senza dubbi nulla potrà sopravvenire a mutarli nell'elegante e
raffinata cerchia dell'eminente Sir Pitt Crawley.
Rebecca Sharp a Miss Amelia Sedley.
Da molte settimane ormai non scrivo alla mia diletta Amelia, perché in
verità non c'è nulla di nulla di nuovo da raccontare su quanto si fa e si dice in
questo castello, o meglio in questa Casa del Sonno, come io l'ho ribattezzato. Può
forse importare qualcosa che il raccolto delle rape sia buono o cattivo? O di
sapere che il maiale grasso pesa due quintali piuttosto che tre? O dell'erba
medica che fa ingrassare le vacche? Dall'ultima volta che t'ho scritto non c'è
stata una giornata diversa dalle altre. Prima di colazione, passeggiata con Sir
Pitt e la sua vanga; dopo colazione, lezioni (se così è lecito definirle) nello
studio; quindi mi tocca occuparmi della corrispondenza di Sir Pitt, del quale
sono diventata la segretaria: leggo e scrivo lettere che riguardano
immancabilmente questioni legali, affittanze, miniere, canali. Dopo cena, i soliti
sermoni di Mr. Crawley o la partita a Backgammon col padrone di casa, cui lady
Crawley assiste con la solita placida indifferenza. Ultimamente la sua persona ha
acquistato un minimo d'interesse perché si è ammalata, e la circostanza è servita
a recare al castello un nuovo visitatore nella persona di un giovane medico.
Ebbene, mia cara: è proprio vero che una donna giovane non deve mai perdere
ogni speranza: infatti il dottorino in questione ha fatto capire a una certa tua
amica che, se avesse accettato da diventare Mrs. Glauber, sarebbe diventata il
graditissimo ornamento del suo ambulatorio! Ho risposto a quell'impertinente
che il mortaio e il pestello d'ottone ne costituivano un ornamento più che
sufficiente. Figuriamoci se sono nata per diventare la moglie di un mediconzolo
di campagna! Mr. Glauber se n'è tornato a casa sua irritatissimo del mio rifiuto,
ha preso una pozione sedativa e adesso si è rimesso completamente. Sir Pitt ha
approvato senza riserve la mia decisione: ritengo che gli seccherebbe perdere la
sua piccola segretaria, e credo che la vecchia canaglia provi per me quell'oncia
di simpatia che la sua natura gli permette di provare per chicchessia. Sposarmi.
Nientemeno! E per giunta con un Esculapio campagnolo! No, no, non si possono
dimenticare così presto le vecchie amicizie, delle quali peraltro non ho più
intenzione di parlare. Torniamo piuttosto alla Casa del Sonno.
Da qualche tempo non è più la Casa del Sonno. Infatti, mia cara, è arrivata
Miss Crawley, accompagnata dai suoi grassi cavalli dai suoi grassi domestici e
dal suo grasso cocker-spaniel... Proprio lei, l'illustre e facoltosa Miss Crawley
con le sue settantamila sterline investite al cinque per cento, la quale (o forse
sarebbe meglio dire le quali) è, o meglio sono, sono adorate dai suoi due fratelli.
Poveretta, ha proprio l'aria di un apoplettica, non c'è che dire. Non mi
meraviglio che i fratelli siano così in ansia per lei. Li vedessi mentre si danno un
gran daffare a sistemarle i cuscini o a porgerle il capi! «Quando vengo in
campagna,» dice (giacché non è sprovvista di una certa dose di spirito) «lascio a
casa Miss Briggs, la mia adulatrice. Tanto, qui trovo i miei fratelli che la
sostituiscono alla perfezione. Due bei tipi davvero!»
Quando lei arriva, il castello è aperto a tutti e per un mese almeno si è
tentati di credere che il vecchio Sir Walpole sia risuscitato. È un susseguirsi di
cene, si esce a spasso in tiro a quattro e i domestici indossano le loro livree
nuove giallo canarino. E si beve chiaretto e champagne come fosse cosa di tutti i
giorni. Nello studio disponiamo di candele di cera e abbiamo un bel fuoco per
scaldarci. Lady Crawley viene indotta a indossare il più sgargiante abito verde
pisello di cui disponga nel suo guardaroba, e le mie allieve lasciano da canto i
soliti vestiti scozzesi, si liberano delle scarpe dalla suola spessa per adottare
calze di seta e abiti di mussola come si addice alle figlie di un baronetto, tenute a
rispettare i dettami dell'eleganza. Ieri Rose è rientrata in uno stato da far paura:
la scrofa Wilshire (una bestia enorme che lei predilige) l'ha scaraventata a terra,
e ballandoci sopra ha ridotto a brandelli un bellissimo abito di seta lilla a fiori.
Se un fatto del genere si fosse verificato una settimana fa, Sir Pitt sarebbe esploso
nelle più turpi bestemmie, avrebbe preso a ceffoni la malcapitata e l'avrebbe
messa a pane e acqua per un mese. Invece si è accontentato di dire: «Quando la
zia sarà partita avrai quel che ti meriti signorina», ed è scoppiato a ridere come
se si fosse trattato di un incidente del tutto irrilevante. Speriamo che la collera gli
sia sbollita prima che Miss Crawley se ne sia andata, me lo auguro di tutto cuore
per la povera Rose. Eh, sì: il denaro è un eccellente paciere, un meraviglioso
conciliatore.
Un altro straordinario effetto della presenza di Miss Crawley e delle sue
settantamila sterline emerge dal comportamento dei due fratelli Crawley. Alludo
al baronetto e al vicario, non ai nostri due fratelli. Quei due, che si detestano per
tutto l'anno, a Natale ostentano le più vistose manifestazioni di reciproco affetto.
Come ti ho scritto l'anno scorso quell'insopportabile reverendo dalla sfegatata
passione per le corse, in chiesa usa tenere dei sermoni noiosissimi ai quali Sir
Pitt reagisce russando. Ebbene, quando arriva Miss Crawley, niente più liti: dal
castello ci si reca in visita al presbiterio, e viceversa. Il vicario e il baronetto
parlano di maiali e di cacciatori di frodo; discutono degli affari della contea nel
tono e nei modi più affabili, senza che esplodano alterchi ogni tre parole. E tutto
questo sai perché? Perché Miss Crawley non sopporta le loro beghe, e ha detto
chiaro e tondo che se non le daranno ascolto lascerà tutti i suoi soldi ai Crawley
dello Shropshire. Se fossero furbi, quei Crawley dello Shropshire, credo che
riuscirebbero ad assicurarsi tutto il peculio; ma il Crawley dello Shropshire è un
ecclesiastico al pari del cugino dello Hampshire, e ha offeso a morte Miss
Crawley (una volta che si era rifugiata da lui, in un impeto di collera nei riguardi
dei suoi insopportabili fratelli) imponendole ad ogni costo il rispetto di non so
quali pratiche di edificazione morale. Probabilmente avrà preteso di recitare le
preghiere in casa. Ecco perché quando arriva Miss Crawley i libri di preghiere
vengono chiusi e Mr. Pitt, che lei aborre, ritiene opportuno andarsene in città.
Per contro fa la sua comparsa il giovane danda (o meglio il bellimbusto, credo
che questo sia il termine più esatto). Mi riferisco al capitano Crawley, e
suppongo non ti dispiaccia sapere che tipo è.
È un giovanottone grande e grosso, sul metro e novanta di statura. Ha una
voce tonante, bestemmia in continuazione e comanda a bacchetta la servitù.
Questa peraltro lo adora, dal momento che lui elargisce denaro con molta
prodigalità e di conseguenza i domestici sono pronti a fare tutto quanto gli
aggrada. La settimana scorsa è mancato poco che i guardacaccia uccidessero un
ufficiale giudiziario e il suo assistente, venuti da Londra per arrestare il
capitano, perché erano stati sorpresi in agguato dietro il muro di recinzione del
parco. Li hanno picchiati e gettati nello stagno. Senza il provvido intervento del
baronetto, gli avrebbero sparato addosso come fossero stati cacciatori di frodo.
Il capitano nutre il più profondo disprezzo per suo padre, per quanto
almeno mi è dato di constatare: lo interpella con gli epiteti di vecchio tonto,
vecchio zotico, vecchio cafone ed altri graziosi appellativi di pari significato.
Presso le signore gode della peggior reputazione. Lascia entrare in casa i cani da
caccia, passa il tempo coi vari signorotti della contea, invita a cena chi gli pare e
piace; e Sir Pitt non osa impedirglielo, nel timore di contrariare Miss Crawley e
perdere la ben nota eredità il giorno in cui la vecchia morisse di un colpo
apoplettico. Permetti che ti riferisca un complimento rivoltomi dal capitano? Eh
sì, non posso esimermi dal riferirtelo perché è troppo grazioso. Una sera
abbiamo dato perfino una festa da ballo. Ti pare poco? C'erano Sir Huddkeston
coi familiari, Sir Giles Waphot e le sue figliole, e non so quante altre persone.
Ebbene, a un certo punto l'ho udito che diceva: «Per Giove, quella sì è un fior di
bella ragazza!» E alludeva alla tua umile serva. Non solo: mi ha fatto l'onore di
ballare con me due contraddanze. Se la intende a meraviglia coi signorotti del
circondario, coi quali beve, scommette alle corse, va a cavallo, conversa di cacce
e di gare di tiro a segno. Ma in quanto alle ragazze di provincia, dice che sono
una barba e in verità temo che non abbia tutti i torti. Vedessi con che occhio
sprezzante squadravano la povera sottoscritta! Quando loro ballano io me ne sto
da parte buona buona a suonare il pianoforte. Ma l'altra sera è entrato il
capitano. Veniva dalla sala da pranzo ed era alquanto acceso in volto. Nel
vedermi seduta davanti alla tastiera è esploso nelle più fragorose bestemmie,
Affermando che ero la più brava tra le ballerine presenti nel salone, e ha giurato
e spergiurato che avrebbe fatto venire i suonatori da Mudbury.
«Suonerò io una contraddanza,» ha esclamato prontamente Mrs. Martha
Crawley, la moglie del vicario (una donnetta anziana, con la pelle olivastra, gli
occhi lucenti e in testa un turbante inclinato sulle ventitré). E dopo che il
capitano e la tua Rebecca ebbero danzato insieme, lo crederesti che mi ha fatto
l'onore di complimentarsi con me per come ballo? Mai prima di allora, si era
udita una cosa del genere!
L'orgogliosa Mrs. Martha Crawley, cugina in primo grado del conte di
Tiptoff: proprio lei che non si degna di far visita a Lady Crawley tranne quando
arriva sua sorella. Povera Lady Crawley. Quando hanno luogo questi
festeggiamenti, lei per lo più se ne sta di sopra a mandar giù pillole!
Mrs. Crawley è stata colta da un'improvvisa simpatia per me. «Perché non
portate le ragazze al presbiterio, cara Miss Sharp?» mi ha detto. «Le loro cugine
sarebbero così contente di vederle!» Ma io ho capito benissimo cosa vuole da me.
Il signor Clementi non disdegnava certo il suo compenso per insegnarci a
suonare il pianoforte: compenso che invece Mrs. Crawley non intende
corrispondere all'insegnante delle sue figliole. Ho capito i suoi propositi né più
né meno come se me li avesse confidati; ma accetterò egualmente, perché ho
deciso di rendermi gradita ad ogni costo. D'altronde, non è forse questo il dovere
di una sventurata istitutrice priva di amici e protettori? La moglie del vicario mi
ha elogiata, osservando che le mie allieve hanno fatto notevoli progressi
nell'evidente presunzione di lusingare il mio amor proprio. Povera ingenua!
Come se a me importasse qualcosa delle mie allieve!
Il tuo vestito di mussola indiana e quello di seta rossa mi donano molto,
cara Amelia, stando a quello che mi sento dire, anche se cominciano ad essere un
po' sciupati Ma tu sai come noialtre ragazze povere non possiamo permetterci des
fraiches toilettes. Beata te, cui basta spingerti fino a St. James 's Street, ove la tua
cara mamma è pronta a comperarti tutto ciò che desideri.
Addio, mia carissima,
la tua affezionata
Rebecca
P.S. Ah, se avessi visto la faccia delle Blackbroocks (figlie dell'ammiraglio
Blackbroocks), bellissime signorine che indossavano abiti venuti appositamente
da Londra, quando il capitano ha scelto me per quel ballo!
Quando Mrs. Martha Crawley (della quale la nostra intelligente Rebecca non
aveva tardato a scoprire le trame) ebbe strappato a Miss Sharp la promessa di una
visita, indusse l'onnipotente Miss Crawley a rivolgere l'indispensabile richiesta a
Sir Pitt. La vecchia signora, buona com'era e desiderosa di vivere in letizia come
di veder liete le persone che la circondavano, fu soddisfattissima della cosa e non
esitò un istante a riconciliare i due fratelli, ripristinando fra loro un clima di
amicizia e di reciproca armonia. Pertanto fu convenuto che in avvenire i giovani
delle due famiglie si sarebbero incontrati frequentemente; e così fu, per lo meno
fino a quando la vecchia e cordiale mediatrice sopravvisse a mantenere quel clima
di pace.
«Perché hai invitato a cena quel poco di buono di Rawdon Crawley?» chiese
il vicario alla moglie mentre percorrevano il parco per rientrare a casa. «Non
voglio saperne, di quel tipo. Per il semplice fatto che siamo gente di campagna ci
squadra dall'alto in basso come fossimo negri. Non è soddisfatto fino a quando
non gli riesce di metter le mani sul mio vino col sigillo giallo, che mi costa dieci
scellini la bottiglia, canaglia! E poi è un individuo niente affatto raccomandabile:
gioca d'azzardo, si ubriaca, un losco figuro sotto ogni punto di vista! Ha ucciso un
uomo in duello, è indebitato fin sopra i capelli e ha privato me e i miei familiari di
gran parte dell'eredità di Miss Crawley. Waxy mi ha detto,» e a questo punte il
vicario strinse un pugno levando il braccio verso la luna, in un gesto che
assomigliava di molto a una maledizione, «che gli lascerà cinquantamila sterline.
Quindi ne resteranno meno di trenta da dividere.»
«Credo che le manchi poco a tirar le cuoia,» rispose la moglie. «Quando si è
alzata da tavola era molto rossa m faccia. Ho dovuto slacciarle il busto.»
«Sfido! Ha bevuto sette coppe di champagne! Senza contare che lo
champagne di mio fratello è fatto apposta per avvelenarci tutti quanti. Ma al solito
voi donne non sapete distinguere il buono dal cattivo.»
«Già, già, noi non sappiamo mai niente.»
«Dopo cena ha bevuto del cherry-brandy, e col caffè ha mandato giù del
Curaçao,» continuò il vicario. «Io non ne berrei un bicchierino neppure per cinque
sterline, mi fa venire un brucior di stomaco da impazzire. Non può andare avanti
così, Mrs. Crawley! Non può che morire al più presto, nessuno resiste a un regime
del genere. Scommetto cinque contro due che Matilda entro un anno se ne andrà
al Creatore.»
E indulgendo col pensiero a questi austeri ragionamenti, continuando a
pensare ai propri debiti, al figlio Jim che frequentava l'università, al figlio Frank a
Woolwich, alle quattro figlie che, poverette, non erano certo delle Veneri e non
potevano attendersi un centesimo di dote oltre a quanto gli sarebbe venuto dalla
zia, il Vicario e la moglie, continuarono per la loro strada.
«Non è possibile che Pitt sia così perfido e diabolico da cedere il beneficio
della parrocchia, e soprattutto a quel metodista smidollato del figlio maggiore che
punta al Parlamento,» continuò Mr. Crawley dopo una pausa.
«Da Sir Pitt possiamo aspettarci di tutto,» rispose la moglie del vicario.
«Dobbiamo indurre Miss Crawley a strappargli la promessa di beneficiarne
James.»
«Quando si tratta di promettere, Pitt non si fa pregare,» ribatté il fratello.
«Quando è morto mio padre ha promesso che avrebbe pagato i miei conti
all'università; ha promesso di costruire una nuova ala per il presbiterio; ha
promesso di darmi il campo di Jibb e il prato di sei jugeri. Hai visto come le ha
mantenute, le sue promesse? Ed è al figlio di quest'uomo, a quel mascalzone, a
quel truffatore, a quel giocatore, a quell'assassino di Rawdon Crawley che Matilda
lascerà gran parte delle sue sostanze! Questo, per Giove, non è agire da buon
cristiano! Quel farabutto ha tutti i vizi, tranne l'ipocrisia: questa compete a suo
fratello.»
«Zitto, tesoro!» lo ammonì la moglie, «siamo ancora nelle proprietà di Sir
Pitt.»
«Ed io ti dico e ti ripeto che ha tutti i vizi di questo mondo. E fa' il santo
piacere di non redarguirmi. È o non è vero che ha ammazzato il capitano Marker?
È o non è vero che ha imbrogliato il giovane Lord Doevdale al Cocoa-Tree? È o
non è vero che si è intromesso nell'incontro di pugilato tra Bill Soames e il
campione del Cheshire, causandomi la perdita di quaranta sterline? Sono cose che
sai perfettamente. Quanto alle donne, poi, sai altrettanto bene come davanti a me,
nel mio studio...»
«Per l'amor del cielo,» lo interruppe Martha, «risparmiami i particolari!»
«E tu hai invitato quel farabutto a casa nostra!» continuò il vicario,
esasperato. «Tu, una madre di famiglia, moglie di un ministro della Chiesa
d'Inghilterra! Maledizione!»
«Sei un imbecille, Bute Crawley,» esclamò la moglie in tono sprezzante.
«E va bene, signora: imbecille o no (non pretendo e non ho mai preteso,
Martha, di essere intelligente quanto te), una cosa è certa: Rawdon Crawley non
voglio trovarmelo fra i piedi. Me ne andrò da Huddleston a vedere il suo levriero
nero, ecco cosa farò, Mrs. Crawley. E farò correre Launcelot contro di lui per
cinquanta sterline. Per Giove se lo farò. O contro qualsiasi altro cane d'Inghilterra.
Ma quella bestia di Rawdon Crawley non la voglio vedere a nessun patto.»
«Sei ubriaco, Bute, tanto per cambiare,» commentò sua moglie. L'indomani
mattina, quando il vicario si svegliò e chiese una birra leggera, lei gli ricordò
come si fosse ripromesso di andare a trovare Sir Huddleston Fuddleston quel
sabato; e siccome lui sapeva che lo attendeva una serata annaffiata, convennero
che avrebbe fatto meglio a tornare a cavallo la domenica mattina, in tempo per il
servizio religioso. Dal che è lecito dedurre come i parrocchiani di Crawley
avessero, per loro fortuna, un vicario affatto degno del loro signore.
Non era trascorso molto tempo da quando Miss Crawley era giunta al
castello, e già il fascino di Rebecca aveva fatto breccia nel cuore di quella
simpatica libertina londinese, né più né meno come aveva conquistato quello degli
innocenti campagnoli da noi descritti. Un giorno, mentre si disponeva alla
consueta passeggiata in carrozza, lì per lì le venne l'idea che «la piccola
istitutrice» dovesse accompagnarla fino a Mudbury. Prima ancora del loro ritorno,
Rebecca l'aveva conquistata perché era riuscita a farla ridere quattro volte,
divertendola per tutta la durata di quel breve tragitto.
«Perché Miss Sharp non cena con noi?» propose a Sir Pitt, che aveva
combinato un pranzo di cerimonia invitando la miglior società del vicinato. «Mio
caro, non penserai ch'io sia disposta a parlar di mocciosi con Lady Fuddleston, o
di garbugli legali con quel vecchio rimbambito di Lord Wapshot! Insisto
categoricamente perché presenzi anche Miss Sharp. Se non ci sono abbastanza
posti, che Lady Crawley resti nelle sue stanze. Perché ci tengo a Miss Sharp? Per
un motivo semplicissimo: è l'unica persona, in tutta la contea, coli la quale si
possa parlare!»
Inutile precisare come, in seguito a disposizioni tanto perentorie, Miss
Sharp, l'istitutrice, fosse invitata a cenare in sala assieme all'esimia compagnia. E
quando Sir Huddleston, che in atteggiamento solenne e cerimonioso aveva dato il
braccio a Miss Crawley per condurla a tavola, fece l'atto di sederlesi accanto, la
vecchia signora prese a strillare con voce acutissima: «Becky Sharp! Miss Sharp!
Venite a sedervi accanto a me, così mi farete divertire. Sir Huddleston può
benissimo sedersi a fianco di Lady Wapshot.»
Concluso il trattenimento e partite le carrozze, l'insaziabile Miss Crawley
disse: «Venite con me nel mio salottino, Becky, spettegoleremo un poco sulla
compagnia.» Cosa che alle due amiche riuscì alla perfezione: convennero infatti
che durante il pasto Sir Huddleston soffiava come un mantice, Sir Giles Wapshot
sorbiva la minestra producendo uno spiacevole rumore con la bocca, e sua moglie
aveva un tic all'occhio sinistro. Becky sapeva rendere in caricatura quei gesti e
tutta la conversazione della serata: dalla politica alla guerra, dalle sessioni del
Parlamento alla famosa corsa dei levrieri dello Hampshire e a tutti gli altri
argomenti tediosi e monotoni che alimentano le abitudinali chiacchiere dei
gentiluomini di campagna. Quanto poi ai cappelli di Lady Wapshot e delle figlie,
nonché al famoso cappello giallo di Lady Fuddleston, Miss Sharp seppe rievocarli
comicamente con gran dovizia di particolari, suscitando nel suo uditorio il
massimo divertimento.
«Mia cara, siete un'autentica trouvaille» le disse Miss Crawley. «Mi
piacerebbe portarvi a Londra con me, ma certo non potrei prendervi in giro come
faccio con la povera Briggs. Siete troppo furba, non sarebbe possibile. Siete
troppo intelligente, insomma. Non è vero, Firkin?»
Mrs. Firkin, che stava pettinando i pochi capelli che ancora adornavano il
cranio di Miss Crawley, alzò la testa in un gesto sdegnoso e disse nel tono del più
pungente sarcasmo «Che la signorina sia intelligentissima, è fuor di dubbio.»
Infatti Mrs. Firkin provava, nei confronti di Rebecca, quell'istintiva gelosia che
costituisce uno dei princìpi-cardine di ogni donna degna di rispetto.
Dopo aver respinto le cortesi profferte di compagnia di Sir Huddleston
Fuddleston, da quel giorno in poi Miss Crawley decise di recarsi ogni giorno a
colazione sottobraccio a Rawdon Crawley, mentre Rebecca seguiva col suo
cuscino; oppure era Becky a darle il braccio e Rawdon teneva dietro recando il
cuscino. «Dobbiamo sedere vicini, miei cari,» diceva la vecchia signora, «perché
in tutta la contea siamo gli unici cristiani degni di questo nome.» E se questo era
vero, occorre convenire che la religione doveva essere giunta all'infimo stadio,
nello Hampshire!
Oltre ad esser donna pervasa da un così elevato spirito religioso, Miss
Crawley coltivava (già lo abbiamo visto) idee spiccatamente liberali, e non
trascurava occasione per esternarle senza riserve.
«Mia cara, che importanza ha la nascita?» diceva a Rebecca. «Guardate mio
fratello Pitt; guardate gli Huddleston che risalgono al regno di Enrico II; guardate
quel poveraccio di Bute, al presbiterio. Forse che uno, uno solo di loro, può
competere con voi per intelligenza e educazione? Ma che dico, con voi?! Non
sono eguali nemmeno a Briggs, la mia dama di compagnia, o a Bowls, il mio
maggiordomo. Voi, mia cara, siete un unicum, un piccolo gioiello. Gli abitanti di
mezza contea riuniti assieme non hanno il vostro cervello. Se i meriti di ogni
singolo individuo ottenessero l'adeguata ricompensa, voi dovreste essere una
duchessa... Ma nemmeno: le duchesse non dovrebbero esistere. Diciamo meglio
che non dovreste avere superiori di sorta. Per parte mia, vi considero mia pari
sotto ogni punto di vista, e ... Vi dispiace mettere altro carbone sul fuoco... e
prendere quel vestito e aggiustarmelo, voi che avete quelle mani d'oro?» Con
siffatto metodo quella vecchia filantropa si faceva servire, trovava il modo di farsi
fare i lavori di cucito, si faceva leggere i romanzi francesi fin quando si
addormentava: e sempre ad opera della sua «eguale».
A quel tempo - e forse i lettori di una certa età se ne ricorderanno - tra la
buona società avevano prodotto scalpore due avvenimenti i quali, come dicono i
giornali, avrebbero potuto mettere in moto anche la giustizia. L'alfiere Shafton era
fuggito con Lady Barbara Fitzfurse, figlia ed unica erede del conte di Bruin; e il
povero Vere Vane, un gentiluomo che fino all'età di quarant'anni si era sempre
comportato in modo irreprensibile, dedicandosi all'educazione di numerosa prole,
improvvisamente e ignominiosamente aveva abbandonato il focolare domestico
per amore di Mrs. Rougement, un'attrice sessantacinquenne.
«Il lato migliore, nel carattere di Lord Nelson,» diceva Miss Crawley, «sta
nel fatto che si sia rovinato per una donna. Un uomo capace di una cosa del
genere deve avere della stoffa. Io adoro tutti i matrimoni avventati, in modo
particolare che un uomo titolato decida di sposare la figlia di un mugnaio, come
Lord Flowerdale, per esempio. Sono cose che fanno impazzire di collera le donne.
Come mi piacerebbe che un uomo importante scappasse con voi, mia cara! Siete
abbastanza graziosa perché un evento del genere possa verificarsi.»
«Una fuga a due in carrozza! Sarebbe fantastico,» ammise apertamente
Rebecca.
«Un'altra cosa che mi piace moltissimo è l'idea che un giovane povero
scappi con una ragazza ricca. Spero con tutto il cuore che Rawdon scappi con
qualcuna.
«Ricca o povera?»
«Che dite mai, sciocchino? Rawdon non ha un centesimo, al di fuori di
quello che gli passo io. È criblé de dettes. Per aver successo nel mondo bisogna
che trovi un rimedio a questa disastrosa situazione finanziaria.»
«È intelligente?» chiese Rebecca.
«Intelligente, tesoro mio? Fatta eccezione per i cavalli, il reggimento, la
caccia e il gioco d'azzardo, non gli passa un sol pensiero per la testa. Ma è un
mascalzoncello così simpatico, che merita di sfondare nella vita. Sapete che ha
ucciso un uomo in duello e trapassato con un colpo di pistola il cappello di un
padre che aveva offeso? Al reggimento vanno tutti pazzi per lui, e tutti i
giovanotti che frequentano il Wattier e il Cocoa-Tree lo portano in palma di
mano.»
In realtà, e non sapremmo dire esattamente perché, quando Rebecca Sharp
scrisse alla sua diletta amica del ballo a Queen's Crawley e di come il capitano
Crawley l'avesse notata per la prima volta, non raccontò com'erano andate
esattamente le cose. Infatti, altre volte prima di allora il capitano Crawley si era
interessato di lei. Spesso le si era parato dinnanzi all'improvviso durante le
passeggiate nel parco, e almeno un centinaio di volte le aveva inopinatamente
tagliato il passo negli innumerevoli corridoi e corridoietti del palazzo. Venti volte,
a dir poco, s'era appoggiato al pianoforte nel corso della medesima serata (Lady
Crawley era in camera ammalata, e nessuno si curava di lei). Più volte Rawdon le
aveva scritto dei bigliettini (che costituivano il più impegnativo parto letterario di
cui il grosso e goffo capitano dei dragoni fosse capace; del resto, con le donne la
stupidità funziona esattamente come qualsiasi altra prerogativa). Ma quando
nascose il primo di questi biglietti nello spartito della canzone che lei stava
cantando, la piccola istitutrice balzò in piedi, lo guardò in faccia con espressione
compunta, poi con gesto elegante prese quella missiva di forma triangolare, la
sventolò come fosse stata un cappello a tricorno e, avanzando verso il nemico, la
gettò nel fuoco facendogli al tempo stesso una profonda riverenza. Poi tornò al
suo posto e riprese a gorgheggiare, più contenta di prima.
«Cos'è successo?» chiese Miss Crawley, che l'improvviso interrompersi
della musica aveva destato dal sonnellino pomeridiano.
«Oh, una nota sbagliata,» rise Miss Sharp, mentre Rawdon fumava di
mortificazione e di rabbia.
Data l'evidentissima simpatia di Miss Crawley per la nuova istitutrice, Mrs.
Martha Crawley mostrava di esser molto avveduta nel dissimulare qualsiasi
sentimento di gelosia, ed anzi invitando al presbiterio Rebecca in compagnia di
Rawdon Crawley: l'uomo che contendeva a suo marito l'eredità della vecchia
zitella, investita al cinque per cento! Mrs. Crawley e il nipote strinsero,
nientemeno, un legame di autentica amicizia. Lui rinunciò alle cacce, declinò
ripetuti inviti da parte dei Fuddleston, smise di cenare al circolo militare di
Mudbury. Adesso il suo gran divertimento consisteva nel recarsi al presbiterio...
Dove andava anche Miss Crawley. E dal momento che la loro mamma era
ammalata, perché non dovevano seguirla anche le bambine accompagnate da Miss
Sharp? Ed ecco che ci andavano anche le bimbe (quei due tesori!) con Miss
Sharp, e la sera qualcuno dei gruppo tornava a casa a piedi. Non Miss Crawley,
beninteso: lei preferiva rientrare in carrozza; ma la passeggiata attraverso i campi
del presbiterio fino al cancello del parco, e poi nel bosco fino al viale di Queen's
Crawley sotto i raggi della luna, era affascinante per due cuori romantici come il
capitano e Miss Rebecca.
«Ah, quelle stelle, quelle stelle!» diceva Rebecca volgendo i suoi occhi
scintillanti verso il cielo. «Quando le guardo mi sembra quasi di essere uno
spirito!»
«Ah... Oh.. Be'... Per Dio, sì, anch'io, Miss Sharp!» rispondeva l'altro, al
colmo dell'entusiasmo. «Non vi disturba il mio sigaro, nevvero, Miss Sharp?»
Miss Sharp adorava il profumo di un sigaro all'aperto più di qualsiasi altra cosa al
mondo... si provò persino a fumarlo con gesto oltremodo vezzoso tirò persino una
breve boccata, poi lanciò un gridolino, scoppiò a ridere e rese quella cosa squisita
al capitano, che si arricciò i baffi e prese ad aspirare boccate così profonde che la
brace splendette di un rosso vivo nelle tenebre del bosco. «Perbacco,» esclamò
poi, «oh, oh, per Dio, non ho mai fumato un sigaro più buono di questo in tutta la
mia vita... oh, oh...» La sua conversazione era diretto riflesso del suo intelletto,
l'una e l'altro perfettamente adeguati a un giovane e greve ufficiale dei dragoni.
Proprio in quel momento Sir Pitt, che assieme a John Horrocks discuteva di
un montone da macellare fumando la pipa e bevendosi un bicchiere di birra, li
scorse dalla finestra dello studio e si mise a bestemmiare come un turco. Non
fosse stato per Miss Crawley, parola sua che avrebbe buttato fuori di casa quel
lestofante di Rawdon.
«Che sia un discolo non c'è dubbio,» commentò Horrocks. «E Flethers, il
suo domestico, è anche peggio di lui. In cucina ha protestato per il vitto e la birra
strillando come se fosse stato un lord. Ma secondo me, Sir Pitt, Miss Sharp è pane
per i suoi denti,» aggiunse dopo una pausa.
E in effetti lo era... per quelli del padre e per quelli del figlio.
XII • UN CAPITOLO MOLTO SENTIMENTALE
Ed ora abbandoniamo l'Arcadia; prendiamo congedo da quelle garbate
persone che ivi praticavano le virtù agresti per ritornare a Londra e informarci
sulla sorte di Miss Amelia. «Di lei non c'importa un bel niente» scrive di lei con
minuta ed elegante calligrafia, e suggellando il suo biglietto con un sigillo di
ceralacca rosa, un'ignota corrispondente. «È fade e insipida.» Fanno seguito altre
lusinghiere osservazioni della stessa indole, che non farebbe conto ricordare se in
verità non si traducessero in un singolare complimento per la fanciulla cui si
riferiscono.
Grazie alle esperienze da lui coltivate in società, senza dubbio il nostro
cortese lettore avrà udito uscire dalla bocca di assennate rappresentanti del sesso
gentile frasi come le seguenti: Cosa ci sarà mai di tanto seducente in Miss Smith?
Come può aver indotto il maggiore Jones quella sciocca insulsa e sempre così
impacciata Miss Thompson, che non ha proprio nulla da offrire al di fuori del suo
faccino da pupattola di cera? Cosa può esserci in due gote rosee e in un paio
d'occhi azzurri? Ecco le domande che si pongono quelle care moraliste, e nel loro
strepitoso buon senso vogliono dire che il dono dell'intelligenza, la vivacità
dell'ingegno, un'adeguata conoscenza del Mangnall, le non soverchie nozioni di
botanica e geologia adatte all'educazione di una fanciulla un'oncia d'estro poetico,
l'arte di strimpellare il pianoforte secondo il metodo Herz ed altre siffatte virtù,
sono più preziose per una donna delle effimere grazie destinate fatalmente a
tramontare nel giro di pochi anni. È oltremodo edificante ascoltare le donne
mentre sono impegnate a disquisire intorno alla fuggevole durata della venustà.
Tuttavia, sebbene la virtù sia così nobile, e pertanto sia doveroso far
presente alle povere infelici cui la sventura ha assegnato la bellezza quale cruda
sorte le attenda; e sebbene ovviamente l'eroico esemplare della specie femminina
ammirato dalle donne sia più glorioso e fulgido della gentile, fresca sorridente,
ingenua e tenera piccola dea domestica che gli uomini sono inclini ad adorare, le
creature appartenenti a quest'ultima categoria di livello inferiore hanno agio di
consolarsi constatando come, alla resa dei conti, gli uomini le prediligono; e che,
ad onta dei moniti e delle proteste delle nostre care amiche, noi perseveriamo e
continueremo a perseverare nel nostro folle e disperato errore. Ad esser sincero,
per parte mia, quantunque persone per le quali nutro il massimo rispetto mi
abbiano ripetuto infinite volte che Miss Brown è una donnetta insignificante, che
Mrs. White non ha altro che il suo petit minois chiffonné e che Mrs. Black non sa
mettere insieme quattro parole, posso asserire di aver avuto piacevolissime
conversazioni con Mrs. Black (naturalmente, cara signora, non ne rivelerò una
sillaba, stia pur tranquilla), constato che gli uomini fanno ressa attorno a Mrs.
White e che i giovanotti si contendono Miss Brown per poter ballare con lei. Sono
tentato di credere che l'essere disprezzate dalle esponenti del proprio sesso sia il
maggior complimento che una donna possa ricevere.
Nell'entourage di Amelia non mancavano le donne che le elargivano questo
genere di complimenti, e in modo davvero confortante si può asserire, per
esempio, che non c'era cosa sulla quale le sorelle di George Osborne e di William
Dobbin si trovassero più d'accordo quanto nel convenire che le doti di Amelia
erano né più né meno risibili; né, per altro verso, c'era qualcosa capace di stupirle
più dell'ammirazione che i loro rispettivi fratelli provavano per costei. «Con lei
siamo gentili,» dicevano le Osborne, due ragazze dalle folte sopracciglia che
avevano sempre fruito delle migliori istitutrici, delle migliori sarte, dei migliori
insegnanti. In effetti, la trattavano con una sorta di cortese condiscendenza, con
una così insoffribile aria di protezione, che in loro presenza la povera fanciulla si
chiudeva nel più assoluto mutismo, suffragando così l'opinione ch'esse nutrivano
di lei, vale a dire che fosse una stupida fatta e finita. Amelia si forzava, in
ossequio al suo dovere, di trovarle simpatiche, dal momento che erano le sue
future cognate. In loro compagnia trascorreva «lunghe mattinate», le più tetre e
uggiose mattinate che sia dato immaginare. La portavano solennemente a
passeggio nella grande carrozza di famiglia, assieme ad una vestale segaligna,
Miss Wirt, la loro istitutrice. I divertimenti consistevano nel condurla a concerti di
musica sacra, all'oratorio, a visitare i piccoli indigenti di St. Paul; e la presenza
delle sue amiche la metteva in uno stato di tale soggezione, che Amelia non osava
nemmeno commuoversi quando i bambini intonavano gli inni. Avevano una casa
comoda, una tavola sempre onusta di invitanti cibarie, la loro compagnia era
solenne e il loro sussiego era fuori del comune; avevano un banco di prima fila al
Foundling, i loro atteggiamenti erano solenni e compassati, i loro svaghi
assolutamente onesti e di una noia mortale. Dopo ogni sua visita (ah, come si
sentiva sollevata quando era finita!) Miss Osborne, Miss Maria Osborne e Miss
Wirt, la vestale-istitutrice, si domandavano con crescente stupefazione: «Ma cosa
diamine può trovare George in una simile creatura?»
D'altro canto qualche malizioso lettore potrebbe chiedersi come mai Amelia,
che in collegio era benvoluta da tutte e aveva tante amiche, appena entrata in
società cominciò ad essere considerata dalle sue consimili con occhio tanto severo
e sprezzante. Caro signore, non dimenticate che nel collegio di Miss Pinkerton
uomini non ce n'erano, fatta eccezione per il maestro di ballo, ed era inconcepibile
che le ragazze s'invaghissero di lui! Quando George, il loro bel fratello, prese
l'abitudine di uscir di casa subito dopo la prima colazione, e di pranzar fuori
almeno sei volte la settimana, è del tutto naturale che le sorelle si siano sentite
trascurate, e pertanto offese. Quando il giovane Mr. Bullock (della Banca Hulker,
Bullock & Co., in Lombard Street) che nel corso delle ultime due stagioni aveva
corteggiato Miss Maria, ebbe l'ardire di invitare Amelia a ballare il cotillon, è
forse lecito attendersi che la suddetta Miss Maria se ne compiacesse? Eppure
quella candida, dolce creatura mostrò di rallegrarsene! «Sono davvero lieta che
proviate simpatia per la cara Amelia,» disse con serietà e naturalezza a Mr.
Bullock, quando il ballo fu terminato. «È fidanzata a George, mio fratello: non si
può dire che sia una cima d'intelligenza, ma è una brava ragazza, semplice,
spontanea... A casa le siamo tutti tanto affezionati.» Che tesoro di ragazza! Chi
mai potrebbe calcolare la profondità dell'affetto da quell'entusiastico «tanto»?
Miss Wirt e le due sorelle, a lui così affezionate, cercavano con la massima
serietà e con encomiabile zelo di convincere George come il sacrificio cui si
sottoponeva e la romantica dedizione di cui dava prova immolandosi sull'altare di
Amelia fossero degni del più incondizionato encomio. Sicché molto
probabilmente il giovanotto si persuase di essere uno degli uomini dotati di più
elevato sentire fra quanti ne annoverava l'esercito di Sua Maestà Britannica, e finì
per lasciarsi amare con una rassegnazione peraltro assai poco meritoria.
Ma quantunque, come abbiamo detto poc'anzi, uscisse di prima mattina e
pranzasse fuori casa sei volte la settimana, a differenza di quanto credevano le sue
sorelle che lo immaginavano sempre appiccicato ad Amelia, spesso George si
trovava in compagnia affatto diversa da quella di Miss Sedley. Invero accadeva
sovente, quando il capitano Dobbin andava a cercare il suo amico, che Miss Jane
Osborne, sempre prodiga di attenzioni nei confronti di Dobbin e lietamente
disposta ad ascoltare qualche episodio di vita militare o ad informarsi sulla salute
della sua cara mamma, indicasse ridendo il lato opposto della piazza e dicesse:
«George? Vi conviene cercarlo in casa Sedley. Noi non lo vediamo dalla mattina
alla sera.» Da parte sua il capitano replicava a questi discorsi sorridendo con fare
imbarazzato, e da uomo di mondo che sa il fatto suo cercava di cambiare
argomento portando la conversazione su temi generici, quali la stagione all'Opera,
o l'ultimo ballo dato dal Principe alla Carlton House, oppure il tempo... questo
benemerito espediente per alimentare i conversari della buona società.
«Com'è ingenuo quel tuo prediletto,» diceva Miss Maria a Miss Jane,
quando il capitano se n'era andato. «Hai notato com'è arrossito quando gli
abbiamo detto che George era di servizio?»
«È un vero peccato che Frederick Bullock non abbia il suo stesso pudore,
Maria,» rispose la sorella maggiore, ergendo altezzosamente il capo.
«Pudore? Io parlerei piuttosto di goffaggine, Jane. Per parte mia non vorrei
proprio che Frederick mi strappasse il vestito, come ha fatto il capitano Dobbin al
ballo di Mrs. Perkins, pestando coi suoi piedi il tuo!»
«E come avrebbe potuto strapparti il vestito? Mi fai ridere. Ma se Frederick
ha ballato tutto il tempo con Amelia!»
In verità, se il capitano Dobbin aveva sorriso con aria impacciata era perché
pensava a una circostanza della quale non riteneva opportuno informare le
signorine Osborne. Infatti si era già recato in precedenza dai Sedley col pretesto di
vedere George; ma George non c'era. Accanto alla finestra sedeva tutta sola la
povera Amelia, il volto improntato a un'espressione alquanto mesta. Costei, dopo
aver discorso del più e del meno, si era arrischiata a chiedere se fosse vero quanto
si andava dicendo, e cioè che il reggimento stava per ricevere l'ordine di trasferirsi
all'estero, e se quel giorno il capitano Dobbin avesse visto Mr. Osborne.
Per il momento il reggimento non aveva ricevuto nessun ordine del genere, e
Dobbin non aveva visto George, il quale molto probabilmente era a casa, in
compagnia delle sorelle. Doveva forse andare in cerca di quel pigrone? Al che
Amelia gli aveva stretto la mano in un gesto di cortese gratitudine; lui aveva
attraversato la piazza e Amelia aveva continuato la sua lunga attesa, ma George
non si era fatto vivo.
Povero, piccolo cuore che continua a sperare, a palpitare, a struggersi di
desiderio e ad attendere fiducioso! Come vedete, una vita siffatta non si presta ad
essere raccontata. È una vita assai scarsa di quelli che siamo soliti chiamare
avvenimenti; tutto vi s'identifica nell'attesa, nell'attesa quotidiana. «Quando
verrà?» Ecco l'unico pensiero che regna, dal momento in cui ci si addormenta a
quello del risveglio. Per contro, mentre Amelia chiedeva di lui al capitano
Dobbin, non è da escludere che George fosse impegnato in una partita a biliardo
col capitano Cannon in Swallow Street: infatti il giovanotto era un tipo allegro ed
espansivo, ed eccelleva in tutti i giochi di abilità.
Una volta, dopo che per tre giorni George non si era fatto vedere, Miss
Amelia si mise in capo il suo cappellino e decise senz'altro di varcare la soglia di
casa Osborne. «Come, come? Lasciate nostro fratello per venire da noi?»
esclamarono le signorine. «Avete forse litigato, Amelia? Raccontateci, suvvia!»
«Ma no, ma no, chi mai potrebbe litigare con lui?» rispose Amelia, gli occhi pieni
di lacrime. Era venuta semplicemente per... per far visita alle sue care amiche, da
tanto tempo non si vedevano. Quel giorno si comportò in modo così sciocco e
improvvido, che le due Osborne e la loro istitutrice indugiarono a fissarla quando
Amelia si congedò con aria quanto mai melanconica, e una volta di più si
domandarono cosa diamine trovasse George in quella povera, scialba fanciulla.
Ed era naturale che si ponessero una domanda del genere. Com'era possibile,
del resto, che Amelia abbandonasse il suo timido cuore alla mercé degli occhi neri
e indagatori delle signorine Osborne? Era meglio nascondersi, rinchiudersi in se
stessa. So perfettamente come le due sorelle fossero espertissime in fatto di scialli
di Cashmere o di gonne di raso rosa; so che quando Miss Turner aveva fatto
tingere la sua di violetto trasformandola in una casacchina, e che quando Miss
Pickford si era fatta un manicotto (o forse una giacchetta o un bordo) con una
mantella di ermellino, queste trasformazioni non erano sfuggite all'occhio attento
delle summenzionate fanciulle. Ma vedete, esistono cose più raffinate del raso e
dei pellami più preziosi, di tutti i fasti di re Salomone e del guardaroba della
regina di Saba: cose la cui bellezza sfugge all'esame dei più esperti conoscitori. Vi
sono modeste, delicate, piccole anime che fioriscono tenere e fragranti in questi
recessi ombrosi; e peraltro vi sono fiori da giardino grandi come bracieri di rame,
capaci di fissare il sole e indurlo a chinar lo sguardo. Per parte sua Miss Sedley
non apparteneva alla specie dei girasoli, ed io asserisco che sia in contrasto con
tutte le regole delle proporzioni disegnare una violetta conferendole le dimensioni
di una dalia doppia.
Un fatto è certo: per una fanciulla che viva ancora nell'alveo della casa
paterna non possono fiorire le emozionanti congiunture riservate alle eroine da
romanzo. I vecchi uccelli che osano avventurarsi all'aperto possono anche
incappare in qualche rete o buscarsi un colpo di fucile; per il mondo circolano
falchi in gran copia cui gli uccelli hanno la ventura di sottrarsi, o dei quali
possono cader vittime; ma i piccoli che ancora non escono dal nido vivono una
vita confortevole e per nulla romantica, adagiati come sono tra le piume e la
paglia, fino al giorno in cui, anche per loro, verrà il momento di spiegare il volo.
E mentre Becky Sharp volava già da sola per le campagne, saltellando di ramo in
ramo e badando a scansare molteplici trappole, beccando il cibo senza intralci e
con fortuna, Amelia se ne stava chiusa e protetta fra le mura domestiche di
Russell Square. Andava incontro al mondo, ma sempre condotta per mano da
persone più anziane di lei: né si sarebbe detto che qualcosa di male potesse
accadere a lei, o in quell'opulenta, confortevole dimora color mattone nella quale
si trovava pienamente a suo agio. La mattina la mamma sbrigava le faccende, poi
usciva per la consueta scarrozzata e compiva quel gradevole giro di visite e
commissioni che costituiscono lo svago, per non dire la professione, di qualsiasi
ricca signora londinese. Il papà conduceva le sue misteriose operazioni nella City,
che cominciava ad essere in subbuglio, data la guerra che in quel periodo
infuriava in Europa, mettendo a repentaglio la sorte degli imperi. Basti pensare
che a quell'epoca il «Courier», un giornale che vantava decine di migliaia di
lettori, un giorno dava notizia della battaglia di Vittoria, un altro quello
dell'incendio di Mosca, e lo strillone che intorno all'ora di pranzo transitava per
Russell Square annunciava avvenimenti come questi: «La battaglia di Lipsia!
Seicentomila uomini impegnati nei combattimenti! Totale sconfitta dei francesi!
Duecentomila morti!» Qualche volta, facendo ritorno a casa, il vecchio Sedley
appariva preoccupato, e non era il caso di stupirsene, dal momento che notizie del
genere sconvolgevano non solo i cuori ma tutte le Borse d'Europa.
Eppure la vita in Russell Square, nel quartiere di Bloomsbury, continuava né
più né meno come se in Europa tutto procedesse pacifico e tranquillo. La ritirata
di Lipsia non valse a recare alcuna differenza nel numero di pasti che Mr. Sambo
consumava nel tinello della servitù. Gli alleati invasero la Francia e la campanella
del pranzo di Russell Square continuò a suonare alle cinque del pomeriggio,
secondo la consuetudine. Dubito che ad Amelia importasse alcunché di Brienne e
di Mont Mirail, né che provasse il pur minimo interesse per gli eventi bellici,
tranne il giorno in cui l'imperatore abdicò. In quell'occasione batté le mani, recitò
devotamente una preghiera in segno d'indicibile gratitudine e con impeto
subitaneo si lanciò fra le braccia del tenente Osborne, tra lo stupore di tutti coloro
che furono testimoni di quell'inopinato sfogo della sua emozione. In effetti veniva
proclamata la pace, l'Europa sarebbe ritornata tranquilla, il Corso era deposto e il
reggimento del tenente Osborne non avrebbe ricevuto l'ordine di partire per la
zona di guerra. Così ragionava Amelia. Per lei il destino d'Europa s'identificava
con quello del tenente Osborne. E poiché egli non era più in pericolo, ella aveva
buon motivo d'intonare il Te Deum. George era l'Europa, l'imperatore, i sovrani
della Coalizione e l'augusto Principe Reggente. Era il sole e la luna. Secondo me
Amelia pensava che il ballo e le luminarie alla Mansion House, cui presenziarono
i sovrani, fossero stati organizzati soprattutto in onore di George Osborne.
Abbiamo già parlato della necessità, dell'indigenza, delle strettezze, di questi
lugubri maestri cui la povera Becky Sharp fu costretta ad affidare la propria
educazione. L'ultimo aio di Miss Amelia Sedley fu per contro l'amore, ed è
sorprendente constatare quali straordinari progressi facesse la nostra amica sotto
la guida di un insegnante così bene accetto. Nel corso dei quindici o diciotto mesi
di quotidiana e costante attenzione agli insegnamenti di un così esimio e
autorevole istruttore, Amelia fu resa edotta su innumerevoli segreti dei quali Miss
Wirt e le donzelle dagli occhi neri che abitavano nella casa di fronte, e parimenti
la vecchia Miss Pinkerton di Chiswick, non sospettavano nemmeno l'esistenza!
D'altronde, come avrebbero potuto esserne al corrente, quelle dignitose vergini
d'immacolata reputazione? Per quanto concerne Miss P. e Miss W. l'amore era
naturalmente fuori causa: nei loro confronti, non oserei prospettarmi neppure
vagamente un'ipotesi del genere. È vero che Miss Maria Osborne era «legata» a
Mr. Frederick Augustus Bullock, della Banca Hulker & Bullock, ma il suo era un
«legame» altamente rispettabile. Del resto Maria si sarebbe accontentata anche del
vecchio Bullock, dal momento che la sua mente era rivolta - come si addice ad
ogni fanciulla dabbene - a una casa in Park Lane, una villa a Wimbledon, una
lussuosa carrozza, due cavalli di bellissima taglia e relativi staffieri, nonché un
quarto dei profitti annui della prestigiosa Banca Hulker & Bullock, tutte
prerogative assai vantaggiose che si trovavano riunite nella persona di Frederick
Augustus. Se a quel tempo i fiori d'arancio fossero già stati inventati (quei
commoventi simboli della purezza muliebre, importati fra noi dalla Francia ove si
celebra il più alto numero di matrimoni d'interesse), Miss Maria avrebbe cinto il
suo capo dell'immacolata corona e sarebbe partita in carrozza per il viaggio di
nozze a fianco del vecchio Bullock, ancorché calvo, gottoso e munito di un
vistosissimo naso; e con assoluta modestia avrebbe votato se stessa alla felicità di
cotanto marito. Ma l'attempato signore era già sposato, onde Maria riversò le sue
incontaminate riserve d'affetto sul figlio del suddetto. Dolci e olezzanti fiori
d'arancio! L'altro giorno ho visto Miss Trotter (questo il suo nome da nubile),
mentre adorna di una ghirlanda saliva rapida in carrozza davanti alla chiesa di St.
George, in Hannover Square, mentre Lord Matusalemme le zoppicava appresso. E
con quale toccante modestia quell'innocente fanciulla si affrettò a tirare le tendine
della carrozza! E a quel matrimonio c'era la metà delle carrozze della Fiera della
Vanità.
Ma non era questo il tipo di amore che aveva dato il tocco finale
all'educazione di Amelia, e che nel giro di un anno aveva tramutato una brava
ragazza in una brava giovane donna, pronta a diventare una brava moglie, quando
fosse giunto il lieto momento tanto sospirato. La fanciulla (e forse era imprudente
da parte dei suoi genitori tollerare in lei quell'indulgere a una vera e propria forma
d'idolatria, a così stupide svenevolezze romantiche) amava con tutto il cuore il
giovane ufficiale di Sua Maestà col quale abbiamo fatto fuggevole conoscenza. Il
suo pensiero volava a lui nell'attimo stesso in cui si destava, e l'ultimo nome che
pronunciava nelle preghiere era il suo. Per Amelia non esisteva un uomo
altrettanto bello e intelligente, un così abile cavaliere, un ballerino così agile ed
elegante. Insomma, George era la perfezione fatta persona. La gente trovava
straordinario il modo d'inchinarsi del Principe! Ma cos'era mai in confronto
all'inchino di George? Un giorno aveva visto Lord Brummell, di cui tutti dicevano
mirabilia: com'era possibile paragonare un uomo simile al suo George? Fra tutti i
beaux che frequentavano l'Opera (e a quei tempi ce n'erano che andavano
all'Opera con cappelli confezionati a bella posta), non uno poteva competere con
lui! George era il Principe Azzurro, che nella sua magnanimità si degnava di
abbassarsi al livello dell'umile Cenerentola! Se Miss Pinkerton fosse stata la
confidente di Amelia, molto probabilmente avrebbe cercato di attenuare
quell'incondizionata devozione, ma senza gran risultato, di questo potete essere
certi. In certe donne trionfano la natura, l'istinto. Alcune sono fatte per l'intrigo,
altre sono votate all'amore. Invito i degni scapoli che leggono questo libro a
operare la scelta che maggiormente gli aggrada.
In preda a questo sentimento travolgente, Amelia trascurava - crudele!- le
dodici amiche di Chiswick. Pensare ad altro le riusciva letteralmente impossibile.
Miss Saltrie a suo avviso era troppo fredda per farne la destinataria delle sue
confidenze, e Amelia non si decideva ad aprire il suo cuore con Miss Scartz, la
giovane ereditiera di St. Kitt dai capelli crespi. Durante le vacanze aveva invitato
la piccola Laura Martin, ed io sono assolutamente certo che Amelia scelse lei
quale confidente, che le promise di accoglierla in casa quando si fosse sposata, e
che in fatto di amore le diede innumerevoli informazioni che non stentiamo a
supporre riuscissero affatto nuove e utilissime per una ragazzina di quell'età. Ahi,
ahi! Ho paura che la povera Emmy avesse qualche rotella fuori di posto.
D'altra parte, cosa facevano i suoi genitori perché il suo cuoricino non
battesse così forte? Il vecchio Sedley non sembrava dar molta importanza alla
cosa. Da tempo appariva preoccupato e gli spinosi affari nella City lo assorbivano
totalmente. Quanto a Mrs. Sedley, era per natura troppo semplice e niente affatto
indagatrice, al punto da non essere nemmeno gelosa. Mr. Jos era lontano, a
Cheltenham, concupito da una vedova irlandese. Amelia aveva la casa tutta per sé
(a volte fin troppo, ahimè!), ma dubbi non ne aveva mai. Poiché George era in
caserma, naturalmente, non sempre poteva ottenere il permesso di assentarsi da
Chatham. E poi doveva esser libero di trovarsi con gli amici, di far visita alle
sorelle, di frequentare la società (ambito com'era da ogni compagnia!) quando
aveva modo di venire a Londra. E quando era al reggimento, certamente tornava
troppo stanco dal servizio per aver voglia di scrivere lunghe lettere. So dove
Amelia conservava il fascio delle lettere che ha ricevuto, e posso penetrare nella
sua stanza e sgusciarne fuori come Jachimo. Come Jachimo? No, quel
personaggio ha un ruolo antipatico. Mi accontenterò di assumere le vesti di
Raggio di luna e spiare candidamente nel letto ove la fede, la bellezza e
l'innocenza riposano sognando.
Ma se le lettere di George Osborne erano caratterizzate dalla concisione che
si addice a un soldato, siamo costretti a confessare che, se dovessimo pubblicare
quelle indirizzate da Miss Sedley a Mr. Osborne, questo romanzo si svilupperebbe
in un tal numero di volumi da riuscire insopportabile anche al più romantico dei
lettori: giacché non solo ella riempiva enormi fogli di carta, ma vi scriveva anche
per traverso, con risultati a dir poco conturbanti; ricopiava senza misericordia
intere pagine di componimenti poetici; sottolineava parole e frasi con enfasi
parossistica. Insomma, manifestava nei termini più eloquenti i sintomi consueti
della sua condizione. Non era un'eroina. Le sue lettere erano piene di ripetizioni,
la grammatica lasciava alquanto a desiderare, la metrica dei suoi versi si prendeva
ogni sorta di libertà. Ma, mesdames, se non foste autorizzate talvolta a
conquistare un cuore a dispetto della sintassi, e se meritassero di essere amati solo
coloro che sanno cogliere la differenza tra un quinario e un settenario, sarebbe
meglio mandare al diavolo tutta la poesia, e assieme a lei tutti i maestri di scuola.
XIII • SENTIMENTALE E NON
Temo che il giovanotto al quale Miss Amelia indirizzava le sue missive
fosse un critico alquanto impertinente. Tali e tante erano le lettere che
inseguivano il tenente Osborne nei suoi spostamenti, ch'egli prese quasi a
vergognarsi dei commenti ironici di cui siffatte epistole erano oggetto nei salaci
commenti dei suoi compagni di mensa, onde diede ordine al suo attendente di
recapitargliele solo in separata sede. Fu perfino sorpreso nell'atto di accendersi un
sigaro utilizzando all'uopo una di tali epistole amorose: cosa che suscitò la
scandalizzata sorpresa del capitano Dobbin, il quale, lo giurerei, sarebbe stato
pronto a pagare qualche sterlina pur di assicurarsi il possesso di un documento del
genere.
Per qualche tempo George fece il possibile per mantenere il segreto su
quella liaison. Nondimeno ammetteva che nella sua vita ci fosse una donna. «E
non è la prima,» aveva confidato il sottotenente Spooney al sottotenente Stubble.
«Quell'Osborne è un diavolo incarnato A Demerara la figlia di un giudice è quasi
impazzita per lui. Dopo, come sai, è stata la volta di quella splendida mulatta,
quella Miss Pye di St. Vincent; e da quando ha fatto ritorno in patria, tutti
concordano nel dire che sia diventato un vero e proprio Don Giovanni, per
Giove!»
Stubble e Spooney credevano fermamente che essere «un vero e proprio
Don Giovanni, per Giove!» fosse la condizione più invidiabile nella quale potesse
trovarsi un uomo. Di conseguenza Osborne godeva tra i suoi commilitoni della
più alta reputazione. Si distingueva in tutti gli sport, negli esercizi militari, nel
canto, ed era generoso col denaro che il padre gli concedeva con particolare
munificenza. Le sue uniformi erano sempre di miglior taglio di quelle altrui, e ne
aveva in maggior numero. I soldati lo idolatravano. Alla mensa beveva più di
qualsiasi altro ufficiale, ivi incluso il vecchio colonnello Heavytop, e nel pugilato
mostrava di sapersi battere meglio di Knuckles, un soldato che avrebbe raggiunto
il grado di caporale se non fosse stato sempre ubriaco fradicio, ed era stato pugile
professionista. Inoltre era il miglior battitore e il più abile giocatore di bocce di
tutto il reggimento. Aveva un cavallo di sua proprietà, Greased Lightning, che
aveva vinto la coppa della guarnigione alle corse di Quebec. Altri insomma, e non
solo Amelia, lo adoravano. Stubble e Spooney lo consideravano una specie di
Apollo; per Dobbin era addirittura un Mirabile Crichton, e in quanto alla moglie
del maggiore O'Dowd, affermava che quel giovane così elegante le ricordava
Fitzgerald Fogarty, figlio cadetto di Lord Castelfogarty.
Stubble, Spooney e tutti gli altri formulavano le più romanzesche congetture
sul conto di questa misteriosa dama che intratteneva una così fitta corrispondenza
con Osborne: pensavano che fosse una duchessa di Londra invaghitasi di lui, una
delle figlie del generale, fidanzata ad un altro ma pazzamente innamorata di
George, o la moglie di un deputato al Parlamento che gli proponeva di rapirla e
portarla via con se su un tiro a quattro, o qualche altra vittima di una passione
deliziosamente eccitante e romantica, ma infelice per ambo le parti: tutte ipotesi
sulle quali Osborne non gettava la minima luce, lasciando che i suoi giovani amici
e ammiratori almanaccassero a piacere e architettassero le loro storie.
In effetti, nessuno al reggimento avrebbe mai scoperto come stessero
realmente le cose, se non fosse stato per un'indiscrezione del capitano Dobbin. Un
giorno quest'ultimo stava facendo colazione alla mensa, mentre i due sopracitati
personaggi indugiavano nelle consuete supposizioni sugli amori di Osborne
insieme con Cackle, l'aiuto-medico. Stubble diceva che doveva trattarsi di una
duchessa, dama di palazzo della regina Carlotta, e Cackle invece sosteneva che
era una cantante d'opera di assai dubbia reputazione. Nell'udir ciò, Dobbin fu così
irritato che, sebbene avesse la bocca piena di uovo, pane e burro, e sebbene si
rendesse perfettamente conto che avrebbe dovuto tacere, non poté trattenersi e
uscì a dire: «Sei un imbecille, Cackle; non sai parlar d'altro che di pettegolezzi e
stupidaggini; Osborne non ha la minima intenzione di fuggire con una duchessa e
neppure vuol rovinare una sartina. Miss Sedley è una delle ragazze più
affascinanti che siano mai esistite. Sono fidanzati da molto tempo, e se qualcuno
si permette di usare nei suoi riguardi espressioni irriguardose, lo diffido dal farlo
in sua presenza.» Dopo di che Dobbin si fece rosso come un pomodoro, e poco
mancò che non si strozzasse con un sorso di tè. Mezz'ora bastò perché la faccenda
si propalasse per tutto il reggimento, e quella sera stessa la moglie del maggiore
O'Dowd scrisse a sua cognata Glorvina, a Dowdstown, che non valeva la pena si
affrettasse a partire da Dublino, giacché il giovane Osborne si era prematuramente
fidanzato.
Sempre quella sera, mentre gli offriva un whisky-toddy, gli espresse le sue
felicitazioni, e George tornò a casa in preda a un accesso di collera incontenibile,
per prendersela con Dobbin (il quale aveva declinato l'invito al ricevimento di
Mrs. O'Dowd e sedeva in camera sua a suonare il flauto, e fors'anche a scrivere
versi pervasi di melanconia), per prendersela con Dobbin - dicevo - che aveva
svelato il suo segreto.
«Chi ti ha autorizzato a occuparti dei fatti miei?» gridò Osborne, indignato.
«Perché tutto il reggimento dov'essere informato del fatto che sto per sposarmi? E
perché quella megera di Peggy O'Dowd si permette di parlare liberamente di me
alla sua maledetta cena e di spargere ai quattro venti la notizia del mio
fidanzamento? E in fin dei conti, che diritto hai, tu, di riferire che sono fidanzato e
di ficcare il naso nelle mie faccende?»
«Mi pare che...» prese a dire Dobbin.
«Ti pare un accidente, Dobbin,» lo interruppe il giovane. «Ho un debito di
riconoscenza nei tuoi confronti, e lo so anche troppo bene, maledizione, ma non
sopporto che tu mi faccia prediche in continuazione solo perché ho cinque anni
meno di te. M'impicchino, magari, ma non intendo sopportare oltre quelle tue arie
di grand'uomo e quell'abominevole tono di compatimento e di protezione.
Compatimento e protezione, proprio così! Vorrei tanto sapere, poi, in che cosa ti
sono inferiore!
«Sei fidanzato, sì o noi» chiese Dobbin.
«E cosa diavolo importa a te o a chiunque altro, se lo sono oppure no?»
«Te ne vergogni?» insistette Dobbin.
«Mi piacerebbe proprio sapere quale diritto hai di rivolgermi una simile
domanda,» rispose George.
«Mio Dio, vuoi forse dire che hai intenzione di rompere il fidanzamento?»
domandò Dobbin alzandosi in piedi.
«In altri termini, stai dubitando che sia un uomo d'onore,» disse Osborne
incollerito. «È questo che vuoi dire? Da tempo ormai, hai preso a rivolgermi la
parola in un tono che mi è diventato intollerabile, dovessi dannarmi l'anima!»
«Ma cosa ti ho fatto, dopo tutto? Ho detto semplicemente che trascuri una
ragazza incantevole; George. Ti ho detto che quando sei a Londra dovresti andare
da lei, e non nelle case da gioco di St. James's.»
«Vorrai pure che ti renda il tuo danaro,» rispose Osborne con un risolino.
«Certo che lo voglio, e l'ho sempre voluto,» disse Dobbin. «Del resto, parli
da quel ragazzo generoso che sei.»
«Maledizione, William, ti chiedo scusa,» proruppe George in un impeto di
rimorso. «Dio sa quante volte tu mi abbia dato prova d'essermi amico. Mi hai tolto
da un mucchio di guai. Se non fosse stato per te mi sarei trovato nei pasticci,
quando Crawley delle Guardie mi ha vinto tatti quei quattrini, me ne ricordo
benissimo. Tu però non devi trattarmi con tanta asprezza, aver sempre quell'aria
d'insegnarmi come si stia al mondo. Voglio molto bene ad Amelia, l'adoro, tutto
quello che vuoi. No, no, non t'inquietare. È senza difetti, lo so. Ma, vedi, che
gusto si prova ad avere una cosa quando non si deve fare il minimo sforzo per
ottenerla? Per Giove, il reggimento è appena tornato dalle Indie Occidentali, e io
sento il bisogno di divertirmi un poco. Quando mi sarò sposato, cambierò vita, te
lo prometto. Ascoltami, Dob, non inquietarti con me; il mese venturo ti darò un
centinaio di sterline perché so che potrò ottenere da mio padre una bella
sommetta. Chiederò il permesso a Heavytop e domani andrò a trovare Amelia.
Soddisfatto?»
«È impossibile essere a lungo in collera con te, George,» disse il buon
capitano, «e in quanto ai soldi, vecchio mio, so perfettamente che se mi trovassi
nel bisogno, tu divideresti con me il denaro fino all'ultimo scellino.»
«Proprio così, per Diana,» confermò Osborne con generosità, sebbene non
avesse mai un quattrino da dividere con chicchessia.
«Solo, preferirei che tu avessi già finito di "divertirti". Avessi visto il viso
della povera Miss Emmy, quando l'altro giorno mi ha chiesto di te. Avresti
mandato al diavolo le palle da biliardo. Va' a rasserenarla, canaglia, va' a scriverle
una lunga lettera. Cerca di farla contenta, in un modo o nell'altro. Basta così
poco...»
«Credo proprio che sia innamorata... eh, sì... innamoratissima di me,»
commentò il tenente con aria compiaciuta. E se ne andò a concludere la serata tra
gli allegri camerati del circolo ufficiali.
Frattanto, in Russell Square, Amelia contemplava la luna che irradiava la
sua luce sulla piazza tranquilla, né più né meno come brillava sul cortile della
caserma di Chatham ov'era di stanza il tenente Osborne, e si domandava a quali
doveri stesse adempiendo il suo eroe. Forse, pensava, in quel momento passava in
rassegna le sentinelle, oppure bivaccava, o ancora si trovava chino sul capezzale
di un camerata ferito. Oppure se ne stava tutto solo nella sua squallida cameretta,
impegnato a studiare l'arte della guerra? Simili ad angeli alati che volassero sopra
il fiume sino a Chatham e a Rochester, i suoi dolci pensieri cercarono di spinger
lo sguardo nella caserma ov'era alloggiato George... Ed è una fortuna,
conveniamone, che i cancelli fossero chiusi e la sentinella sbarrasse l'accesso a
chicchessia: così i poveri angioletti in bianca veste non ebbero modo di udire le
canzoni che quei giovanotti cantavano a gola spiegata tra un whisky-punch e
l'altro.
Il giorno successivo al breve colloquio nella caserma di Chatham, il giovane
Osborne si apprestò a recarsi a Londra per dimostrare di essere un uomo di parola,
ottenendo così l'approvazione del capitano Dobbin. «Mi piacerebbe portarle un
piccolo regalo,» disse Osborne all'amico, «ma fino a quando mio padre non mi
manda il denaro, sono al verde.» Al che Dobbin, il quale non poteva ammettere
che quei buoni e generosi propositi andassero in fumo, porse qualche sterlina a
Osborne, che le accettò dopo un fugace momento di esitazione.
E son certo avrebbe comprato qualcosa di veramente bello per Amelia se,
una volta sceso dalla diligenza di Fleet Street, il suo occhio non fosse stato attirato
da un'elegante spilla da cravatta nella vetrina di un gioielliere, ed egli avesse
saputo resistere alla tentazione. Invece l'acquistò, e di conseguenza il poco denaro
avanzato non gli consentì di tradurre degnamente in atto il suo pensiero gentile.
Ma la cosa, in verità, non aveva molta importanza. Ciò che Amelia desiderava
non erano i regali, siatene pur certi. E in effetti, quando egli si presentò nella casa
di Russell Square, il volto della fanciulla s'illuminò come se George fosse stato il
sole che tornava a brillare squarciando le nubi. In un attimo quel familiare,
irresistibile sorriso valse a dissipare le piccole preoccupazioni, i timori, le lacrime,
i timidi dubbi, le fantasie coltivate senza posa per non so quanti giorni e quante
notti. Irraggiò su di lei dalla soglia della porta che metteva nel salotto, magnifico,
con le sue superbe basette, simile a un dio. Sambo, il cui volto si aprì in un ampio
sorriso mentre annunciava il capitano Osborne (al quale di sua iniziativa aveva
conferito questa fresca promozione), vide la giovane sussultare, arrossire e
prontamente scostarsi dal suo posto d'osservazione accanto alla finestra. Samba si
ritirò, e non appena la porta fu richiusa Amelia si precipitò fra le braccia del
tenente George Osborne, che per lei erano l'unico naturale rifugio nel quale cercar
riparo. Ah, povera, piccola anima ansiosa! Il più bell'albero della foresta, quello
che presenta il tronco più eretto, i rami più robusti, il fogliame più folto, quello
che tu hai prescelto per costruirvi il tuo nido, a tua insaputa può già esser stato
segnato per il taglio, e tra breve può crosciare al suolo: Che vecchia, abusata
similitudine è mai questa dell'albero e dell'uomo!
Nel frattempo George la baciava delicatamente sulla fronte e sugli occhi
scintillanti, e si mostrava buono e compiacente. Ed ella pensò che quella spilla da
cravatta che non gli aveva mai visto indosso prima di allora fosse un gioiello
meraviglioso.
Il lettore avveduto che abbia osservato attentamente il comportamento
tenuto fin qui dal nostro tenente e ricordi la breve conversazione col capitano
Dobbin da noi riferita poc'anzi probabilmente si sarà fatta un'opinione sulla
personalità di Mr. Osborne. Un francese piuttosto cinico ha asserito che in un
contratto amoroso ci sono due soci: l'uno ama e l'altro si degna di lasciarsi amare.
Talvolta l'amore riguarda l'uomo, talaltra riguarda la donna. A qualche giovanotto
innamorato sarà accaduto di scambiare l'insensibilità per pudore, la stupidità per
femminile riservatezza, la scioccaggine pura e semplice per timidezza; in altre
parole di scambiare un'oca per un cigno. Forse qualche gentile lettrice ha dato
libero corso alla propria fantasia rivestendo un asino di splendore e di gloria; ha
ammirato l'idiozia reputandola virile schiettezza, ha adorato l'egoismo
considerandolo virile superiorità, ha ritenuto che la stupidità fosse una sorta di
maestosa gravità, e ha visto gli uomini con gli stessi occhi coi quali la brillante
fata Titania vedeva un certo tessitore d'Atene. Mi è capitato di assistere a
parecchie di queste commedie degli equivoci. Ad ogni modo un fatto è
incontestabile: Amelia era convinta che il suo George fosse uno degli uomini più
brillanti e ardimentosi di tutto l'Impero britannico, e del resto può darsi che ne
fosse convinto anche il tenente Osborne.
Era un po' turbolento, d'accordo. Quanti giovani lo sono! D'altronde le
ragazze preferiscono i libertini agli smidollati. Non aveva corso ancora
abbastanza la cavallina, ma presto si sarebbe quetato, ed ora che la pace era stata
proclamata si sarebbe congedato dall'esercito. Quel mostruoso figlio di Corsica
era sotto chiave all'isola d'Elba, di conseguenza non si parlava più di promozione
e Osborne non aveva il destro di mostrare il suo incontestabile valore e il suo
altrettanto indubbio talento militare. La sua rendita, unita alla dote di Amelia,
avrebbe consentito di comperare un posticino in campagna, in una località adatta
a praticarvi gli sport. Lui si sarebbe diviso tra le occupazioni legate all'agricoltura
e lo svago della caccia, e sarebbero vissuti felici. Quanto all'ipotesi di restare in
forza nell'esercito dopo il matrimonio, non era nemmeno il caso di pensarci.
Potete figurarvi Mrs. Osborne in una cittadina di provincia, costretta ad abitare in
un appartamento d'affitto? O, peggio che mai, in India, in mezzo a tutti quegli
ufficiali, sotto l'egida protettrice della moglie del maggiore O'Dowd? George
l'ama troppo teneramente per abbandonarla alla mercé di una donna così sguaiata
e volgare, e per sottoporla alla rude vita che attende le mogli dei soldati. Per lui la
cosa non aveva importanza, si capisce, ma la sua cara mogliettina aveva pur
diritto al posto che, proprio nella sua qualità di moglie, le competeva in società; e
naturalmente ella si mostrava perfettamente d'accordo con tutte quelle proposte,
così come non avrebbe trovato a ridire su qualsiasi altra formulata dalla medesima
persona.
Così, conversando e costruendo infiniti castelli in aria (che Amelia adornava
d'ogni specie di giardini gremiti di fiori, passeggiate fra i campi, chiesette di
campagna, lezioni di catechismo e cose del genere, mentre i pensieri di George
erano piuttosto rivolti alle scuderie, al canile e alla cantina), la giovane coppia
trascorse un paio d'ore estremamente piacevoli. Poi, siccome il tenente aveva una
sola giornata di licenza da trascorrere in città e doveva sbrigare innumerevoli
faccende importanti, propose a Miss Emmy di andare a cena dalle future cognate;
invito che fu accettato con gioia. Dopo di che Osborne la condusse dalle sorelle, e
quivi la lasciò che conversava e ciangottava così allegramente, da lasciar
stupefatte le degne donzelle le quali conclusero che dopo tutto George sarebbe
riuscito a cavarne qualcosa. Quindi il tenente se ne andò per occuparsi dei suoi
affari. In altre parole andò a mangiare un gelato in Charing Cross, provò una
giacca nuova in Pall Mall, fece un salto all'Old Slaughters dove chiese del
capitano Cannon. Con quest'ultimo giocò undici partite a biliardo e ne vinse otto;
poi fece ritorno in Russell Square, con mezz'ora di ritardo per la cena, ma in
compenso di ottimo umore.
Pessimo era, invece, l'umore del vecchio Osborne. Quando rientrò dalla City
ed entrò in salotto, salutato dall'elegante Miss Wirt e dalle figlie, queste si
accorsero subito dall'espressione della sua faccia - che anche nei momenti più lieti
era sempre gonfia, solenne e giallastra - dal piglio corrucciato e dal tremito che
scuoteva le sopracciglia nere, come il cuore pulsante sotto il bianco panciotto
fosse turbato e in preda alla più viva emozione. Quando anche Amelia si fece
avanti, cosa che faceva sempre timidamente e tremando come una foglia, egli
replicò con un grugnito e lasciò ricadere quella manina dalla sua zampa villosa
senza nemmeno stringerla. Lanciò un'occhiata iraconda alla figlia maggiore, e
questa, comprendendone al volo il significato (vale a dire: «Cosa diamine fa qui
costei?» ), si affrettò a rispondere:
«George è in città. È andato al comando, poi verrà a cena.»
«Ah, sì? Benissimo, ma non ho intenzione di ritardare la cena per causa sua,
Jane.»
E con queste parole il degno signore si lasciò sprofondare nella sua poltrona,
mentre il totale silenzio del solenne, fastoso salone veniva interrotto solo dal
rapido ticchettio della grande pendola francese.
Quando l'orologio, coronato da un gruppo bronzeo che raffigurava il
Sacrificio di Ifigenia, batté cinque colpi col tono cavernoso di un orologio da
cattedrale, Mr. Osborne diede un rabbioso strattone al cordone che pendeva alla
sua destra, e il maggiordomo entrò di corsa.
«Servite la cena, e subito!» ruggì il padrone di casa.
«Mr. George non è ancora tornato, signore,» obiettò il maggiordomo.
«Al diavolo Mr. George, per vostra norma e regola. Sono o non sono il
padrone, qua dentro? Vi ho detto di servire!» ripeté incollerito. Amelia tremava.
Le altre donne si scambiarono occhiate telegrafiche, e nei meandri inferiori della
magione l'obbediente campanella cominciò a squillare. Poi, quando la campana
ebbe finito di tintinnare, il capo-famiglia infilò le mani nelle grandi saccocce
posteriori della sua lunga giacca blu dai bottoni di ottone, e senza indugio scese
da solo, lanciando occhiate cariche di corruccio alle quattro donne che gli
tenevano dietro.
«Che cosa mai sarà accaduto?» si domandarono le signorine, alzandosi per
seguire tremebonde il loro signore e padrone.
«Che ci sia stato un crollo in Borsa?» insinuò Miss Wirt; e così, in timoroso
silenzio, il muto stuolo delle donne seguì l'arcigna guida.
In silenzio sedettero a tavola. Egli borbottò una preghiera che, dato il tono
burbero, suonò piuttosto come un'imprecazione; poi furono sollevati i grandi
coprivivande d'argento. Amelia tremava perché il suo posto era accanto a quello
del terribile Mr. Osborne, e sola sull'altro lato, ove si trovava il posto vacante di
George.
«Minestra?» chiese il vecchio in tono sepolcrale, brandendo il mestolo e
fissandola negli occhi. Poi, quand'ebbe servito lei e gli altri commensali, restò
qualche minuto senza aprir bocca.
«Portate via il piatto di Miss Sedley,» disse alla fine, «non è lecito farle
mangiare una minestra simile. E neppure a me. È una porcheria. Portate via la
minestra, Hicks, e domani, Jane, licenziate la cuoca.»
Conclusi i suoi sfavorevoli commenti sulla minestra, Osborne passò a
qualche breve e sardonica critica sul pesce, e maledì il mercato del pesce di
Billingsgate usando espressioni affatto degne di quel luogo. Poi ripiombò nel
silenzio più totale e scolò l'uno dopo l'altro alcuni bicchieri di vino con
espressione sempre più contrariata. Finalmente un vivace colpo battuto alla porta
annunciò l'arrivo di George, e tutti si sentirono sollevati.
Non aveva potuto venire prima. Il generale Daguilet l'aveva trattenuto nella
caserma delle Horse Guards. Non voleva né pesce né minestra. Una cosa qualsiasi
gli andava bene. Ma certo, anche il montone. Gli andava tutto benissimo. Il suo
buonumore creava un netto contrasto con il tetro cipiglio del padre, ed egli per
tutta la durata del pasto continuò a conversare allegramente, fra la gioia di tutte, e
in particolare di una, che non è necessario nominare.
Non appena le signorine ebbero mangiato l'arancia e sorbito il bicchiere di
vino che secondo la consuetudine chiudevano le melanconiche cene di casa
Osborne, venne dato il segnale di tornare in salotto. Tutti si alzarono e si mossero.
Amelia sperava che George non avrebbe tardato a raggiungerla, e allo scopo
prese a suonare i walzer da lui preferiti (novità, a quel tempo, appena importata
dall'estero) sul pianoforte a coda dalle solide gambe scolpite, rivestito di cuoio.
Ma quel piccolo espediente non lo indusse a venire. George rimase sordo al
fascino dei walzer, che echeggiarono sempre più flebilmente. Delusa, l'esecutrice
abbandonò la tastiera del greve strumento, e sebbene le sue amiche si esibissero
nei brani più spigliati e brillanti del loro repertoire, lei non ne udì una sola nota,
ma rimase seduta meditabonda, pervasa da funesti pensieri. Mai prima di allora
l'aspetto iracondo di Mr. Osborne le era parso tanto minaccioso. Mentre usciva dal
salotto, lui l'aveva seguita con uno sguardo carico di disapprovazione, quasi
Amelia fosse stata colpevole di qualcosa. Quando le servirono il caffè, ebbe un
sussulto, come se Hicks, il maggiordomo, le avesse porto una pozione avvelenata.
Quali misteri le tendevano un agguato? Ah, queste donne! Allevano e cullano i
loro presentimenti, e si affezionano ai più tetri pensieri come accarezzerebbero un
figlio deforme!
Il volto cupo del padre aveva alimentato ansiose congetture anche nella
mente di George. Tale essendo la situazione, come poteva sperare di estorcere al
vecchio quella somma di cui aveva urgente bisogno? Prese a lodare la qualità del
vino, ben sapendo che, in genere, questo era un sistema efficace per ammansire il
vecchio.
«Nelle Indie Occidentali non c'è stato modo di avere un madera come il
vostro, signore; l'altro giorno il colonnello Heavytop si è bevuto tre bottiglie di
quello che mi avevate mandato.»
«Davvero?» disse il vecchio signore. «Mi costa otto scellini la bottiglia.»
«Lo rivendereste a sei ghinee la dozzina?» chiese George ridendo. «Uno dei
più grandi uomini del regno ne gradirebbe un poco.»
«Ah, sì?» borbottò il padre. «Mi auguro che riesca a rimediarlo in qualche
modo.»
«Quando il generale Daguilet è venuto a Chatham, Heavytop ha dato un
pranzo in suo onore e mi ha pregato di procurargli un po' del mio vino. È piaciuto
anche al generale che ne ha voluta una botte per il comandante in capo. È il
braccio destro di Sua Altezza Reale.»
«È un vino strepitoso, perdio se lo è,» disse il Cipiglio con un'espressione un
tantino meno corrucciata. George stava per trarre profitto da questa lieve schiarita
e porre sul tavolo la questione dei foraggiamenti; ma ecco che il padre, ritrovando
il suo tono severo, ancorché soffuso da una vibrazione leggermente più cordiale,
lo pregò di suonare il campanello per far servire il bordeaux. «Verifichiamo se è
buono come il madera che sarò ben lieto di offrire a Sua Altezza Reale. E mentre
beviamo voglio parlarti di una questione importante.»
Amelia, che sedeva nervosa al piano di sopra' udì squillare il campanello col
quale veniva richiesto il bordeaux, e quel suono, non so per quale motivo, le parve
inquietante, denso di misteriosi significati. Ci sono persone che hanno sempre dei
presentimenti, e di questi fatalmente, prima o poi, qualcuno finisce con
l'avverarsi.
«Vorrei sapere, George...» cominciò il vecchio dopo aver sorseggiato
lentamente il primo bicchiere, «vorrei sapere in quali termini sono i tuoi rapporti
con quella... con quella piccolina di sopra.»
«Mi pare, signore,» rispose George con un sorriso compiaciuto, «che non sia
difficile capirlo. Mi sembra abbastanza evidente. Ah, che vino straordinario!»
«Come sarebbe a dire "abbastanza evidente"?»
«Signore... non chiedetemi troppo, vi prego... Io... io sono un uomo
modesto. Io... io... non mi atteggio a rubacuori, tuttavia è certo che lei è molto
innamorata di me. Lo vedrebbe chiunque anche ad occhi chiusi.»
«E tu?»
«Ma, signore, non mi avete forse ordinato di sposarla? Ed io non sono forse
un bravo ragazzo? Voi e suo padre avete deciso il matrimonio tanto tempo fa, se
non vado errato...»
«Già, già, un bravo ragazzo! Come se non mi fosse giunta notizia delle tue
imprese insieme con lord Deuceace e tutta la sua combriccola. Attento a quel che
fai, caro mio.»
Il vecchio pronunciava quei nomi nobiliari con ostentata soddisfazione.
Ogni qual volta gli accadeva d'imbattersi in un esponente dell'aristocrazia si
prodigava in inchini e salamelecchi, e lo riveriva come solo un libero cittadino
britannico sa fare. Poi, tornato a casa, sfogliava il Peerage per informarsi sul suo
casato. Chiacchierando, cercava d'inserire nella conversazione il nome del
personaggio in questione, per lasciar credere alle figlie di conoscerlo. Si
prosternava, crogiolandosi davanti a lui come un mendicante napoletano si
crogiola al sole. Nell'udire quei nomi, George si spaventò: temette che il padre
avesse saputo di certe piccole beghe di giuoco. Ma subito dopo quel vecchio
moralista lo tranquillò dicendogli:
«Mah... d'altro canto... si sa che i giovani sono giovani. Ciò che mi conforta,
George, è che frequentando la miglior società, come spero e credo tu faccia, e
come le mie sostanze continueranno a permetterti di fare...»
«Grazie, signore,» disse George cogliendo quell'occasione al volo. «Vedete,
non si può vivere senza soldi a contatto di quella gente, e la mia borsa...
guardatela!...» E nel dir questo il giovane alzò un borsellino che Amelia aveva
confezionato per lui e conteneva i miseri resti delle sterline di Dobbin.
«Non ti mancherà niente, mio caro. Al figlio di un commerciante inglese
non deve mancare niente. Le mie ghinee non sono diverse dalle loro, mio caro
ragazzo, ed io non te le lesino. Domattina passa dalla City; va' da Chopper e
troverai una sommetta per te. Io non ti nego il denaro se ho la certezza che
frequenti la buona società; perché so per esperienza che dalla buona società si ha
tutto il bene possibile. Io non mi do arie, sono di origine molto modesta. Tu
invece usufruisci di vantaggi dei quali io non ho potuto godere. Ebbene, sfruttali
nel modo migliore. Scegli pure i tuoi amici fra i giovanotti dell'aristocrazia. Caro
mio, sapessi quanti non possono sprecare un solo scellino per ogni ghinea che tu
puoi spendere! In quanto poi alle donnine (e nel dir questo, sotto le folte
sopracciglia gli occhi balenarono maliziosi, ma non per questo l'espressione
risultò accattivante) sappiamo come vanno le cose... I ragazzi sono ragazzi. C'è
una sola cosa che ti vieto assolutamente: il gioco. Se non mi obbedirai, non ti darò
più uno scellino, per Giove!»
«Non dubitate, signore.»
«Ma ora torniamo alla faccenda di Amelia. Non consideri l'eventualità di
fare un matrimonio migliore di quello con la figlia di un agente di cambio? E
questo che vorrei sapere, George.»
«È una questione di famiglia,» rispose il giovane schiacciando una
nocciolina. È un secolo che voi e Mr. Sedley avete combinato queste nozze.»
«Non lo nego. Ma la posizione sociale della gente può anche mutare, caro
mio. Riconosco che Sedley sia alle origini della agiatezza economica: è stato lui a
mettermi in condizione di far valere le mie risorse e i miei meriti, consentendomi
di raggiungere la posizione elevata che oggi posso vantarmi di avere nella City e
nel commercio del sego. Del resto, ho avuto occasione di esternare la mia
gratitudine a Sedley, e il mio libretto di assegni dimostra che anche di recente egli
ne ha avuta la prova. A questo proposito, ti farò una confidenza George:
ultimamente gli affari di Sedley hanno assunto una piega che non mi convince. E
non convince nemmeno Chopper, il mio capo-contabile, che è una vecchia volpe e
sa più di chiunque altro quello che accade in Borsa. Anche alla Banca Hulker &
Bullock non sanno cosa pensare. Temo che sia andato a cacciarsi in qualche
brutto affare. Pare che la Jeune Amélie, quella nave caduta in mano della nave
corsara americana Molasses, fosse sua. Ad ogni modo, inutile dire che se non
vedo le diecimila sterline di dote, tu Amelia non la sposi. Non voglio la figlia di
un pezzente, in famiglia. Passami il vino... anzi, no: suona per il caffè.»
Dopo di che Mr. Osborne aprì il giornale della sera, e George ne dedusse
che il colloquio era concluso e suo padre si accingeva a schiacciare un pisolino.
D'ottimo umore corse al piano di sopra da Amelia. Cosa mai lo indusse a
riservarle speciali attenzioni, quella sera, a mostrarsi più affettuoso e servizievole
di quanto lo fosse stato da tempo a quella parte? Perché si mostrò più ansioso di
intrattenerla piacevolmente, di essere tenero e vivace nella conversazione? Forse
il suo cuore generoso s'inteneriva al pensiero che ella dovesse patite una sventura,
o forse l'idea di perdere la fanciulla gliela faceva maggiormente desiderare?
Per giorni e giorni Amelia visse del ricordo di quella serata così lieta. Nella
sua mente rimasero incancellabili ogni parola di George, il suo aspetto, la canzone
che aveva cantato, il suo modo di atteggiarsi mentre si curvava su di lei o la
contemplava di lontano. Mai, secondo lei, una serata in casa Osborne era trascorsa
tanto veloce, e per poco non se la prese con Mr. Sambo, che a suo parere le aveva
recato troppo presto lo scialle.
Il mattino seguente George passò da casa sua per prendere amoroso congedo
da lei; poi si affrettò a recarsi nella City, in cerca di Chopper, il capo-contabile del
padre, il quale gli consegnò un assegno che il giovane senza indugio andò a
cambiare alla Banca Hulker & Bullock, trasformandolo in un bel gruzzolo di
quattrini. Proprio mentre George entrava, il vecchio Sedley usciva dall'ufficio del
direttore, il volto atteggiato a un'espressione costernata. Ma il suo figlioccio era
troppo esultante per accorgersi della disperazione in cui versava il povero agente
di cambio, e dell'occhiata melanconica che gli rivolse il buon vecchio. Da parte
sua, il giovane Bullock evitò di accompagnarlo sorridendo fino alla porta, com'era
sempre stata sua consuetudine.
E quando la porta della banca si fu richiusa alle spalle di Mr. Sedley, Mr.
Quill, il cassiere (la cui gradevole mansione consisteva nell'estrarre da un cassetto
e porgere le fruscianti banconote e nel dispensare sovrane con l'apposita spatola),
strizzò l'occhio a Driver, l'impiegato che sedeva alla sua destra. E Driver gli
rispose allo stesso modo.
«Andiamo male,» bisbigliò Driver.
«Da cani», rispose Mr. Q. «Come li volete, Mr. Osborne?» aggiunse poi,
rivolgendosi a George. Quest'ultimo con rapido gesto intascò le banconote e
quella sera stessa restituì cinquanta sterline a Dobbin.
Sempre quella sera, Amelia gli scrisse una lunga lettera, e non si potrebbe
immaginarne di più tenere. Il cuore le traboccava di tenerezza, ma al tempo stesso
era presaga di qualche calamità. Qual era mai la causa dell'aspetto così arcigno del
vecchio Osborne? Forse era sorto qualche screzio fra lui e suo padre? Il suo
babbo, poverino, era rientrato dalla City in uno stato di tale prostrazione che tutti
in casa se n'erano allarmati: insomma, quelle quattro facciate erano ricolme
d'amore e di timore, di speranza e di funesti presagi.
«Povera, piccola Emmy!... Cara, piccola Emmy!... Come mi ama!» pensava
George scorrendo quell'interminabile epistola. «E... perdio, che mal di testa mi ha
fatto venire quel punch. Che razza d'intruglio era mai?»
Povera, piccola Emmy! Proprio così.
XIV • MISS CRAWLEY TORNA A CASA
Proprio in quel momento, o press'a poco, una carrozza da viaggio con le
portiere adorne di stemmi a forma di losanga si fermava davanti a un tranquilla e
raffinata dimora di Park Lane. All'interno sedeva una donna dall'espressione
contrariata, i riccioli scomposti ricoperti da un velo verde. A cassetta sedeva un
uomo grande e grosso, dall'espressione bonaria. Era l'equipaggio di Miss Crawley,
la nostra amica, che ritornava a Londra dallo Hampshire. I finestrini della
carrozza, dai quali per solito penzolavano la testa e la lingua del grasso cockerspaniel, che in quel momento era invece accoccolato in grembo della vecchia
dama, erano chiusi. Quando il veicolo si arrestò, alcuni domestici e una giovane
donna che si trovava del pari nella carrozza, si diedero da fare per trarne un
voluminoso fagotto di scialli a mantelle. Tale involto di forma tondeggiante
conteneva, appunto, Miss Crawley, che tosto fu portata al piano di sopra e messa
a letto nella sua camera, riscaldata come se avesse dovuto accogliere un malato.
Messi furono inviati a chiamare il medico e lo speziale che vennero senza
indugio, si consultarono, prescrissero una cura e scomparvero. Al termine del
consulto, la giovane compagna di viaggio di Miss Crawley si fece avanti per avere
le istruzioni dei due illustri messeri, e somministrò le medicine antiflogistiche che
i suddetti avevano prescritto.
Il giorno dopo, il capitano delle Guardie Rawdon Crawley giunse a cavallo
dalla caserma di Knightsbridge, e mentre il suo bel destriero nero calpestava la
paglia davanti alla porta della zia inferma, egli s'informava solerte circa lo stato di
salute della sua amabile congiunta. In effetti, c'erano seri motivi per allarmarsi. Il
capitano constatò che la cameriera personale di Miss Crawley, la donna che
sedeva in carrozza con lei, era più irritata del consueto, mentre Miss Briggs, la
dame de compagnie, sedeva sola e in lacrime in salotto. Non appena aveva saputo
della malattia che affliggeva la sua diletta amica, si era affrettata a raggiungerne la
casa, ma le avevano tassativamente vietato di avvicinarla. Avrebbe voluto volare
al suo capezzale: là ove lei, la Briggs, tante volte aveva vegliato la cara inferma.
Ed ecco che, al suo posto, le somministrava i medicamenti un'estranea, un'odiosa
campagnola della quale ignorava perfino il nome. Lacrime copiose soffocarono le
parole della dame de compagnie, che insieme all'affetto conculcato seppellì nel
fazzoletto il suo vecchio naso paonazzo.
Rawdon Crawley incaricò la imbronciata femme de chambre di recarsi ad
annunciare la sua visita, dopo di che la nuova assistente di Miss Crawley ridiscese
in gran fretta dalla camera da letto della malata, posò la sua piccola mano in
quella di lui che le era corso incontro con passo ansioso, lanciò uno sguardo
carico di disprezzo alla sventurata Miss Briggs e, facendo cenno al giovane
ufficiale di uscire dal salotto, gli fece strada al pianterreno della sala da pranzo,
ora deserta, ove in passato erano state servite tante cene prelibate.
Lì i due conversarono per una decina di minuti, e senza dubbio parlarono dei
mali che affliggevano la povera degente del piano di sopra. Poi il campanello
della sala da pranzo fu scosso da un breve tintinnio e tosto comparve Mr. Bowls,
l'imponente maggiordomo, l'uomo che fruiva dell'incondizionata fiducia di Miss
Crawley (e fino a quel momento aveva spiato il colloquio dal buco della
serratura). Il capitano uscì arricciandosi i baffi, poi balzò in sella al suo splendido
corsiero, fra l'ammirazione dei monelli radunatisi davanti alla casa, sollevò lo
sguardo trattenendo per le briglie il cavallo che piroettava e caracollava altero, e
per un fuggevole istante scorse il volto della giovane alla finestra. La figura
femminile si dileguò, e non è dubbio ch'ella tornasse di sopra per adempiere ai
suoi commoventi doveri di assistenza.
Chi mai poteva essere costei? Quella sera in sala da pranzo fu apprestato uno
spuntino per due, mentre Mrs. Firkin, la cameriera di Miss Crawley, entrava negli
appartamenti della padrona e prestava i suoi servigi durante la breve assenza della
nuova infermiera, che consumò un pasto frugale in compagnia di Miss Briggs.
La Briggs era a tal punto dominata dal suo stato di emozione, che non le
riusciva di trangugiare un solo boccone di carne. La giovane donna scalcò il
fagiano con assoluta maestria, e chiese la salsa all'uovo in tono così reciso che la
povera Briggs, davanti alla quale posava la salsiera contenente quel delizioso
condimento, lasciò cadere il mestolino e tornò a precipitare nel più cupo e isterico
stato di disperazione.
«Penso che Miss Briggs gradirebbe un bicchiere di vino,» disse la giovane,
rivolta al bonario Mr. Bowls. Questi ubbidì, e la Briggs, afferrato il bicchiere con
gesto meccanico, ne ingoiò ansando il contenuto. Poi, con un piccolo gemito,
prese ad armeggiare con la coscia di fagiano che aveva nel piatto.
«Credo che possiamo servirci da sole,» disse la giovane con voce
carezzevole, «senza dover ricorrere ai gentili servigi di Mr. Bowls. Grazie, Mr.
Bowls, se avremo bisogno di voi, suoneremo il campanello.» Mr. Bowls scese al
piano di sotto dove (sia detto incidentalmente) coprì di spaventevoli contumelie
l'innocente cameriere, suo subalterno.
«Non dovete adontarvi così, Miss Briggs,» disse la giovane donna in tono
freddo e leggermente sarcastico.
«La mia cara amica è tanto ammalata, e non v... non v... non vuole
vedermi!» gorgogliò la Briggs in preda a un nuovo impeto d angoscia.
«La sua malattia non è poi così grave. Consolatevi, cara miss Briggs: ha
mangiato troppo, ecco tutto. Sta già meglio e presto sarà completamente
ristabilita. È un po' indebolita dai salassi e dai medicinali, ma non tarderà a
riprendersi. Tranquillizzatevi, ve ne prego, e bevete un altro bicchier di vino.»
«Ma perché non vuol più vedermi? Perché?» si lamentò la Briggs con flebile
voce. «Oh, Matilda! Matilda! Dopo ventitré anni di affettuosa amicizia! È questa
la ricompensa per la tua povera Arabella?»
«Non piangete così, povera Arabella,» disse l'altra con un impercettibile
risolino. «Non vuoi vedervi solo perché dice che non sapete curarla bene quanto
me. Non mi diverto a starmene alzata tutta la notte, siatene certa. Preferirei ci
foste voi al mio posto.»
«Sono stata al suo capezzale per anni e anni,» disse Arabella, «ed ora...»
«Ed ora preferisce un'altra. Cosa volete, i malati hanno di queste fisime, e
non bisogna contrariarli. Quando starà bene me ne andrò.»
«Mai, mai,» replicò Arabella fiutando avidamente la boccetta dei sali.
«Come, come? Lei non starà mai bene ed io non me ne andrò via?» chiese la
giovane donna con la medesima irritante gentilezza di poc'anzi. «Al contrario: tra
una quindicina di giorni starà benissimo ed io me ne farò ritorno a Queen's
Crawley dalle mie allieve e dalla loro mamma, che è molto più ammalata della
nostra amica. Non siate gelosa di me, Miss Briggs, non è assolutamente il caso. Io
sono una povera ragazza senza appoggi, non posso far male ad anima viva. Non
ho la minima intenzione di sostituirvi nella benevolenza di Miss Crawley, la quale
una settimana dopo la mia partenza si sarà già dimenticata di me. Il suo affetto per
voi è maturato nel corso di molti anni. Datemi un po' di vino, Miss Briggs, ve ne
prego, e siamo amiche. Io ho tanto bisogno di amici.»
La Briggs, tenera di cuore com'era e facile a sedare gli impeti del proprio
malumore, rispose a questo appello e porse la mano. Nondimeno continuò a
sentire anche più crudamente quell'abbandono, e sparse lacrime amare sulla
volubilità della sua diletta Matilda. Trascorsa una mezz'ora e terminato il pasto,
Miss Rebecca Sharp (tale infatti, per quanto strano possa sembrare, è il nome
della persona che sino a questo momento ci siamo divertiti a designare come «la
giovane») tornò nella stanza dell'inferma, dalla quale allontanò Mrs. Firkin con la
più accattivante gentilezza. «Grazie, Mrs. R. Firkin,» le disse, «va bene così. Siete
stata un tesoro. Se sarà necessario suonerò il campanello.» Così la Firkin se ne
andò in preda a un accesso di gelosia, tanto più perniciosa in quanto non aveva
agio di sfogarla.
Fu forse la violenza di tale segreta tempesta interiore a spalancare la porta
del salotto mentre lei percorreva il pianerottolo del primo piano? No: questa
venne aperta con la mano furtiva da Miss Briggs. Era rimasta di vedetta, l'aveva
sentito benissimo lo scricchiolio delle scale sotto il passo della Firkin che
scendeva facendo tintinnare il cucchiaio nella scodella della crema da orzo che la
povera servente ripudiata reggeva tra le mani.
«Ebbene, come andiamo, Mrs. Firkin?» domandò, mentre l'altra varcava la
soglia della stanza. «Come andiamo, Jane?»
«Di male in peggio, Miss Briggs,» rispose la Firkin scuotendo il capo.
«Non si sente meglio?»
«Ha parlato una volta sola. Le ho chiesto se si sentiva un po' meglio e per
tutta risposta mi ha detto di chiudere la mia stupida bocca. Ah, Miss Briggs, non
avrei mai pensato di dover arrivare a un momento simile!» E di nuovo le cateratte
si aprirono.
«Che tipo è questa Miss Sharp, Mrs. Firkin? Mentre trascorrevo le festività
natalizie nell'elegante dimora dei miei cari e fedeli amici, il reverendo Lionel
Delamere e la sua amabile consorte, mai avrei sospettato che un'estranea mi
avrebbe soppiantato nel cuore della mia cara, sempre carissima Matilda.» La
Briggs, come rivelava il suo modo di esprimersi, aveva un temperamento
sentimentale, incline agli exploits letterari, e infatti aveva pubblicato, a spese di
un gruppo di suoi estimatori, una breve raccolta di versi: I trilli dell'usignolo.
«Sono tutti pazzi di questa ragazza, Miss Briggs,» rispose la Firkin. «Sir Pitt
non voleva lasciarla partire, ma d'altra parte non si sentiva di dir di no a Miss
Crawley. Anche Mrs. Bute Crawley, quella del presbiterio, ha una gran simpatia
per Miss Sharp: è contenta solo quando la vede. Anche il capitano la trova
straordinaria, e Mr. Crawley è gelosa da morire. E poi Miss Crawley dal giorno
che si è ammalata non ha voluto vicino nessun altro. Solo Miss Sharp, e
francamente non riesco a spiegarmene il motivo. Direi che li ha stregati tutti.»
Rebecca passò l'intera notte vegliando Miss Crawley, e la notte successiva la
vecchia signorina dormì così tranquilla che Rebecca ebbe modo di riposare a sua
volta alcune ore senza essere disturbata, coricata su una dormeuse ai piedi del
letto della sua protettrice. Ben presto Miss Crawley si sentì molto meglio, tanto da
sedere sul letto e ridere di cuore della perfetta imitazione che Rebecca le fece,
delle estrinsecazioni di dolore di Miss Briggs. I singhiozzi della Briggs e quel suo
modo tutto particolare di soffiarsi il naso furono riprodotti con tanto felice
aderenza alla realtà, che Miss Crawley divenne quasi euforica; e i suoi medici
curanti non mancarono di compiacersene, dal momento che in genere, quando la
degna signora era affetta del minimo disturbo, la trovavano in preda alla più cupa
depressione e al terrore di andare all'altro mondo.
Il capitano Rawdon Crawley veniva tutti i giorni, e Miss Sharp gli dava
fresche notizie sulla salute della zia. Questa migliorò a un ritmo così rapido che
finalmente la povera Briggs ebbe il permesso di vedere la sua protettrice; e le
persone facili a intenerirsi non stenteranno a figurarsi la repressa emozione di
quella donna così sentimentale, e come quell'incontro riuscisse oltremodo
commovente.
Miss Crawley sollecitò al più presto la presenza della Briggs, e Rebecca le
rifaceva il verso in sua presenza con tanta serietà e precisione, che quella mimica
caricaturale procurava alla sua degna protettrice un doppio divertimento.
Le ragioni che avevano causato l'incresciosa malattia di Miss Matilda e reso
impellente la sua partenza dalla residenza di campagna del fratello erano d'indole
così poco romantica da non potersi quasi riferire in un romanzo nobile e
sentimentale come questo. Infatti è forse lecito accennare, anche solo vagamente
al fatto che una soave creatura del gentil sesso, e per giunta esponente dell'alta
società, abbia mangiato e bevuto a dismisura, e che una cena luculliana a base di
aragosta consumata al presbiterio fosse la vera causa della suddetta
indisposizione, che peraltro Miss Crawley s'intestardiva ad attribuire all'umidità?
L'attacco era stato così violento che Matilda, stando alle parole del reverendo, era
stata sul punto di «tirar le cuoia». Tutta la famiglia era spasmodicamente ansiosa
di conoscere il testamento, e Rawdon Crawley smaniava di poter disporre di
almeno quarantamila sterline prima dell'inizio della stagione a Londra. Da parte
sua Mr. Crawley inviò una scelta oculata di testi edificanti, atti a disporre nel
modo migliore il trapasso dalla Fiera della Vanità e da Park Lane al mondo di là.
Ma un bravo medico di Southampton convocato a tempo debito, ebbe ragione
dell'aragosta che aveva rischiato di avere conseguenze letali, e seppe restituire a
Miss Crawley la forza sufficiente per far ritorno in città, mentre il baronetto non
seppe celare il proprio disappunto per la piega che avevano assunto le cose, per
nulla favorevole ai suoi piani.
Mentre tutti si preoccupavano di Miss Crawley, ed ogni ora dal presbiterio
venivano inviati dagli appositi messaggeri recando notizie dell'inferma, in un'altra
ala della casa giaceva gravemente malata anche Lady Crawley, sebbene nessuno
mostrasse di occuparsi di lei. Dopo una sola visita, sulla quale Sir Pitt non aveva
trovato a ridire perché sapeva di non dover pagare la parcella, il buon dottore
aveva scosso il capo. Lasciarono che si spegnesse lentamente nella sua camera
solitaria, e tutti la ignorarono come si fosse trattato di una qualsiasi erba del parco.
Anche le ragazze risentirono sensibilmente di quella situazione: persero
infatti molti dei preziosi vantaggi che ricavavano dagli assidui insegnamenti di
un'istitutrice come Miss Sharp. Ma quest'ultima era un'infermiera così premurosa,
che Miss Crawley rifiutava le medicine se le venivano offerte da un'altra mano.
Del resto, Mrs. Firkin era stata messa in disparte molto tempo prima che la sua
padrona partisse per la campagna, e tornando a Londra la fida cameriera ebbe
quantomeno la magra consolazione di constatare che Miss Briggs soffriva al pari
di lei le stesse pene di gelosia, e subiva un trattamento in tutto e per tutto analogo.
A causa della malattia di sua zia, il capitano Crawley aveva ottenuto una
proroga della licenza e non si allontanava mai dall'anticamera di Miss Crawley, in
ossequio ai suoi stretti doveri. (La vecchia signorina trascorreva i giorni della sua
infermità nella grande camera padronale alla quale si accedeva attraverso il
salottino azzurro.) E quivi Rawdon incontrava immancabilmente suo padre.
Sebbene passasse per il corridoio e cercasse di non farsi notare, la porta della
stanza del padre si apriva regolarmente, e dalla soglia lui lo scrutava con due
occhi da iena. Perché mai si spiavano a vicenda? Si trattava, inutile precisarlo, di
una magnanima forma di generosità: entrambi rivaleggiavano prodigandosi in
ogni sorta di cure alla cara degente, che soffriva adagiata nel letto della camera
degli ospiti. Da questa stanza Rebecca usciva per confortarli, o per meglio dire
confortava ora l'uno ora l'altro. Entrambi questi illustri signori apparivano
estremamente ansiosi di ricevere notizie della malata dalla viva voce di
quell'intima, privilegiata messaggera.
A cena - quando Rebecca scendeva una mezz'oretta - era lei a preservare la
pace fra padre e figlio. Poi spariva e per tutta la serata non si faceva più vedere;
Rawdon andava a cavallo al deposito del 150° Reggimento di Mudbury e
abbandonava suo padre in balia di Mr. Horrocks e del suo rhum and water.
Durante la degenza di Miss Crawley, Rebecca trascorse nella stanza della
malata i quindici giorni più deprimenti che una creatura umana abbia mai
conosciuto in tutta la sua vita; ma si sarebbe detto che quella tenera fanciulla fosse
dotata di nervi d'acciaio, e non sembrava minimamente provata dalla fatica e dal
tedio del suo compito di infermiera.
Solo molto tempo dopo ebbe a confessare quanto penoso le fosse stato quel
dovere, quanto fosse indisponente quella garrula vecchietta, sempre adirata,
insonne e terrorizzata dalla Prospettiva della morte. Solo più tardi ammise che
Miss Crawley per notti e notti aveva smaniato in preda a una specie di
sconvolgente delirio causato dal pensiero della vita futura: quella vita futura della
quale, quand'era in buona salute, non si curava affatto. Sforzati di immaginare,
gentile e vezzosa lettrice, una vecchia dama egoista, arcigna, ingrata, affatto priva
del timor di Dio, mentre senza parrucca si contorce in preda al dolore e al panico.
Cerca di figurartela, e prima di diventar vecchia fa tesoro di questo spettacolo:
impara che cosa siano l'affetto e la preghiera.
Rebecca vegliò a quel capezzale nient'affatto gradevole con pazienza a tutta
prova. Non le sfuggiva nulla, e al pari di un attento dispensiere sapeva sfruttare a
proprio vantaggio ogni minima circostanza. Più tardi raccontò molti piccoli
episodi intorno alla malattia di Miss Crawley, storielle che suscitavano il rossore
della vecchia signorina, facendolo affiorare anche sotto il belletto. Durante tutto il
decorso della malattia non ebbe mai un moto di contrarietà. Sempre attenta a
tutto, anche perché aveva il sonno leggero, sapeva peraltro approfittare di ogni
momento utile per accordarsi il riposo. Grazie a questa meditata amministrazione
del suo tempo, il suo volto rivelava appena la stanchezza. Forse era più pallida del
solito e segnata dall'ombra di lievi occhiaie; nondimeno, quando lasciava la
camera dell'inferma, appariva sempre fresca e sorridente: in cuffietta e vestaglia,
appariva egualmente inappuntabile, come se avesse indossato il più elegante degli
abiti da sera.
Così pensava il capitano, che smaniava d'amore per lei e le usava
disordinate, goffe attenzioni. L'acuto strale dell'amore era riuscito a perforare la
sua pelle coriacea. Sei settimane di tempo, la vicinanza, il fiorire delle occasioni
avevano avuto incondizionata ragione di lui. Fra tante persone, ebbe l'idea non del
tutto meditata di confidarsi con la zia del presbiterio la quale, essendosi accorta di
quell'accesso di follia, lo rimproverò, lo mise in guardia, ma alla fine dovette
convenire che la piccola Miss Sharp era la ragazza più buona, più intelligente, più
divertente, più spiritosa, più semplice di tutta l'Inghilterra. Rawdon, a sentir lei,
non doveva scherzare con quel piccolo cuore indifeso; senza contare che, qualora
Miss Crawley avesse appreso una cosa simile, non gliel'avrebbe certo perdonata,
sebbene lei stessa fosse affascinata dalla giovane istitutrice e amasse Miss Sharp
al pari di una figlia. Era bene che Rawdon se ne andasse, tornasse al reggimento,
in quella Londra culla di ogni depravazione, e non scherzasse coi sentimenti di
un'ingenua fanciulla senza appoggio alcuno.
Più volte la buona signora, commossa dell'infelicità dell'ufficiale, gli offerse
il destro di incontrarsi con Miss Sharp al presbiterio e di tornare a casa con lei,
come già abbiamo avuto modo di vedere. Care signore, quando uomini di un certo
stampo conoscono finalmente l'amore, non si lasciano intimorire dalla vista
dell'amo, della lenza e di tutto l'armamentario che prima o poi servirà ad
accalappiarli: non possono fare a meno di accostarsi a quegli aggeggi pericolosi,
di inghiottire l'esca; in tal modo vengono tosto agganciati e trascinati a riva,
boccheggianti. Rawdon non ebbe difficoltà ad accorgersi che Mrs. Bute Crawley
intendeva alimentare il suo amore per Rebecca. Per quanto fosse d'intelligenza
mediocre, era uomo di mondo e ne aveva viste tante. Tuttavia, dopo un certo
discorsetto che gli tenne la signora in questione, una luce balenò nel suo cervello
torpido, o per lo meno lui lo credette.
«Credete a me, Rawdon,» gli disse costei, «un giorno o l'altro Miss Sharp
diventerà vostra parente.»
«In qual modo, parente? Cugina, eh, signora? So benissimo che James la
corteggia,» rispose furbescamente l'ufficiale.
«No, no, una parente molto più stretta,» insistette lei con un lampo di
malizia negli occhi neri.
«Spero non si tratti di Pitt. Non deve appartenere a quel serpente. E poi è
fidanzato con Lady Jane Sheepshanks.»
«Voialtri uomini siete proprio ciechi e ottusi... Possibile che non vi rendiate
conto... Se Lady Crawley dovesse andare al Creatore, sicuramente Miss Sharp
diventerà vostra matrigna.»
A questo punto un poderoso fischio uscì dalle labbra del nobile Rawdon
Crawley, a esternare il suo sentimento di stupore. Indubbiamente non gli era
sfuggita la palese simpatia che suo padre nutriva per Miss Sharp. Conosceva il
vecchio pollo. Quel libertino... «È un uomo senza scrupoli...» prese a dire; ma
rinunciò a continuare nei suoi commenti e, arricciandosi i baffi, si avviò verso
casa, nella certezza di aver scoperto i segreti retroscena del curioso
comportamento di Mrs. Bute Crawley. «Per Giove,» pensava, «questo è
inammissibile. No, è veramente inaccettabile... Questa donna vuoi rovinare la
poverina per impedirle di diventare Lady Crawley, ed entrare a far parte
integrante della famiglia!»
Così, la prima volta che ebbe occasione di incontrare Rebecca a quattr'occhi,
col tatto consueto le rimproverò l'attaccamento che suo padre mostrava per lei.
Lei con gesto sdegnoso rizzò il capo e fissandolo negli occhi rispose:
«E con ciò? Ammettiamo pure che Sir Pitt provi dell'affetto per me. So che è
vero, e non è il solo. Non crederete che abbia paura di lui, capitano Crawley... O
forse pensate che non sia in grado di tutelare il mio onore?» E nel dir questo la
giovane donna assunse il tono solenne di un'altera regina.
«Ma no... cosa dite... volevo soltanto mettervi in guardia... volevo solo
avvertirvi di stare all'erta, tutto qui,» rispose l'arricciatore di baffi.
«Vorreste allora alludere a qualcosa di poco onorevole?» domandò lei,
accalorandosi.
«Mio Dio, no, Miss Rebecca, nemmeno per sogno...», obietto il pesante
dragone.
«Voi forse siete indotto a pensare che io, per il fatto di esser sola e senza
amici, non sappia cosa sia il rispetto per se stessi, proprio come per parte loro non
lo sanno i ricchi. Credete forse che, essendo una semplice istitutrice, sia
sprovvista di buon senso, di buona educazione, di buoni sentimenti, alla stregua di
certi nobili dello Hampshire? Sono una Montmorency, io. Credete che una
Montmorency non valga quanto un Crawley?»
Quando Miss Sharp si esaltava e alludeva ai suoi genitori, la sua voce chiara
e squillante assumeva una lieve inflessione straniera che ne accentuava il fascino.
«No,» continuò, accalorandosi sempre più, «posso sopportare la povertà, ma non
la vergogna... e nemmeno lo scherno e l'insulto. Tanto meno da voi, capitano!»
Dopo di che, incapace di contenersi oltre, scoppiò in pianto.
«Maledizione, Miss Sharp... Rebecca... Per Giove... no, non lo farei
nemmeno per mille sterline, ve lo giuro sull'anima mia. Fermatevi, Rebecca!»
Ma lei si era già allontanata. Quel giorno uscì in carrozza con Miss Crawley
(l'episodio testé riferito è antecedente alla malattia di quest'ultima). Più tardi, a
cena, Rebecca fu particolarmente vivace e brillante, ma non mostrò di accorgersi
dei cenni, delle allusioni e delle goffe suppliche che le venivano rivolte
dall'umiliato e infatuato ufficiale. Del resto, altre scaramucce in tutto simili a
questa si susseguirono nel corso di quella breve campagna: schermaglie assai
uggiose sulle quali non fa conto soffermarsi, e tutte risoltesi allo stesso modo.
Sconfitta, la cavalleria pesante di Crawley s'imbizzarriva, ed ogni giorno veniva
incalzata, messa in fuga.
Se il baronetto di Queen's Crawley non avesse temuto di lasciarsi sfuggire di
punto in bianco l'eredità di sua sorella, non avrebbe mai acconsentito che le sue
care figliole perdessero quella grazia di Dio rappresentata dall'educazione che
veniva loro impartita dall'inestimabile istitutrice. Senza Rebecca, che aveva
saputo rendersi così utile, così accetta a tutti, la casa sembrava un deserto.
Nessuno, al posto suo, correggeva e ricopiava le lettere di Sir Pitt; nessuno teneva
in ordine i libri di conti. Ora che la sua piccola segretaria se n'era andata, tutte le
faccende domestiche ripiombavano nell'usuale trascuratezza, tutti i molteplici
progetti di Sir Pitt stagnavano, inerti. Lo stile e l'ortografia delle ripetute lettere
ch'egli le scrisse in tono supplichevole, esortandola a tornare, bastavano di per sé
a rivelare quanto gli fosse stata preziosa la collaborazione di una siffatta
amanuense. Quasi ogni giorno recava a Becky una nuova lettera del baronetto,
rigurgitante di trepide preghiere affinché rientrasse a Queen's Crawley, oppure
altre missive indirizzate a Miss Crawley, nelle quali egli si diffondeva in patetiche
descrizioni del danno che subiva l'educazione delle sue figliole, ormai da troppo
tempo trascurata. Istanze, queste ultime, che naufragavano nell'indifferenza di
Miss Crawley.
Quanto a Miss Briggs, non venne formalmente licenziata, ma le sue funzioni
di dama di compagnia divennero in pratica una sinecura e si ridussero a un ruolo
risibile. Ormai i suoi compagni erano il grasso cocker-spaniel, in salotto, e
qualche volta la scontenta Mrs. Firkin, nella camerette della governante. Per altro
verso, se la vecchia signorina non voleva a nessun costo sentir parlare della
partenza di Rebecca, è pur vero che si guardava bene dall'assumerla regolarmente
a servizio nella sua casa di Park Lane. Al pari di molte persone facoltose, Miss
Crawley non esitava ad accettare da persone di condizione inferiore tutti i servigi
che poteva ottenerne, ma poi, quando non ne aveva più bisogno, se ne liberava
con la massima disinvoltura. In ambienti del genere, la gratitudine è un
sentimento che non alligna: nessuno se ne preoccupa. Ma voi, poveri parassiti,
umili vermi striscianti, a guardar bene le cose non avete serio motivo di
dolervene: quanto a sincerità, la vostra amicizia per il ricco Epulone non
differisce di molto da quella che ne avete in cambio. Voi amate il denaro, non
l'uomo. E se Creso e il suo servo dovessero scambiarsi i rispettivi ruoli, voi,
povero miserabile, sapete perfettamente a chi destinereste i vostri favori.
Non oserei affermare con assoluta certezza che, nonostante lo zelo, la
semplicità, il garbo, il costante buonumore di Rebecca, quella vecchia e astuta
londinese sulla quale venivano profusi senza risparmio i tesori di tanta amicizia,
non nutrisse qualche vago sospetto circa la sincerità della sua affezionata amica e
infermiera. Doveva pur passare per la mente di Miss Crawley che nessuno dà
niente per niente; e se sapeva valutare i suoi sentimenti nei confronti dell'umanità,
doveva per contro essere in grado di misurare quelli che l'umanità poteva nutrire
verso la sua persona. E avrà fors'anche riflettuto sul fatto che non aver amici è il
destino che spetta a chi non si preoccupa di nessuno.
Nel frattempo, è pur vero che Becky costituiva per lei un appoggio e un
conforto estremamente preziosi: di conseguenza non esitò a regalarle due vestiti
nuovi, una vecchia collana, uno scialle; e per dar prova alla nuova confidente dei
sentimenti di amicizia che nutriva per lei, sparlò tranquillamente con lei di tutti i
suoi più intimi conoscenti (e questa è la massima prova di stima che si possa dare
a chicchessia), meditando al tempo stesso di assicurarle per l'avvenire qualcosa di
vantaggioso: forse combinarle il matrimonio con Clump, il suo speziale, o
trovarle qualche altra decorosa sistemazione. In ogni caso restava sempre aperta la
possibilità di rispedirla a Queen's Crawley quando non avesse più avuto bisogno
di lei e la stagione londinese fosse giunta al culmine.
Allorché Miss Crawley fu ormai convalescente e cominciò a scendere in
salotto, Becky prese l'abitudine di cantare per lei e trovò altri modi per distrarla.
Poi, quando fu abbastanza in forze per uscir di casa, fu sempre Becky ad
accompagnarla. E nel corso di una di tali passeggiate in carrozza, non
v'immaginate certo ove l'incommensurabile benevolenza e la grande amicizia di
Miss Crawley la indussero ad avventurarsi, fra tanti luoghi che vi sono al mondo:
la portarono, nientemeno, che in Russell Square, nel quartiere di Bloomsbury, e
precisamente nella casa di Mr. John Sedley.
Inutile dire come, prima di tale evento, molte lettere fossero state scambiate
fra le due amiche. Per la verità, nel corso dei molti mesi trascorsi da Rebecca
nello Hampshire, quell'eterna amicizia si era notevolmente ridotta; e la cosa, del
resto, non fa specie. Anzi, col tempo si era così sbiadita da rischiare di spegnersi
del tutto. Il fatto è che ciascuna delle due ragazze era assorbita dai suoi problemi.
Rebecca doveva badare a mettersi in buona luce presso i suoi padroni, mentre
Amelia era ciecamente dominata dal suo sentimento. Quando le due amiche si
rividero, volarono l'una nelle braccia dell'altra con lo slancio che le ragazze sanno
imprimere ai loro rapporti. Ma se l'abbraccio di Rebecca espresse nel modo più
felice la vivacità e l'energia, la povera, piccola Amelia arrossì mentre la baciava, e
in cuor suo pensava di essere colpevole, nei confronti dell'amica, di un sentimento
assai affine alla freddezza.
Il primo incontro fra le due giovani fu molto breve: Amelia si accingeva ad
uscire, mentre in strada Miss Crawley attendeva in carrozza e la servitù si stava
chiedendo in quale luogo fosse mai capitata. Stupefatti, i domestici della vecchia
dama squadravano Sambo, il lacchè negro di Bloomsbury, strano e imprevedibile
abitante di quel quartiere. Ma quando Amelia scese col suo bel volto sorridente
(Rebecca doveva presentarla alla sua amica e Miss Crawley desiderava tanto
conoscerla, ma non poteva scendere dalla carrozza), gli aristocratici servitori
gallonati di Park Lane si domandarono come Bloomsbury avesse prodotto un
frutto simile. Miss Crawley fu quasi conquistata dal faccino grazioso di quella
fanciulla che arrossiva avvicinandosi, timida e aggraziata, per porgere il suo
omaggio alla protettrice della sua amica.
«Che bella carnagione! E che voce incantevole!» esclamò Miss Crawley
dopo quel breve incontro, mentre la carrozza muoveva di bel nuovo verso i settori
occidentali della città. «La vostra amica è veramente affascinante, Miss Sharp.
Deve assolutamente venire in Park Lane, avete capito?»
Miss Crawley era una donna di gusto, ed apprezzava quel tratto semplice e
spontaneo, ulteriormente accentuato da un'ombra di timidezza. Avere accanto a sé
un viso attraente le piaceva non meno che avere una casa arredata con bei quadri e
preziose porcellane. Quel giorno i suoi discorsi tornarono almeno una dozzina di
volte su Amelia, per esprimere sul conto di quest'ultima il più vivo
compiacimento. Ne parlò persino con Rawdon Crawley, che al solito era venuto a
spartire il pollo con sua zia, in ossequio ai suoi doveri.
Rebecca, beninteso, senza por tempo in mezzo, dichiarò che Amelia era
fidanzata ufficialmente col tenente Osborne, un'antica fiamma. «È in fanteria?»
chiese il capitano Crawley, stentando un poco (com'era naturale da parte di un
ufficiale delle Guardie) a ricordare il numero del Reggimento, che era il ....
Rebecca confermò che si trattava proprio di quello, o per lo meno così le pareva.
«Il suo superiore diretto,» disse «è il capitano Dobbin.»
«Un tipo piuttosto goffo e dinoccolato, vero?» disse Crawley. «Uno che
inciampa sempre dappertutto? Lo conosco, sì. Osborne invece è piuttosto un bel
ragazzo, con delle vistose basette nere.»
«Delle basette enormi,» confermò Rebecca, «e lui è enormemente fiero di
averle, di questo non è il caso che dubitiate.»
A titolo di risposta Rawdon scoppiò un una risata fragorosa, cavallina, e le
signore lo esortarono a spiegare il motivo di tanta ilarità; ma dovettero attendere
che quell'esplosione di risa si fosse finalmente placata.
«Poveretto!» disse alla fine, «crede di saper giocare al biliardo. Gli ho vinto
duecento sterline al Coca Tree. Proprio così: a sentir lui sa giocare, quel povero
allocco! Quel giorno si sarebbe giocato anche l'anima, se il capitano Dobbin non
lo avesse trascinato via, maledizione!»
«Rawdon, Rawdon, non essere così cattivo,» lo ammonì Miss Crawley, che
peraltro si sentiva altamente compiaciuta.
«Signora, fra tutti gli ufficiali di fanteria che conosco, è senza dubbio il più
sciocco. Tarquin e Deuceace gli portano via tutto il denaro che ha, basta che lo
vogliano. Farebbe carta falsa pur di mostrarsi in giro con un aristocratico. A
Greenwich sono loro a invitare chi vogliono, ma è lui a pagare le cene!»
«E tra gli ospiti ci saranno anche delle belle ragazze, immagino!»
«Certo, Miss Sharp; come al solito avete ragione. Ci sono anche delle ospiti,
e graziosissime per giunta.» E il capitano riprese a ridere, convinto di aver detto
qualcosa di straordinariamente spiritoso.
«Non essere cattivo, Rawdon!» esclamò sua zia.
«D'altra parte suo padre è un mercante della City. E dicono che sia
ricchissimo. Ah, quei maledetti mercanti! Bisogna ridurli sul lastrico. Ad ogni
modo con lui non ho finito, di questo potete esser sicuri. Ah! Ah! Ah!»
«Ahimè, sarò costretta a mettere in guardia Amelia, capitano Crawley. Un
marito giocatore!»
«Veramente orribile,» continuò il capitano in tono severo. Poi, come colpito
da un'idea improvvisa, aggiunse: «Perdio, signora, perché non lo invitiamo qui?»
«È una persona ammodo?» chiese la zia.
«Ammodo? Ma certamente! Sembra uno di noi,» rispose il capitano
Crawley. «Ve ne prego, invitatelo quando vi sarete rimessa e ricomincerete a
ricevere, e con lui invitate anche la sua... la sua "innamorata" (si dice così, vero
Miss Sharp?). Ma sicuro, invitate anche lei. Gli scriverò senz'altro un biglietto per
invitarlo, così avremo modo di vedere se al piquet vale quanto al biliardo. Dove
abita, Miss Sharp?»
Miss Sharp diede al capitano Crawley l'indirizzo di casa del tenente
Osborne, e quest'ultimo, pochi giorni più tardi, ricevette una lettera scritta con la
calligrafia infantile del capitano Crawley. Incluso, c'era un biglietto d'invito di
Miss Crawley.
Anche Rebecca mandò un biglietto d'invito ad Amelia, la quale, manco a
dirlo, accettò senza esitazione nell'apprendere che tra gli eletti c'era anche il suo
amato George. Fu convenuto che Amelia avrebbe trascorso l'intera mattinata con
le signore di Park Lane, le quali le usarono ogni più cortese attenzione. Rebecca la
trattava con aria di garbata e protettiva condiscendenza: in fatto di abilità la
superava di gran lunga, e da parte sua Amelia era così gentile e modesta che
cedeva senza opporre la minima resistenza a chiunque avesse deciso di
comandarla; onde obbedì alle disposizioni di Rebecca con placida e serena umiltà.
Anche Miss Crawley fu molto affabile. Non smise di lodare la piccola Amelia
parlandone in sua presenza come se si fosse trattato di una bambola, di una
cameriera o di un quadro, e le manifestò la più stupita benevolenza con accenti di
autentico entusiasmo.
Ammiro l'accattivante modo di porgere che ostentano talvolta gli
aristocratici nei confronti delle persone di condizione più umile della loro. Non c'è
nulla di più divertente al mondo che assistere alla condiscendenza della gente di
Mayfair. Quell'eccesso di gentilezza da parte di Miss Crawley ebbe l'effetto di
stancare Amelia, e oserei affermare che delle tre signore di Park Lane quella che
le riuscì più simpatica fu Miss Briggs. Infatti andò subito d'accordo con
quest'ultima, come sempre le avveniva con le persone cortesi e trascurate dal
prossimo. Evidentemente non era quella che si suol definire una ragazza di spirito.
George venne per la cena: una cena en garçon col capitano Crawley.
Fu la grande carrozza degli Osborne a condurlo in Park Lane da Russell
Square, dove le sorelle, escluse dall'invito, non Si mostrarono risentite per quel
tratto disobbligante. Ciò non gli impedì di cercare in tutta fretta il nome di
Crawley sul Debrett, e appresero tutto il possibile sull'albero genealogico di questi
ultimi, dei Binkies e dei vari parenti e congiunti. Rawdon Crawley riservò a
Osborne un'accoglienza oltremodo amabile e cordiale. Lodò la sua abilità al
biliardo e gli propose la rivincita; chiese notizie su quanto avveniva nel
Reggimento di Osborne, e si sarebbe spinto a proporgli una partita di piquet se
Miss Crawley non avesse tassativamente vietato qualsiasi gioco d'azzardo in casa
sua; di modo che, almeno in questa circostanza, la borsa del tenente non venne
alleggerita ad opera del tanto cortese capitano. Però si diedero appuntamento per
l'indomani: sarebbero andati ad Hyde Park insieme, per via di un certo cavallo che
Crawley voleva vendere; poi, sempre insieme, avrebbero cenato per concludere la
giornata con un'allegra combriccola di giovanotti. «Sempre beninteso, che non
siate di servizio presso la graziosa Miss Sedley» concluse Crawley con una
strizzatina d'occhi. «Veramente graziosa, lo dico in assoluta sincerità,» si degnò di
commentare. «Immagino che abbia fior di quattrini, nevvero?»
Osborne rispose che non era affatto di servizio, e che era ben lieto di
incontrarsi con Crawley, il quale il giorno dopo ebbe modo di lodare (stavolta con
tutta sincerità) l'abilità di cavallerizzo di cui dava prova il suo nuovo amico, e lo
presentò a due o tre bellimbusti appartenenti all'alta società, il che valse a
inorgoglire immensamente quel vacuo e vanesio ufficiale.
«A proposito, come sta la piccola Miss Sharp?» chiese Osborne a Crawley
con ostentazione, mentre bevevano un bicchiere, a coronamento del pasto. «È una
brava ragazza. Proprio. Cosa pensano di lei, a Queen's Crawley? Miss Sedley
l'anno scorso le si era molto affezionata.»
Gli occhietti azzurri del capitano Crawley lanciarono a Osborne un'occhiata
collerica, e poi continuarono a fissarlo mentre salivano al piano di sopra per
rinverdire la conoscenza con la vezzosa istitutrice. Se però l'ufficiale delle
Guardie covava in seno un sia pur lieve sentimento di gelosia, il contegno di
Rebecca bastò a dissolverlo completamente.
Entrarono in salotto, dove Osborne venne presentato a Miss Crawley. Poi il
giovane si avvicinò a Rebecca, in atteggiamento di benevola protezione, con l'aria
di chi voglia mostrarsi particolarmente garbato e ben disposto verso qualcuno.
Trattandosi di un'amica di Amelia, era perfino disposto a stringerle la mano.
Pertanto le porse la sinistra dicendole: «Oh, Miss Sharp, come state?»,
convintissimo ch'ella si sentisse addirittura confusa da tanto onore.
Invece per tutta risposta Miss Sharp gli porse l'indice destro,
accompagnando quel gesto con un cenno del capo così freddo e contegnoso che
Rawdon Crawley, spiando la scena dalla stanza attigua, riuscì a stento a trattenere
le risa cogliendo in pieno lo smacco del tenente: la sua mossa iniziale seguita da
un attimo di pausa e di perplessità, e dalla decisione finale di stringere quel dito
che gli veniva offerto di buon grado...
«Riuscirebbe ad averla vinta anche sul diavolo, per Giove!» penso il
capitano mentre il tenente, sempre compito e affabile, cercava di avviare la
conversazione chiedendo a Rebecca come si trovasse al suo nuovo posto.
«Il mio posto?» rispose Rebecca. «Oh, siete davvero molto gentile a
ricordarvene. Sì, non posso lamentarmene; lo stipendio è abbastanza
soddisfacente, anche se forse è inferiore a quello che Miss Wirt percepisce dalle
vostre sorelle, in Russell Square. E ditemi (se posso arrischiare questa domanda):
come stanno le signorine?»
«E perché non dovreste arrischiarla?» chiese Osborne, sorpreso.
«Perché non si sono mai sognate di rivolgermi la parola, e tantomeno di
invitarmi a casa loro, quando ero ospite in casa di Amelia. Ma non fa nulla:
noialtre povere istitutrici siamo avvezze a subire sgarbi di questo genere.»
«Mia cara Miss Sharp!» esclamò Osborne.
«Questo, per lo meno, è quanto avviene in certe famiglie. Eh, sì,» continuò
Rebecca, «voi non lo crederete, ma tra una famiglia e un'altra corrono notevoli
differenze. Nello Hampshire la gente è molto meno ricca di voi, privilegiati
operatori della City, ma in compenso si è mantenuto integro l'antico ceppo
aristocratico della miglior Inghilterra. Non so se sappiate che il padre di Sir Pitt ha
rifiutato di essere un Pari del Regno. Ad ogni modo vedete come sono trattata. Sì,
nel complesso è un posto soddisfacente. Ma quale squisito pensiero, da parte
vostra, il domandarmelo!»
Osborne era furibondo. La piccola istitutrice lo aveva trattato con tale
ironica condiscendenza, lo aveva persifler a tal punto, che il giovane leone
britannico si sentì veramente imbarazzato; e d'altro canto non ebbe la presenza di
spirito bastante a sottrarlo a quella dilettevole conversazione, sfruttando
tempestivamente un pretesto qualsiasi.
«Mi era parso che nell'insieme le famiglie della City incontrassero i vostri
gusti,» le disse in tono di sufficienza.
«Vi riferite all'anno scorso, quando ero appena uscita da quell'orribile
collegio? Ma certo! Quale ragazza non è felice di andare in vacanza? E poi quale
esperienza avevo alle spalle, per sapere che vi fosse di meglio? Invece bastano
diciotto mesi per vedere le cose con occhi totalmente diversi! Diciotto mesi
(scusate se ve lo dico, Mr. Osborne) passati in mezzo all'alta nobiltà. Quanto alla
cara Amelia, è una perla, su questo non ho dubbi, sarebbe perfettamente a posto in
qualsiasi ambiente. Suvvia, mi accorgo che cominciate ad essere di buonumore.
Certo, però, che quella gente della City... Piuttosto, come sta Mr. Jones? Come va
quel meraviglioso Mr. Joseph?»
«Mi sembrava che l'anno scorso quel meraviglioso Mr. Joseph non vi
dispiacesse affatto,» rispose Osborne, cortese.
«Oh, come siete severo, Mr. Osborne. Entre nous, mentirei se vi dicessi che
mi ha spezzato il cuore. Se però mi avesse chiesto ciò a cui sembravate alludere
con il vostro sguardo (così gentile, così espressivo, veramente!), non avrei saputo
dirgli di no.»
Osborne le lanciò un'occhiata che sembrava dire: «Davvero? Quale
degnazione da parte vostra!»
«Quale onore, vero, avere per cognato George Osborne, il cavaliere George
Osborne, figlio di Mr. Osborne, il quale a sua volta era figlio di... di... Cosa faceva
vostro nonno? Ahi, ahi, non mi riesce di ricordarlo. Ma non vi arrabbiate, suvvia.
Dopo tutto, non siete responsabile del vostro albero genealogico, e per parte mia
Vi confermo che non avrei esitato a sposare Mr. Sedley. Che altro poteva fare una
povera ragazza senza un penny? Ecco, siete al corrente di tutto il segreto, ed io vi
ho parlato con la massima franchezza e sincerità. Debbo convenire che è stato
estremamente cortese da parte vostra alludere a quell'episodio... sì, veramente
cortese. Cara Amelia, stavo appunto parlando con Mr. Osborne di tuo fratello.
Come sta?»
La sconfitta di George era totale. Non che le argomentazioni di Rebecca
fossero irreprensibili; ma era riuscita a metterlo dalla parte del torto e a indurlo a
fuggire ignominiosamente: sentiva che, se avesse indugiato ancora, Rebecca
sarebbe riuscita a renderlo ridicolo anche agli occhi di Amelia.
Tuttavia George non era così meschino dal far pettegolezzi e vendicarsi di
Rebecca, sebbene quest'ultima avesse avuto la meglio su di lui. Il che non
gl'impedì, il giorno dopo, di esternare al capitano Crawley alcune sue opinioni sul
conto di Rebecca, definendola pungente, pericolosa, civetta, e via dicendo: tutte
qualifiche che incontrarono il divertito consenso di Crawley, e che nel giro di una
giornata giunsero tempestivamente all'orecchio di Rebecca, accrescendo la di lei
simpatia per il tenente Osborne. Il suo istinto femminile le diceva che era stato
proprio lui a interrompere il felice corso della sua prima avance amorosa, e i
sentimenti che provava nei suoi confronti ne erano l'esplicita conseguenza.
«Volevo solo mettervi in guardia,» disse Osborne a Crawley con un'occhiata
significativa (in precedenza aveva comperato il cavallo e perso qualche decina di
ghinee). «Volevo solo avvisarvi. Conosco le donne, io, e vi consiglio di tener gli
occhi aperti.»
«Grazie, vecchio mio,» rispose Crawley, con un'occhiata che rivelava come
la sua gratitudine fosse d'indole alquanto particolare. «Sapete veder lontano, a
quanto pare.» E George se ne andò, convinto che Crawley avesse espresso, sul
suo conto, un giudizio lusinghiero e assolutamente motivato.
Più tardi riferì ad Amelia quale consiglio avesse dato a Rawdon Crawley.
Era giusto che una così brava persona, un giovane così dabbene, stesse in guardia
contro le insidie di quella piccola intrigante di Rebecca.
«Perché mai dovrebbe stare in guardia?»
«Via, parlo dell'istitutrice, della tua amica... Non fingere di non capire!»
«Oh, George, che cos'hai fatto?» Ai suoi occhi femminili, resi lungimiranti
dall'amore, era bastato un attimo per scoprire un segreto ch'era invisibile a quella
povera pulzellona di miss Briggs e soprattutto allo sguardo ottuso di quel giovane
bellimbusto dalle folte basette, il tenente Osborne.
Infatti, al piano superiore, mentre Rebecca l'aiutava a indossare lo scialle, le
due amiche ebbero modo di scambiarsi una di quelle brevi conversazioni che
mandano in solluchero le donne. Fatto sta che Amelia si avvicinò a Rebecca, e
prendendone le piccole mani nelle sue le disse: «Rebecca, ho capito tutto.»
Rebecca la baciò.
Né l'una né l'altra fecero parola a chicchessia di quel delizioso segreto. Il
quale, peraltro, era destinato ad esser presto a conoscenza di tutti.
Poco tempo dopo gli avvenimenti che abbiamo testé raccontato, e mentre
Miss Rebecca continuava a soggiornare dalla sua protettrice, in Park Lane, in
Great Gaunt Street veniva esposto uno stemma abbrunato, in aggiunta a quelli che
fregiavano di sé quella strada funerea. Lo stemma in questione ornava la casa di
Sir Pitt Crawley; ma non designava la morte del nostro baronetto, giacché si
trattava di uno stemma femminile: anzi, per vero dire era lo stesso che, qualche
anno avanti, era servito a rendere l'estremo omaggio alla madre di Sir Pitt, la
defunta Lady Crawley vedova. Terminato il periodo di lutto, lo stemma era stato
staccato dal portone e conservato in una delle stanze del palagio avito dei
Crawley; ed ecco che ora veniva riutilizzato in occasione del decesso della povera
Rose Dawson. Sir Pitt era vedovo per la seconda volta.
Inutile osservare che lo stemma in questione, posto accanto a quello dei
Crawley, non poteva essere quello di Rose, la quale era sprovvista di titoli
nobiliari. Ma i cherubini potevano servire per lei com'erano serviti per la vecchia
Crawley madre di Sir Pitt. Sotto lo stemma dei Crawley c'era la dicitura
Resurgam! e ai due lati la colomba e il serpente di famiglia. Stemmi e fregi a
lutto. Resurgam! Un'occasione d'oro per fare della morale.
Solo Mr. Crawley era rimasto a quel capezzale disertato da tutti. Rose aveva
preso congedo da questo mondo col solo conforto delle parole che costui aveva
saputo dirle. Per vari anni era stata l'unica persona che le avesse usato gentilezze,
l'unica persona che le avesse dato prova di amicizia e avesse confortato la
solitudine di quell'amorfa creatura, morta nel cuore assai prima che nel corpo. Il
cuore lo aveva venduto per esser moglie di Sir Pitt Crawley: ogni giorno la Fiera
della Vanità annovera madri e figlie che stipulano contratti del genere.
Al momento del trapasso il marito si trovava a Londra assorbito da non so
quale fra i suoi numerosi progetti, oppure nello studio di uno fra i suoi non meno
innumerevoli legali. Peraltro aveva trovato il tempo di andare spesso in Park Lane
a far visita a Rebecca, e di mandarle ripetuti biglietti coi quali la scongiurava, le
ordinava, le imponeva di tornare in campagna, accanto alle sue allieve le quali,
dal giorno in cui si era ammalata la loro madre, erano rimaste totalmente in balìa
di se stesse. Ma Miss Crawley si rifiutava categoricamente di lasciarla andare. In
tutta Londra non esisteva una sola dama dell'alta società pronta a scaricare i propri
amici non appena si stufava di loro, e ne esistevano pochissime che si stancassero
rapidamente quanto lei; ma fino a quando perdurava il suo engoûment, il suo
attaccamento era né più né meno stupefacente, e in quella fase la sua infatuazione
per Rebecca non mostrava di venir meno.
La notizia della morte di Lady Crawley provocò fra i familiari di Miss
Crawley le reazioni ch'era lecito attendersi: nessuna spiccata manifestazione di
dolore e nemmeno commenti particolarmente significativi. «Certo dovrò rinviare
il mio impegno del giorno 3,» disse Miss Crawley. E aggiunse, dopo una breve
pausa: «Speriamo che mio fratello abbia il buon gusto di non risposarsi.» «Se lo
facesse, Pitt schiatterebbe di rabbia,» osservò Rawdon, manifestando la consueta
benevolenza nei confronti di suo fratello. Rebecca non fece commenti, ma senza
dubbio era, fra tutti, l'unica che manifestasse un sincero dolore, un turbamento
non simulato. Quel giorno uscì dalla stanza prima che Rawdon si congedasse, ma
più tardi, mentre il capitano si accingeva ad andarsene dopo aver salutato sua zia,
s'incontrarono casualmente al pianterreno ed ebbero una breve conversazione.
L'indomani mattina, mentre Rebecca guardava fuori della finestra, fece
sobbalzare Miss Crawley placidamente intenta a leggere un libro francese. «È
arrivato Sir Pitt, signora!» esclamò allarmatissima. E l'annuncio di quella notizia
fu seguito immediatamente dal picchio all'uscio di Sir Pitt.
«Non mi sento di riceverlo, mia cara. Non ho la minima voglia di vederlo.
Bowl dica che non sono in casa, oppure scendete voi stessa e ditegli che mi sento
male e non sono in grado di ricevere chicchessia. Il mio sistema nervoso non è in
condizioni di sopportare una persona come mio fratello, in questo momento,»
concluse Miss Crawley, e riprese la lettura del suo libro francese.
Rebecca scese e mosse incontro a Sir Pitt che si accingeva a salire le scale.
«Non può ricevervi, signore,» disse, «si sente troppo male.»
«Tanto meglio,» fu la risposta. «Del resto è voi che volevo vedere.
Seguitemi in salotto.» Ed insieme entrarono nella stanza.
«Intendo assolutamente che torniate a Queen's Crawley,» disse il baronetto
fissando i suoi occhi in quelli di lei, mentre si toglieva i guanti e il cappello con la
larga fascia di crespo nero. Quegli occhi la fissavano in modo così strano, che
Becky quasi tremava.
«Mi auguro di poter tornare al più presto,» disse a voce bassa, «non appena
Miss Crawley starà meglio... Spero di... di... tornare da quelle care bambine.»
«Sono tre mesi che andate ripetendo la stessa cosa,» replicò Sir Pitt, «e
invece continuate a restare appiccicata a mia sorella, la quale non esiterà a
buttarvi via come una scarpa vecchia non appena si sarà stancata di voi. Vi voglio,
lo ripeto ancora una volta. Io ritorno a Queen's Crawley per i funerali. Venite con
me sì o no?»
«Non oserei... non credo... che sarebbe appropriato viaggiare sola con voi...»
balbettò Becky, in preda alla più viva agitazione.
«Vi torno a dire che vi voglio,» esclamò Sir Pitt battendo i pugni sul tavolo.
Mi è impossibile andare avanti senza di voi. Non mi sono reso conto di come
andassero realmente le cose fino al giorno in cui ve ne siete andata. In casa tutto
va a rotoli, non è più la casa di prima. I miei conti non tornano. Dovete tornare,
cara Becky, dovete tornare assolutamente. Tornate!»
«Tornare... Tornare come?» chiese Rebecca con voce ansante.
«Tornate come Lady Crawley, se volete,» rispose il baronetto afferrando il
suo cappello adorno della fascia di crespo. «Ecco! Siete soddisfatta? Tornate e
sarete mia moglie. Ve lo meritate. Al diavolo la nascita, il casato. Voi siete una
signora né più né meno come tutte le altre, e nel vostro dito mignolo c'è più
cervello che nella testa di qualsiasi moglie di baronetto in tutta la contea. Allora,
verrete sì o no?»
«Oh, Sir Pitt!» disse Rebecca, molto commossa.
«Ditemi di sì, Rebecca,» continuò Sir Pitt, io sono vecchio ma ancora in
gamba. Ho ancora vent'anni di salute davanti a me. Sarete libera di fare tutto ciò
che vorrete, di spendere quanto vorrete. Vi farò felice, vedrete se non lo farò. Vi
assegnerò un rendita, disporrò ogni cosa nel modo migliore. Ecco!...» E il vecchio
cadde in ginocchio guardando Rebecca come un satiro.
Rebecca si ritrasse, e il suo volto era la vera e propria immagine della
costernazione. Nel corso di questa storia non l'abbiamo mai vista perdere la sua
presenza di spirito. Ma questa volta le cose andarono altrimenti, e pianse alcune
delle lacrime più sincere che mai sgorgarono dai suoi occhi.
«Oh, Sir Pitt!» esclamò. «Io... Io, signore, sono già sposata!»
XV • NEL QUALE IL MARITO DI REBECCA FA UNA FUGACE
APPARIZIONE
Ogni lettore incline al sentimentalismo (e non ne desideriamo di altra specie)
non avrà mancato di apprezzare il tableau sul quale si è chiuso l'ultimo atto del
nostro piccolo dramma. Cosa può esservi, infatti, di più incantevole dello
spettacolo offerto dall'Amore in ginocchio davanti alla bellezza?
Ma quando l'Amore udì la Bellezza profferire quell'orribile confessione
ch'ella, cioè, era già sposata rinunciò all'umile atteggiamento che aveva assunto
prosternandosi sul tappeto, e proruppe in estrinsecazioni verbali che suscitarono
nella povera, piccola Bellezza un timore più grande di quello che aveva provato
nel confessare il suo segreto.
«Sposata? Voi scherzate,» esclamò il baronetto, dopo quella prima
esplosione di rabbia e di stupore. «Voi intendete burlarvi di me, Becky. E chi mai
potrebbe sposare una ragazza senza il becco d'un quattrino?»
«Sposata, sposata,» ripeté Rebecca stravolta e lacrimante, la voce rotta
dall'emozione, il fazzoletto premuto sugli occhi, mentre si appoggiava al
caminetto sentendosi prossima al deliquio: un'incarnazione del dolore che avrebbe
commosso il cuore più indurito. «Sir Pitt, caro Sir Pitt, voi non dovete credere
ch'io non vi porti gratitudine per tutto il bene che mi avete fatto! Anzi, solo la
vostra generosità poteva strapparmi un simile segreto!»
«Al diavolo la mia generosità!» strillò Sir Pitt. «E con chi siete sposata, di
grazia? Quando è successo?»
«Signore, concedetemi di tornare da voi in campagna! Lasciate che torni a
occuparmi di voi con la stessa dedizione di un tempo! Vi prego, non allontanatemi
da Queen's Crawley!»
«Dunque vi ha piantata, quel mascalzone, vero?» riprese a dire il baronetto,
che s'illudeva di aver capito come stessero le cose. «Allora tornate pure, Becky, se
vi fa piacere. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Ad ogni modo
la mia proposta era onesta. Volete tornare come istitutrice? Fate pure.»
Lei gli porse una mano. I singhiozzi sembravano doverle spezzare il cuore. I
riccioli le ricadevano sul volto e sulla mensola marmorea del caminetto al quale si
era appoggiata.
«E così quel lestofante vi ha abbandonata, eh?» disse Sir Pitt, in un
grossolano tentativo di recarle conforto. Non importa, Becky, sarò io a occuparmi
di voi!»
«Ah, signore, credetemi: sarei felice e orgogliosa di tornare a Queen's
Crawley per aver cura di voi e delle bimbe, come quando vi dichiaravate
soddisfatto dei servigi della vostra piccola Rebecca. Se penso alla vostra offerta,
sento il cuore traboccare di riconoscenza, ve ne do la mia parola. Non posso
essere vostra moglie, ma lasciate almeno che sia per voi una figlia!»
E nel dir questo fu Rebecca, questa volta, a lasciarsi cadere al suolo in
atteggiamento altamente melodrammatico. Poi afferrò la mano nera e callosa di
Sir Pitt fra le sue (quelle piccole mani candide e morbide come seta), e stava per
levare su di lui uno sguardo carico di dolore e di fiducia quando... quando la porta
si aprì e Miss Crawley piombò nella stanza.
La Firkin e la Briggs, le quali (guarda caso!) non appena il baronetto e
Rebecca erano entrati in salotto si erano trovate a transitare davanti alla porta, dal
buco della serratura avevano colto l'immagine del vecchio gentiluomo prostrato
davanti all'istitutrice e udito la generosa profferta che lui le aveva rivolto. Tale
proposta era appena uscita dalle labbra di Sir Pitt, che già le due donne volavano
su per le scale, si precipitavano nel salotto di Miss Crawley, intenta a leggere il
romanzo francese, e avevano comunicato alla vecchia dama la sorprendente
notizia che Sir Pitt, inginocchiato ai piedi di Miss Sharp, stava chiedendo la sua
mano. Ora, calcolando la durata della conversazione sopra riferita, il tempo
impiegato dalle due donne per correre di sopra nel salotto di Miss Crawley, quello
necessario a quest'ultima per esternare la sua stupefazione, lasciar cadere il libro
di Pigault-Lebrun e di scendere da basso, si arriva alla conclusione che Miss
Crawley dev'essere comparsa nel salotto proprio nell'istante in cui Rebecca aveva
assunto quell'atteggiamento.
«A quanto pare è la signorina ad essere in ginocchio, non il signore,»
commentò Miss Crawley in tono sprezzante. «Mi avevano riferito ch'eravate in
ginocchio, Sir Pitt. Ripetetelo, ve ne prego: voglio contemplare una così bella
coppia!»
«Ho ringraziato Sir Pitt, Miss Crawley,» disse Rebecca levandosi in piedi,
«e gli ho detto che non posso... che non posso diventare Lady Crawley.»
«Lo avete rifiutato!» esclamò la Crawley, sempre più esterrefatta. Dalla
soglia, la Briggs e la Firkin contemplavano la ragazza con gli occhi sgranati e la
bocca spalancata dalla meraviglia.
«Sì,» confermò Rebecca con voce mesta e lacrimosa.
«E devo veramente credere che voi l'abbiate chiesta in moglie, Sir Pitt?»
chiese la vecchia signorina.
«Sì,» rispose il baronetto, «è vero.»
«Ed essa vi ha rifiutata, né più né meno come asserisce?»
«Sì,» disse Sir Pitt, mentre sul suo volto affiorava un sogghigno.
«Tuttavia non ho l'impressione che la cosa vi abbia spezzato il cuore»
osservò Miss Crawley.
«Neanche un po',» rispose Sir Pitt. La sua voce denotava una tale freddezza,
un così perfetto buonumore, che Miss Crawley restò trasecolata. Che un anziano
gentiluomo potesse cadere ai piedi di un istitutrice squattrinata, per scoppiare a
ridere subito dopo perché lei declina la sua profferta di matrimonio, erano misteri
che Miss Crawley non riusciva assolutamente a sondare: misteri molto più
complessi di tutte le trame più intricate ordite dal suo prediletto Pigault-Lebrun.
«Mi compiaccio che troviate divertente una simile situazione, fratello,» disse
alla fine, cercando di riaffiorare da quello stato di suprema stupefazione.
«Straordinario! Davvero!» esclamò Sir Pitt. «Chi avrebbe mai supposto una
cosa simile. Che diavolo! Che prodigio d'astuzia! Una piccola volpe, proprio
così.»
«Chi avrebbe mai immaginato?... Come sarebbe a dire?» chiese Miss
Crawley battendo il piede in terra. «Insomma, Miss Sharp, dal momento che non
ritenete la nostra famiglia all'altezza, aspettate che il Principe Reggente ottenga il
divorzio per risposarsi con voi?»
«Quando voi siete entrata, signora,» disse Rebecca, «il mio atteggiamento
non induceva a pensare ch'io spregiassi l'onore fattomi da questo buon... da questo
generoso gentiluomo. Dunque, voi tutti mi credereste una donna senza cuore?
Tutti avete dimostrato di volermi bene, siete stati prodighi d'ogni gentilezza con
questa povera orfana, con questa povera ragazza priva d'ogni appoggio... Ed io
non dovrei provare nulla in cambio? Cari amici, miei cari benefattori: forse che il
mio amore e la mia vita stessa non debbono servirmi a ripagare la fiducia di cui
mi avete dato prova? Non è forse mio preciso dovere tentare di ricambiarvi come
meglio posso? Vorreste perfino impedirmi di esternare la mia gratitudine, Miss
Crawley? È troppo, il cuore mi scoppia!» E Rebecca si lasciò cadere su una sedia
in modo così patetico, che la maggior parte dell'uditorio non poté che unirsi senza
riserve a tanto dolore.
«Che mi sposiate o no, Becky, siete una brava ragazza, e potete contare sulla
mia amicizia,» disse Sir Pitt. Dopo di che si rimise in capo il cappello bordato di
crespe e se ne andò, con grande sollievo di Rebecca. Ciò infatti significava che il
suo segreto non sarebbe stato rivelato a Miss Crawley, e che quindi le restava il
vantaggio di una pausa, di un breve respiro.
Si portò il fazzoletto agli occhi, dissuase con un cenno del capo la brava
Briggs che di buon grado l'avrebbe seguita di sopra e salì nella sua camera. Poi,
mentre la Briggs e Miss Crawley, oltremodo elettrizzate, indugiavano a
commentare lo strano caso, la Firkin, non meno turbata, s'inabissava nelle regioni
della cucina a diffondere la notizia fra quanti, maschi e femmine, vi si trovavano.
Anzi, il fatto la colpì a tal punto, che quella sera stessa si sentì in dovere di
scrivere «coi suoi devoti ossequi a Mrs. Bute Crawley e alla sua famiglia al
presbiterio», raccontando come Sir Pitt fosse venuto in visita e avesse fatto una
proposta di matrimonio a Miss Sharp: proposta che, fra lo stupore generale, non
era stata accolta.
Frattanto in sala da pranzo (dove Miss Briggs esultava per esser nuovamente
ammessa alle confidenze della padrona di casa) le due signore continuarono a far
congetture sulla proposta di Sir Pitt e sul rifiuto di Rebecca. Miss Briggs, dando
prova di singolare acume, avanzò l'ipotesi che sussistesse un precedente legame
affettivo, altrimenti nessuna ragazza sana di mente si sarebbe lasciata sfuggire
un'occasione tanto vantaggiosa.
«Voi senza dubbio avreste accettato, vero Briggs?» chiese Miss Crawley
gentilmente.
«Non sarebbe stato un privilegio diventar sorella di Miss Crawley?» rispose
l'altra, aggirando la domanda.
«Nondimeno occorre dire che Becky sarebbe stata un'eccellente Lady
Crawley,» convenne Miss Matilda, addolcita dal rifiuto della ragazza e, come
sempre, liberale e generosa (a patto che non le venisse richiesto alcunché). «Non
le manca certo il cervello, e in quanto a spirito ne ha più lei nel dito mignolo di
quanto ne abbiate voi nella testa, mia povera Briggs! Adesso poi che io l'ho
formata, le sue maniere sono irreprensibili. È una Montmorency, e sebbene io non
abbia alcuna considerazione per questo genere di cose, il sangue indubbiamente
ha il suo valore. Quindi Rebecca avrebbe saputo stare al suo posto tra quegli idioti
dello Hampshire molto meglio di quella sciagurata figlia di fabbro ferraio.»
Miss Briggs, come di consueto, convenne pienamente col parere di Miss
Crawley, e riprese ad almanaccare sull'ipotetico «precedente legame affettivo».
«Voialtre, povere creature senza amici, avete sempre qualche sciocco
tendre,» osservò Miss Crawley. «Anche voi a suo tempo vi siete innamorata di
quel maestro di calligrafia. Suvvia, non piangete, Briggs, non fate che piangere!
Del resto, non serve a farlo tornare in vita. Io credo che anche quella povera
infelice di Becky sia a sua volta una scioccherellina sentimentale. Ci sarà sotto un
farmacista, che sa?, un maggiordomo, un pittore... oppure qualche giovane curato
o roba del genere.»
«Poverina... povera ragazza!» esclamò Miss Briggs, il cui pensiero era
ritornato a ventiquattr'anni innanzi, a quello sclerotico maestro di calligrafia (del
quale custodiva gelosamente nel cassetto della sua scrivania una ciocca di capelli
biondi e un fascio di lettere illeggibili, ma comunque bellissime). «Poverina,
poverina,» ripete la Briggs; e intanto si rivedeva allorché, col viso fresco dei suoi
diciott'anni, si recava al Vespro assieme con lo sclerotico maestro di calligrafia,
ed insieme leggevano tremanti i salmi dalle pagine dello stesso libro di preghiere.
«Dopo simile condotta da parte di Rebecca,» disse Miss Crawley con
entusiasmo, «la nostra famiglia dovrebbe far qualcosa. Cercate di scoprire chi è
l'individuo in questione, Briggs, ed io gli aprirò un negozio, oppure mi farò fare il
ritratto, lo raccomanderò a mio cugino, il vescovo, e provvederò a dôter Becky.
Voglio un matrimonio coi fiocchi; voi preparerete la colazione e sarete damigella
d'onore.»
La Briggs manifestò la sua incondizionata compiacenza, giurò che la cara
Miss Crawley si dimostrava anche in questa circostanza profondamente buona e
generosa; dopo di che salì in camera di Rebecca per commentare la proposta, il
rifiuto, la motivazione di quest'ultimo, nonché accennare ai propositi di Miss
Crawley, nel tentativo di scoprire chi fosse l'uomo al quale Miss Sharp aveva fatto
dono del suo cuore.
Rebecca fu gentilissima e affettuosa, si mostrò commossa e rispose alle
profferte della Briggs con un fervore denso di gratitudine. Non esitò ad ammettere
che, sì, c'era un dolce mistero... c'era una segreta passione (ah, se Miss Briggs
avesse indugiato un solo minuto in più davanti al buco della serratura! Forse
avrebbe potuto apprendere ben altro...) Ma erano trascorsi cinque minuti
dall'ingresso di Miss Briggs nella camera di Rebecca, che vi fece la sua comparsa
Miss Crawley in persona, un onore - questo - assolutamente imprevedibile. Vinta
dall'impazienza, aveva rotto gli indugi, incapace di attendere il resoconto della sua
lenta ambasciatrice; pertanto era venuta per sapere e ingiunse a Miss Briggs di
uscire. Dopo aver manifestata la sua approvazione per la condotta di Rebecca,
chiese i particolari di quell'incontro, e quali precedenti giustificassero una siffatta,
inaudita proposta da parte di Sir Pitt.
Rebecca spiegò come da tempo, ormai, si fosse accorta della stima e della
simpatia di cui l'onorava Sir Pitt (che d'altronde usava palesare i propri sentimenti
con assoluta franchezza), ma, sorvolando al momento sulle motivazioni personali
con le quali non voleva tediare Miss Crawley, l'età, la posizione sociale e le
abitudini del baronetto la dissuadevano da un siffatto matrimonio, che si
presentava in ogni senso inattuabile. E poi poteva una donna che avesse un
minimo senso del decoro e della propria dignità prestare orecchio a discorsi del
genere quando le esequie della moglie del pretendente non avevano ancora avuto
luogo ?
«Queste sono bazzecole, mia cara,» rispose Miss Crawley venendo subito al
sodo. «Se non ci fosse stato qualcun altro voi non avreste assolutamente rifiutato.
Se dunque avete dei motivi personali, ditemeli. Qualcuno c'è, ne sono certa. Chi
vi ha toccato il cuore?»
Rebecca chinò lo sguardo e ammise che sì, c'era qualcuno.
«Avete indovinato, cara signora,» disse in tono sommesso e con voce
tremante. «Forse vi stupisce che una donna povera e derelitta come me possa
coltivare un affetto, vero? D'altra parte la povertà non costituisce un usbergo a
difesa dagli strali amorosi. Magari lo fosse!»
«Piccola mia,» rispose Miss Crawley, sempre incline al sentimentalismo,
«forse il vostro amore non è corrisposto? Forse soffrite in silenzio. Dite,
confidatevi con me e lasciate che vi conforti.»
«Ah, volesse il cielo che poteste farlo, cara signora!» esclamò Rebecca nel
medesimo tono lacrimoso, «ne ho tanto bisogno, credete.» Posò il capo sulla
spalla di Miss Crawley e prese a piangere con tanta naturalezza che la vecchia
dama, colta di sorpresa, l'abbracciò con un impeto di tenerezza quasi materno, le
sussurrò parole di consolazione nelle quali erano trasfusi tutto il suo affetto e la
sua stima e giurò di volerle bene come a una figlia, di esser pronta a fare tutto
quanto era in suo dovere per aiutarla.
«Ed ora ditemi chi è, mia cara. È forse il fratello di quella graziosa ragazza...
di Miss Sedley? Mi avevate accennato a un flirt con lui. Sono disposta ad
invitarlo, se volete. Lo avrete qui, ve lo prometto.»
«Non chiedetemi nulla, ora,» rispose Rebecca. «Presto saprete ogni cosa; ve
lo assicuro. Cara, cara gentile Miss Crawley... cara amica, se mi è consentito
usare quest'espressione...»
«Ma certo che potete, bambina cara,» disse la vecchia signorina
abbracciandola.
«Ora non ve lo posso dire,» ripeté Rebecca fra i singhiozzi, «ma promettete
di conservarmi la vostra affezione.» E fra le lacrime delle due donne (giacché
l'emozione della giovane aveva contagiato la vecchia), Miss Crawley promise
solennemente; poi benedisse la sua piccola protégée, piena com'era di
ammirazione per colei che considerava una dolce, ingenua, tenera e insondabile
creatura.
Così Rebecca rimase sola a meditare sugli strabilianti e inopinati
avvenimenti di quella giornata, a ciò ch'era accaduto, a ciò che sarebbe potuto
accadere.
Quali sentimenti credete che potesse celare nel segreto dell'anima sua Miss
(oh, scusate, Mrs.) Rebecca? Se già una volta qualche pagina più indietro, chi
scrive si è accollato il diritto di spingere il proprio sguardo nella camera da letto
di Miss Amelia Sedley, e di comprendere, con l'onniscienza del romanziere, tutte
le dolci pene e le ansie che si agitavano su quel giaciglio virginale, perché non
dovrebbe asserire di essere parimenti il confidente di Rebecca Sharp? Perché non
dovrebbe essere il depositario dei suoi segreti, il nume tutelare della coscienza
della sunnominata fanciulla?
Dunque, per prima cosa Rebecca diede sfogo al suo sincero e commovente
rammarico per aver sfiorato una simile fortuna ed esser stata costretta a rifiutarla.
Chiunque sia dotato di normali capacità di raziocinio non potrà non comprendere
una reazione tanto naturale. Quale madre, poniamo, non avrebbe compianto una
fanciulla senza beni di sorta, che si fosse vista sfuggire l'occasione di diventare la
moglie di un baronetto e spartire con quest'ultimo un patrimonio di quattromila
sterline l'anno? Quale fanciulla dabbene, in tutta la Fiera della Vanità, non
proverebbe un sentimento di solidarietà nei confronti di una ragazza laboriosa,
intelligente, meritevole, che si trovi di fronte ad una proposta così onorevole,
vantaggiosa e allettante proprio nel momento in cui essa non è più in condizione
di accoglierla? Sono certo che l'amara delusione della nostra amica Becky susciti
con pieno motivo la simpatia generale.
Ricordo che una sera ebbi a trovarmi di persona alla Fiera, durante un
ricevimento. Il mio occhio si posò su Miss Toady, anch'essa presente, che
dedicava speciali attenzioni e frasi adulatorie alla piccola Mrs. Briefless, la moglie
dell'avvocato, la quale indubbiamente proviene da un'ottima famiglia, ma come
tutti sanno è povera in canna.
Come mai, mi chiesi, tanti salamelecchi da parte di Miss Toady? Forse
Briefless ha ottenuto una promozione ed è assurto alla magistratura, oppure sua
moglie ha ereditato una fortuna? Ma poco dopo, con quella franca semplicità che
la distingue, fu la stessa Miss Toady a fornirmi la spiegazione. Mi disse che Mrs.
Briefless è nipote di Sir John Redhand, il quale si trova a Cheltenham gravemente
ammalato e non ha più di sei mesi di vita. Ebbene, a succedergli sarà il padre di
Mrs. Briefless, onde lei sarà figlia di un baronetto... Capite? Di conseguenza la
Toady invitò a cena i coniugi Briefless per la settimana dopo.
Ora, se il semplice fatto di esser figlia di una baronetto può procacciare a
una signora il diritto a tanti riguardi in società, non c'è dubbio che si debba
guardare con rispetto al dispiacere di una fanciulla che perde l'occasione di
sposare un personaggio di pari grado.
Chi mai avrebbe potuto aspettarsi che Lady Crawley sarebbe morta tanto
presto? «Era una di quelle donne dalla salute perennemente malferma che
possono tirare avanti anche dieci anni,» si ripeteva Rebecca, sommersa dal dolore
e dal rimorso, «e io che avrei potuto prendere il suo posto! Avrei potuto ottenere
dal vecchio tutto ciò che avessi voluto! Avrei potuto ringraziare senza tante storie
Miss Crawley per la sua benevola protezione e Mr. Pitt per quella sua
insopportabile bonomia mista di sufficienza. Avrei fatto cambiare la mobilia e
riattare tutto il palazzo in città. Avrei avuto la più bella carrozza di tutta Londra,
un palco all'Opera... e la prossima stagione sarei stata presentata a Corte. Sì, tutto
ciò sarebbe potuto essere, e ora... ora invece il futuro è incerto, il futuro è un
mistero, per me.»
D'altro canto Rebecca era una ragazza troppo energetica e volitiva per
abbandonarsi al rimpianto di un passato inattuato e inattuabile; pertanto, dopo
aver meditato sulla cosa non più dello stretto necessario, saviamente rivolse il suo
pensiero all'avvenire, che per lei era di gran lunga più importante. Fece dunque un
rapido esame della situazione in cui versava, delle sue speranze, delle sue
perplessità, delle occasioni sulle quali poteva contare.
Innanzitutto era sposata, questo era un dato di fatto incontestabile, e Sir Pitt
lo sapeva. Quella confessione le era sfuggita non tanto per la sorpresa quanto per
un subitaneo calcolo. La cosa, prima o poi, si sarebbe risaputa; dunque, perché
non approfittare di quell'occasione anziché rinviare la confessione a un momento
successivo?
Colui che avrebbe desiderato sposarla, avrebbe quantomeno rispettato il
silenzio su quelle nozze. Il problema, semmai, era un altro: come avrebbe reagito
Miss Crawley? Rebecca nutriva in seno giustificati timori; d'altro canto ricordava
perfettamente tutto ciò che Miss Crawley aveva ripetuto più volte circa il suo
disprezzo per la nascita; conosceva le sue idee liberali, la sua naturale inclinazione
al romanticismo, il suo incondizionato affetto per il nipote e quello che più di una
volta aveva manifestato anche a lei. Al nipote vuol tanto bene che sarebbe pronta
a perdonargli qualsiasi cosa, pensava Rebecca. E nello stesso tempo si è così
abituata alla mia presenza, che le peserebbe rinunciare a me. Quando verremo
all'éclarcissement ci sarà una sfuriata, una scena isterica, una litigata coi fiocchi;
ma poi verrà la riconciliazione. E in ogni caso, a che pro rimandare? Il dado era
tratto e, oggi o domani, l'esito sarebbe stato il medesimo. Quindi Rebecca decise
che Miss Crawley doveva esser messa al corrente, poi meditò sul modo migliore
per confessarle la verità: era meglio affrontare coraggiosamente la tempesta che si
sarebbe scatenata, oppure fuggire e mettersi il riparo fino a quando si fosse spenta
la prima furia? Assorta in queste riflessioni si accinse alla stesura della seguente
lettera:
Mio caro,
la grande crisi della quale tante volte abbiamo discusso insieme è venuta.
Metà del mio segreto è ormai noto, e dopo aver riflettuto a lungo ho concluso che
il momento di rivelare il mistero sia maturo. Stamani è venuto a farmi visita Sir
Pitt, e mi ha fatto - lo crederesti? - una proposta di matrimonio. Figurati! Proprio
a me, poverina! Avrei potuto diventare Lady Crawley. Mrs. Bute Crawley ne
sarebbe stata felicissima! E ma tante, se avesse dovuto cedermi il passo! Avrei
potuto diventare la mamma di chi sai, invece di.. ah, io tremo, tremo al pensiero
che presto, molto presto bisognerà confessare tutto!
Sir Pitt sa che sono sposata, ma non sa con chi; quindi per il momento non
è molto in collera. Quanto a ma tante, è letteralmente furibonda perché ho
rifiutato la sua profferta, ma al tempo stesso è tutta gentilezza e bontà. E arrivata
al punto di dire che sarei stata una buona compagna per lui e giura che si
comporterà come una madre con la tua piccola Rebecca. Certo la notizia la
sconvolgerà, ma è il caso di temere il peggio, oltre il prorompere dell'ira che
accompagnerà la rivelazione? Non lo credo, anzi, sono certa di no. È così
affezionata a te (a quel cattivone, a quel buono a nulla che sei), che ti
perdonerebbe qualsiasi cosa. Poi credo che nel suo cuore il secondo posto spetti
a me, e che sarebbe molto infelice se io la lasciassi. Mio diletto, qualcosa mi dice
che vinceremo. Tu ti congederai da quel detestabile reggimento, rinuncerai alle
corse e al gioco per diventare un bravo ragazzo. Abiteremo tutti in Park Lane e
avremo in eredità tutto il denaro di ma tante.
«Domani farò il possibile per venire al solito posto alle tre. Se Miss B. mi
accompagnerà, vieni a cena e recami una risposta. Mettila nel terzo volume dei
sermoni di Porteous. Ma in ogni caso vieni dalla tua
R..
A Miss Eliza Styles
Presso Mr. Barnet, sellaio, Knightsbridge.
Immagino non vi sia un solo lettore di questa modesta storia il quale non sia
in grado di comprendere che Miss Eliza Styles (una vecchia compagna di scuola,
a quanto asseriva Rebecca, con la quale di recente aveva ristabilito una fitta
corrispondenza, e che riceveva le lettere presso un sellaio) portava speroni
d'ottone, lunghi baffi arricciati e in effetti altri non era se non il capitano Rawdon
Crawley.
XVI • LA LETTERA SUL PUNTASPILLI
Le circostanze nelle quali si erano sposati non rivestono per chicchessia la
minima importanza. Chi potrebbe impedire a una ragazza e a un capitano,
entrambi maggiorenni, di procurarsi un certificato di matrimonio e celebrare
regolari nozze in qualsivoglia chiesa della città? A chi torna utile farsi spiegare
che, se una donna vuole davvero qualcosa, trova il modo di ottenerla? Sono
convinto che, un giorno in cui Miss Sharp era andata a trascorrere la mattinata in
casa della sua amica Amelia Sedley, in Russell Square, una signora in tutto simile
a lei fu vista entrare in una chiesa della City, in compagnia di un signore dai baffi
tinti, il quale dopo un quarto d'ora l'aveva riaccompagnata ad una carrozza a
noleggio che sostava in attesa, e che il tutto altro non era se non un pacifico,
normalissimo matrimonio.
E chi mai sulla terra, dal momento che oggi ne vediamo d'ogni colore,
potrebbe stupirsi che un giovane di nobile casato sposi la prima venuta? Forse che
tanti uomini saggi e di profonda cultura non hanno sposato la loro cuoca? Forse
che Lord Eldon, uomo oltremodo oculato, non ha addirittura rapito la sua sposa?
Forse che Achille ed Aiace non erano innamorati delle loro ancelle? Era dunque
lecito attenderci che un corpulento dragone, ardente di desideri e povero di
cervello, dall'inveterata incapacità di tenere a freno le passioni, di punto in bianco
scoprisse la temperanza e si rifiutasse di pagare qualsiasi prezzo pur di assicurarsi
il piacere che desiderava? Se la gente celebrasse soltanto matrimoni di
convenienza, l'indice di natalità diminuirebbe in misura notevole. Per quanto mi
concerne, sono indotto a ritenere che nella parte della biografia di questo
nobiluomo, della quale dobbiamo riferire perché interessa la nostra storia, il
matrimonio sia stato proprio una delle azioni più oneste. Nessuno può trovare a
ridire sul fatto che un uomo s'innamori di una donna, o che, essendosene
innamorato, la sposi. Pertanto l'ammirazione, la gioia, la passione, l'incantato
stupore, l'incondizionata fiducia, la cieca adorazione che la piccola Rebecca aveva
suscitato in quel prode guerriero sono altrettanti sentimenti che nessuna signora
vorrà giudicare deplorevoli. Quando ella cantava, ogni nota aveva un'eco in
quell'anima opaca, e faceva correre brividi in quel suo grosso corpo. Quando
Rebecca parlava, Rawdon faceva ogni sforzo possibile per captare il significato
delle cose meravigliose che lei diceva; e se per caso si trattava di una battuta di
spirito, lui continuava a rimuginare nella mente quelle parole scherzose, per poi
scoppiare a ridere in piena strada, tra la meraviglia del cocchiere che gli sedeva al
fianco a cassetta, oppure del compagno che gli cavalcava accanto nel Rotten Row.
Ogni sua parola era per lui oro colato, da ogni gesto di lei trasparivano ineffabili
grazia e saggezza. «Come canta! Come dipinge!» pensava. «E come cavalcava
quella cavalla capricciosa a Queen's Crawley!» Poi, nei momenti di dolce
intimità, le diceva: «Per Giove, Becky, tu sapresti fare anche il comandante
d'Armata, o l'arcivescovo di Canterbury! Eh, sì, per Giove!» Un caso eccezionale,
forse? Per carità! Se ne vedono ogni giorno di questi onesti Ercoli abbarbicati alle
vesti di Onfale, e dei grandi, baffuti Sansoni inginocchiati ai piedi di Dalila!
Becky gli aveva detto che il momento cruciale della crisi era ormai
prossimo, ch'era giunto il tempo di agire, e Rawdon si dichiarò pronto ad eseguire
i suoi ordini, proprio come, su comando del colonnello, avrebbe mosso alla carica
con i suoi soldati. Non gli fu necessario andare a infilare il bigliettino nel terzo
volume dei sermoni di Portecus. Rebecca non ebbe alcuna difficoltà a sbarazzarsi
della Briggs, la sua accompagnatrice, e s'incontrò col fedele amico al «solito
posto». Durante la notte non aveva cessato di pensare e ripensare alla situazione, e
comunicò a Rawdon le sue decisioni. Naturalmente egli si dichiarò d'accordo su
tutto: era certo che ogni cosa sarebbe andata per il meglio, che la soluzione da lei
proposta fosse senz'altro la più opportuna. Che Miss Crawley si sarebbe
rasserenata e «avrebbe ingoiato il rospo», com'egli disse dopo una pausa. D'altra
parte, se le decisioni di Rebecca fossero state diametralmente opposte, egli le
avrebbe approvate senza fiatare, seguendole con la stessa cieca ubbidienza. «Tu
hai cervello per tutti e due, Becky,» diceva, «e sono certo che riuscirai a toglierci
da questo guaio. Non ho mai conosciuto una sola persona che ti possa stare alla
pari, sebbene anch'io ne abbia conosciuta di gente in gamba.» E sull'onda di
questa candida professione di fede, il dragone innamorato lasciò a Rebecca di
decidere quale sarebbe stato il ruolo di sua spettanza nell'esecuzione dei loro
piani.
Si trattava, molto semplicemente, di prendere in affitto un piccolo alloggio
tranquillo nel quartiere di Brompton, o nelle vicinanze della caserma, per Mr. e
Mrs. Crawley. Infatti Rebecca aveva deciso di fuggire, dando prova di molta
prudenza. Rawdon ne fu felice: da settimane la scongiurava di prendere questa
decisione, e si mise in cerca dell'appartamento con tutto l'entusiasmo di un
innamorato. Anzi accettò senza discutere di pagare una pigione di due ghinee la
settimana, tanto che la padrona si rammaricò in cuor suo di non aver chiesto di
più.
Rawdon vi fece collocare un pianoforte, riempì di fiori una stanza e ordinò
un gran numero di suppellettili eleganti. Quanto poi a scialli, guanti di capretto,
calze di seta, orologi d'oro francesi, braccialetti e profumi, ne ordinò con la
profusione di chi è sorretto dall'amore cieco e da un'illimitata disponibilità
finanziaria. Poi, sollevato lo spirito grazie a questo munifico esercizio di
prodigalità, andò al Circolo e attese che giungesse la grande ora della sua vita.
Gli eventi del giorno innanzi, il mirabile comportamento di Rebecca nel
rifiutare una proposta per lei tanto vantaggiosa, il dolore segreto che le opprimeva
il cuore, la silenziosa dolcezza con la quale mostrava di sopportare la sua angoscia
accrebbero in Miss Crawley la tenerezza nei suoi riguardi. Un episodio siffatto vale a dire un matrimonio, oppure la proposta o il rifiuto del medesimo - mette le
donne di qualunque casa in uno stato di estrema eccitazione e suscita in loro la
smania quasi isterica di prodigarsi in attenzioni e iniziative. Avido come sono di
studiare la natura umana, frequento spesso la chiesa di St. George, in Hannover
Square, nella stagione in cui vi si celebrano i matrimoni dell'aristocrazia. Ebbene,
non mi è mai accaduto di cogliere un'ombra di commozione negli amici dello
sposo o negli officianti la cerimonia, al contrario non di rado ho constatato come
le donne, anche se si tratta di estemporanee spettatrici (magari vecchie dame che
da gran tempo hanno superato l'età valida per gli sponsali, o donne mature
ingrassate dalle maternità, per non parlare delle giovinette in cuffia rosa che ormai
hanno raggiunto l'età idonea e a maggior ragione s'interessano a quello
spettacolo), non di rado ho constatato, dicevo, che le donne facilmente piangono,
singhiozzano celando il volto nei loro inutili fazzolettini, sconvolte dall'emozione,
senza distinzione alcuna fra vecchie e giovani. Quando un mio amico, il ben noto
John Pimlico, sposò Lady Belgravia Green Parker, tale e tanta fu l'eccitazione che
persino la vecchietta che distribuisce le sedie (ne diede una anche a me) e mastica
tabacco in continuazione aveva il viso bagnato di lacrime. Come mai?, mi chiesi.
Dopo tutto non è lei che si sposa.
Insomma, sta di fatto che, dopo la faccenda della proposta di nozze di Sir
Pitt, Miss Crawley e la Briggs si prodigarono in uno sfoggio di teneri sentimenti e
per loro Rebecca divenne l'oggetto del più affettuoso interessamento Quando
Becky era assente Miss Crawley cercava conforto nella lettura dei libri più
sentimentali che avesse in biblioteca. La piccola Miss Sharp, che celava in cuore
il suo muto dolore, era il personaggio del momento.
Quella sera Rebecca cantò più dolcemente e conversò nel modo più
piacevole di quanto le fosse mai accaduto prima di allora nella casa di Park Lane.
Il cuore di Miss Crawley era ormai completamente suo. E in quanto alla profferta
di Sir Pitt, trovò modo di parlarne in termini scherzosi, di ridicolizzarla
tacciandola d'esser stata l'insana fantasia di un povero vecchio. Nondimeno aveva
gli occhi pieni di lacrime, e il cuore della Briggs veniva trafitto dagli acuminati
strali della gelosia mentre Rebecca dichiarava di non coltivare altro desiderio se
non quello di restare per sempre al fianco della sua amata benefattrice. «Mia
cara,» rispose la vecchia signora, «non vi permetterò di andarvene. Intendo
trattenervi con me per anni, di questo siate pur certa. Quanto poi a tornare nella
residenza di quel mio insoffribile fratello, dopo quanto è accaduto non è
nemmeno il caso di parlarne. Voi ve ne starete qui insieme con me e la Briggs. La
Briggs esprime spesso il desiderio di recarsi a trovare i suoi parenti. Ebbene,
Briggs, potete andare a trovarli quando vi pare; quanto a voi, mia cara, dovrete
starvene qui e aver cura di questa povera vecchia.»
Se in quel momento Rawdon Crawley fosse stato presente, invece di oziare
al Circolo bevendo nervosamente del borgogna, la coppia avrebbe potuto
inginocchiarsi senza por tempo in mezzo ai piedi della vecchia signorina e
ottenerne l'immediato perdono. Ma quell'occasione tanto favorevole andò in
fumo, senza dubbio perché la nostra storia potesse esser scritta, storia nella quale
vengono riferite alcune delle loro mirabolanti avventure. E tali avventure non
sarebbero mai accadute se Rebecca e Rawdon fossero stati accolti e accettati nel
confortevole ma poco interessante perdono di Miss Crawley.
Alle dirette dipendenze di Miss Firkin c'era, nella casa di Park Lane, una
ragazza dello Hampshire la quale, fra altre mansioni, aveva anche quella di
bussare all'uscio di Miss Sharp recandole quella brocca d'acqua calda che la
Firkin sarebbe morta piuttosto che portarla di persona all'odiata intrusa. La
giovane, cresciuta nelle terre di proprietà dei Crawley, aveva un fratello che
prestava servizio fra le truppe al comando del capitano Crawley e, se fosse lecito
raccontare ogni minima cosa, forse salterebbe fuori che costei era edotta su certi
episodi intimamente connessi con la nostra storia. Ad ogni modo un fatto è certo:
costei si comperò uno scialle giallo, un paio di stivaletti verdi e un cappello
azzurro adorno di una penna rossa, pagando il tutto con tre ghinee donatele da
Rebecca; e siccome quest'ultima era tutt'altro che incline a elargire prodigalmente
il suo denaro, occorre dedurne che Betty Martin le aveva reso qualche prezioso
servigio ottenendo la suddetta ricompensa.
Il giorno successivo alla proposta rivolta da Sir Pitt a Miss Sherpa il sole si
levò come il solito, e come il solito Betty Martin, la cameriera, picchiò all'uscio
della camera da letto dell'istitutrice. Non avendo alcuna risposta, tornò a
picchiare. Silenzio. Allora Betty, reggendo la brocca in mano, spinse la porta ed
entrò nella stanza.
Il bianco lettino era liscio e rifatto con ogni cura, come il giorno innanzi
quando Betty aveva aiutato a rassettarlo con le proprie mani. In fondo al locale
c'erano due bauletti chiusi e legati, e sul tavolino di fronte alla finestra, su un
grosso e grasso puntaspilli foderato di rosa e adorno di un nastro arricciato come
quelli delle cuffie da notte delle signore, posava una lettera. Probabilmente
attendeva da tutta la notte.
Betty si avvicinò in punta di piedi, quasi avesse avuto timore di svegliarla...
La guardò, volse lo sguardo attorno con un'espressione mista di stupore e
soddisfazione; afferrò la lettera, se la rigirò tra le mani con un sorrisetto
compiaciuto e finalmente la portò da basso a Miss Briggs.
Come mai Betty intuì che la lettera era destinata a Miss Briggs? Mi
piacerebbe proprio saperlo. Infatti l'unica forma d'istruzione che Betty avesse
ricevuto in vita sua era quella della scuola di catechismo di Mrs. Bute Crawley, e
quindi non sapeva leggere più di quanto sapesse scrivere l'ebraico.
«Tenete, Miss Briggs,» disse Betty. «Dev'essere accaduto qualcosa. Nella
camera di Miss Sharp non c'è nessuno, nel letto non ci ha dormito. Dev'essere
scappata con uno e ha lasciato questa lettera per voi.»
«Cosa?» gridò Miss Briggs lasciandosi sfuggire il pettine di mano, mentre il
codino di capelli scoloriti le ricadeva sulle spalle. «Scappata con un uomo? Miss
Sharp è scappata? Cooosa?» Dopo di che ruppe con gesto ansioso il sigillo di
ceralacca e, come si suoi dire, «divorò» il testo della missiva a lei indirizzata.
Cara Miss Briggs, scriveva la fuggitiva, il vostro cuore, è il più tenero del
mondo, avrà compassione di me, saprà comprendermi e scusarmi. Tra le lacrime,
le preghiere, le benedizioni, lascio la casa dove una povera orfana quale io sono
altro non trovò che gentilezza d'animo e incondizionato affetto. Diritti superiori
perfino a quelli che competono alla mia benefattrice mi sollecitano altrove. Vado
da mio marito, spinta dal mio dovere. Sì, sono sposata, e mio marito mi ingiunge
di seguirlo nella sua casa. Siate voi, cara Miss Briggs, a darne la notizia alla mia
diletta amica e benefattrice col garbo e la discrezione che il vostro tatto sapranno
suggerirvi. Ditele che prima di andarmene ho pianto sul suo guanciale, quel
guanciale che ho sprimacciato tante volte durante la sua malattia, e accanto al
quale anelo tuttora di ritornare. Ah, si bramo di far ritorno nella casa di Park
Lane, e come tremo per la risposta che sancirà il mio destino! Quando Sir Pitt si
degnò di chiedermi in sposa, onore che secondo la mia beneamata Miss Crawley
(la benedico per aver giudicato questa povera orfana degna di diventare sua
sorella) io meritavo, confessai a Sir Pitt di essere già sposata. Anch'egli mi
accordò il suo perdono, ma in quel momento mi mancò il coraggio di dirgli tutto:
e cioè che non potevo essere sua moglie perché ero sua figlia! Sono sposata al
migliore e al più generoso degli uomini. Il Rawdon di Miss Crawley è il mio
Rawdon. Ora egli mi ha ordinato di rivelare tutto, ed io lo seguo nella nostra
modesta casetta, come del resto lo seguirei in qualsiasi parte del mondo. Ottima,
gentilissima amica, ve ne supplico: intercedete presso l'amatissima zia del mio
Rawdon; intercedete per lui e per la povera fanciulla alla quale tutti i membri
della sua nobile famiglia hanno tributato ineguagliabili attenzioni d'affetto.
Scongiurate Miss Crawley di voler ricevere i suoi figli. Non posso aggiungere
altro, se non invocare infinite benedizioni sulla diletta dimora che lascio.
La vostra affezionata e riconoscente
Rebecca Crawley
Mezzanotte
Nel momento stesso in cui la Briggs terminava di leggere questo
commovente e memorabile documento che la reintegrava nel suo ruolo di
confidente di Miss Crawley, Mrs. Firkin entrò nella stanza. «Mrs. Bute Crawley è
arrivata or ora in diligenza e vorrebbe una tazza di tè. Volete scendere e preparare
la colazione? Miss Briggs?»
Stringendosi la veste da camera attorno al corpo, il codino di capelli sfatto
che le sventolava sulle spalle e i diavolini di carta che le incorniciavano la fronte,
la Briggs volò al piano di sotto seguita dallo sguardo stupefatto della Firkin. La
sua mano impugnava ancora la lettera che conteneva quella strabiliante notizia.
«Che pasticcio, Mrs. Firkin!» esclamò Betty. «Miss Sharp è scappata col
capitano e sono a Gretney Green!»
Volentieri dedicheremmo un capitolo ai sentimenti di Mrs. Firkin, se la
nostra più nobile e gentile musa non fosse già impegnata nella descrizione dei
sentimenti della sua padrona.
Quando Mrs. Bute Crawley che, intirizzita dal viaggio notturno, si scaldava
davanti alla fiamma scoppiettante del caminetto acceso poc'anzi in salotto, ebbe
dalla Briggs la rivelazione di quel matrimonio clandestino, dichiarò che il suo
arrivo era veramente provvidenziale: avrebbe aiutato la povera Miss Matilda a
sopportare quel colpo terribile. Aggiunse che Rebecca era una piccola intrigante
che aveva sempre suscitato la sua diffidenza; quanto poi a Rawdon, non era mai
riuscita a spiegarsi come mai la vecchia zia ne fosse a tal punto infatuata:
quell'uomo (lei lo aveva sempre pensato) era un libertino, un essere corrotto e
senza timor di Dio. Quell'imperdonabile malefatta, commentò Mrs. Bute Crawley,
avrebbe avuto quantomeno l'effetto benefico di squarciare il velo che offuscava
gli occhi della povera, cara Matilda, rivelandole la vera natura di quell'individuo
perverso. Dopo di che Mrs. Bute Crawley si riconfortò con una buona tazza di tè
bollente accompagnata da pane tostato, e dal momento che adesso nella casa c'era
una camera a disposizione, decise senz'altro che non valeva la pena alloggiare al
Gloster Coffee-House, dove aveva preso alloggio scendendo dalla diligenza di
Portsmouth, e ordinò al domestico, primo aiutante di Mr. Bowls, di andare a
ritirare i suoi bagagli.
Occorre precisare che Miss Crawley non lasciava mai la propria camera
prima di mezzogiorno. La mattina sorbiva a letto la sua cioccolata, mentre Becky
le leggeva il «Morning Post», oppure indugiava in qualche passatempo, o
gironzolava per la stanza. Pertanto, al piano di sotto, le cospiratrici deliberarono
di risparmiare tanto strazio alla vecchia dama fino a quando avesse fatto la sua
comparsa in salotto. Nel frattempo le annunciarono che Mrs. Bute Crawley era
arrivata dallo Hampshire in diligenza, alloggiava al Gloster, porgeva i suoi
affettuosi omaggi a Miss Matilda e aveva chiesto di far colazione con Miss
Briggs. Questa visita, che in qualsiasi altro momento non sarebbe stata certo
salutata con gioia, nella presente circostanza fu invece oggetto del più vivo
piacere. Infatti Miss Crawley preconizzava il gusto di conversare con la cognata
della defunta Lady Crawley, dei preparativi per le esequie imminenti e
dell'inopinata proposta di matrimonio rivolta a Rebecca da Sir Pitt.
Solo quando la vecchia dama si fu accomodata per bene nella abituale
poltrona e le due signore ebbero scambiato le effusioni di rito e le prime domande
di prammatica, le cospiratrici ritennero che fosse giunto il momento di sottoporla
all'operazione. Chi di voi non ha avuto occasione di ammirare i «delicati»
accorgimenti mediante i quali le donne «preparano» le loro amiche a ricevere una
brutta notizia? Le due amiche di Miss Crawley allestirono un tale apparato di
mistero prima di rivelarle l'accaduto, da portare la vecchia a un grado
indispensabile di dubbio e di allarmata ansietà.
«Vedete, ha rifiutato Sir Pitt, mia cara, cara Matilda, perché... perché...
dovete prepararvi, mia cara...» balbettava Mrs. Bute Crawley, «... perché non
poteva agire altrimenti.»
«Una ragione c'era, questo è evidente,» rispose Miss Crawley, «lo dicevo
proprio ieri alla Briggs. Ama un altro.»
«Ama un altro?» intervenne la Briggs, ansante. «Cara amica, è già sposata.»
«Già sposata,» fece eco Mrs. Martha. Poi tacquero, le mani incrociate in
grembo, guardandosi a vicenda e spiando le reazioni della loro vittima.
«Mandatela da me non appena arriva. Quella piccola, indegna bugiarda!
Come ha osato sottacermelo?» esclamò Miss Crawley.
«Non verrà tanto presto. È, bene che ve ne rendiate conto, mia cara. Se n'è
andata per molto tempo... Se n'è andata per sempre.»
«Mio Dio, chi sarà d'ora in poi a prepararmi la cioccolata? Fatela chiamare,
presto. Esigo che torni subito!» strillò la vecchia signorina.
«È fuggita la scorsa notte...» disse Mrs. Bute Crawley.
«E ha lasciato una lettera per me...» aggiunse la Briggs.
«Ha sposato...»
«Preparatela, cara Miss Briggs... Non torturatela così, per amor del cielo!»
«È sposata con chi?» urlò la zitella in un impeto di collera.
«Con un parente di... di...»
«Ha rifiutato Sir Pitt,» strillò la vittima, «coraggio, parlate se non volete che
impazzisca!»
«Mia cara... preparatela, Miss Briggs... Ha sposato Rawdon Crawley.»
«Rawdon sposato... Rebecca... l'istitutrice... nessuno... fuori dalla mia casa,
stupida, idiota, vecchia imbecille di una Briggs... Come vi permettete? E anche
voi li avete aiutati Martha! Siete voi che li avete fatti sposare, sperando che non
avrei lasciato a lui il mio denaro! Siete stata voi, Martha!» urlò la povera donna a
frasi mozze.
«Io, signora? Io esortare un membro della nostra famiglia a sposare la figlia
di un maestro di disegno?»
«Sua madre era una Montmorency!» gridò la vecchia tirando il cordone del
campanello con tutte le sue forze.
«Sua madre era una ballerina dell'Opera,» replicò Mrs. Bute Crawley, «e
anche lei ha battuto le scene, se non ha combinato anche di peggio.» Miss
Crawley diede in un altro urlo, poi ricadde svenuta nella poltrona. Fu giocoforza
riportarla in camera da letto donde era appena scesa. Fu un susseguirsi incessante
di crisi isteriche. Qualcuno andò in cerca del medico; poi venne anche il
farmacista. Mrs. Bute Crawley si pose al capezzale. «I parenti debbono aver cura
di lei,» disse la squisita signora.
Miss Crawley era appena stata trasferita nella sua camera, quando giunse un
altro visitatore al quale fu necessario dare la stessa notizia. Era Sir Pitt.
«Dov'è Becky?» domandò, nell'atto stesso di entrare.
«Dove sono le sue valigie? Deve venire con me a Queen's Crawley.»
«Non vi è giunta la straordinaria notizia del suo matrimonio segreto?»
«Cosa me ne importa?» rispose Sir Pitt. «Lo so che è sposata, ma questo non
cambia niente. Ditele di scendere immediatamente. Non ho intenzione di
aspettare.»
«Ma non sapete,» continuò Miss Briggs, «che ha lasciato di nascosto la casa,
piombando nella disperazione Miss Crawley, la quale per poco non è morta
quando è venuta a sapere della sua unione con il capitano Crawley?»
Quando Sir Pitt apprese che Rebecca aveva sposato suo figlio, dalla sua
bocca uscì un tale diluvio di parole, che certo non possiamo riferire in questa
sede, se è vero che la povera Briggs dovette uscire rabbrividendo dalla stanza. E
insieme con lei chiudiamo la porta sulla figura di quel vecchio esagitato, reso
furente dall'odio e pazzo dal desiderio inappagato.
Il giorno dopo, non appena fu di ritorno a Queen's Crawley, piombò come
un folle nella camera che Rebecca aveva occupato durante la sua permanenza
nella dimora avita dei Crawley, fracassò a calci le valigie e le cappelliere, buttò
all'aria tutte le carte, gli abiti, gli oggetti che lei vi aveva lasciato. La figlia di
Horrocks, il maggiordomo, si prese qualche vestito, e le bambine s'impadronirono
degli altri per travestirsi e giocare al teatro. Pochi giorni erano trascorsi da quando
la loro madre giaceva nella sua solitaria sepoltura, dov'era deposta, senza
rimpianto e senza una parola di rispetto alla sua memoria, in una cripta popolata
da estranei.
«E se la vecchia non mollasse?» chiese Rawdon alla mogliettina, mentre se
ne stavano seduti l'uno accanto all'altra nell'intimità del loro appartamentino di
Brompton. Per tutta la mattina Rebecca aveva suonato il nuovo pianoforte. I
guanti nuovi le andavano a pennello, gli scialli nuovi le stavano a meraviglia, gli
anelli nuovi le scintillavano alle dita e il nuovo orologio le ticchettava alla vita,
appeso al collo con una catenella. «E se non mollasse, eh, Becky?»
«Allora ci penserò io a fare la tua fortuna,» rispose Rebecca. E Dalila diede
un buffetto alla guancia del suo Sansone
«Tu sai fare tutto,» disse lui baciandole la manina: «Per Giove se lo puoi!
Ed ora andiamo a cena allo Star and Garter, per Giove!»
XVII • COME IL CAPITANO DOBBIN ACQUISTÒ UN PIANOFORTE
Se alla Fiera della Vanità esiste uno spettacolo al quale la Satira e il
Sentimento si recano a braccetto; dove è dato d'imbatterci nei più curiosi
contrasti, nel riso o nel pianto; dove siete affatto liberi di mostrarvi gentili e
patetici, rozzi e cinici, si tratta certo di una di quelle pubbliche riunioni i cui
annunci riempiono quotidianamente l'ultima pagina del «Times», e alle quali il
compianto Mr. George Robins presiedeva con molta dignità. Credo che siano ben
pochi i londinesi che, almeno una volta in vita loro, non abbiano assistito ad una
di codeste riunioni, e tutti coloro che sono inclini a meditare sulle molteplici
congiunture della vita debbono aver pensato (con un subitaneo brivido di
sgomento) al giorno in cui sarebbe venuto il loro turno, e Mr. Hammerdown
avrebbe venduto per ordine dei commissari di Diogene - in conformità alle
istruzioni degli esecutori testamentari -, mettendo all'incanto la mobilia, il
vasellame, la biblioteca, il guardaroba e la selezionatissima cantina del defunto
Epicuro.
Anche il più cinico rappresentante della Fiera della Vanità non può
reprimere un moto di compassione e di rimpianto quando gli capiti di presenziare
a questa fase particolarmente squallida delle esequie di un amico. I resti di Lord
Dives giacciono ormai nella cappella di famiglia e gli scalpellini stanno incidendo
l'epigrafe nella quale sono esaltate le virtù del defunto e il dolore dell'erede il
quale, nello stesso momento, sta vendendo all'asta quelli che furono i suoi averi.
Quanti, fra coloro che in altri tempi conobbero l'abituale ospitalità alla sua tavola,
possono passare davanti alla sua casa un tempo così familiare, senza un sospiro di
pena? Quella casa tanto familiare ove le luci brillavano allegramente a partire
dalle sette di sera, ove le porte si aprivano con assoluta prontezza, ove i domestici
compiti e cortesi facevano echeggiare il vostro nome dall'uno all'altro pianerottolo
mentre voi salivate l'ampia scalea, fino a giungere nella sala dove l'allegro Lord
Dives dava il benvenuto agli amici! Quanti ne aveva, e con quale cordiale, nobile
munificenza sapeva accoglierli. E come si mostravano spiritosi, in quella casa, gli
stessi uomini che altrove apparivano cupi e imbronciati! E com'erano
vicendevolmente amichevoli e cordiali le persone che, fuori da quelle mura, si
detestavano e sparlavano le une delle altre! Lui era fatuo e vanesio, ma aveva un
cuoco coi fiocchi; quindi c'era forse qualcosa che Tizio o Caio non fossero
disposti a tollerare Anzi, diciamo francamente che era piuttosto stupido, ma vini
come i suoi non avevano forse il potere di rendere gradevole qualsivoglia
conversazione? «Dobbiamo cercare di procurarci un po' del suo Borgogna, a
qualsiasi prezzo!» si dicevano al Circolo quanti ne compiangevano la sorte. «Ho
comperato questa scatola all'asta del vecchio Dives,» diceva Pincher mostrandola
all'uno e all'altra. «Bella, vero? In origine apparteneva ad una delle amanti di
Luigi XV. La miniatura è deliziosa.» Poi, eccoli cianciare di come ora il giovane
Dives stia sperperando i beni paterni.
E la casa! Com'è mutata! La facciata è costellata di manifesti che descrivono
a caratteri cubitali le caratteristiche dei singoli mobili. Uno straccio di tappeto è
stato appeso ad una delle finestre dei piani superiori, mentre sei o sette facchini
attendono sonnecchiando sui gradini sudici. L'atrio è invaso da una turba di
curiosi individui d'aspetto orientale che v'infilano tra le mani dei bigliettini di
presentazione e s'incaricano di fare le offerte. Vecchie signore e una turba di
amatori si aggirano per i locali dei piani superiori e tastano le cortine del
baldacchino del letto, infilano la mano tra i piumini, sollevano e premono i
materassi, aprono e richiudono i cassetti dei guardaroba. Giovani signore
intraprendenti misurano tendaggi e specchiere per vedere se possano essere
utilizzati nella casa che stanno allestendo (Mr. Snob menerà vanto per un anno
almeno di aver comperato questo o quell'oggetto all'asta del vecchio Dives),
mentre Mr. Hammerdown siede alla grande tavola di mogano in sala da pranzo,
agitando il martelletto d'avorio e facendo appello a tutte le arti dell'eloquenza:
entusiasmo, supplica, forza di persuasione, disperazione, e spronando altresì i suoi
aiutanti, dileggiando la lentezza di Mr. Davids, incoraggiando Mrs. Moss a
decidersi, invocando, ordinando, urlando. Finché, alla fine, giù! Il martelletto si
abbatte sulla tavola e si passa al lotto successivo. Ahimè, Dives, come avremmo
potuto immaginare, quando sedevamo attorno alla grande tavola ricoperta di
candidi lini e scintillante di bicchieri e caraffe di cristallo, che a capo di quella
stessa tavola avremmo visto ruggire quell'esagitato banditore?
L'asta volgeva al termine. La splendida mobilia del salotto, opera di provetti
artigiani, i vini rari e di gran fama, scelti senza badare a spese e col ben noto gusto
di colui che li aveva comperati, il sontuoso servizio di piatti erano già stati
venduti il giorno innanzi. Alcuni dei vini migliori (tutti oggetto di gran fama tra i
buongustai del vicinato) erano già stati acquistati per conto del suo padrone che li
conosceva benissimo, dal maggiordomo del nostro amico Mr. John Osborne, di
Russell Square. Una modesta sezione del vasellame di più immediata utilità era
stata comperata da un gruppo di giovani agenti di cambio della City. Ora, dato
inizio alla vendita delle suppellettili di maggior pregio, ecco che il banditore era
più che mai impegnato ad esaltare le preclare virtù di un quadro, caldeggiandone
l'acquisto presso il pubblico, assai meno numeroso e scelto che nei giorni
precedenti.
«Numero 369!» gridò la voce tonante di Mr. Hammerdown. «Ritratto di un
gentiluomo su un elefante. Chi fa un'offerta per il gentiluomo in groppa
all'elefante. Sollevate il quadro, Blowman, così i signori avranno agio di osservare
meglio il dipinto.»
Un signore alto, magro, pallido, che sedeva alla tavola di mogano (lo si
sarebbe detto un ufficiale) non poté trattenere un sorrisetto alla vista di quel
pregevole dipinto che Mr. Blowman mostrava all'inclito pubblico. «Fate vedere
l'elefante al capitano Blowman,» disse Hammerdown. «Signore, qual è la vostra
offerta?» Ma il signore di colpo si fece rosso e distolse lo sguardo, palesemente
turbato, e il banditore ebbe rispetto per il suo turbamento.
«Diciamo venti ghinee per quest'opera d'arte? Quindici? Cinque? A voi il
prezzo. Il gentiluomo senza elefante vale cinque sterline.»
«Non si riesce a capire come mai non siano ruzzolati a terra tutti e due,»
disse un tale, facile alle battute di spirito. «Il gentiluomo è un carico tutt'altro che
irrilevante.» E questa uscita (dal momento che, in effetti, l'uomo issato
sull'elefante era piuttosto corpulento) corse per la sala un breve scoppio di risa.
«Non cercate di sminuire questo pezzo agli occhi dello spettabile pubblico,
Mr. Moss,» intervenne Mr. Hammerdown, «spetta ai signori apprezzare
quest'opera d'arte. Osservino il naturale atteggiamento dell'animale, il signore in
giacca di camoscio che regge in mano il fucile, si accinge a recarsi a una partita di
caccia. Lontano, una pagoda e un albero di banane, e tale sfondo riproduce
fedelmente qualche angolo pittoresco di uno fra i nostri splendidi possedimenti
nelle Indie orientali. Quanto offrite per un pezzo simile? Suvvia, signori, non
fatemi star qui tutto il giorno!»
Qualcuno offrì sei scellini. Al che l'ufficiale guardò nella direzione donde
proveniva quella generosissima offerta e scorse un altro militare a braccetto con
una giovane signora: a quanto pareva, quella scena li divertiva moltissimo, e il
quadro alla fine venne assegnato per mezza ghinea. Il turbamento dell'ufficiale
seduto alla tavola aumentò notevolmente quando li riconobbe; pertanto ritrasse il
capo nell'ampio colletto dell'uniforme, volse loro le spalle e con tale gesto mostrò
in modo irrefutabile la sua precisa intenzione di voler scansare la coppia.
Non abbiamo l'intenzione di elencare in questa sede tutti gli altri oggetti che
quel giorno Mr. Hammerdown ebbe l'onore di offrire all'incanto, fatta eccezione
per un piccolo pianoforte verticale (quello a coda era già stato venduto) che scese
dai piani superiori della casa. La giovane signora cui abbiamo accennato lo provò
brevemente facendovi scorrere le sue agili dita (cosa che di nuovo fece arrossire e
trasalire l'allampanato ufficiale) e il suo agente, quando ebbe inizio la vendita,
avanzò un offerta.
Ma la cosa non andò per le spicce, poiché l'ebreo che operava per conto
dell'ufficiale seduto alla tavola si mise in gara con l'altro ebreo che agiva per
conto di chi aveva acquistato l'elefante. Ne derivò una contesa piuttosto vivace
per il possesso del piccolo pianoforte, nella quale i due aspiranti alla proprietà
dell'oggetto in questione venivano stimolati da Mr. Hammerdown.
Alla fine, dopo che la contesa si fu prolungata per un certo lasso di tempo, il
capitano e la giovane signora dell'elefante rinunciarono. Il banditore abbatté sulla
tavola il martelletto e disse: «A voi, Mr. Lewis. Venticinque.» Pertanto
l'incaricato che operava per conto di Mr. Lewis divenne il proprietario del piccolo
pianoforte. Assicuratosi l'acquisto, sedette impettito con l'aria di chi trae un gran
sospiro di sollievo; fu in quel momento che i due contendenti sconfitti lo notarono
e la giovane signora disse al suo compagno:
«Rawdon, ma quello è il capitano Dobbin!»
Chissà, forse Becky era poco soddisfatta del piano che suo marito le aveva
preso in affitto, oppure il proprietario dello strumento era venuto a riprenderselo
rifiutando di concederne ulteriormente l'uso a credito, o forse ella era affezionata
all'oggetto che aveva tentato di comperare perché le ricordava i giorni in cui era
solita suonarlo nel salottino della nostra amica Amelia Sedley.
L'asta si svolgeva nella vecchia casa di Russell Square, ove abbiamo
trascorso qualche serata nei primi capitoli della nostra storia. Il vecchio John
Sedley era rovinato, pover'uomo. In Borsa era stato dichiarato insolvente, al che
erano seguiti la bancarotta e il totale fallimento. Il maggiordomo degli Osborne si
era recato ad acquistare qualche bottiglia di quel famoso vino di porto, onde
trasferirlo nelle cantine della casa di fronte. Una dozzina di forchette e cucchiai
d'argento d'ottima fattura venduti a peso, e una dozzina di posate da frutta vendute
alla stessa maniera, misero relitto di tanto naufragio, furono inviati coi loro
ossequi a Mrs. Sedley da tre giovani agenti di cambio (per l'esattezza si trattava di
Dale, Spiggot e Dale, di Threadneedle Street), i quali erano stati in rapporti
d'affari con John Sedley e da lui avevano avuto cortesie all'epoca in cui il vecchio
signore era cortese con tutte le persone con le quali avesse a che fare. Quanto al
pianoforte di Amelia (la quale quasi certamente si doleva di esser costretta a
privarsene, perché poteva averne bisogno in futuro), è oltremodo probabile che il
capitano Dobbin non lo avesse comperato per sé, visto che non sapeva suonarlo
più di quanto sapesse ballare sulla corda.
In breve, quella sera stessa il pianoforte giunse in un minuscolo cottage
prospiciente una trasversale di Fulham Road, una di quelle viuzze che per lo più
hanno un nome romantico (e la stradina in questione si chiamava infatti St.
Adelaide Villas, Anna-Maria Road, West), dove le case sembrano case di
bambole e la gente affacciata al primo piano sembra sieda in salotto al
pianterreno; dove la siepe del piccolo giardino antistante la facciata è sempre
fiorita di grembiali di bimbi, di calzini rossi, di cuffiette eccetera (poliandria,
poliginia); dove echeggia il suono dei cembali e un canto di voci femminili, il sole
riscalda coi suoi raggi piccoli vasi appesi alle ringhiere; dove la sera rincasano
stanchi gli impiegati della City. Qui, appunto, si trovava l'abitazione di Mr. Clapp,
ex segretario di Mr. Sedley, ed era in questo rifugio ospitale che il buon vecchio
era venuto a nascondersi, insieme con la moglie e la figlia, dopo la catastrofe.
Quando ebbe la notizia della calamità che aveva colpito la sua famiglia, Jos
Sedley si comportò esattamente come si sarebbe comportato un uomo della sua
indole. Non tornò a Londra, ma scrisse a sua madre autorizzandola a rivolgersi ai
funzionari della sua banca e a prelevare qualunque somma fosse loro necessaria.
Pertanto i suoi poveri, vecchi genitori non avevano, per il momento, da temere la
povertà. Preso questo provvedimento, Jos Sedley aveva continuato la solita vita,
alloggiando come sempre all'albergo di Cheltenham. Continuò imperterrito a bere
il suo vino preferito, a guidare il calesse, a giocare a carte, a raccontare fino alla
nausea le sue avventure in India e a farsi consolare e lusingare dalla vedova
irlandese. Quel regalo in denaro, per quanto necessario, non valse a confortare i
suoi genitori, e Amelia ebbe a confidare che il primo giorno in cui vide il padre
sollevare il capo dopo il fallimento fu quello in cui arrivò l'involto con le posate,
inviategli con un biglietto affettuoso dai giovani agenti di cambio. A quella vista
scoppiò in lacrime come un bambino, ed era perfino più commosso di sua moglie
alla quale quel dono era personalmente indirizzato.
Il più giovane degli agenti di cambio che avevano comperato le posate,
Edward Dale, aveva una marcata simpatia per Amelia, e nonostante la situazione
chiese la sua mano. Ciò non toglie che nel 1820 finisse con lo sposare Miss
Louisa Cutts, figlia di Mr. Cutts della Higham & Cutts (cospicui mercanti di
granaglie), la quale gli portò una ingentissima dote, ed oggi costui vive da rajà e
con numerosa prole nella sua elegante villa, a Muswell Hill. Ma non dobbiamo
consentire a questo degno personaggio di distrarci dal vivo del nostro racconto.
Voglio sperare che il lettore si sia fatto, del capitano e di Mrs. Crawley,
un'opinione sufficientemente positiva per rendersi conto che non si sarebbero mai
sognati di portarsi in un quartiere fuori mano come Bloomsbury, se avessero
immaginato che la famiglia che intendevano onorare di una loro visita fosse non
solo decaduta dal grado sociale di un tempo, ma addirittura spogliata d'ogni avere
e nell'impossibilità di tornare loro utile in qualsivoglia maniera. Rebecca fu
oltremodo sorpresa nel vedere la vecchia, confortevole dimora, ove aveva
ricevuto tante attenzioni, messa a sacco da agenti e rigattieri, mentre
innumerevoli, semplici cose, preziosi ricordi di famiglia, venivano abbandonati
alla profanazione e al saccheggio di estranei. Un mese dopo la sua fuga da Park
Lane aveva pensato ad Amelia, e Rawdon, con una risata cavallina, aveva
manifestato il suo soddisfatto compiacimento all'idea di rivedere il giovane
George Osborne. «È uno dei miei conoscenti più simpatici,» aveva commentato
tutto allegro, «mi piacerebbe vendergli un altro cavallo, Beck. Mi piacerebbe
anche farmi qualche partita a biliardo con lui. Capiterebbe a proposito, in un
momento simile, non ti pare, Mrs. C.? Ah! Ah! Ah!»
Da siffatti discorsi non si deve concludere che Rawdon Crawley si
proponesse di barare ai danni di George Osborne: nemmeno per sogno: voleva
solo sfruttare l'occasione propizia di quell'incontro per cavare un lecito profitto:
qualsiasi giovanotto della buona società non si aspetta altro dagli abboccamenti
col prossimo alla Fiera della Vanità.
Quanto alla vecchia zia, era lenta a cedere. Ormai era trascorso un mese, ma
Rawdon continuava ad esser messo alla porta da Mr. Bowls. I suoi domestici non
venivano ricevuti nella casa di Park Lane e le sue lettere gli venivano rese senza
nemmeno esser state dissuggellate. Miss Crawley, indisposta, non usciva mai di
casa, e Mrs. Bute Crawley, insediatasi in pianta stabile in Park Lane, non la
lasciava un solo istante.
Crawley e la moglie non vedevano nulla di buono nel perdurante soggiorno
di quest'ultima e covavano in seno sinistri presagi.
«Perdio, adesso capisco, finalmente, perché si dava un gran daffare a
favorire i nostri incontri a Queen's Crawley!» disse Rawdon.
«Che razza d'intrigante, quella donnaccola!» gli fece eco Rebecca.
«Se tu non hai rimpianti, io per conto mio non ne ho affatto,» continuò il
capitano, che continuava a vivere in uno stato di perenne ammirazione nel
confronti della consorte. Lei, anziché rispondergli, lo ricompensò con un bacio, e
in effetti nutriva la più viva soddisfazione per l'incondizionata fiducia che le
accordava il marito.
«Se solo avesse un po' più di cervello,» pensava, «potrei cavarne qualcosa.»
Ma evitò sempre col massimo scrupolo di fargli capire quale opinione avesse di
lui: ascoltava con instancabile, apparente divertimento le sue storielle da caserma,
rideva delle sue facezie, mostrava di interessarsi moltissimo alla disavventura di
Jack Spatterdash al quale s'era azzoppato un cavallo, e a quella di Bob Martingale,
colto in flagrante in una casa da gioco, nonché a un certo Tom Cinqbars che
avrebbe preso parte alla corsa ad ostacoli. Quando il marito rincasava, e lei si
faceva sempre trovare d'ottimo umore, quando lui manifestava il desiderio di
uscire non tentava di trattenerlo, e quando rimaneva in casa suonava e cantava per
lui, gli preparava qualcosa di speciale da bere, gli cucinava la cena, gli scaldava le
pantofole, era tutta attenzioni. Anche le donne migliori, diceva sempre mia nonna,
sanno essere ipocrite. Non sappiamo mai quel che ci nascondono, quanto siano
avvedute nei momenti in cui ci sembrano tutte ingenuità e fiducioso abbandono,
quali trappole vengano tese dietro l'ingannevole apparenza di quei sorrisi aperti e
spontanei, che in realtà mirano a imbrogliarci, a disarmarci, a svicolare da
qualcuno o qualcosa. E non mi riferisco soltanto ai sorrisi delle donne inclini alla
civetteria, ma anche a quelli delle signore o signorine che sono altrettanti modelli
di saggezza e virtù domestiche. Chi non ha mai avuto l'occasione di vedere una
donna ignorare di proposito la stupidità del marito, o calmarne gli eccessi di
collera inconsulta? E noi approviamo senza riserve queste amabili virtù e lodiamo
la donna che dimostra di possederle; scambiamo per autenticità questa forma di
garbato tradimento. D'altro canto una buona moglie non può non essere un'abile
diplomatica: il marito di Cornelia si lasciava ingannare come Putifarre... La
differenza stava solo nel modo.
A furia di attenzioni di questo tipo, Rawdon Crawley subì una vera e propria
metamorfosi: dall'inveterato gaudente che era si trasformò in un marito
sottomesso e felice. Un paio di volte accadde che qualcuno lo cercasse al suo
Circolo, ma in pratica nessuno risentì della sua mancanza. Nei baracconi della
Fiera della Vanità accade di rado che la gente senta il vuoto lasciato dai disertori.
La sua mogliettina segreta sempre gaia e sorridente, il piccolo appartamento così
accogliente, le cenette consumate en tête-à-tête, le serate casalinghe avevano il
fascino della novità, della clandestinità. Il matrimonio non era stato reso noto in
società, né la notizia del medesimo era apparsa sul «Morning Post»: se avessero
scoperto che Rawdon aveva sposato una donna senza dote, i creditori gli
sarebbero piombati addosso come avvoltoi. «Io non ho un solo parente che si
dolga della mia sparizione,» diceva Rebecca con un malinconico sorriso.
Aspettava con pazienza che la vecchia zia accordasse il suo perdono prima di
reclamare il posto che le competeva in società. Pertanto viveva tranquilla e
riservata nel quartiere di Brompton, senza vedere anima viva, fatta eccezione per
qualche amico del marito ch'era stato ammesso in casa loro ed era assolutamente
affascinato dalla sua persona. Coloro che partecipavano a quei piccoli parties
apprezzavano le cenette, le risate, i piacevoli conversari, la musica dopo il pasto.
Il maggiore Martingale si guardava bene dal chiedere il certificato di matrimonio,
il capitano Cinqbras lodava la perizia di Mrs. Crawley nel preparare il punch, e il
giovane tenente Spatterdash, che giocava volentieri una partita a piquet e che
Crawley incontrava con particolare frequenza, era stato immediatamente colpito
dalle grazie di Becky. Ma lei non veniva mai meno alla sua abituale modestia e
riservatezza, e d'altronde le serviva da usbergo la fama di geloso e abile
spadaccino di cui godeva suo marito.
Vi sono uomini d'ottima estrazione e appartenenti al bel mondo che non
mettono mai piede nei salotti delle signore. Pertanto, sebbene la notizia del
matrimonio di Rawdon Crawley, prontamente divulgata da Mrs. Bute Crawley,
fosse a tutti nota nello Hampshire, a Londra fluttuava vaga ed incerta e la gente
non ne parlava, o quantomeno non mostrava di interessarsene. Rawdon
continuava a vivere allegramente di crediti, avendo alle spalle uno di quei capitali
basati sul debito che, qualora vengano oculatamente amministrati, permettono a
un uomo di tirare avanti benone per anni e anni e grazie ai quali non pochi
londinesi riescono a vivere molto meglio di chi è provvisto di quattrini sonanti.
Sfido chiunque ad asserire di non conoscere a Londra una mezza dozzina di
persone che gli passano accanto in sella a magnifici cavalli mentre lui se ne va a
piedi, che sono oggetto della generale adulazione, alle quali s'inchinano i
commercianti quando passano in carrozza, che non si privano di nulla, e che
peraltro non si sa di cosa vivano? Ecco, per esempio, Jack Thriftless che caracolla
lungo i viali di Hyde Park in groppa al suo destriero, o sfreccia per Pall Mall nella
sua carrozza. Prendiamo parte alle sue cene servite con gran sfoggio di argenteria.
«Che origine ha tutto ciò?» siamo indotti a chiederci. «Come andrà a finire?»
«Caro mio, ho debiti in ogni capitale d'Europa,» mi ha confidato Jack, una volta.
Un giorno o l'altro la fine verrà, ma nel frattempo Jack conduce vita da nababbo,
la gente è onorata di stringergli la mano, simula di ignorare le storielle
imbarazzanti che circolano sul suo conto e di lui va dicendo che è un uomo
cordiale, infaticabile, di ottimo carattere.
Rendiamo onore alla verità, e riconosciamo senz'altro che Rebecca aveva
sposato un uomo di questa specie. In casa c'era di tutto, ma il denaro liquido
scarseggiava, e ben presto il giovane ménage ne sentì la necessità; e fu leggendo
sulla «Gazette» che «il tenente G. Osborne compera il grado di capitano
subentrando a Smith, trasferito», che Rawdon aveva espresso il desiderio
d'incontrarsi con l'innamorato di Amelia. Di qui la visita dei coniugi Crawley in
Russell Square.
Quando, nel corso dell'asta pubblica, Rawdon e la moglie cercarono di
abboccarsi con Dobbin per informarsi sui motivi di quel disastro, il capitano si era
già dileguato, ed essi poterono ottenere solo qualche notizia generica
interpellando i facchini o gli agenti.
«Guardali con quei loro nasi a becco,» commentò Becky divertita, mentre
risaliva sul calesse tenendo il quadro sottobraccio. «Sembrano avvoltoi dopo una
battaglia.»
«Davvero? Non saprei dirti, cara. Non ho mai preso parte a una battaglia.
Devi chiederlo a Martingale. Lui è stato in Spagna, era aiutante di campo del
generale Blazes.»
«Era proprio una brava persona, il vecchio Sedley,» disse Rebecca. «Sono
davvero spiacente che sia andato in malora.»
«Poh! Gli agenti di cambio sono abituati ai fallimenti...» rispose Rawdon,
mentre con la frusta scacciava una mosca dall'orecchio del cavallo.
«Mi sarebbe piaciuto aver denaro abbastanza per poter rilevare un po' di
quell'argenteria,» continuò la moglie in tono sentimentale. «Venticinque ghinee
per quel piccolo pianoforte sono un prezzo semplicemente pazzesco. L'avevano
scelto da Broadwood per Amelia quando ha lasciato il collegio. Costava soltanto
trentacinque ghinee.»
«Quel tale... sì, come si chiama?... quell'Osborne la pianterà certamente in
asso, ora che la famiglia è sul lastrico. Poverina! La tua piccola amica ne soffrirà,
vero, Becky?»
«Oh, credo proprio che finirà per consolarsi,» rispose Becky con un sorriso.
E il calesse si avviò, mentre i due occupanti si affrettavano a cambiare argomento.
XVIII • CHI SUONÒ IL PIANOFORTE ACQUISTATO DAL CAPITANO
DOBBIN?
Stupefatto, il nostro racconto scopre d'essere momentaneamente coinvolto
fra personaggi e avvenimenti famosi, e sfiora addirittura eventi storici. Mi
domando se per caso le aquile dell'avventuriero corso Napoleone Buonaparte,
volando di campanile in campanile dalla Provenza (ove si erano posate dopo la
breve permanenza all'isola d'Elba) fino a Notre-Dame, abbiano gettato uno
sguardo su un angolino della parrocchia di Bloomsbury, in quel di Londra, in
apparenza così tranquilla che persino lo sbattere di quelle ali possenti avrebbe
potuto passare inosservato.
«Napoleone è sbarcato a Cannes.» Una notizia siffatta poteva seminare il
panico a Vienna, obbligare la Russia a mettere le carte in tavola, costringere la
Prussia in un vicolo cieco e indurre Talleyrand e Metternich a dar di piglio al loro
estro politico, mentre il principe di Hardenberg e perfino l'attuale marchese di
Londonderry, il nostro ambasciatore a Londra, potevano trovarsi interdetti,
nell'incapacità di giungere a una deliberazione. Ma come poteva una notizia del
genere colpire una fanciulla abitante in Russell Square, una fanciulla davanti alla
cui abitazione il guardiano notturno scandiva con voce cantilenante le ore mentre
lei dormiva, che, se si aggirava per la piazza, era protetta da guardie e inferriate,
che se si spingeva non più lontano di Southampton Row per comperare un nastro
era seguita dal nero Sambo, armato di un solido bastone? Che era sempre stata
oggetto di mille attenzioni, che tanti angeli custodi, con o senza salario, avevano
sempre vestito, svestito, messo a letto e tenuto sotto la loro ala tutelare? Bon Dieu,
mi vien fatto di dire, non è forse una sorte crudele che l'impeto fatale della grande
disputa imperiale non possa svolgersi senza toccare una povera, innocente
diciottenne che pensa soltanto al suo amore e a ricamare colletti di mussola fra le
mura della sua casa in Russell Square? Dunque, tu pure, esile fiorellin di prato,
sarai spazzato dall'impeto fragoroso della tempesta, sebbene tu cerchi rifugio
all'ombra protettrice di Holborn? Eppure sì: Napoleone ha giocato l'ultima carta e
in certa misura la felicità della povera Emmy Sedley dipende dall'esito del suo
gioco.
Per cominciare, quella notizia fatale ebbe il potere di vanificare il
patrimonio di suo padre. Nell'ultimo periodo tutte le speculazioni erano andate a
rotoli, per il pover'uomo perseguitato dalla malasorte. Addio buone occasioni, i
fallimenti si erano susseguiti, l'uno dopo l'altro. I titoli di stato erano saliti proprio
nel momento in cui egli credeva che sarebbero scesi. Ma a che serve indugiare sui
particolari. La fortuna è rara e lenta, mentre tutti sanno quanto facile e rapida sia
la disgrazia. Il vecchio Sedley, al colmo dello sconforto, aveva nascosto la verità
alla famiglia, tutto sembrava procedere come al solito in quella casa ove regnava
la più larga agiatezza. La brava moglie dell'agente di cambio continuava a vivere
nel suo ozio consueto, del tutto ignara, impegnata soltanto nelle solite incombenze
domestiche, nelle semplici occupazioni quotidiane; mentre la figlia, tutta assorta
com'era nell'unico tenero pensiero che la dominava, non s'accorgeva nemmeno di
quanto accadeva intorno a lei, quando giunse il colpo spaventoso sotto il quale
cadde quella rispettabilissima famiglia.
Una sera Mrs. Sedley era intenta a compilare gli inviti per un ricevimento.
Gli Osborne ne avevano dato uno e lei non poteva certo essere da meno. John
Sedley, rientrato a tarda ora dalla City, sedeva silenzioso davanti al caminetto,
mentre sua moglie conversava animatamente. Emmy era salita in camera,
sofferente e di pessimo umore. «È depressa,» diceva sua madre. «George Osborne
la trascura. Comincio a esser stufa delle arie che si danno, in quella casa. Sono tre
settimane che le ragazze non si fanno vive. George è venuto a Londra due volte,
ma qui non ha messo piede. Edward Dale lo ha incontrato all'Opera. Edward
sposerebbe Emmy, ne sono certa. E poi c'è il capitano Dobbin, certamente lui...
Ma francamente i militari, io non li posso soffrire. George è diventato un vero e
proprio bellimbusto; crede d'essere un generale, quello lì. Dobbiamo far vedere a
questi signori che valiamo né più né meno quanto loro. Se solo incoraggiassimo
un poco Edward Dale, vedresti! Dobbiamo dare un ricevimento, Sedley. Perché
non mi rispondi, John? Dici che andrebbe bene fra due settimane, l'altro martedì?
Perché non parli? Santo Dio, John, cos'è successo?»
John Sedley si alzò di scatto dalla sedia e si volse verso la moglie ch'era
accorsa verso di lui. La strinse fra le braccia e disse con voce spezzata: «Siamo
rovinati, Mary. Tanto vale che tu lo sappia subito.» Mentre parlava era scosso in
tutte le sue membra, sembrava che stesse per svenire da un momento all'altro.
Temeva che la notizia fosse troppo dura per sua moglie, quella moglie alla quale
non aveva mai rivolto una parola aspra. Ma sebbene quel colpo giungesse alla
donna del tutto inatteso, il più turbato era lui. E quando di nuovo si lasciò ricadere
sulla sedia, fu la moglie che subito si assunse il compito di consolarlo. Gli afferrò
la mano tremante e gliela baciò, poi l'appoggiò sulla spalla, gli disse che era il suo
John, il suo caro John, il suo caro, vecchio marito, vi riversò su di lui fiumi di
parole incoerenti, cariche d'amore e di tenerezza; la sua voce affettuosa e quelle
semplici carezze gli colmarono l'animo, pervaso da una profonda tristezza, di un
misto ineffabile di diletto e di angoscia, lo rallegrarono e alleviarono un poco il
senso di oppressione che gli gravava sul cuore.
Una sola volta, durante la lunga notte ch'essi trascorsero alzati e il povero
Sedley aprì il suo animo straziato raccontando nei dettagli la storia delle sue
perdite e delle sue estreme difficoltà, il tradimento di alcuni amici di vecchia data,
la comprensione e la generosità di altre persone dalle quali non si sarebbe mai
aspettato nulla, abbandonandosi insomma a uno sfogo generale, una sola volta
quella moglie fedele si abbandonò alla commozione.
«Mio Dio, mio Dio!» esclamò, «Emmy ne avrà il cuore spezzato.»
Il padre aveva dimenticato la sventurata ragazza, che se ne stava al piano di
sopra, a letto, sveglia e infelice. A casa sua, circondata da tanti amici, dall'affetto
dei suoi genitori, ella si sentiva sola. Quante sono le persone alle quali si può
raccontare tutto di noi? Chi si sente incline alla confidenza quando intorno a sé
incontra soltanto incomprensione? E viceversa chi desidera parlare con qualcuno
che non riuscirebbe mai a capire? Ecco perché la nostra cara Amelia soffriva in
solitudine. Da quando aveva nutrito in sé qualcosa da confidare non aveva mai
avuto accanto quel genere di persone che, appunto, noi siamo soliti definire
«confidenti». Non poteva esternare alla sua vecchia genitrice i suoi dubbi, le sue
perplessità. Le future cognate le sembravano ogni giorno più estranee.
Rimuginava tra sé dubbi e timori che, per altro verso, non osava confessare
pienamente nemmeno a se stessa.
Il suo cuore si ostinava a credere che George Osborne fosse degno di lei e le
restasse fedele, ma al tempo stesso era sicura del contrario. Quante cose ella gli
aveva detto, senza destare in lui la minima eco! Quante volte era insorto in lei il
sospetto ch'egli fosse un uomo fatuo ed egoista, e quante volte era riuscita a
reprimere quella sua convinzione! A chi poteva parlare, povera piccola martire, di
questi suoi quotidiani tormenti e torture? Persino il suo eroe la comprendeva
soltanto a metà. Eppure Amelia non osava riconoscere una volta per tutte che
l'uomo da lei amato le era inferiore, che troppo presto ella aveva fatto dono del
suo cuore. Ed ora che lo aveva dato, era troppo timida, troppo modesta, troppo
fiduciosa, troppo debole per riprenderselo. Era troppo donna, in una parola. Per
quanto riguarda i sentimenti d'affetto che coltivano le nostre donne, noi ci
comportiamo da torelli, e per giunta le abbiamo costrette a soggiacere alla nostra
dottrina. Accettiamo di buon grado che le loro sembianze esteriori siano ostentate
con una certa libertà, nascoste sotto riccioli, e cuffiette rosa, anziché sotto i veli
delle orientali; ma pretendiamo che la loro anima si riveli a un uomo soltanto, ed
esse obbediscono senza manifestare aperta riluttanza, ed anzi piegandosi a
rimanere nelle nostre case a guisa di schiave, a occuparsi di noi, a faticare per noi.
Così dunque soffriva quel cuore torturato e prigioniero, quando nel mese di
marzo dell'anno del Signore 1815 Napoleone sbarcò a Cannes, Luigi XVIII fuggì,
l'intera Europa fu di nuovo in allarme, i titoli di stato crollarono e il vecchio John
Sedley si trovò sul lastrico.
Non staremo a seguire le ansie, le agonie, lo strazio attraverso i quali il
vecchio agente di cambio dovette passare prima che il suo fallimento
commerciale venisse ufficialmente dichiarato. Per cominciare, fu dichiarato
insolvibile in Borsa, poi divenne irreperibile alla sede della sua agenzia, le sue
cambiali andarono in protesto e il fallimento divenne un dato di fatto. La casa e la
mobilia di Russell Square vennero sequestrati e messi all'asta, mentre lui e la sua
famiglia ne venivano scacciati ed erano costretti a nascondersi come meglio
potevano, nelle circostanze già riferite.
John Sedley non ebbe il cuore di rivedere quei suoi domestici affiorati di
tanto in tanto nelle pagine del nostro racconto, e dai quali ora l'indigenza lo
costringeva a separarsi. Pagò il salario di quelle degne persone con la puntualità di
cui in generale danno prova solo i debitori di grosse somme; costoro si
dichiararono spiacenti di dover rinunciare al buon posto di cui fruivano, ma
francamente non potremmo giurare che si sentissero spezzare il cuore per doversi
separare dagli «adorati» padroni. La cameriera di Amelia si profuse in espressioni
dolenti che manifestavano il suo rincrescimento, ma se ne andò rassegnata a
migliorare il proprio stipendio entrando a servizio presso qualche famiglia
residente in quartieri più signorili della città. Il negro Sambo, infatuato com'era
del suo mestiere, decise di aprire una bottiglieria; quanto alla vecchia e onesta
Mrs. Blenkinsop, che aveva visto nascere Jos e Amelia e conosceva i coniugi
Sedley sin dal tempo del loro fidanzamento, aveva messo in disparte durante gli
anni trascorsi al loro servizio una discreta somma. Pertanto accondiscese a seguire
la famiglia decaduta nel loro nuovo ed umile rifugio e vi rimase per qualche
tempo occupandosi di loro e brontolando in continuazione.
Fra tutti gli avversari di Sedley, in quelle diatribe coi creditori così
mortificanti da farlo invecchiare in sei settimane più di quanto non fosse
invecchiato in quindici anni, il più accanito e implacabile si mostrò John Osborne:
proprio lui, il vicino di casa, l'uomo che a Sedley doveva la propria posizione, che
per innumerevoli ragioni gli doveva gratitudine e il cui figlio avrebbe dovuto
sposare la sua figliola. E probabilmente l'una o l'altra di queste due circostanze
erano la ragione in cui andava cercata la ragione di tanta avversione.
Quando avviene che un individuo abbia contratto forti debiti con un altro
con il quale in seguito gli capita di litigare, si direbbe che una regola rigorosa
della buona creanza imponga al primo di diventare nemico del secondo, e più
spietato di quanto non sarebbe un estraneo. Poi, per motivare la propria crudeltà e
la propria ingratitudine, si è costretti a gettare ogni colpa sull'altro. Nessuno è mai
disposto a riconoscere il proprio cieco egoismo e ad ammettere di essere
furibondo perché una speculazione non è andata a buon fine. Manco per sogno!
Le cose sono andate come sono andate perché il socio ha provocato una siffatta
situazione a causa della trame più vili e mosso da perfide intenzioni. La sua
coerenza induce il persecutore a sostenere che il contrario è vero: il perseguitato è
un lestofante; altrimenti lui, il persecutore, non sarebbe che un miserabile.
Per giunta, ciò che per solito vale a tranquillizzare ulteriormente la
coscienza dei creditori più implacabili, sta nel fatto che in genere chi si trova in
difficoltà finanziarie non è caratterizzato da una specchiata onestà. Nasconde
sempre qualcosa di non del tutto limpido: o ha esagerato magnificando la
consistenza di una fortuna in realtà più modesta, o ha celato l'effettivo andamento
dei suoi affari, o ancora asserisce che le sue faccende procedono a gonfie vele
quando invece stanno andando a catafascio, e continua a sorridere (quale tragico
sorriso!) mentre ormai è sull'orlo del fallimento; inoltre è sempre pronto ad
attaccarsi a qualsiasi pretesto pur di rinviare i pagamenti e riuscire a dilazionare
anche di pochi giorni la fatale catastrofe. «Basta, basta con questa disonestà!»,
esclama trionfante il creditore dileggiando il povero derelitto che affonda. «Ma tu,
pazzo, perché non ti afferri alla pagliuzza?» propone il signor Buon Senso
all'uomo che sta annegando. «E tu, mascalzone, perché non ti decidi ad affrontare
la vergogna del Bollettino dei protesti alla quale non ti è più possibile sottrarti?»
dice chi s'impingua grazie all'ottimo andamento dei suoi affari al povero diavolo
che si dibatte in un pelago in tempesta? Chi non ha avuto modo di osservare con
quanta prontezza gli amici più intimi e gli uomini più specchiati si accusano a
vicenda di truffa quando intervengono questioni d'interesse? Non c'è uno che
sgarri, questa è la regola. Tutti, forse, hanno ragione, e a questo mondo non ci
sono che farabutti.
Osborne era pertanto assillato e istigato dal pensiero insopportabile dei
benefici ricevuti, pensieri che accentuano ulteriormente le cause effettive di
ostilità. Voleva ad ogni costo rompere il fidanzamento tra suo figlio e la figlia di
Sedley, e dal momento che la cosa era ormai giunta ad uno stadio avanzato, e la
felicità, nonché probabilmente la reputazione della povera fanciulla avrebbero
risentito delle circostanze in atto, bisognava dimostrare che c'erano validissime
ragioni per romperlo. Pertanto John Osborne doveva provare che Sedley era
realmente una persona deplorevole. Ecco perché alla riunione dei creditori egli
assunse nei confronti di Sedley un atteggiamento così duro e sprezzante che quasi
spezzò il cuore al povero fallito. Vietò che i rapporti fra George e Amelia
proseguissero ulteriormente, minacciando il figlio di maledirlo se non avesse
rispettato le sue ingiunzioni, e prendendosela con la povera ragazza, del tutto
estranea all'accaduto, come se fosse stata la più sfacciata e ipocrita delle civette.
Una delle peggiori necessità imposte dall'odio e dalla collera consiste nel
calunniare quanto più è possibile l'oggetto odiato; e questo per pura e semplice
coerenza.
Quando sopravvennero lo sfacelo, l'annuncio della loro situazione rovinosa,
il distacco da Russell Square e la dichiarazione che tutto era finito tra lei e
George, tutto era finito tra lei e l'amore, tra lei e la felicità, tra lei e la fiducia nel
prossimo e nella vita (una lettera brutale di poche righe, indirizzatale da John
Osborne, le aveva comunicato che la condotta di suo padre era tale da rendere
insostenibile la prosecuzione di qualsiasi rapporto tra le due famiglie); quando
venne l'ultimo colpo, insomma ella non ne fu sconvolta come i suoi genitori
temevano (e soprattutto sua madre, perché John Sedley era interamente assorbito
nella squallida contemplazione della sua rovina finanziaria e del suo onore
distrutto). Amelia accolse la notizia pallida e calma: si trattava, in fondo, della
conferma degli oscuri presentimenti che covava da molto tempo. Non era che la
lettura ufficiale della sentenza per una colpa da lei commessa tanto tempo prima:
la colpa di essersi abbandonata ad un amore mal riposto, troppo impetuoso, in
contrasto con la stessa logica. Non si può dire che ora, perduta ogni speranza,
fosse molto più infelice di prima, quando sentiva che la speranza era svanita senza
avere il coraggio di ammetterlo apertamente con se stessa. Passò quindi dalla
grande casa cui era assuefatta a quella piccola con assoluta naturalezza, quasi il
fatto le fosse indifferente, e trascorreva gran parte del suo tempo nella sua
stanzetta, morendo poco per volta. Con ciò non oso affermare che tutte le donne
siano eguali. Sono convinto, cara Miss Bullock, che voi vi comportereste in modo
del tutto diverso. Voi siete forte e sorretta da sani principi, e d'altronde non mi
arrischierei ad affermare che il mio stesso cuore si spezzerebbe: è un cuore che ha
sofferto, ma nondimeno ha saputo sopravvivere, lo confesso. Ciò non toglie che
esistano creature delicate, fragili, vulnerabili, dotate di una tempra meno solida e
ferrata.
Quando accadeva al vecchio Sedley di ripensare alla liaison fra George e
Amelia, oppure vi alludeva, lo faceva con la medesima asprezza con la quale si
era comportato Mr. Osborne. Malediceva quell'uomo ingrato, perfido, senza
cuore, malediceva lui e tutta la sua famiglia. Nessuno al mondo, nemmeno l'uomo
più potente dell'orbe terracqueo, avrebbe potuto indurlo a concedere la propria
figliuola al rampollo di un simile miserabile; pertanto ingiunse ad Amelia di
cancellare l'immagine di George dalla sua mente e di restituirgli tutte le lettere e i
piccoli doni che aveva ricevuto da lui.
Amelia promise e si fece forza per ubbidire all'ordine paterno. Preparò i due
o tre ninnoli; ma in quanto alle lettere, dopo averle rilette ancora una volta (come
se non le avesse sapute a memoria), non ebbe cuore di separarsene. Era un dolore
troppo forte. Se le mise in seno, ed ivi le tenne, come certe donne cullano il loro
bimbo morto. La povera Amelia era convinta che sarebbe morta o avrebbe
perduto il bene dell'intelletto, se le avessero sottratto quell'estremo conforto.
Come arrossiva, come raggiava di felicità quando arrivavano quelle lettere! Come
si rifugiava in un angolo remoto per poterle leggere indisturbata, il cuore
martellante di gioia! E se le lettere erano fredde, quell'anima appassionata sapeva
rivestirle di calore. Se erano laconiche e parlavano solo dello scrivente, ella
mentalmente sapeva architettare mille pretesti atti a giustificarne il tono distaccato
ed egocentrico.
Ed era su quei pochi fogli così scarsi di valore ch'ella continuava ad
alimentare il suo tormento. Viveva del passato, e ciascuna di quelle lettere
sembrava rievocarne la memoria. Le ricordava così bene! Ricordava il suo
aspetto, il tono della sua voce, il suo modo di vestire, quello che aveva e non
aveva detto. Quelle vestigia, quei ricordi di un affetto estinto erano il suo unico
patrimonio a questo mondo. Nella vita, ormai, non le restava che vegliare il
cadavere del suo amore.
Pensava alla morte e la desiderava ardentemente. «Se morissi,» pensava,
«potrei seguirlo ovunque fosse.» Con ciò non voglio approvare il suo
atteggiamento o portarla ad esempio a Miss Bullock. Miss Bullock sa
amministrare i propri sentimenti con un'oculatezza del tutto ignota a quella fragile
fanciulla; Miss Bullock non si sarebbe mai lasciata andare come aveva fatto
Amelia, nella sua irresponsabilità: giurare eterno amore, concedere il proprio
amore senza nulla in cambio al di fuori di una vaga, inconsistente promessa che in
qualsiasi momento poteva esser spazzata via! I fidanzamenti che si trascinano per
troppo tempo sono società nelle quali uno dei soci ha facoltà di rompere e di
andarsene quando crede, mentre l'altro ci rimette le penne sino in fondo.
Perciò siate caute, fanciulle, e state attente ai legami amorosi che stringete.
State attente a non palesare troppo il vostro amore; badate a non dire tutto ciò che
sentite, o, meglio ancora, cercate di sentire il meno possibile. Vedete che cosa
accade ad esser troppo oneste e fiduciose? Non fidatevi né di voi né degli altri; e
se vi sposate fate come in Francia, ove gli avvocati fungono da confidenti e
damigelle d'onore. Non lasciatevi andare a sentimenti che in un rapido domani
possano causarvi sofferenza, e comunque limitatevi alle promesse alle quali siate
in grado di venir meno quando vi torna comodo. Questo e il modo di farsi strada,
questa è la via da seguire se si vuoi essere stimati, rispettati e virtuosi nella Fiera
della Vanità.
Se Amelia avesse potuto udire i commenti che si facevano tra le persone
dalle quali adesso era esclusa a causa della rovina finanziaria di suo padre,
avrebbe avuto modo di apprendere quali erano le sue colpe e in quali acque
tempestose navigava la sua «reputazione». Mrs. Smith non aveva mai visto tanta
sprovvedutezza, Mrs. Brown aveva sempre stigmatizzato quella soverchia
familiarità, pessimo esempio per le sue figliole. Che il capitano Osborne non
possa sposare la figlia di un fallito è semplicemente ovvio, osservavano le
signorine Dobbin. Bastava esser stati imbrogliati dal padre! Quanto alla piccola
Amelia, la sua incoscienza aveva veramente superato...
«Superato cosa?» urlò il capitano Dobbin. «Non erano forse fidanzati sin
dall'infanzia? Non si trattava forse di un matrimonio combinato da tempo
immemorabile? È mai possibile che si osi sparlare di una persona così angelica,
della più dolce, della più pura, della più tenera fra le donne?»
«Suvvia, William, non assumere un tono così aggressivo con noi,» disse
Miss Jane. «Ricordati che stai parlando con delle donne, non con degli uomini;
non possiamo sfidarti a duello. Non abbiamo detto niente di male sul conto di
Miss Sedley; ci siamo limitate a osservare che il suo comportamento è sempre
stato molto imprudente, per non usare espressioni più drastiche. E in quanto ai
suoi genitori, non c'è dubbio: quello che gli è capitato se lo meritano.»
«Ora che Miss Sedley è libera, non sarebbe una buona idea che fossi tu a
chiedere la sua mano?» domandò Miss Ann, sarcastica. «Sarebbe un matrimonio
veramente splendido. Ah! Ah! Ah!»
«Io sposarla?» rispose Dobbin arrossendo di colpo e parlando con voce
sempre più concitata. «Se voi siete così pronte a cambiar bandiera, non è detto che
lei vi somigli. Sì, sì, ridete, schernite pure quell'angelo; tanto lei non vi può
sentire. È infelice, sfortunata, ma certo non merita il vostro dileggio. Comunque
ridi pure, Ann, se ti pare dignitoso; tu sei la spiritosa di famiglia e gli altri si
divertono un mondo ad ascoltarti.»
«Ti ricordo una volta ancora che non siamo in caserma, William,» disse
Ann.
«In caserma?» sbottò quel giovane leone britannico, impennandosi. «In
caserma, dici? Per Giove, vorrei che in caserma qualcuno si provasse a parlare
come parli tu. Davvero: mi piacerebbe proprio che un uomo pronunciasse una
sola parola contro di lei, per Giove! Ma gli uomini non fanno questo genere di
cose, Ann. Solo le donne sono capaci di far combutta per gracchiare, cianciare o
sibilare contro una delle loro simili. E adesso non metterti a piangere, mi sono
limitato a dire che siete due ochette,» disse Dobbin accorgendosi che gli occhi
sempre arrossati della sorella cominciavano a riempirsi di lacrime. «E va bene,
allora diciamo che non siete oche ma cigni. Come preferite. Solo vi prego di
lasciar in pace Miss Sedley,»
«William è veramente infatuato di quella piccola, sciocca civetta,»
pensavano sia la madre che le figlie. «Non si è mai visto niente di simile.»
Tremavano all'idea che, rotto il fidanzamento con Osborne, lei accettasse di punto
in bianco di sposarsi col capitano Dobbin, suo incondizionato ammiratore. Siffatti
timori erano senza dubbio dovuti alle esperienze coltivate dalle degne fanciulle in
questione; o, diciamo meglio, non avendo mai avuto sino a quel momento
l'opportunità di fidanzarsi né di essere abbandonate, da una loro concezione
affatto personale del bene e del male.
«È una grazia del Cielo, mamma,» dicevano le ragazze «che il suo
reggimento abbia avuto l'ordine di recarsi all'estero. Così nostro fratello sarà al
riparo da un rischio del genere!»
Era vero, infatti. E a questo punto è di scena l'imperatore dei francesi per
recitare il suo ruolo nella commedia familiare della Fiera della Vanità che al
presente stiamo recitando: una commedia che non sarebbe mai stata recitata senza
la partecipazione di questo augusto e muto personaggio. Fu lui a rovinare i
Borboni, e insieme con loro Mr. John Sedley. Fu lui che, giunto nella sua capitale,
chiamò alle armi tutta la Francia per potervi restare e, al tempo stesso, tutta
l'Europa che voleva sbarazzarsene. E mentre intorno alle aquile popolo ed esercito
di Francia giuravano fedeltà nel Campo di Maggio, i quattro eserciti più potenti
del continente si mettevano in marcia per la grande chasse à l'aigle. Di questi, uno
era costituito dall'armata britannica di cui facevano parte due dei nostri eroi: i
capitani Osborne e Dobbin.
La notizia della fuga e dello sbarco di Napoleone fu accolta dal prode ...°
Reggimento col giubilo guerresco e con l'entusiasmo che non stenta a
immaginarsi chiunque conosca questo famoso corpo. Dal colonnello fino al più
umile tamburino tutti erano pervasi di speranza di ambizione, di veemente slancio
patriottico. Atteso con tanta trepidazione, era alfine giunto, per gli uomini del ...°
Reggimento, il momento di dimostrare ai commilitoni ch'essi sapevano battersi
come i veterani della campagna d'Italia, e che il loro coraggio, il loro valore, non
era stato distrutto dalle Indie Occidentali e dalla febbre gialla. Pertanto essi
provavano la più viva riconoscenza per l'imperatore dei francesi, come se avesse
fatto loro un favore personale sconvolgendo la pace d'Europa.
Stubble e Spooney speravano di ottenere un comando di compagnia senza
doverselo comperare, e prima che si chiudesse la campagna, alla quale voleva
assolutamente partecipare, la moglie del maggior O'Dowd nutriva fiducia di
potersi firmare colonnella O'Dowd, C.B. Da parte loro, Dobbin e Osborne non
erano meno elettrizzati degli altri, e ciascuno in conformità ai rispettivi
temperamenti (Dobbin in silenzio e con la consueta riservatezza, Osborne, con
rumorosa energia) erano decisi a fare il loro dovere per conquistarsi la loro fetta di
onori e di ricompense.
Queste notizie turbavano e sommuovevano l'esercito e la popolazione a un
punto tale, che nessuno volgeva il pensiero ai casi della vita privata. È quindi
probabile che George Osborne, al quale era appena stato affidato il comando di
una compagnia, tutto assorbito com'era dai preparativi della partenza ormai
inevitabile e smanioso di meritarsi una promozione sul campo, non fosse troppo
colpito da eventi che in un momento di maggior calma lo avrebbero
maggiormente interessato. Pertanto (confessiamolo apertamente) non fu troppo
turbato dalla sventura del vecchio Sedley. Il giorno in cui si svolse la prima
riunione fra i creditori di quest'ultimo, George andò a provarsi una nuova
uniforme e si compiacque di constatare che gli stava a pennello. Suo padre gli
illustrò l'abominevole comportamento dell'agente di cambio fallito, gli ricordò
quanto già gli aveva detto a proposito di Amelia (cioè che doveva troncare
definitivamente ogni rapporto con lei) e quella sera stessa gli regalò un bel
gruzzolo per comperarsi le nuove uniformi e le spalline che lo rendevano così
attraente ed elegante. E dal momento che quel giovane scialacquatore aveva
sempre bisogno di quattrini, non esitò un istante ad accettare quell'elargizione
paterna. Già erano stati affissi i manifesti che annunciavano l'asta sulla casa dei
Sedley, ove aveva trascorso tante ore serene, ed egli li vide quella sera stessa,
biancheggianti sotto la luna mentre usciva per andare all'Old Slaughter, il ritrovo
ov'era solito passare la serata quando era a Londra. Dove si erano rifugiati Amelia
e i suoi, dal momento che la loro comoda dimora gli era ormai preclusa per
sempre? George meditò sulla loro disgrazia, non senza provarne una profonda
commozione, sicché trascorse all'Old Slaughter una triste serata e la malinconia come notarono i suoi amici - lo spinse a bere smodatamente. Dopo poco
comparve anche Dobbin che lo esortò a limitare quelle soverchie libagioni, ma
George rispose che, se beveva, era soltanto perché si sentiva terribilmente giù di
morale. Quando però l'amico prese a interrogarlo e a fargli domande più
specifiche cercando di sondare i suoi pensieri e i suoi propositi, Osborne rifiutò di
essere più esplicito, pur ammettendo senza riserve di essere maledettamente
infelice e in preda a una sorta di frustrante malessere.
Tre giorni dopo, in caserma, Dobbin entrò nella camera di Osborne e lo
trovò col capo appoggiato a un tavolo e un mucchio di fogli sparpagliati intorno a
lui. Il giovane capitano si trovava in modo palese in uno stato di grande
depressione. «Mi... mi... ha rimandato certe cose che io le avevo regalato,» disse.
«Delle sciocchezze, degli oggettini da nulla. Guarda.» E mostrò a Dobbin un
pacchetto indirizzato al capitano George Osborne con quella scrittura a lui
familiare, oltre ad alcuni oggetti... un anello, un coltellino d'argento che lui le
aveva comperato ad una fiera quando erano ancora due adolescenti, una catenina
d'oro appeso alla quale c'era un ciondolo con una ciocca di capelli. «È tutto
finito,» gemette Osborne, in preda al rimorso. «Guarda, Will, leggi pure se vuoi.»
E gli indicò una lettera di poche righe che diceva:
Il mio papà esige assolutamente ch'io ti renda questi regali che mi facesti in
tempi per me più felici. E questa è anche l'ultima occasione di scriverti che mi
viene concessa. Credo, anni sono convinta che anche tu abbia a soffrire per la
disgrazia che si è abbattuta su di noi. Voglio essere io a renderti la tua libertà,
dato che, nell'attuale miseria in cui versiamo non è possibile che il nostro
fidanzamento prosegua oltre. Sono sicura che tu non sia in alcun modo
responsabile della nostra situazione e non condivida i crudeli sospetti che nutre
tuo padre, causa, per noi, del più cocente fra tutti i dolori che ci affliggono.
Addio. Addio. Prego il Signore che mi dia la forza di sopportare questa ed altre
sventure, e che ti conceda sempre la sua benedizione.
A.
Suonerò spesso il pianoforte... il tuo pianoforte. È stato un dono che ha
saputo dirmi tutto il tuo amore.
Dobbin era un uomo di cuor tenero. Non riusciva a sopportare la sofferenza
di donne e di bambini. Il pensiero che Amelia soffrisse in quella sua desolata
solitudine colmò d'angoscia quell'anima così umanamente disposta verso il
prossimo e suscitò in lui un'emozione che ciascuno è liberissimo di giudicare poco
virile. Giurò che Amelia era un angelo, e su questo punto Osborne non poté non
trovarsi concorde. Anche lui aveva ripercorso con la mente tutta la loro vita, e
rivedeva Amelia sino a quel momento, dolce, dolce, semplice, incantevole nella
sua affettuosa e tenera ingenuità.
Quale dolore aver perduto tutto questo! Averlo posseduto e non averlo
saputo apprezzare a tempo debito! Mille episodi e ricordi familiari gli si
affollarono nella mente, e in tutti lei gli appariva soltanto buona, soltanto bella.
Poi ripensava a se stesso e arrossiva di rimorso, di vergogna. Il suo egoismo e la
sua indifferenza creavano uno spiacevole contrasto con l'assoluta purezza di lei.
Per qualche istante ogni pensiero di guerra e di gloria venne messo in disparte, e i
due amici parlarono soltanto di Amelia.
Parlarono a lungo. Poi, dopo una pausa, Osborne disse: «Dove saranno
finiti?» rendendosi conto con rinnovato senso di colpa di non aver fatto il minimo
sforzo per rintracciarla. «Dove saranno? Sulla lettera non c'è nessun indirizzo.»
Dobbin, quell'indirizzo lo conosceva. Non solo aveva mandato
personalmente il pianoforte a Mrs. Sedley, ma le aveva scritto un biglietto
chiedendo il permesso di farle una visita. Pertanto l'aveva incontrata, ed aveva
visto anche Amelia, il giorno prima di andare a Chatham; anzi, era stato lui a
portare in caserma quella lettera di addio e quel pacchetto che li aveva tanto
commossi.
Mrs. Sedley era parsa lietissima di ricevere la visita di quel bravo giovane, e
molto turbata per l'arrivo del pianoforte che, a suo parere doveva riflettere
un'iniziativa personale di George, e pertanto era un segno della sua amicizia. Il
capitano Dobbin si guardò bene dal rivelare la verità alla degna signora; inoltre
ascoltò con grande partecipazione il resoconto dei loro guai e manifestò la sua
costernazione per le privazioni alle quali avevano dovuto sottoporsi, dichiarandosi
pienamente d'accordo sul fatto che la condotta di Mr. Osborne nei confronti del
suo antico benefattore era altamente riprovevole. Poi, quando Mrs. Sedley ebbe
sfogato su di lui l'impeto delle sue recriminazioni e un poco dei suoi dolori,
Dobbin si arrischiò a domandarle se avrebbe potuto vedere Miss Amelia che al
solito se ne stava in camera sua al piano di sopra, e che la madre condusse da
basso, tutta tremante.
Aveva un aspetto così spettrale, un'espressione così patetica nella sua
disperazione, che al solo guardarla il buon William Dobbin ne fu sconvolto, e su
quel volto pallido e spiritato lesse i più cupi presentimenti. Rimase seduta accanto
a lui per qualche istante, poi gli mise fra le mani il pacchetto e gli disse: «Vi sarò
grata se vorrete consegnarlo al capitano Osborne, che... che mi auguro stia bene...
siete stato veramente gentile a venirci a trovare... ci troviamo molto bene in questa
casa. Forse è meglio che adesso torni di sopra, mamma, perché mi sento poco
bene.» Detto ciò, accennò a un sorriso, fece un inchino e uscì dalla stanza. Mentre
la riaccompagnava, Mrs. Sedley lanciò a Dobbin un'occhiata carica d'angoscia;
ma il bravo ragazzo non aveva bisogno di quel cenno: l'amava troppo perché fosse
necessario. Provò un dolore, un sentimento di pietà e di terrore indicibili, e
quando si allontanò ebbe la sensazione di fuggire, quasi fosse stato un criminale.
Quando Osborne apprese che l'amico l'aveva vista, chiese ansiosamente di
Amelia. Come stava? Che aspetto aveva? Che cosa gli aveva detto? Dobbin gli
prese una mano e gli rispose:
«George, sta morendo.» E non seppe aggiungere altro.
Nella piccola casa ove i Sedley avevano trovato rifugio, una prosperosa
fantesca irlandese sbrigava tutte le faccende domestiche, e più volte negli ultimi
giorni si era sforzata invano di recare ad Amelia aiuto o conforto. Emmy era
troppo triste per replicare alle sue parole, o anche solo per accorgersi di quanto la
donna cercava di fare a suo beneficio.
Quattro ore dopo la conversazione fra Dobbin e Osborne, la servetta in
questione entrò nella camera di Amelia, ove quest'ultima, come sempre, sedeva
taciturna, sospirando davanti alle sue lettere. La ragazza appariva allegra e
sorridente, e si adoperò inutilmente per attirare l'attenzione della fanciulla.
«Miss Emmy,» disse la ragazza.
«Vengo,» rispose Amelia, senza levare lo sguardo.
«È arrivata una lettera...» continuò la domestica, «c'è qualcosa... qualcuno...
Una lettera nuova per voi... Smettete di leggere quelle vecchie.»
E le porse una lettera. Emmy la prese e lesse:
«Debbo vederti. Emmy, mia diletta, debbo vederti. Amore mio, carissima
compagna della mia vita, vieni da me.»
George e sua madre attendevano fuori della porta ch'ella avesse letto quel
messaggio.
XIX • MISS CRAWLEY MALATA
Abbiamo già visto come Mrs. Firkin, la cameriera di Miss Crawley, ogni
qual volta si verificava qualche avvenimento di un certo rilievo per la famiglia si
sentisse in dovere di darne notizia a Mrs. Bute Crawley, al presbiterio. E del pari
abbiamo accennato al fatto che la buona signora in questione fosse
particolarmente gentile e affettuosa con questa domestica di Miss Crawley, la
quale fruiva delle confidenze della sua padrona. Inoltre si era procacciata la
simpatia di Miss Briggs usandole quel genere di attenzioni e promesse che
costano assai poco a chi le elargisce ma fanno molto piacere a chi le riceve. E in
effetti ogni brava donna di casa dovrebbe ricordarsi quanto siano economiche, ma
al tempo stesso preziosissime, queste promesse, e quale sapore riescano a
conferire anche al piatto più insipido. Chi è l'imbecille che ha osato dire: «Le
belle parole non servono a condire le rape?» La metà delle rape che vengono
servite in società sono rese appetitose proprio dal contributo offerto da quella
salsa. Come l'immortale Alexis Soyer riesce a rimediare con quattro soldi una
minestra più prelibata di quella che una cuoca inetta riesce a preparare con chili di
carne e verdura, così un abile artista riesce ad approdare allo scopo, in contrasto
con uno sciocco, per quanto provvisto di beni molto più tangibili. Anzi, è noto che
certi beni tangibili riescono talvolta a dar di stomaco. Invece la maggior parte
della gente è sempre disponibile quando si tratti di ingurgitare un'iradiddio di
paroloni inutili, ed è sempre pronta a cacciarne giù una dose ancora maggiore.
Mrs. Bute Crawley aveva ripetutamente esternato alla Firkin e alla Briggs il
grande affetto che nutriva per loro, e aveva loro espresso in termini così eloquenti
quanto sarebbe stata pronta a far per loro se avesse avuto le disponibilità
finanziarie di Miss Crawley, che le suddette signore la trattavano con estrema
deferenza, e provavano per lei una gratitudine e una fiducia concrete, proprio
come se fossero state colmate di fatto dei più singolari favori.
Invece Rawdon Crawley, da quel dragone rozzo ed egoista che era, non si
era mai curato di attirarsi la simpatia delle giannizzere di sua zia, ed anzi non
celava il disprezzo che provava per entrambe. Una volta si era fatto sfilare gli
stivali dalla Firkin, un'altra volta l'aveva mandata a recapitare certe lettere
licenziose sotto una pioggia torrenziale, e se per caso si lasciava andare a darle
una ghinea di mancia lo faceva con la stessa buona grazia con la quale si assesta
un pugno in pieno viso. E dal momento che anche la zia si divertiva a dileggiare
la Briggs, il nipote trovava più che logico seguirne l'esempio, e la prendeva di
mira con certe burle delicate quanto può esserlo la pedata di un cavallo.
Al contrario Mrs. Bute Crawley la consultava su questioni di gusto, o
quando aveva problemi di qualsiasi genere, mostrava di apprezzare le sue poesie e
con una varia gamma di attenzioni le dava prova della sua stima. Se poi faceva
alla Firkin un regalo da nulla, lo accompagnava con una tale profluvio di
complimenti, che quei due soldi si trasformavano per magia in monete d'oro, nel
cuore della cameriera ricolma di gratitudine, la quale inoltre già preconizzava il
piacere di fruire dei vantaggi di cui sarebbe stata beneficiaria il giorno in cui Mrs.
Bute Crawley avesse ereditato da Miss Matilda.
Mi permetto rispettosamente di attirare l'attenzione di coloro i quali danno
inizio al loro cammino nel mondo sui contrastanti stilemi che caratterizzano i
personaggi in questione. Vi consiglio di lodare tutti; non siate mai avari di
complimenti, e prodigateli sia in faccia agli interessati che dietro le loro spalle, se
sapete che vi è qualche probabilità che l'elogio venga comunque recepito. Non
lasciatevi sfuggire l'occasione di pronunciare una frase gentile. Fate come
l'ammiraglio Collingwood che, se scopriva uno spazio libero nei suoi
possedimenti, subito levava di tasca una ghianda e la piantava. Ebbene, fate
altrettanto nella vita quando avete modo di esser complimentosi: una ghianda è
cosa da nulla, ma può trasformarsi in una quercia enorme e regalarvi tanto
legname.
A farla breve, Rawdon Crawley, che quando era sulla cresta dell'onda si era
visto ubbidito a malincuore, una volta caduto in disgrazia non fu aiutato né
compatito da nessuno. Per contro, quando Mrs. Bute Crawley assunse la direzione
delle faccende domestiche, tutto il servitorame fu lietissimo di mettersi ai suoi
ordini, convinto com'era che tante gentilezze e accattivanti promesse fossero il
prologo di consistenti vantaggi.
D'altra parte Mrs. Bute Crawley si guardò bene dal pensare che Rawdon si
desse per vinto dopo una sola battaglia perduta, e che rinunciasse a fare qualche
tentativo di rivincita. Sapeva che Rebecca era una donna troppo abile, troppo
astuta, troppo disposta a qualsiasi passo per alzare bandiera bianca senza prima
dar combattimento, e sentiva di dover stare all'erta, onde difendersi da eventuali
attacchi inopinati e proditori.
Prima di tutto, è vero che la città era in sua mano ma... il primo cittadino?
Miss Crawley avrebbe perseverato nel suo attuale atteggiamento? Chissà se nel
suo intimo non desiderava riconciliarsi con l'avversario, dopo averlo respinto da
sé e dai suoi affetti? L'anziana signorina apprezzava Rawdon, e in quanto a
Rebecca la trovava divertente. Mrs. Bute non poteva nasconderselo: nessuno dei
suoi familiari era in grado di recare un simile e adeguato contributo al
divertimento della suddetta, prima cittadina. «Lo so, lo so,» ammetteva fra sé con
assoluto candore la moglie del vicario, «in confronto a quell'abominevole
istitutrice le mie figlie cantano di peste. Quando Martha e Louisa cantavano e
suonavano i loro duetti. Matilda si affrettava ad andarsene a letto. Quanto alla
goffaggine puerile di Jim e ai discorsi di Bute sui cani e sui cavalli l'hanno sempre
fatta sbadigliare di noia. Se la conducessi ai presbiterio, se la prenderebbe con
tutti noi, ne sono sicura, e si affretterebbe a ripartirne, disgustata. Eh, sì, potrebbe
ricadere vittima del fascino che esercitano su di lei sia quel mostro di Rawdon, sia
quella vipera della Sharp. Adesso peraltro sta molto male e per qualche settimana
non avrà la possibilità di muoversi: bisogna approfittarne e tramare qualche piano
per metterla al riparo da quella coppia priva d'ogni scrupolo.»
Nei momenti migliori, se qualcuno diceva a Miss Crawley che era (o che
sembrava) malata, lei, terrorizzata, convocava immediatamente il medico. Adesso,
poi, dopo quei frangenti familiari che avrebbero scosso un sistema nervoso molto
più saldo del suo, le sue condizioni potevano, in effetti, esser giudicate critiche.
Ad ogni modo Mrs. Bute Crawley ritenne doveroso avvisare il medico, il
farmacista, la dame de compagnie e la servitù che lo stato di salute di Miss
Matilda era veramente precario, e che di conseguenza tutti dovevano tenerne il
massimo conto. Aveva fatto spargere uno strato di paglia sul marciapiede
antistante l'ingresso, fatto levare il batacchio dalla porta e proibito a Mr. Bowls di
usare il vasellame d'argento. Pretese ad ogni costo che il dottore si recasse a
visitare l'inferma due volte al giorno e ogni due ore le faceva ingurgitare un
orribile beverone. Quando qualcuno osava varcare la porta della camera da letto,
dalle sue labbra usciva un sssss così sibilante, severo e minaccioso, che la povera
vecchia obbligata a letto, provava un brivido di terrore. Non poteva levare lo
sguardo senza veder fissi su di sé gli occhietti penetranti di Mrs. Bute Crawley,
che sedeva immobile in una poltrona di fianco al giaciglio padronale. Nell'oscurità
brillavano, quasi fossero stati fosforescenti. Teneva le tende perpetuamente tirate,
e si aggirava per la stanza a passi felpati come quelli di un gatto. Così Miss
Crawley giacque per giorni e giorni, cullata dal suono della voce di Mrs. Bute
Crawley che le leggeva testi religiosi. Per tante, tante notti, non udì altro che la
nenia cadenzata del contaore e lo sfrigolio del lumino da notte. Dopo la rapida
visita del farmacista, verso la mezzanotte, era costretta a restarsene in quel letto a
guardare gli occhi pungenti della cognata e le strisce gialle che il lume proiettava
contro il tetro soffitto. Costretta a un regime del genere, anche Igea si sarebbe
ammalata. Com'era possibile che quella povera vittima non diventasse suo
malgrado un'ipocondriaca? Abbiamo già avuto agio di constatare come quella
veneranda abitatrice della Fiera della Vanità, quando era sana ed arzilla nutriva, in
fatto di religione e di morale, idee non meno spregiudicate di quelle del Signor di
Voltaire. Ma quando si ammalò il terrore panico della morte e la sua indomabile
pusillanimità s'impadronirono, impietosi, della vecchia peccatrice, e ne
aggravarono ulteriormente i malanni.
Omelie e considerazioni edificanti ci sembrano fuori luogo in un libro
siffatto, che dopotutto è semplicemente un romanzo; e noi, a differenza di quanto
avviene nelle pagine di molti romanzi attuali, non vogliamo inchiodare i lettori a
un sermone, visto che il pubblico ha pagato per assistere solo e soltanto ad una
commedia. Ma, pur mettendo al bando le omelie, non possiamo sottacere la
verità: non sempre la vivacità, l'allegria, le tronfie apparenze di cui si rivestono i
nostri personaggi alla Fiera della Vanità, li accompagnano anche nell'intimità. Al
contrario, accade non di rado ch'essi siano vittime di crisi depressive e rosi da
cupi pentimenti. È raro che un gaudente per natura, quando si ammala, ritrovi
l'allegria al solo pensiero di un prelibato banchetto. Una donna sfiorita,
quand'anche rievocasse le sue più sfarzose toilettes e il successo che riscuoteva
alle feste, non riuscirebbe egualmente a consolarsi della bellezza perduta. Forse,
anche nella vita degli uomini politici subentra una fase in cui non riescono più a
compiacersi dei successi elettorali a suo tempo riscossi; e i piaceri goduti ieri
contano ben poco quando all'orizzonte spunta quel certo (o incerto) giorno nel
quale tutti, indistintamente, ci vediamo costretti a meditare su noi stessi. O tu,
fratello, che al pari di me indossi la casacca del buffone: devi pur ammetterlo! Ci
sono momenti nei quali ci si stanca di lazzi e di risate, di far tintinnare i sonagli
del borsetto e del bastone! Ecco, cari amici: ciò che mi propongo è di attraversare
la Fiera della Vanità, sostando a contemplare baracche e baracconi, per poi
ritornare a casa lasciandomi alle spalle quel frastuono, quella baldoria, quella
luminaria e assaporare in totale solitudine la più profonda infelicità.
«Se quel pover'uomo di mio marito avesse la testa sulle spalle,» pensava
Mrs. Bute Crawley, «di quale utilità potrebbe essere alla povera vecchia in simili
frangenti! Potrebbe esortarla a pentirsi dei suoi trascorsi licenziosi, potrebbe
indurla a fare una volta per tutte il suo dovere, cacciando quel libertino, quel
repellente individuo, che ha disonorato se stesso e la sua famiglia, e convincerla a
ricordarsi delle mie figliuole, dei miei ragazzi, comportandosi nei loro confronti
come Giustizia esige. Essi hanno bisogno, anzi si meritano, tutto l'aiuto che può
venirgli dai loro parenti.»
E dal momento che l'odio per il vizio serve a instradare lungo la via della
virtù, Mrs. Bute Crawley faceva tutto il possibile per inculcare in Miss Matilda
l'avversione per Rawdon, per quel coacervo di peccati ch'ella sciorinava in un
elenco così lungo, che sarebbe bastato a provocare la condanna di un intero
reggimento di giovani ufficiali. Quando accade che un uomo commetta qualche
errore nella vita, i moralisti più smaniosi di richiamare l'attenzione del prossimo
sulle sue pecche sono sempre i parenti. Per questo Mrs. Bute Crawley mostrava
una così viva partecipazione familiare, una così cieca consapevolezza dei torti di
Rawdon. Era edotta in ogni minimo dettaglio circa la disputa di Rawdon col
capitano Mapker: lite nella quale quest'ultimo, pur essendo dalla parte della
ragione, aveva perso la vita per mano dell'abietto suo camerata. E del pari sapeva
come lo sventurato Lord Dovedale, la cui madre era arrivata al punto di acquistare
una casa ad Oxford perché egli potesse studiare in quella università, e che non
aveva mai toccato un foglio di carta in vita sua fino al giorno in cui aveva messo
piede a Londra, era stato traviato da quel corruttore di minorenni di Rawdon, il
quale lo aveva trascinato al Coca Tree, lo aveva fatto ubriacare e finalmente gli
aveva pelato al gioco nientemeno che quattromila sterline. Descriveva con dovizia
di minuti, scottanti particolari le sciagure di tante ignare famiglie dello
Hampshire, i cui figli erano stati corrotti da quel pessimo soggetto che li aveva
piombati nel disonore e nell'indigenza, le cui figlie erano state da lui sedotte e
sospinte sulla strada della perdizione. Sapeva vita, morte e miracoli dei poveri
commercianti ridotti a malpartito a causa delle sue truffe, del suo scialacquio
inconsulto, le imprese furfantesche con le quali li aveva turlupinati, l'impostura e
la sfrontata ipocrisia con la quale aveva ingannato la più generosa delle zie,
l'ingratitudine e la sconcia condotta con la quale ne aveva ricompensato i sacrifici.
Mrs. Bute propinava questa sequela di episodi a Miss Matilda
somministrandoglieli a piccole dosi, onde sortissero più efficacemente il loro
effetto. Questo (ne era assolutamente convinta) era il suo cristiano dovere di
moglie e di madre: un dovere inderogabile che le impediva di provare il più
piccolo rimorso per la vittima immolata dalla sua lingua calunniatrice. Anzi,
probabilmente giudicava il proprio comportamento degno di ogni lode e in cuor
suo si compiaceva di tanta decisione. Eh, sì, pensatela pure come vi pare; ma
nessuno sa rovinare la reputazione di una persona quanto un parente. Per altro
verso, occorre ammettere che nel caso di quel poveraccio di Rawdon Crawley, la
pura e semplice verità sarebbe bastata a condannarlo, e quando i suoi amici si
affannavano ad attribuirgli la paternità di tante azioni disdicevoli, la loro fatica era
del tutto inutile.
Anche Rebecca, che ormai faceva parte della parentela, aveva diritto ad una
quota di sua stretta spettanza nelle benevole investigazioni condotte da Mrs. Bute
Crawley. Costei, impegnata con tanto accanimento a cavare la Verità dal pozzo,
dopo aver dato ordini perentori onde fosse respinto qualsiasi inviato, rifiutata
qualsiasi lettera di Rawdon Crawley, un giorno salì sulla carrozza di Miss
Crawley e si recò a far visita alla sua diletta amica Miss Pinkerton, Minerva
House, Chiswick Mall, per comunicarle la ferale notizia: il capitano Rawdon
Crawley era stato circuito e sedotto da Rebecca Sharp!
Quale migliore occasione per apprendere una miriade di particolari
stuzzicanti e affatto inediti sulla nascita e la primissima giovinezza dell'istitutrice!
L'amica del Lessicografo disponeva di un numero incredibile di notizie, tutte
pronte per l'uso. Miss Jemima ebbe l'incarico di andare a prendere le lettere e le
ricevute del maestro di disegno: una era stata spedita da una prigione provvisoria
per debitori, un'altra era piena di frasi supplichevoli per ottenere un anticipo,
un'altra ancora trasudava riconoscenza per avere le degne signorine del Chiswick
accolto Rebecca nel loro istituto. Per finire, l'ultima missiva vergata dal
disgraziato artista sul letto di morte scongiurava Miss Pinkerton di aver cura della
sua figliola. Ma la collezione includeva anche lettere e richieste di Rebecca in
persona, nelle quali ella esternava la propria riconoscenza o avanzava suppliche a
favore del padre. Forse, alla Fiera della Vanità, le satire più mordaci s'identificano
proprio con le lettere. Prendetene un fascio, scritto dieci anni fa da un vostro
amico che ora onorate del vostro odio implacabile. Prendete quelle di vostra
sorella! Come vi volevate bene! Se più tardi non aveste litigato a sangue per
quell'eredità di venti sterline!... Prendete gli scarabocchi infantili di vostro figlio,
che, fattosi adulto e mostruosamente egoista, vi ha causato atroci dispiaceri!
Oppure prendete le vostre lettere: quelle che, traboccanti di attestazioni d'amore
imperituro, avete indirizzato alla vostra bella, e che la stessa vi restituì quando si
sposò con un tizio ricco sfondato: un'innamorata della quale oggi non v'importa
più di quanto v'importi della regina Elisabetta! Promesse, giuramenti, trepide
confidenze, tenere espressioni ricolme d'amore e di gratitudine! Che strano affetto
produce queste parole, se ci avviene di rileggerle dopo un certo lasso di tempo!
Nella Fiera della Vanità un'apposita legge dovrebbe imporre nel modo più
categorico di distruggere - trascorso un certo lasso di tempo - qualsiasi scritto che
non sia una fattura quietanzata. Quei cialtroni che esaltano le preclare virtù
dell'inchiostro di China indelebile sono dei nemici del genere umano, e
dovrebbero essere cancellati dalla terra insieme con le loro turpi invenzioni. Alla
Fiera della Vanità dovrebbe essere di rigore l'uso di un inchiostro che sbiadisce
nel giro di due o tre giorni, e lascia il foglio perfettamente pulito e intatto, pronto
per una nuova lettera.
Lasciata Miss Pinkerton, l'inesorabile Mrs. Bute Crawley seguì le tracce di
Rebecca Sharp e di suo padre fino al loro alloggio di Greek Street, dove il defunto
pittore era vissuto, e dove le pareti del salotto si ornavano tuttora dei ritratti della
padrona di casa in abito di raso bianco, e del padrone di casa in giacca dai bottoni
dorati, dipinti da Sharp a titolo di pagamento per un trimestre d'affitto. Mrs.
Stokes era una donna loquace e non si fece pregare; pertanto raccontò tutto ciò
che sapeva sul conto di Mr. Sharp: che era un poveraccio tanto dissipato quanto
simpatico e spiritoso; ch'era sempre tallonato dagli ufficiali giudiziari; che (e lei
ne era stata scandalizzata) aveva sposato quella detestabile sua moglie poco prima
ch'ella morisse, che la figlia era una specie di strano animaletto selvatico, capace
peraltro di farli ridere con i suoi scherzi e le sue comiche mossette; che andava a
comperare il gin in un osteria e frequentava tutti gli ateliers del quartiere... In
poche parole, Mrs. Bute Crawley ebbe agio di farsi un'idea così compiuta circa la
parentela e i precedenti della nuova nipote, della sua condotta e della sua
educazione, che Rebecca non sarebbe stata niente affatto contenta di scoprire
come qualcuno stesse svolgendo questa sorta d'indagini sul suo conto.
Di queste zelanti ricerche, Miss Crawley ebbe poi l'onore di beneficiare
senza riserve. La moglie di Rawdon Crawley era la figlia di una ballerina
dell'Opera, e lei stessa aveva fatto la ballerina. Aveva fatto la modella, e in quanto
all'educazione ricevuta era né più né meno quella che ci si poteva attendere da una
madre del genere. Inoltre beveva gin come il padre, e via discorrendo. Era una
donna perduta, degna moglie di un uomo perduto. E la conclusione alla quale era
fatale arrivare, sull'onda del resoconto di Mrs. Bute Crawley, era che la perfidia di
una coppia siffatta non aveva limiti: qualunque persona dabbene aveva lo stretto
dovere d'ignorarla.
Era questo, dunque, il materiale che l'oculata Mrs. Bute Crawley andava
collezionando nella casa di Park Lane: raccoglieva, potremmo asserire, le
provviste e le munizioni con le quali si apprestava ad affrontare l'assedio di cui,
prima o poi, il capitano Rawdon e sua moglie avrebbero cinto la casa di Miss
Crawley.
Se peraltro questa ridda di procedimenti precauzionali presentava un neo,
dobbiamo convenire che Mrs. Bute Crawley peccava per eccesso di zelo, per
soverchio perfezionismo. Non c'è dubbio che riuscisse ad aggravare artatamente
la malattia di Miss Matilda; ma sebbene la vecchia cedesse di fronte all'esercizio
implacabile di tanta autorità, questo era così tormentoso e severo che la vittima
guatava la prima occasione per sfuggirgli. Le donne autoritarie (onore del loro
sesso), quelle che amano comandare tutto e tutti, quelle che sanno sempre quale
sia il bene dell'uno e dell'altra assai più dei diretti interessati, talora non
prevedono il pericolo di una ribellione domestica, o altre perniciose conseguenze
di tanto implacabile spirito dominatore.
Fu così che Mrs. Bute Crawley, animata dalle migliori intenzioni e mezzo
morta di stanchezza perché rinunciava al sonno, al cibo, alle passeggiate pur di
assistere la cognata, si convinse che Miss Crawley era davvero malatissima e i
suoi funerali erano ormai prossimi. Un giorno, conversando con Mr. Clump, lo
zelante farmacista, parlò dei sacrifici e si diffuse sui risultati ai quali era
pervenuta.
«Per esser sincera, caro Mr. Clump, non ho lesinato il minimo sforzo per
guarire la cara ammalata ridotta in un simile stato dall'ignobile contegno di suo
nipote. Sopporto i sacrifici, non mi tiro indietro, accetto serenamente qualsiasi
disagio.»
«La vostra devozione è veramente encomiabile» rispose il farmacista,
«tuttavia...»
«Si può dire che non abbia mai chiuso occhio da quando sono arrivata. Al
senso del dovere ho sacrificato il sonno, la salute, le comodità alle quali ero
assuefatta... Quando il povero James ha avuto il vaiolo non ho certo permesso che
persone estranee lo curassero... ,»
«Avete agito come solo può agire la più affettuosa, la migliore delle madri,
ma... ,»
«Nella mia qualità di madre di famiglia e di moglie di un ecclesiastico,
voglio credere che le mie azioni siano guidate da umili e sani principi,» continuò
imperterrita la Crawley, con un tono di pacata e solenne convinzione. «Fino a
quando ne avrò la forza non abbandonerò il posto al quale mi esorta il senso del
dovere. Mai vi rinuncerò, Mr. Clump. Altri abbandoneranno quella povera testa
grigia in un letto di dolore.» E nel dir questo accennò ad una delle parrucche color
caffè che usava indossare la vecchia dama ed era posata sull'apposito sostegno del
camerino da toeletta. «Per conto mio non la lascerò mai. Ah, caro Mr. Clump,
temo proprio che a questo punto la nostra malata abbia bisogno di un soccorso
spirituale, oltre che dell'ausilio della medicina.»
«Ciò che volevo dire, signora,» intervenne Mr. Clump con voce risoluta, pur
non rinunciando all'abituale tono di deferenza, «ciò che volevo dire poc'anzi,
quando avete espresso quei vostri lodevolissimi sentimenti, è che a mio parere voi
vi allarmate senza ragione circa la salute della nostra cara amica, e vi sacrificate
per lei con eccessiva prodigalità.»
«Darei la vita per compiere il mio dovere, o per qualunque membro della
famiglia di mio marito,» interruppe la Crawley.
«Certo, certo, se fosse necessario... Noi però non vogliamo fare di Mrs. Bute
Crawley una martire» proseguì Clump, galante. «Senza dubbio voi non dubitate
che il dottor Squills ed io abbiamo esaminato il caso di Miss Crawley con la
maggior cura ed ogni possibile zelo. Notiamo che è depressa, nervosa. Gli eventi
familiari l'hanno profondamente turbata...»
«Suo nipote è condannato alla perdizione!» esclamò Mrs. Bute Crawley.
«È turbata, non c'è dubbio, e il vostro arrivo qui è stato come l'arrivo di un
angelo custode, cara signora. L'avete confortata nel momento cruciale della
disgrazia. Nondimeno il dottor Squills ed io riteniamo che le condizioni della
nostra amica non siano così gravi da costringerla a letto. La permanenza a letto
non fa che accentuare il suo stato di depressione. Bisogna che cambi vita, abbia
modo di uscire, di distrarsi: queste, credete, sono le medicine più straordinarie di
tutta la farmacopea,» disse Mr. Clump con un sorriso che rivelò la chiostra dei
suoi denti smaglianti. «Convincetela ad alzarsi, signora. Toglietela da quel letto,
fatela uscire da quello stato di prostrazione. Insistete perché faccia qualche breve
passeggiata in carrozza. Ciò varrà altresì a ridare un bell'incarnato alle vostre gote,
se posso osare di parlare così a Mrs. Bute Crawley.»
«Pare che quel suo odioso nipote si rechi spesso a cavalcare ad Hyde Park
con quella sua sfrontata compagna,» disse Mrs. Bute Crawley, lasciando cadere la
maschera che fino a quel momento aveva celato il volto dell'egoismo. «Se Miss
Matilda lo incontrasse, ne avrebbe un colpo tale che dovremmo riportarla a letto.
No, Mr. Clump, non può, non deve uscire. Fino a quando resterò in questa casa
non uscirà. Quanto alla mia salute, che importa? Me ne privo con gioia, lieta di
immolarla sull'altare del dovere compiuto.»
«Signora,» riprese il farmacista in tono un po' più brusco, «se continua a
restarsene in quella stanza buia, vi giuro che non rispondo della sua vita. Il suo
stato di estremo nervosismo potrebbe perderla da un momento all'altro, e se voi
desiderate che il capitano Crawley diventi l'erede di Miss Matilda, vi avverto:
state facendo del vostro meglio per servirlo, signora!»
«Bontà divina! Dunque la sua vita sarebbe in pericolo?» esclamò Mrs. Bute
Crawley. «Ma perché non mi avete avvertita prima, Mr. Clump?»
La sera precedente Mr. Clump e il dottor Squills, davanti a una bottiglia di
vino, si erano consultati sulle condizioni di Miss Crawley in casa di Lord Lapin
Warren, la cui moglie stava per regalargli il tredicesimo figlio.
«Che arpia è quella donna dello Hampshire che ha messo le mani sulla
vecchia Tilly Crawley, vero Clump?» aveva detto il dottor Squills. «Fantastico
questo madera, perdio!»
«Rawdon è stato proprio un imbecille a prendere in moglie un'istruttrice.
Però bisogna riconoscere che quella ragazza aveva un non so che...»
«Occhi verdi, carnagione bianca, fronte alta, una figuretta flessuosa...»
aveva commentato Squills. «Sì, è vero, quella ragazza ha un non so che; tuttavia
Rawdon è stato proprio sciocco, Clump.»
«Sciocco lo è sempre stato,» aveva ribattuto quest'ultimo.
«Inutile dire che la vecchia lo diserederà,» aveva proseguito il medico. E
dopo una pausa: «Lascerà un mucchio di quattrini, immagino.»
«Lasciamo perdere,» aveva risposto Clump, con un sogghigno, «visto che
per me la sua morte significherà perdere duecento sterline all'anno!»
«Se continua a restare con lei, quella strega dello Hampshire la spedirà al
Creatore nel giro di due mesi, caro mio. La vecchia mangia troppo, ha la
pressione alta, è molto nervosa: finirà per venirle un colpo e andrà all'altro
mondo. Bisogna farla alzare, farla uscir di casa, o non darei il mio guadagno di
due settimane per le vostre duecento sterline annue.»
Questo, dunque, era stato il colloquio che aveva indotto il farmacista a
parlare in termini tanto espliciti a Mrs. Bute Crawley. Costei, avendo in pugno
Miss Crawley, costretta a letto, e senza testimoni ingombranti, aveva già messo in
atto ripetuti tentativi per convincerla a modificare il testamento. Ma questi
discorsi funerei aumentavano con le loro implicazioni il terrore panico che la
vecchia aveva della morte, e la signora comprese che, se voleva pervenire ai
risultati edificanti che si era prefissa, doveva rinverdire il buonumore della malata
migliorandone lo stato di salute. Ciò premesso, occorreva scegliere il posto ove
condurla. L'unico luogo ove difficilmente si sarebbero imbattuti nell'odiato
Rawdon era la chiesa, ma Mrs. Bute Crawley si rendeva conto (e non a torto) che
una simile prospettiva non presentava nulla di divertente per sua cognata.
«Dobbiamo andare a vedere i bellissimi dintorni di Londra,» pensò, «dicono tutti
che siano fra i più pittoreschi del mondo.» Pertanto manifestò di punto in bianco
un subitaneo interesse per Hampstead, per Hornsey, per Dulwich che - decise esercitava su di lei un grande fascino. Di conseguenza fece salire la sua vittima in
carrozza e rallegrò quelle gite in campagna con ripetuti discorsi sul conto di
Rawdon e consorte, fregiandoli di ogni sorta di particolari atti ad accrescere
l'indignazione della vecchia dama nei confronti di quella coppia fedifraga.
Forse Mrs. Bute Crawley aveva teso troppo la corda. Infatti, se da un lato
era riuscita a suscitare in Miss Crawley un'autentica avversione per quel suo
disobbediente nipote, dall'altro la malata sentiva altresì un vero e proprio odio e
un segreto terrore per la sua aguzzina, e desiderava ardentemente di sfuggirle. Ben
presto si ribellò contro le scarrozzate ad Highgate e a Hornsey. Voleva andare a
Hyde Park e basta. Da parte sua Mrs. Bute Crawley era certa che ivi avrebbero
fatalmente incontrato l'aborrito Rawdon. E così avvenne infatti. Un giorno,
durante la passeggiata, ecco apparire il calesse di Rawdon. Accanto a lui sedeva
Rebecca. Nell'equipaggio nemico Miss Crawley sedeva al solito posto, avendo a
sinistra la cognata e il barboncino, e sul sedile posteriore Miss Briggs. Il momento
fu veramente drammatico e Rebecca sentì battere il cuore all'impazzata quando
riconobbe la carrozza. Non appena le due vetture s'incrociarono, congiunse le
mani e rivolse alla vecchia signorina un'espressione improntata alla più viva
devozione, al più dolente affetto. Anche Rawdon tremò, e il viso gli si coprì di
rossore sotto i mustacchi e i favoriti tinti. Nell'altra carrozza solo la Briggs si sentì
commossa, e i suoi grandi occhi lanciarono ai vecchi amici un'occhiata carica di
nervosismo. La cuffia di Miss Crawley era invece rivolta pervicacemente in
direzione della Serpentina. Quanto a Mrs. Bute Crawley, chissà perché sembrava
bearsi della presenza del Carboncino: giocava con lui e lo chiamava tesoro,
cocchino, cagnolino mio bello. Dopo di che le carrozze si mossero, ciascuna
proseguendo nella propria direzione.
«È finita, per Giove,» disse Rawdon alla moglie.
«Proviamo un'altra volta,» disse Rebecca. «Caro, non potresti fare in modo
che una ruota della nostra carrozza s'incastrasse nelle loro?»
Rawdon non ebbe l'ardire di tentare quella manovra, ma quando le carrozze
tornarono ad incrociarsi, si levò in piedi e alzò la mano nell'atto di chi è pronto a
togliersi il cappello guardando fisso con gli occhi bene aperti. Questa volta Miss
Crawley non volse il capo dall'altra parte: al contrario, sia lei che Mrs. Bute
Crawley lo guardarono ostentatamente senza salutarlo. Il nipote si lasciò sfuggire
una bestemmia, ricadde sul sedile e a folle corsa si diresse verso casa.
Per Mrs. Bute Crawley era un palese e clamoroso successo. Ma ella ritenne
che il ripetersi di simili incontri poteva essere pericolosa. Miss Crawley, infatti,
era nervosissima. Pertanto decise che fosse assolutamente indispensabile lasciare
Londra per qualche tempo, e caldeggiò vivamente un soggiorno a Brighton.
XX • IL CAPITANO DOBBIN MESSAGGERO DI IMENE
Il capitano Dobbin non avrebbe saputo dire come e perché, ma sta di fatto
che si trovò a porre le basi del matrimonio fra George Osborne ed Amelia, a
combinarlo, ad organizzarlo. Se non fosse stato per lui, quelle nozze non
avrebbero mai avuto luogo. Doveva ammetterlo, e sorrideva con una certa
amarezza al pensiero che proprio a lui, fra tutti gli uomini del mondo, spettasse il
compito di presiedere a quegli sponsali. Ma, se quelle trattative costituivano
l'impegno più arduo che mai gli fosse stato affidato, quando aveva un dovere da
compiere il capitano Dobbin non mancava di assolverlo sino in fondo, senza
esitare, senza tergiversare. Per giunta si era convinto che se Miss Sedley non
avesse sposato George sarebbe morta di sconforto, cosicché aveva deciso di porre
in atto ogni sforzo per tenerla in vita.
Tralascio la descrizione dei particolari dell'incontro fra Amelia e George,
quando quest'ultimo fu ricondotto ai piedi (ma forse sarebbe meglio dire: tra le
braccia) della sua innamorata, grazie ai buoni uffici del suo ottimo amico
William. Un cuore assai più duro di quello di George si sarebbe commosso alla
vista di quel dolce visino, sconvolto dall'angoscia e dalla disperazione, e nell'udire
le semplici, tenere parole con le quali ella raccontò la pena che le aveva spezzato
il cuore. Dopo aver constatato che Amelia non era svenuta quando, tutta tremante,
aveva condotto Osborne al suo cospetto, e la fanciulla si era limitata a dar sfogo al
suo dolore reclinando il capo sulla spalla dell'innamorato e versando innumerevoli
lacrime di sollievo, l'anziana Mrs. Sedley, a sua volta profondamente sollevata,
ritenne doveroso lasciar soli i due giovani, e pertanto se ne andò mentre Emmy
piangeva stringendo la mano di George e la copriva umilmente di baci quasi lui
fosse stato il suo assoluto signore e padrone, e lei un'indegna colpevole che lo
supplicava di grazie e di favori.
Quell'atteggiamento sottomesso e devoto colmò George di commozione e al
tempo stesso di legittima compiacenza. In quella semplice fanciulla, a lui
ciecamente fedele, egli vedeva una specie di schiava, e si sentì segretamente
lusingato all'idea di disporre di un simile potere. Anche se era il Sultano si
sarebbe mostrato magnanimo, avrebbe rialzato fino a se Ester prostrata per farne
la sua regina. Inoltre la tristezza e la bellezza di Amelia lo commuovevano al pari
della sua sottomissione. Per questo cercò in ogni modo di consolarla, di
rianimarla, oserei dire di «perdonarla». Tutte le speranze, tutti i sentimenti di
Amelia, che sembravano morti, appassiti dentro di lei quando il suo sole si era
allontanato, rifiorirono come per magia quando la luce della sua vita tornò a
raggiare su di lei. Nessuno avrebbe potuto riconoscere, nel radioso faccino di
Amelia che quella notte poggiò sul guanciale del letto, lo stesso volto pallido e
assente che vi aveva riposato la notte innanzi. La brava servetta irlandese, tutta
contenta di quella trasformazione, le chiese il permesso di darle un bacio su quelle
gote fattesi improvvisamente rosee. Allora Amelia pose un braccio al collo della
ragazza e la baciò con trasporto quasi fosse stata una bimba. Quella notte aveva
finalmente goduto di un lungo sonno ristoratore, e la mattina, destandosi, aveva
gioito di una ragione d'inesprimibile felicità.
«Oggi tornerà!» pensò Amelia. «È il più bello, è il più meraviglioso degli
uomini!» E non c'è dubbio che, per parte sua, George fosse convinto di essere uno
degli uomini più magnanimi della terra, e che sposare Amelia significasse
compiere un sacrificio senza eguali.
Mentre al piano di sopra era in corso quel delizioso tête-à-tête, Mrs. Sedley
e il capitano Dobbin affrontavano i problemi pratici relativi alle varie possibilità
di sistemazione del giovane ménage. Infatti, sebbene Mrs. Sedley avesse lasciato i
due giovani avvinghiati in uno stretto abbraccio, era sicura che nessuno al mondo
avrebbe potuto far leva sul marito onde acconsentisse alle nozze tra sua figlia e il
figlio dell'uomo che l'aveva trattato in modo così perverso, indegno, mostruoso.
Indugiò a raccontare in minuti dettagli dei giorni felici della loro piena agiatezza,
quando per contro Osborne viveva in un alloggio oltremodo modesto in New
Road, e sua moglie era stata ben lieta di accettare qualche vestituccio di Jos,
allora bambino, che lei, la Sedley, le aveva regalato in occasione della nascita di
uno dei figli Osborne. Sì, l'ingratitudine di quell'uomo aveva spezzato il cuore di
suo marito, ne era certa. Mai, mai Mr. Sedley avrebbe potuto accondiscendere di
buon grado a quel matrimonio.
«E allora non rimane che una soluzione, signora,» esclamò il capitano
ridendo. «Debbono fuggire insieme sull'esempio del capitano Rawdon Crawley e
di quella piccola istitutrice, l'amica di Emmy.»
«Come, come? Ma davvero? E chi avrebbe immaginato un fatto simile?»
Mrs. Sedley parve subito elettrizzata da quella notizia. Ah, se anche la Blenkinsop
fosse stata lì ad ascoltare! Eh, già, lei aveva sempre diffidato di quella Miss
Sharp. Jos l'aveva scampata bella! E prese a diffondersi sui ben noti approcci
amorosi tra Rebecca e il ricevitore di Boggley Wollah.
D'altro canto Dobbin non temeva tanto l'ira di Mr. Sedley quanto la collera
dell'altro genitore, e confessava di essere alquanto incerto e ansioso circa la
reazione di quel vecchio, burbero tiranno, il facoltoso mercante di pellami di
Russell Square. Pensava al veto perentorio che quest'ultimo aveva posto al
matrimonio, ed egli sapeva che la rabbiosa testardaggine di Osborne non aveva
limiti: una volta presa una decisione a nessun patto era disposto a tornare sui suoi
propositi.
«L'unica possibilità che a George sia offerta per riconciliarsi col padre,»
pensava Dobbin, «è che George dia prova di valore nel corso dell'imminente
campagna di guerra. Se muore, morrà anche Amelia. Ma se non riuscisse a
distinguersi? Se non vado errato ha avuto una piccola eredità da sua madre
sufficiente a comperarsi il grado di maggiore. Altrimenti, che altro gli rimarrebbe
da fare salvo trasferirsi in campagna a fare il contadino, oppure in Canada, a fare
il cercatore d'oro.» In effetti, Dobbin pensava che, con una moglie simile,
qualunque uomo sarebbe stato pronto a stabilirsi anche in Siberia, e per quanto
sembri assurdo, quel giovanotto spericolato e imprudente non si rendeva conto
che la mancanza dei mezzi necessari per dare un ricevimento o per mantenere
carrozza e cavalli costituisse un valido impedimento al matrimonio di George
Osborne. Tali considerazioni lo spingevano a pensare che fosse opportuno
affrettare le nozze. Chissà che anche lui, dopo tutto, non desiderasse veder la cosa
conclusa entro il più breve termine possibile, come talvolta accade che dopo la
morte di una persona cara si desidera celebrare i funerali senza indugio, o come si
vuole affrettare una separazione, una volta decisa. Ad ogni modo un fatto è certo:
una volta presa in mano la cosa, Dobbin vi si dedicò con il massimo impegno.
Illustrò a George l'opportunità di agire senza indugio, gli fece balenare
l'eventualità di una successiva riconciliazione col padre in virtù di una citazione
sulla «Gazette»... Se fosse stato necessario, era pronto a recarsi di persona a
sfidare i due padri, ma nel frattempo scongiurava George di celebrare il
matrimonio prima che al Reggimento giungesse l'ordine, da tutti atteso, di partire
per l'estero.
Assorbito totalmente da questi preparativi nuziali, accompagnato dalla piena
approvazione di Mrs. Sedley la quale tutto desiderava tranne di parlarne
direttamente al consorte, Dobbin si recò da John Sedley nella sua nuova agenzia
che aveva quale recapito il Tapioca Coffee-House: infatti, da quando aveva
dovuto chiudere il suo ufficio e il destino lo aveva travolto, il povero fallito si
recava giornalmente a scrivere e a ricevere certe lettere che poi riuniva in fasci
misteriosi e infilava nella tasca posteriore della sua finanziera. Non c'è spettacolo
più squallido e miserando di quello offerto da un fallito che si dà tanto da fare,
inseguendo affari inesistenti: delle lettere che ha ricevuto da un ricco mittente e
che mostra a chicchessia; dei documenti unti e stazzonati coi quali Tizio o Caio si
dichiarano pronti ad aiutarlo, ed altri gli esprimono solidarietà, e che il poveraccio
legge con estrema compunzione, fondando sugli stessi tutta la sua speranza di
rimpannucciarsi e rifarsi una posizione. Senza dubbio il cortese lettore sarà stato
abbordato, nella sua vita, da qualcuno di codesti sventurati. Il pover'uomo vi
sospinge in un angolo, estrae dalla tasca sbottonata il fascio di lettere, lo slega, si
infila lo spago fra i denti e dopo aver scelto le lettere più «convincenti» ve le
mette sotto il naso. Chi non ha visto lo sguardo triste, ansioso, stralunato di quegli
occhi che vi scrutano, senza più un'ombra di speranza?
Dobbin scoprì un uomo siffatto in colui che un tempo era stato il florido e
cordiale Mr. John Sedley. La sua casacca, una volta sempre linda e impeccabile,
era lisa e mostrava il bianco delle cuciture. I bottoni spostati avevano perso la
doratura. Aveva le gote scavate, la barba lunga. Intorno al collo la gala della
cravatta pendeva floscia sotto il panciotto sgualcito. Un tempo, quando era solito
invitare i suoi dipendenti al caffè, vociava e rideva più di ogni altro, e tutti i
camerieri si affannavano a dargli retta. Adesso era penoso notare come osservasse
un atteggiamento di umile, sottomessa cortesia nei confronti di John, un vecchio
cameriere del Tapioca Coffee-House dagli occhi cisposi, le calze sporche e certe
scarpette sformate, cui spettava il compito di recare bicchieri pieni di cialde per
suggellare i fogli, recipienti di peltro pieni d'inchiostro e fogli di carta ai
frequentatori di quel locale deprimente nel quale si sarebbe detto che non si
consumasse nient'altro. Il vecchio Sedley, che tante volte quando Dobbin era un
bambino gli aveva fatto dei regalucci ed era solito prenderlo di mira con mille
burle innocenti, ora gli porse la mano con fare umile e gesto incerto, chiamandolo
«signore». Al che Dobbin provò un sentimento di vergogna, di rimorso come se,
in una forma o in un'altra, risalisse a lui la responsabilità degli eventi funesti che
avevano ridotto Sedley in quello stato.
«Sono veramente lieto di vedervi, capitano Dobbin... signor Capitano,» gli
disse dopo aver lanciato una rapida occhiata al visitatore che, con la sua alta
figura dinoccolata e la sua baldanza militare, aveva suscitato l'interesse del
cameriere in scarpini da ballo, i cui occhi ebbero un fuggevole baleno, e
risvegliato l'attenzione della vecchia signora vestita di nero che sonnecchiava
dietro il banco tra le vecchie tazzine da caffè. «Come sta il distinto signor
Consigliere, e Sua Signoria... vostra madre?» E mentre diceva «Sua Signoria»,
gettò uno sguardo al cameriere, quasi volesse dirgli: «Vedi, John, che conto
ancora delle amicizie fra le persone d'alto rango ?»
«Siete venuto per qualche affare?» continuò. «Ora i miei affari sono in mano
a due giovani amici, Dale e Spiggot. Aspetto che sia pronto il mio nuovo ufficio.
Come certo immaginate, questa per me è solo una sistemazione provvisoria.
Posso fare qualcosa per voi? Gradite qualcosa?»
Dobbin esitante, balbettante, gli rispose che no, proprio non aveva fame né
sete. Non aveva nemmeno alcun affare da trattare, ma la sua visita era dovuta al
semplice desiderio di rivedere Mr. Sedley, per constatare che stava bene e per
stringere la mano a un vecchio amico. Poi aggiunse, falsificando spudoratamente
la verità: «Mia madre sta benissimo cioè, sta molto male, e aspetta solo una bella
giornata per far visita a Mrs. Sedley. Come sta Mrs. Sedley? Voglio sperare che
stia bene.» Sul che s'interruppe perché gli venne fatto di meditare sulla sua
sfacciata ipocrisia. Infatti era una giornata radiosa e splendeva un magnifico sole,
almeno come può splendere in Coffin Court dove si trova il Tapioca CoffeeHouse. Quanto a Mrs. Sedley, basterà dire che l'aveva vista un'ora prima, quando
aveva condotto Osborne a Fulham a bordo della sua carrozza e ve lo aveva
lasciato in tête-à-tête con Amelia.
«Mia moglie sarà felicissima di rivedere Sua Signoria,» rispose Sedley,
tirando fuori le sue scartoffie. «Ho ricevuto una lettera veramente cortese di
vostro padre, signore, e vi prego di volergli recare i miei rispettosi ossequi. Lady
Dobbin ci troverà in una casa assai più piccola di quella nella quale eravamo soliti
ricevere i nostri amici, ma è molto confortevole e il cambiamento d'aria giova a
mia figlia, che in città non stava affatto bene (Vi ricordate, vero, della mia piccola
Emmy?). Eh, sì, a Londra non si sentiva molto bene.» Mentre il vecchio parlava il
suo sguardo vagava in ogni direzione senza scopo apparente, e con le dita
tamburellava sulle carte o giocherellava col nastrino rosso sgualcito che le legava.
Era evidente che il suo pensiero vagava altrove.
«Voi siete un militare,» continuò Sedley. «Ebbene, William Dobbin, io vi
faccio una domanda: era mai possibile prevedere che quello scellerato Corso
potesse fuggire dall'isola d'Elba? Quando i sovrani alleati si radunarono qui l'anno
scorso e noi offrimmo loro una cena nella City, e vedemmo il Tempio della
Concordia, i fuochi d'artificio e il ponte cinese in St. James's Park, quale uomo
sensato avrebbe potuto dubitare che la pace non fosse ormai definitivamente
ripristinata, dopo che avevamo addirittura cantato un Te Deum? Un'altra
domanda, William: potevo mai immaginarmi che l'imperatore d'Austria fosse un
traditore, niente di più e di diverso da un volgare traditore? Sì, sì, un traditore, un
maledetto traditore, un voltabandiera; non ho paura delle parole, io. Un intrigante
bugiardo che fin dalle prime mosse aveva in animo di far risalire suo genero sul
trono. Per conto mio la fuga di Napoleone dall'Elba non è stata altro che un
complotto, una trama ordita da metà delle potenze straniere, un imbroglio posto in
atto per far crollare i titoli di stato e mandare in malora il nostro paese. È per
questo che sono finito qui, William; è per questo che sono finito nella «Gazette».
Tutto per aver riposto la mia fiducia nell'imperatore di Russia e nel Principe
Reggente. Guardate, date un'occhiata alle mie carte. Ecco le quotazioni dei titoli
al 1° marzo ed ecco le quotazioni della rendita francese al 5 per cento quando io
ho comperato! Senza un complotto quel lestofante non sarebbe mai riuscito ad
evadere! Dov'era il commissario inglese che se lo è lasciato fuggire?
Bisognerebbe fucilarlo. Bisognerebbe trascinarlo davanti ad una corte marziale e
fucilarlo.»
«È questione di giorni e poi ci metteremo in moto per andare a stanare
Buonaparte,» esclamò Dobbin, alquanto allarmato dalla collera scatenata del
vecchio Sedley, cui cominciavano a gonfiarsi le vene sulla fronte, mentre col
pugno percuoteva le sue carte. «Il duca è già in Belgio e attendiamo da un
momento all'altro l'ordine di partire.»
«Non dovete dargli respiro. Uccidetelo, quel mascalzone, quel vile
furfante!» strillò Sedley. «Potessi partire volontario anch'io... ma sono un povero
vecchio rovinato da quel farabutto, e da tanti ladri, da tanti truffatori che qui, sul
suolo d'Inghilterra, devono la loro fortuna a me, a me in persona, e che oggi se ne
vanno a spasso in carrozza,» continuò, mentre la voce gli s'incrinava.
Dobbin fu vinto dalla commozione, nel contemplare lo spettacolo doloroso
del vecchio amico, un tempo così garbato ed ora quasi impazzito sotto i colpi
della sventura al punto da prorompere in discorsi deliranti e in attacchi di rabbia
senile. Abbiate pietà di quel povero fallito, o voi per i quali nulla ha importanza se
non il denaro e la reputazione, in ossequio a una norma fondamentale nella Fiera
della Vanità.
«Proprio così,» continuò Sedley. «Ti allevi delle serpi in seno e poi ti
mordono. Certi mendicanti uno li aiuta, li fa montare a cavallo... e poi, eccoli a
darti addosso per primi. Eh, voi capite benissimo a chi alludo, Dobbin, ragazzo
mio. Mi riferisco a quell'immondo individuo, a quell'arricchito di Russell Square
che ho conosciuto quando in tasca non aveva un penny, e che mi auguro con tutto
il cuore di ritrovarlo un giorno ridotto un pezzente, il miserabile che era quando
l'ho aiutato.»
«Me ne ha accennato il mio amico George,» disse Dobbin, cui premeva
arrivare al tema focale della conversazione. «I dissidi tra voi e suo padre lo hanno
molto addolorato; anzi, vi porto un suo messaggio.»
«Ah, dunque era questa la vostra commissione, vero?» esclamò il vecchio
balzando in piedi. «A quanto pare vuoi mandarmi le condoglianze! Molto gentile
davvero, quel damerino in ghingheri, con quelle arie da bellimbusto e tutta quella
sua spocchia da West End. Fa ancora la ronda intorno a casa mia? Se mio figlio
fosse un uomo degno di questo nome gli avrebbe già sparato una revolverata. È
un farabutto come suo padre e non voglio più sentir pronunciare il suo nome in
casa mia. Maledetto sia il giorno in cui ve l'ho lasciato entrare. Preferirei veder
mia figlia morta ai miei piedi che sposata a un individuo simile.»
«George non è in alcun modo responsabile dell'atteggiamento spietato di suo
padre, signore. L'amore di vostra figlia per lui è opera vostra quanto sua. Con
quale diritto potete disporre a piacere dei sentimenti di due giovani, e per puro
arbitrio spezzar loro il cuore?»
«Non dimenticatevi che non è stato suo padre a vietare il matrimonio. Sono
stato io!» gridò il vecchio Sedley. «Tra quella famiglia e la mia non sussiste più
alcun legame. Io sono caduto in basso, è vero, ma non ho raggiunto un tal grado
di abiezione. E questo raccontatelo pure a tutta la loro progenie: figlio, padre,
sorelle, tutti quanti!»
«Signore, persevero nella mia convinzione che voi non abbiate alcun diritto
di separare quei due,» replicò Dobbin a bassa voce, «e se non intendete accordare
a vostra figlia il consenso di sposarsi, sarà suo dovere sposarsi rinunciando a
ottenerlo. Per qual motivo Amelia dovrebbe morire o vivere col cuore infranto
solo perché avete la testa piena di stolte ubbie? Secondo me, ormai è come se lei
fosse sposata, proprio come se le pubblicazioni fossero state lette in tutte le chiese
di Londra. E se Osborne vi accusa, quale miglior risposta alle sue accuse del fatto
che suo figlio intende sposare la vostra figliola ed entrare così a far parte della
vostra famiglia?»
Quell'argomento fece balenare di soddisfazione gli occhi del vecchio Sedley.
Ma ciò non gl'impedì di continuare a ripetere che le nozze tra George e Amelia
non potevano essere celebrate senza il suo consenso.
«Vuol dire che saremmo costretti a farne a meno,» disse Dobbin. E come
aveva fatto il giorno prima con Mrs. Sedley, raccontò al marito di quest'ultima
della fuga di Rebecca col capitano Crawley.
Il vecchio parve divertito. «Siete terribili, voialtri capitani,» disse legando i
suoi scartafacci mentre sul volto gli si dipingeva un'espressione quasi ilare che
lasciò esterrefatto il cameriere dagli occhi acquosi, il quale non gliel'aveva mai
vista da quando il vecchio aveva cominciato a frequentare quello squallido locale
e servirsene come recapito.
Tutto sommato, l'idea di sferrare a Osborne, il suo nemico, un colpo simile,
recava a Sedley una sorta di sollievo. E alla fine il vecchio e Dobbin si separarono
da ottimi amici.
«Le mie sorelle dicono che ha dei brillanti grossi come uova di piccione,»
raccontava George ridendo. «Chissà come splendono sulla sua carnagione!
Quando se li metterà intorno al collo sarà come accendere un lampadario! Con
quei capelli neri e crespi... sembrano quelli di Sambo! Scommetto che quando è
stata presentata a Corte si è messa un anello al naso! Avrebbe dovuto infilarsi un
ciuffo di piume nella crocchia: sarebbe stata l'immagine calzata e vestita della
Belle Sauvage!»
George stava dileggiando una ragazza che il padre e le sorelle avevano
conosciuto di recente ed era motivo di speciale attenzione da parte di tutti i
membri della famiglia. Correva voce che possedesse non so quante piantagioni
nelle Indie Occidentali e un sacco di denari investiti in titoli di stato. Nell'elenco
degli azionisti della Compagnia delle Indie, dicevano, il suo nome era indicato
con tre asterischi. Possedeva una residenza di campagna nel Surrey e una casa in
Portland Place. Il nome di questa facoltosa ereditiera americana era stato
menzionato con particolare risalto nel «Morning Post». Una sua parente, certa
Mrs. Haggistoun, vedova di un colonnello, le faceva da chaperon e badava alla
sua casa. Era appena uscita di collegio, un'eletta scuola ove aveva completato gli
studi, e George e le sorelle l'avevano conosciuta in occasione di un ricevimento
dato dal vecchio Hulker (Huller, Bullock & Co. erano da gran tempo
corrispondenti della sua ditta nelle Indie Occidentali) nella casa di Devonshire
Place. Le ragazze le avevano riservato un'accoglienza improntata alla massima
cordialità, che l'ereditiera aveva ricambiato con molto garbo. Un'orfana con tutto
quel denaro e una posizione sociale del genere era un personaggio da considerare
col massimo interesse, avevano commentato le Osborne. Tornate dal ballo, non
avevano più smesso di parlare con Miss Wirt; si erano accordate per rivedersi di
frequente, senza por tempo in mezzo il giorno dopo avevano ordinato una
carrozza ed erano andate a trovarla. Mrs. Haggistoun, che oltre ad esser vedova
del sopraccitato colonnello era parente di Lord Binkie (e ne parlava in
continuazione) parve un po' altezzosa alle nostre care, semplici fanciulle, e un po'
troppo smaniosa di parlare dei suoi parenti altolocati. Ma Rhoda era veramente la
persona più simpatica che si potesse immaginare, così espansiva, cortese,
affabile... Forse non aveva molta classe, ma dava prova di avere un ottimo
carattere. Le ragazze decisero subito di chiamarsi col nome di battesimo.
«Avresti dovuto vedere il vestito che si è fatta per essere presentata a Corte,
Emmy,» esclamò Osborne ridendo. «È venuta apposta a farsi vedere dalle mie
sorelle prima di essere presentata in pompa magna da Lady Binkie, sai, quella
parente della Haggistoun. Aveva indosso certi diamanti che brillavano come le
lampade di Vauxhall la sera in cui ci siamo andati (ricordi, Emmy, Vauxhall? E
Jos che cantava al tesoruccio suo bello?) Diamanti e mogano, mia cara: te
l'immagini? Quale stupendo contrasto! E le piume bianche nei capelli... cioè...
volevo dire nella lana. Senza contare gli orecchini: due candelabri! Veniva voglia
di accenderli, per Giove! E dietro una coda di seta gialla che strisciava...
sembrava una cometa!»
«Quanti anni ha?» chiese Emmy a George che, la mattina stessa in cui si
erano rivisti, non la smetteva più di cianciare di quella nera effigie e di illustrarla
con quello spiritoso senso dell'esagerazione che nessuno al mondo (su questo non
v'era dubbio) possedeva al par di lui.
«È appena uscita di collegio, ma quella nera principessa deve avere almeno
ventidue o ventitré anni. E dovresti vedere come scrive... Certi errori d'ortografia!
Di solito è la vedova Haggistoun a scrivere le lettere per conto suo, ma alle mie
sorelle, data la confidenza, scrive personalmente: per farti un esempio, invece di
satin scrive sating e per St. James scrive St. Jams.»
«Ma allora questa è Miss Swartz, l'allieva di riguardo,» disse Emmy, la
mulatta di cuor tenero che era stata colta da una crisi isterica quando lei aveva
lasciato il convitto della Pinkerton.
«È proprio lei,» rispose George. «Suo padre era un ebreo tedesco (un
mercante di schiavi, a quanto si dice) e aveva qualcosa a che fare con l'isola dei
Cannibali, in un modo o nell'altro. E morto l'anno scorso e lei ha studiato nel
collegio di Miss Pinkerton. Adesso tutto quel che sa fare è suonare due brani al
pianoforte, cantare tre canzoni e scrivere, sempre a patto che la Haggistoun le stia
accanto per suggerirle l'ortografia esatta. Quanto a Jane e a Mary, le vogliono già
bene come se fosse una sorella.»
«Vorrei avessero amato me, piuttosto,» disse Emmy pensierosa. «Invece con
me sono sempre state piuttosto fredde.»
«Tesoro mio, se avessi posseduto duecentomila sterline avrebbero amato
anche te,» rispose George. «Sono state allevate con questa mentalità. Il nostro è
un ambiente ove tutto è valutato a suon di denari. Viviamo circondati da
banchieri, dai pezzi grossi della City, tutta maledetta gente che mentre ti parla fa
tintinnare in tasca le sue ghinee. Quel somaro di Fred Bullock, che sposerà Mary,
è un esemplare di questa specie. E altrettanto si può dire di Goldmore, il direttore
della Compagnia delle Indie Occidentali; e di Bipley, quel mercante di sego... sì,
uno che fa il nostro stesso mestiere,» disse George arrossendo, con un risolino
imbarazzato. «Tutto un mucchio di volgari quattrinai, che gli prenda un accidente!
Casco sempre dal sonno a quei loro noiosissimi pranzi, per non dire dei
ricevimenti che si danno in casa mia: mi fanno quasi vergognare. Mi sono
abituato a vivere tra gente moderna, tra gentiluomini, tra persone di mondo, non
fra un branco di mercanti pancioni! Mia cara, tu sei l'unica, fra tutti costoro, che
sappia parlare, che abbia il tratto di una vera signora. Ma tu sei un angelo, e
pertanto non potresti essere diversa. No, non lo negare. Tu sei l'unica signora
degna di questo nome. Del resto l'ha detto anche Miss Crawley, che ha sempre
vissuto in mezzo a persone appartenenti alla più alta aristocrazia europea. Quanto
a Crawley, quel capitano delle Guardie, è un giovanotto che mi va a genio, perché
non ha esitato a sposare la fanciulla che amava.
Anche Amelia provava la stessa simpatia per Mr. Crawley e per le stesse
ragioni: pensava che Rebecca sarebbe stata felice al suo fianco e sperava aggiunse ridendo - che Jos si sarebbe consolato. Così Amelia e George
continuarono a chiacchierare, proprio come ai vecchi tempi. Amelia ormai aveva
ritrovato la fiducia nel suo giovane innamorato, anche se fingeva (ipocrita!) di
essere gelosissima di Miss Swartz e ostentava di essere spaventatissima all'idea
che George la dimenticasse per quell'ereditiera, i suoi quattrini e i possedimenti di
St. Kitt's. Ma in realtà si sentiva troppo felice per coltivare timori o apprensioni di
qualsiasi genere. Ora che George le era di nuovo accanto non temeva né
ereditiere, né bellezze, né altri pericoli di sorta.
Quando nel pomeriggio il capitano Dobbin ritornò da loro, in uno stato
d'animo che esprimeva tutta la più affettuosa solidarietà nei confronti della
coppia, fu felice e sollevato nel trovare Amelia che, raggiante come un tempo,
rideva, cinguettava e cantava vecchie canzoni, seduta al pianoforte. E questi canti
vennero interrotti solo quando il suono di un campanello annunciò il ritorno di
Mr. Sedley dalla City, segnale che per George era giunto il momento di ritirarsi.
Occorre dire che Amelia, dopo un sorrisetto di benvenuto alquanto ipocrita
(giacché la sua intrusione l'aveva indispettita) per tutta la serata ignorò
completamente il capitano Dobbin. Ma lui non se ne dolse: le bastava vederla
felice. Ed era lieto di esser stato lui lo strumento di tanta felicità.
XXI • LITE PER UN'EREDITIERA
Qualsiasi ragazza con le doti di Miss Swartz può far esplodere una passione,
onde il vecchio Osborne prese ad accarezzare un sogno che avrebbe potuto
realizzarsi per mezzo della suddetta. In termini entusiastici e con la miglior
disposizione d'animo esortò le figlie a coltivare la loro amicizia per l'ereditiera e
dichiarò che per lui era motivo d'intima soddisfazione veder l'affetto delle sue
figliole rivolto verso persone tanto degne.
«Cara signorina,» diceva, «voi non troverete nella nostra modesta casa di
Russell Square il fasto e gli agi ai quali siete assuefatta nel West End. Le mie
figliole sono ragazze semplici, ingenue, e hanno concepito per voi un sentimento
d'affetto che fa loro onore... sì, proprio così, onore. Io non sono altro che un
modesto, un onesto mercante inglese... ve lo potranno confermare i miei amici
Hulker & Bullock, due degne persone che a suo tempo furono corrispondenti del
vostro defunto padre. Qui troverete in noi una famiglia unita, semplice, felice e, se
mi è concesso l'ardire di affermarlo, rispettabile. Una tavola frugale intorno alla
quale siede gente semplice, la quale peraltro vi dà di tutto cuore il suo benvenuto,
cara Miss Rhoda... anzi, lasciate che vi chiami semplicemente Rhoda, dal
momento che il mio cuore è già traboccante d'affetto per voi. Sono un uomo
franco che ama dire la verità, dunque vi dico chiaro e tondo che mi piacete. Un
bicchiere di champagne! Hicks, portate dello champagne a Miss Swartz!»
Non c'è dubbio: le espressioni del vecchio Osborne erano sincere, ed anche
le sue figlie lo erano (o quasi) quando protestavano il loro affetto per Rhoda. Per i
frequentatori della Fiera della Vanità coltivare affetto per i danarosi è un moto del
tutto spontaneo. Se la gente semplice considera con occhio benevolo la grande
Agiatezza (giacché io sfido un qualsiasi cittadino inglese a negare che per lui
l'idea della Ricchezza non sia straordinariamente gradevole, come sfido il lettore a
non guardare con interesse compiaciuto il suo vicino di tavola, se qualcuno gli
sussurra che possiede mezzo milione di sterline), se dunque la gente comune
guarda al denaro con tanto lieta disposizione d'animo, figuriamoci come lo
guardano gli scaltri uomini di mondo! L'unica cosa che bramano è il denaro: fan
festa solo ai quattrini, ai quali va incondizionatamente il loro affetto. I loro
delicati sentimenti affiorano solo quando si trovano a tu per tu con le persone
«interessanti» quelle, cioè, munite di palanche. Conosco persone in tutto e per
tutto rispettabili che mai si permetterebbero di esternare la loro amicizia nei
confronti di persone che non si distinguano per ceto e per censo. Lasciano
affiorare i loro sentimenti solo nelle occasioni che loro reputano «opportune».
Basti a provarlo il fatto che la famiglia Osborne al completo, cui non erano
bastati sedici anni per riuscire a guardare con affetto ad Amelia, in una sola serata
si sentì di provare la più viva e affettuosa simpatia per Miss Swartz: proprio in
conformità ai desideri dei più romantici sostenitori dell'amicizia a prima vista.
Quale strepitoso partito sarebbe stata per George, pensavano, perfettamente
concordi, le sorelle e la Wirt! E come di gran lunga preferibile a quella piccola,
insulsa Amelia! Un giovanotto brillante, aitante, con una buona posizione sociale,
sarebbe stato il marito su misura per Rhoda! La mente delle fanciulle era in
subbuglio, gremita com'era della visione di balli in Portland Place, di
presentazioni a Corte, di rapporti amichevoli con ampi strati dell'aristocrazia: alla
loro nuova, adorata amica non parlavano altro che di George e delle sue
sceltissime amicizie!
Anche il vecchio Osborne era dello stesso parere. In Miss Swartz vedeva
una moglie perfetta per il figlio, il quale avrebbe potuto lasciare l'esercito, entrare
in Parlamento e diventare un uomo politico, oltre che un personaggio alla moda. Il
sangue gli ribolliva di giusta esultanza britannica al pensiero che il nome degli
Osborne assurgesse ai fastigi della nobiltà grazie alla persona del figlio, e già si
vedeva progenitore di una cospicua serie di baronetti. Si diede da fare nella City e
in Borsa fino a quando non riuscì a scoprire per filo e per segno tutto quanto
concerneva la fortuna dell'ereditiera, come fosse investito il suo denaro e ove si
trovassero le sue proprietà terriere. Il giovane Fred Bullock (uno dei suoi
«informatori») avrebbe fatto di persona un'«offerta» (fu questa, né più né meno,
l'espressione alla quale ricorse il giovane banchiere) a proprio uso e consumo; se
non avesse già dato la sua parola a Maria Osborne. Per altro verso, non
potendosela assicurare come moglie, il disinteressato Fred si accontentava di
avere Rhoda quale cognata.
«George deve darsi da fare e conquistarla,» consigliava Fred. «È bene
battere il ferro finché è caldo, e il personaggio non è ancora troppo noto a Londra;
altrimenti nel giro di qualche settimana uno squattrinato qualsiasi del West End si
farà avanti coi suoi modestissimi averi e col suo titolo nobiliare, e taglierà fuori
tutti noi della City, come ha fatto l'anno scorso Lord Fitzrufus con Miss Grogram,
che era già fidanzata con Podder della Podder & Brown. Prima si fa, meglio è,
caro Mr. Osborne. Questa, per lo meno, è la mia opinione.» Così disse quel
bell'esemplare di Fred. Ciò non toglie che, quando il vecchio uscì dalla banca, il
giovane Bullock si ricordasse di Amelia e di quanto era carina e per una decina di
secondi del suo preziosissimo tempo indugiasse a rammaricarsi della disgrazia
che aveva colpito la sventurata fanciulla.
È così che, mentre il buon cuore di George e il suo fedele amico e saggio
consigliere Dobbin avevano riportato il fuggitivo ai piedi di Amelia, i genitori e le
sorelle del promesso sposo stavano architettando in suo favore un «magnifico»
matrimonio, senza prendere nemmeno lontanamente in considerazione l'ipotesi
che lui potesse dissentire.
Quando il vecchio Osborne «lasciava capire» (secondo la sua espressione)
qualcosa, nemmeno l'ultimo degli imbecilli avrebbe potuto fraintendere ciò che
voleva. Dare una pedata a un domestico o farlo ruzzolare giù per le scale,
significava che intendeva licenziarlo. Così, con la stessa delicatezza e lo stesso
gusto per la perifrasi, disse chiaro e tondo in faccia a Mrs. Haggistoun che
avrebbe firmato un assegno di cinquemila sterline il giorno in cui suo figlio
avesse impalmato la sua pupilla; e dopo averle «lasciato capire» questa sua
intenzione, ritenne di aver agito da perfetto e sottile diplomatico. Infine fu la volta
di George: gli «fece capire» quali fossero i suoi propositi e gli ordinò di sposare
senza por tempo in mezzo l'ereditiera, così come avrebbe ordinato al suo
maggiordomo di sturare una bottiglia di vino, o al suo segretario di scrivere una
lettera.
Questo tono di comando irritò profondamente George, entusiasta e felice
com'era di aver ripreso a far la corte ad Amelia, il cui affetto incondizionato lo
rallegrava intimamente. Per giunta il contrasto fra i modi e l'aspetto di Emmy e
quelli dell'ereditiera rendevano tanto più incongrua e sgradevole l'ipotesi di un
matrimonio con quest'ultima. Carrozze e palchi all'opera, pensava. Sarebbe
proprio fantastico mostrarsi in giro con una bellezza color cioccolata! Non
dimentichiamo, poi, come il giovane Osborne fosse ostinato quanto suo padre: se
voleva una cosa, era altrettanto deciso a ottenerla, e quando si inquietava la sua
violenza non era da meno di quella di suo padre nei momenti di pessimo umore.
La prima volta in cui il padre gli lasciò intendere che avrebbe dovuto
mettere il suo cuore a disposizione di Miss Swartz, George cercò di guadagnar
tempo. «Avreste dovuto pensarci prima, signore,» disse. «Ora non è possibile:
siamo in attesa dell'ordine, ormai imminente, di partire per il Continente.
Rinviamo tutto al mio ritorno, se ritornerò.» Dopo di che si sforzò di fargli capire
che un momento come quello, mentre il Reggimento era sul piede di partenza,
non poteva essere meno adatto, che i pochi giorni (o le poche settimane) in cui si
sarebbe ancora trattenuto in patria avrebbe dovuto dedicarli agli affari, e non a far
la corte a una ragazza. Per cose del genere avrebbe avuto tutto il tempo che voleva
una volta tornato in patria col grado di maggiore. «Sì,» aggiunse con aria
soddisfatta, «vi prometto che un giorno o l'altro la "Gazette" riporterà il nome di
George Osborne.»
Il padre rispose facendo leva sulle informazioni ricevute alla City: se George
avesse perso del tempo prezioso, qualcuno nel West End ne avrebbe approfittato
per circuire l'ereditiera. Anche se non poteva sposare Miss Swartz subito, doveva
fidanzarsi con lei senza por tempo in mezzo. Il matrimonio poteva benissimo
esser celebrato al ritorno (a parte il fatto che, potendo disporre di diecimila
sterline all'anno standosene tranquillamente a casa, era da imbecilli andare in
guerra e mettere a repentaglio la propria vita).
«Quindi vorreste che venissi segnato a dito come un pusillanime e sareste
disposto a vedere il nostro nome disonorato solo per assicurarci il denaro di Miss
Swartz?»
Il vecchio fu profondamente colpito da questa osservazione; ma doveva pur
rispondere qualcosa, e siccome non era solito derogare dalle sue decisioni, rispose
al figlio: «Domani pranzerai a casa, ed ogni volta che Miss Swartz sarà da noi ti
troverai qui per porgerle i tuoi omaggi. Se ti servono quattrini, puoi benissimo
andare da Chopper.» Ed ecco che un nuovo ostacolo ostruiva la strada di George
intralciando i suoi progetti nuziali con Amelia, dei quali lui e Dobbin avevano
segretamente discusso in disparate occasioni.
Conosciamo già quel che ne pensava Dobbin circa la linea di condotta che
George avrebbe dovuto seguire. Quanto a Osborne, una volta presa una decisione,
qualsiasi impedimento gli si parava dinanzi non faceva che render più ferma la
sua determinazione.
Il bruno oggetto della cospirazione messa in atto dai principali membri della
famiglia Osborne era, dal canto suo, affatto all'oscuro dei progetti che venivano
tramati a suo riguardo (progetti che, circostanza invero assai strana, Mrs.
Haggistoun le aveva sottaciuto). Pertanto continuava a scambiare i complimenti e
l'adulazione di cui era oggetto da parte delle Osborne come attestazioni di un
sentimento d'affetto veramente spontaneo, ed essendo (come già abbiamo avuto
modo di osservare) di temperamento espansivo e passionale, replicava alle
smancerie delle ragazze con ardore veramente tropicale. Del resto, per esser
sinceri fino in fondo, anche lei aveva trovato qualcosa di attraente nella casa di
Russell Square: in una parola, le sembrava che George fosse un giovanotto molto
simpatico. Le sue basette avevano fatto breccia nel suo cuore fin dalla prima sera
in cui le aveva viste al ballo degli Hulcker, e come ben sappiamo non era la prima
ad esserne stata affascinata. George aveva quell'espressione al tempo stesso
arrogante e melanconica, languida e altera... Dava l'impressione di esser uomo
dalle passioni segrete, dalle avventure e dai dolori nascosti. E poi aveva quella
voce roca e profonda... Sapeva dire che faceva tanto caldo quella sera, oppure
offrire un gelato alla sua partner di ballo in tono mesto e confidenziale, quasi le
stesse dando notizia della morte di sua madre, o si apprestasse a farle una
dichiarazione d'amore. Passava da conquistatore in mezzo alla fitta schiera di
giovanotti alla moda dell'ambiente cui apparteneva suo padre, e tra queste figure
affatto mediocri gli era facile primeggiare. Alcuni di costoro lo odiavano; altri lo
schernivano; altri ancora, come Dobbin, lo ammiravano senza riserve, e i suoi
mustacchi avevano cominciato ad esercitare il loro fascino e a fare breccia nel
cuore di Miss Swartz.
Ogni qual volta si presentava l'occasione d'incontrarlo in Russell Square,
quella semplice e cordiale fanciulla si affrettava a correre in casa delle sue amiche
Osborne. Spendeva un mucchio di quattrini in abiti, braccialetti, cappelli e
vistosissime piume. Faceva appello a tutta la sua abilità per adornarsi e piacere a
colui che l'aveva conquistata, e metteva in atto tutto il modesto patrimonio dei
suoi vezzi per assicurarsene i favori. Le ragazze con la massima compunzione la
supplicavano di cantare, e lei cantava le tre canzoni che conosceva, di buon grado
suonava al pianoforte i tre brani che conosceva ogni qual volta le venivano
richiesti, ed ogni volta ci provava più gusto. Durante questi piacevoli
trattenimenti, Miss Wirt e Mrs. Haggistoun stavano in disparte, a discorrere su un
canapè.
Il giorno successivo a quello in cui il padre gli aveva «fatto capire» i suoi
propositi, un po' prima di pranzo George se ne stava seduto su un divano in un
atteggiamento alquanto languido e malinconico che riusciva oltremodo attraente e
spontaneo. Era stato da Mr. Chopper nella City, seguendo il suggerimento del
padre il quale, pur concedendogli senza batter ciglio somme ragguardevoli, non
gli aveva mai voluto assegnare un vero e proprio mensile e gli accordava del
denaro di tanto in tanto, a suo piacimento; poi era stato a Fulham e aveva
trascorso tre ore con la sua cara piccola Amelia, e finalmente era rientrato a casa
dove, in salotto, aveva trovato le sorelle in crinolina sorretta da un guardinfante, le
due vecchie dame che cianciavano in un angolo appartato e la brava Miss Swartz
vestita del suo prediletto color ambra, oltre che adorna di braccialetti di turchese,
anelli a profusione, fiori, piume e ogni sorta di fronzoli: sembrava uno
spazzacamino alla Festa di Maggio.
Le ragazze, dopo aver tentato invano di indurlo a prender parte alla
conversazione, cominciarono a parlare fra loro di moda e a far pettegolezzi, al
punto da nausearlo con le loro stupide chiacchiere. George paragonava il loro
contegno a quello di Emmy; le loro voci ciangottanti alla sua tenera vocina; le
loro smancerie, i loro gemiti e la loro affettazione con le sobrie movenze e la
soave grazia di lei. La Swartz sedeva nella poltrona ove un tempo era solita sedere
Emmy: teneva le mani cariche di gioielli raccolte in grembo, sul vestito di raso
color ambra, le spille e gli orecchini che baluginavano mentre lei girava gli occhi
tondi per la stanza. Era felicissima di starsene lì a far nulla, e sicurissima di
esercitare su tutti un fascino irresistibile. Le Osborne non avevano mai visto nulla
che le stesse meglio del raso.
«Maledizione!» avrebbe detto George più tardi, parlando in confidenza con
un amico. «Sembrava una bambola di porcellana, di quelle che passano la loro
giornata a sorridere e a scuoter la testa. Per Giove, Will, non so proprio che cosa
mi abbia trattenuto dal tirarle addosso uno dei cuscini del divano!» Per fortuna era
riuscito a trattenersi...
Le sorelle cominciarono a suonare The Battle of Prague. «Piantatela con
quella lagna, accidenti!» urlò George dal suo divano, furibondo. «Mi fa
impazzire. Suonateci voi qualcosa, Miss Swartz, cantate qualcosa, qualsiasi cosa.
Basta che non sia The Battle of Prague.»
«Devo cantare Blue-Eyed Mary? O preferite l'aria del Cabinet?» chiese la
Swartz.
«Oh, sì, l'aria del Cabinet! È deliziosa!» esclamarono le sorelle.
«Ma se l'abbiamo già sentita!...» esclamò in tono di noia irritata il
misantropo seduto sul divano.
«Potrei cantare Fluvy du Taji,» propose Miss Swartz in tono molto umile,
«però non ricordo le parole.» Era l'ultima canzone entrata nel suo repertorio.
«Oh, Fleuve du Tage,» esclamò Miss Maria, «l'abbiamo, l'abbiamo.» E
corse a cercare l'album nel quale si trovava la canzone.
Il caso volle che quella canzone, allora in gran voga, fosse stata regalata alle
Osborne da una loro giovane amica la quale aveva scritto il proprio nome sul
frontespizio. Fu così che Miss Swartz, quand'ebbe terminato il suo brano tra gli
applausi di George (il quale rammentava come Fleuve du Tage fosse una delle
canzoni predilette da Amelia) e sperava nella richiesta di un bis, sfogliando a caso
le pagine dell'album posò per un istante lo sguardo sul titolo e vide scritto in un
angolo «Amelia Sedley».
«Mio Dio!» esclamò rigirandosi con moto subitaneo sullo sgabello del
pianoforte. «Ma questa è la mia Amelia! Sì, sì, è lei, la mia compagna di studi da
Miss Pinkerton, a Hammersmith! Ma certo, è proprio lei! Oh, parlatemi di lei, ve
ne prego!»
«Non devi nemmeno nominarla!» rispose Miss Maria con voce concitata,
«la sua famiglia è disonorata. Suo padre si è comportato con papà in modo
estremamente scorretto, e in quanto a lei, qui dentro non deve essere nominata.»
Questa era la risposta di Maria allo sgarbo usatole da George con «The Battle of
Prague.» «Siete amica di Amelia?» esclamò quest'ultimo balzando in piedi. «Che
Dio vi benedica, Miss Swartz. Non dovete credere una sola parola di quanto
dicono le mie sorelle. E in ogni caso a lei non va rimproverato nulla. È la
migliore...»
«Sai perfettamente che non devi parlare di Amelia,» intervenne Jane. «Papà
non vuole.»
«E chi me lo può impedire? Parlo di Amelia quando voglio, io! E ripeto che
è la migliore, la più soave fanciulla, la più gentile creatura di tutta l'Inghilterra. E
anche se suo padre è un fallito, le mie sorelle non valgono un'unghia del suo
piede. Se davvero siete sua amica, andate a trovarla, Miss Swartz: ha bisogno di
avere amici accanto a sé, in questo momento. Dio benedica tutti coloro che le
sono amici. Chiunque parla bene di lei è mio amico e chiunque ne parla male è
mio nemico. Grazie, Miss Swartz, grazie di cuore.» E George si alzò per andare a
stringerle la mano.
«George! George!» esclamò in tono implorante una delle sorelle.
«Lo ripeto ancora una volta: ringrazio chiunque sia amico di Amelia Sed...»
prese a dire George fieramente. Ma s'interruppe: in quell'istante il vecchio
Osborne era entrato nella stanza col volto livido e gli occhi simili a due carboni
ardenti.
George si era interrotto a metà di quella frase, ma sentiva ribollirglisi il
sangue e nemmeno l'intera progenie di Osborne sarebbe riuscito a piegarlo.
Pertanto si riprese subito e rispose allo sguardo incollerito del padre con un altro
così deciso e pieno di sfida, che il vecchio non seppe reggerlo e distolse gli occhi
per rivolgersi ad un'altra persona.
«Mrs. Haggistoun,» disse, sentendo che la lotta stava per avere inizio,
«permettete che vi conduca a cena. Tu, George dà il braccio a Miss Swartz,»
aggiunse, mentre si avviavano verso tavola.
«Vedete, Miss Swartz,» disse George a costei, «io ed Amelia siamo
fidanzati si può dire dalla nascita.» E per tutta la durata della cena continuò a
chiacchierare con tale brio da stupirsene lui per primo, ed ebbe l'ulteriore effetto
di accentuare vieppiù il nervosismo del padre, in vista dello scontro che senza
dubbio si sarebbe verificato non appena le signore si fossero ritirate.
La differenza tra i due uomini stava nel fatto che, sebbene il padre fosse
violento e prepotente, il figlio aveva tre volte il coraggio e la saldezza di nervi
dell'altro, ed era in grado non solo di attaccare ma di resistere a un attacco.
Avendo capito che era ormai giunto il momento in cui la disputa con suo padre
andava affrontata a viso aperto, prima che la lite avesse inizio si godette la cena
mangiando di ottimo appetito. Al contrario, il vecchio Osborne era palesemente
nervoso e bevve troppo. Mentre chiacchierava con le sue vicine di tavola la parola
gli s'inceppò, mentre l'atteggiamento freddo e sprezzante del figlio non faceva che
accentuare la sua collera. La calma con la quale George, agitando il suo tovagliolo
e piegandosi in un profondo inchino, aprì la porta per far uscire le sorelle e Miss
Swartz, lo fece quasi impazzire. E con la stessa calma, subito dopo si versò un
bicchiere di Borgogna e ne bevve un sorso guardando suo padre con l'espressione
di chi dica: «Signori della Guardia, sparate per primi.» Anche il vecchio si rifornì
di munizioni, ma la bottiglia tintinnò urtando contro il bordo del bicchiere, mentre
lui cercava di riempirlo.
Alla fine trasse un profondo respiro, e col volto cianotico quasi stesse per
scoppiare prese a dire: «Come vi permettete, signor mio, di menzionare una
persona simile nel mio salotto alla presenza di Miss Swartz? Mi avete inteso? Vi
sto chiedendo come avete osato farlo.»
«Basta così, signore,» rispose George. «E non pronunciate la parola "osato".
Non è il verbo al quale vi sia consentito ricorrere rivolgendo la parola a un
capitano dell'esercito britannico.»
«Per vostra regola a mio figlio dico quello che mi va a genio. E se mi va a
genio non gli lascio nemmeno un centesimo. Ne faccio un mendicante, se mi va di
farlo»
«È vero, sono vostro figlio,» rispose George in tono altero, «ma sono anche
un gentiluomo. Di conseguenza vi prego di dirmi tutto ciò che avete da
comunicarmi, o di darmi gli ordini che vi proponete usando il linguaggio al quale
sono avvezzo.»
Ogni qual volta il giovane assumeva quel tono albagioso, il padre era
sopraffatto da un sentimento misto di timore e di esasperazione. In segreto, il
vecchio temeva che il figlio fosse più signore di lui, e forse i miei lettori avranno
avuto modo di constatare come in questa Fiera della Vanità è soprattutto l'uomo
volgare a diffidare delle persone di qualità.
«Da mio padre io non ho avuto tutto ciò di cui voi, invece avete potuto
usufruire: istruzione, denaro e ogni altro vantaggio. Se io avessi potuto
frequentare la società che certuni, invece, hanno potuto frequentare grazie al mio
denaro, forse mio figlio non avrebbe modo di vantarsi della sua superiorità e di
permettersi quelle sue arie da West End (e il vecchio Osborne pronunciò queste
parole nel tono più sarcastico). Tuttavia ai miei tempi un gentiluomo non si
sarebbe permesso di insultare il proprio padre. Se io avessi fatto una cosa simile,
il mio mi avrebbe scaraventato giù per le scale a calci.»
«Io non vi ho affatto insultato, signore. Semplicemente, vi ho pregato di
ricordarvi che sono un gentiluomo come lo siete voi. So benissimo che mi date un
mucchio di quattrini,» continuò rigirandosi tra le mani il rotolo di banconote che
quella mattina stessa aveva ritirato da Mr. Chopper, «è difficile che possa
dimenticarmene, dal momento che me lo ricordate abbastanza spesso.»
«Vorrei che non dimenticaste altre cose,» rispose il padre. «vorrei che
ricordaste che fino a quando vi degnerete di onorare questa casa della vostra
ambita presenza, io sono il padrone, e quel nome... quel... quella che voi... quella,
dico...»
«Qualche cosa, signore?» chiese George con un vago sorriso, mentre
tornava a colmare il proprio bicchiere di borgogna.
Il padre proruppe in una bestemmia. «Quel nome, il nome dei Sedley
intendo! Il nome di quella maledetta gente non dov'essere pronunciato, in questa
casa. Mai! A nessun patto!»
«Non sono stato io a pronunciare per primo il nome di Miss Sedley, signore.
È stata mia sorella, che si è espressa sul suo conto in termini irriguardosi
parlandone a Miss Swartz. E per Giove, siate certo che io la difenderò ovunque!
Nessuno potrà permettersi di sparlare di lei al mio cospetto! La mia famiglia l'ha
già offesa abbastanza, direi, perché le sia concesso di insevire continuando a
ingiuriarla ora che è caduta in miseria. Sono pronto a uccidere qualsiasi persona,
eccetto voi, che osi dirne male.»
«Continuate, continuate pure,» disse il vecchio con gli occhi che
sembravano volergli schizzare dalle orbite.
«Continuare che cosa? A parlare del modo in cui abbiamo trattato
quell'angelo di ragazza? Chi mi ha ordinato di amarla? Non siete stato voi, forse?
Avrei anche potuto sceglierne un'altra, magari di estrazione sociale superiore alla
nostra. E invece no: ho preferito obbedirvi. Ed ora che il suo cuore è mio voi mi
ingiungete di buttarlo, di castigarla, fors'anche di condannarla a morte! E tutto
questo per colpe commesse da altri! È vergognoso!» esclamò George
riscaldandosi sempre più a mano a mano che procedeva nel discorso. «È indegno
venir meno alla parola data a una fanciulla che è un angelo: una fanciulla che è di
gran lunga superiore alle persone in mezzo alle quali vive, e certo susciterebbe
l'invidia generale se non fosse anche così dolce, così garbata. Davvero non riesco
a capacitarmi come qualcuno possa odiarla. Se io l'abbandonassi, signore, credete
forse che lei saprebbe dimenticarmi?»
«In casa mia non voglio sentire queste stupidaggini, questi maledetti, stupidi
sentimentalismi!» strillò il vecchio. «Nella mia famiglia, niente matrimoni con dei
pezzenti! Se preferite sacrificare ottomila sterline all'anno, siete liberissimo di
farlo. Ma in tal caso, per Giove, non avete da fare che una sola cosa: prender la
vostra roba e andarvene. Una volta per tutte, signor mio: volete obbedire e fare
quello che dico, oppure no?»
«Sposare quella mulatta?» chiese George tirandosi il colletto della camicia.
«Non mi piace il colore dei mulatti, signore. Proponetela in moglie al negro che fa
lo spazzino in Fleet Market. Io, una Venere ottentotta non la sposo di certo.»
Con gesto frenetico Mr. Osborne tirò il cordone del campanello come
quando chiamava il maggiordomo per avere del vino; poi, col volto stravolto e
paonazzo gli ordinò di cercare una carrozza per il capitano Osborne.»
«È fatta!» esclamò George, quando un'ora più tardi entrò da Slaughter,
pallidissimo in volto.
«Che cosa, vecchio mio?» gli chiese Dobbin.
George raccontò per esteso il colloquio tra lui e suo padre.
«La sposerò domani stesso,» disse con un'imprecazione, «l'amo ogni giorno
di più, Dobbin.»
XXII • UN MATRIMONIO E UN PEZZETTO DI LUNA DI MIELE
Anche il nemico più coraggioso e tenace cede al morso della fame: per
questo il vecchio Osborne si sentiva abbastanza tranquillo circa l'esito del
burrascoso incontro col figlio che abbiamo riferito poc'anzi. In cuor suo era
convinto che, non appena George si fosse trovato a corto di quattrini, si sarebbe
arreso senza condizioni. In effetti, era seccante che il giovanotto si fosse rifornito
ben bene di denaro il giorno stesso in cui aveva avuto luogo il loro primo litigio;
ma anche quel rifornimento poteva costituire un cespite solo temporaneo, e tutt'al
più avrebbe ritardato la resa di George senza assolutamente escluderla. Per
qualche giorno padre e figlio s'ignorarono completamente: il primo era tetro e
silenzioso, ma per nulla inquieto, dal momento che, come abbiamo detto, riteneva
di avere in pugno un'arma infallibile per piegare George e gli bastava attendere
fiducioso l'esito di quella sua tattica. Riferì alle figlie della disputa insorta fra lui e
George, ma ordinò di non dare la minima importanza alla cosa; anzi, impose che
il figlio, qualora si fosse presentato a casa, venisse accolto come se nulla fosse.
Ogni giorno, a tavola, veniva apparecchiato il suo posto, e può darsi che il
vecchio anelasse con una certa ansia di vederlo ricomparire. Ma George non si
fece vedere. Qualcuno si recò da Slaughter a chieder di lui, e seppe che tanto il
capitano quanto il suo amico Dobbin avevano lasciato Londra.
In una gelida e ventosa mattina d'aprile, mentre la pioggia percuoteva il
selciato della strada ove si trovava il vecchio Slaughter, George Osborne entrò
nella sala col volto pallidissimo e contratto. Indossava un elegante vestito blu dai
bottoni di ottone e un panciotto di pelle di daino, in conformità alla moda di quel
tempo. All'interno, già si trovava ad attenderlo l'amico Dobbin, anch'egli in abito
blu coi bottoni d'ottone. Per l'occasione aveva rinunciato alla casacca militare e ai
calzoni grigi alla francese dei quali era solito rivestire la sua allampanata figura.
Dobbin lo attendeva da oltre un'ora. Aveva sfogliato tutti i giornali, ma
senza riuscire a leggerne una riga. Almeno venti volte aveva sbirciato l'orologio,
poi aveva posato lo sguardo sul lastricato sferzato dalla pioggia, sulla gente che
passava facendo risuonare con fragore la suola delle soprascarpe di legno e
proiettando lunghe ombre sulla strada lucente. Aveva tamburellato con le dita sul
tavolo, si era mangiucchiato le unghie fino a far quasi sanguinare le dita, giacché
aveva la deplorevole abitudine di «abbellire» in tal modo le sue lunghe mani;
aveva tentato di tenere in equilibrio il cucchiaio da tè sull'orlo della lattiera,
l'aveva rovesciata... e via dicendo. Insomma, aveva palesato in ogni possibile
modo la sua irrequietezza, e con disperato accanimento aveva posto in atto tutti
gli espedienti ai quali si ricorre in caso di attese lunghe e snervanti.
Alcuni frequentatori del caffè, suoi commilitoni, lo burlavano a causa di
quell'insolito, elegante abbigliamento, e del suo stato di agitazione. Uno di essi, il
maggiore del Genio Wagstaff, gli domandò se stava per sposarsi. Dobbin
sorridendo gli rispose che in caso di simile lieto evento gli avrebbe mandato una
fetta della torta nuziale. Alla fine comparve il maggiore Osborne, vestito con
molta eleganza ma, come abbiamo detto, molto pallido e agitato. Si deterse il
volto con un ampio e olezzante fazzoletto di seta gialla, strinse la mano a Dobbin,
diede un'occhiata all'orologio e disse a John, il cameriere, di portargli la bottiglia
del curaçao. Quando ebbe davanti a sé il liquore, ne tracannò più d'un bicchiere
con gesti avidi e nervosi, mentre l'amico si affrettava a informarsi sulla sua salute.
«Non ho chiuso occhio fino all'alba,» rispose George. «Ho avuto la febbre e
un dannato mal di testa. Alle nove mi sono alzato e sono andato da Hummums a
fare un bagno turco. Sai, mi sento proprio come la mattina in cui ho fatto la sortita
con Rocket a Quebec.»
«Anch'io,» disse Dobbin, «ma quella mattina ero molto più agitato di te.
Ricordo che ti eri fatto una lauta colazione. Suvvia, manda giù un boccone.»
«Sei proprio un caro amico, Dob. Proprio. Bevo alla tua salute. E addio...»
«No, no, due bicchieri sono fin troppi. John, porta via il curaçao. Metti un
po' di pepe sulla faraona; però sbrigati perché dovremmo essere già là.»
Questo breve incontro fra i due ufficiali si svolgeva intorno alle undici e
mezzo del mattino. Da tempo, fuori del caffè attendeva una carrozza chiusa nella
quale un domestico del capitano Osborne aveva collocato i bagagli di
quest'ultimo. Dobbin e George si affrettarono ad entrarvi riparandosi con un
ombrello, mentre il domestico sedeva a cassetta imprecando contro la pioggia e
contro l'umidità che sprigionava la persona del cocchiere sistemato accanto a lui.
«Meno male,» si disse, «che davanti alla chiesa troveremo una carrozza migliore
di questa. È già qualcosa.» La carrozza percorse Piccadilly, dove a quel tempo la
Apsley House e il St. George's Hospital erano ancora in giubba rossa, i lampioni
erano a petrolio, Achille non era ancora nato, né era stato eretto l'arco di Pimlico
coronato da quell'orrendo monumento equestre che domina tutt'attorno. Poi
attraversò Brompton e giunse davanti a una piccola chiesa nelle adiacenze di
Fulham Road.
Quivi attendeva un tiro a quattro, ed una di quelle carrozze cosiddette «di
cristallo». Pioveva a dirotto, cosicché si erano raccolti ben pochi curiosi.
«Perdio, avevo detto due cavalli, non quattro!» esclamo George.
«È stato il mio padrone a volerne quattro,» rispose il domestico di Mr.
Joseph Sedley, che li stava aspettando. E mentre entravano in chiesa sul passo dei
loro padroni, tanto il servitore di Osborne quanto il lacchè di Sedley convennero
che quel matrimonio senza un ricevimento e senza nemmeno l'ombra di un regalo
era roba da miserabili.
«Ah, finalmente!» disse il nostro vecchio amico Jos facendosi avanti. Siete
in ritardo di ben cinque minuti, caro George. Che giornata orribile! Maledizione,
sembra proprio l'inizio della stagione delle piogge nel Bengala. Ma la mia
carrozza non lascia filtrare l'acqua. Venite, dunque: mia madre ed Emmy vi
stanno aspettando in sacristia.»
Jos Sedley era al massimo della sua venustà: aveva il collo della camicia più
alto del solito, e le guance accese, sopra le gale che ondeggiavano vistosamente
sulla camicia variegata. Gli stivali di vernice non esistevano ancora, ma le belle
gambe di Jos splendevano a tal punto, fasciate com'erano dai suoi bellissimi
stivali di cuoio ungherese, che sembravano proprio quelli su cui, in una vecchia
raffigurazione, un uomo si specchia nell'atto di radersi. Sulla sua giacca verde lino
spiccava una coroncina nuziale di fiori, simile a un grande, candido fiore di
magnolia.
Insomma, George aveva gettato il dado: era in procinto di sposarsi. In ciò
risiedeva la causa del suo pallore, del suo nervosismo, della sua notte insonne,
della sua agitazione mattutina. Fra quanti hanno vissuto la stessa esperienza, molti
ammettono di aver provato la stessa emozione. Dopo tre o quattro cerimonie, ci si
fa l'abitudine; ma il primo tuffo (tutti ne convengono) è spaventoso.
La sposa - ebbe a riferirmi in seguito il capitano Dobbin - indossava un
lungo manto di seta marrone, e in testa aveva una cuffietta di paglia adorna di un
nastro rosa. Dalla cuffia pendeva un velo di pizzo bianco di Chantilly, regalatole
da Jos Sedley, suo fratello. Anche il capitano Dobbin, dopo aver chiesto il suo
consenso le aveva fatto dono di un orologio con una catena d'oro, ed ella in
quell'occasione aveva desiderato adornarsene. Quanto alla madre, le aveva
regalato l'unico gioiello che le fosse rimasto: una spilla di brillanti. Durante il
servizio religioso Mrs. Sedley, seduta in un banco, pianse ininterrottamente,
consolata da Mrs. Clapp, la padrona di casa, e dalla cameriera irlandese. Quanto
al vecchio Sedley, non aveva voluto presenziare: le sue veci erano svolte da Jos,
che pertanto accompagnò la sposa all'altare, mentre Dobbin fungeva da testimone
dello sposo.
In chiesa, oltre ai celebranti e al piccolo gruppo costituito dagli sposi, dai
testimoni e dai parenti, non c'era anima viva. I due camerieri sedevano sdegnosi in
un angolo distante. La pioggia percuoteva con fragore i vetri delle finestre,
chiaramente percepibile, nei momenti di pausa della funzione, insieme con i
singhiozzi della vecchia Sedley. Le parole del vicario echeggiavano cupe e sonore
nella chiesa deserta. Il «sì» di Osborne fu pronunciato con voce bassa e profonda,
ma nessuno udì quello di Amelia, salito dal cuore alle labbra in un soffio
impercettibile.
Terminata la cerimonia, Jos si fece avanti e diede un bacio alla sorella, e
doveva essere la prima volta che lo faceva da molti mesi a quella parte. Quanto a
George, aveva perso la sua aria smarrita ed appariva fiero e raggiante. «Adesso
tocca a te, William» disse, posando una mano sulla spalla dell'amico Dobbin.
Questi si avvicinò e sfiorò una guancia di Amelia.
Poi tutti passarono in sacristia a firmare il registro. «Dio ti benedica,
Dobbin,» disse George serrandogli la mano, mentre gli occhi gli si facevano
umidi. William annuì in segno di risposta. Era troppo emozionato per poter
parlare.
«Scrivi subito, e appena puoi vieni a trovarci,» disse George. Poi, quando
Mrs. Sedley ebbe preso congedo dalla figlia con un abbraccio isterico, gli sposi si
avviarono verso la carrozza. «Levatevi di torno, monelli!» gridò George a un
gruppetto di ragazzi che, fradici di pioggia, indugiavano davanti alla porta della
chiesetta. Mentre si dirigevano alla carrozza, la pioggia bagnò il volto degli sposi.
Le ghirlande nuziali pendevano flosce sul risvolto delle casacche dei postiglioni. I
pochi ragazzi radunatisi sul posto gridarono un evviva con scarso entusiasmo,
dopo di che la carrozza si mise in moto e partì schizzando fango tutt'attorno.
William Dobbin rimase a guardarla dall'ingresso della chiesa, offrendo uno
spettacolo alquanto buffo ai pochi spettatori, che apertamente risero di lui; ma egli
non si curò di loro.
«Suvvia, venite a casa a prender qualcosa, Dobbin,» disse una voce, mentre
una mano grassoccia si posava sulla sua spalla. Al che il bravo giovane smise di
fantasticare, ma il capitano non aveva la minima voglia di andare a fare un
brindisi insieme con Jos Sedley.
Pertanto aiutò Mrs. Sedley a salire in carrozza insieme con le sue
accompagnatrici e a Jos, e li salutò senza aggiunger altro. Così anche la seconda
carrozza si mise in moto, salutata da un altro ironico evviva dei monelli.
«Venite qui, ragazzacci,» disse Dobbin. Diede loro qualche sixpence e poi
s'avviò tutto solo sotto la pioggia. Dunque, era finita. Eccoli sposati e felici, se
Dio vuole. Mai, da quando era ragazzo, si era sentito così triste, così solo; e con
tutto il suo cuore dolente desiderò che quei primi giorni passassero presto, per
poterla rivedere di nuovo.
Circa dieci giorni dopo la cerimonia testé descritta, tre giovanotti di nostra
conoscenza stavano godendosi l'attraente spettacolo offerto dalla lunga fila di
verande su un lato, e dal mare azzurro sull'altro, che Brighton elargisce ai
visitatori. A volte è verso il mare baluginante di mille riverberi e punteggiato di
candide vele, con cento e cento cabi, e disposte sull'orlo del manto d'acque
turchine, che si posa lo sguardo estatico del londinese; altre volte lo sguardo dello
spettatore curioso delle cose umane trascura il paesaggio e preferisce volgersi alle
verande e alla folla.
Da una di esse giungono le note di un pianoforte, che una fanciulla dal capo
incorniciato di boccoli suona per sei ore al giorno, con gran gioia dei vicini. In
un'altra siede Polly, la graziosa bambinaia, che culla tra le braccia il signorino
Omnium: alla finestra sottostante è affacciato Jacob, il papà del bimbetto, che fa
colazione divorando contemporaneamente una pozione di scampi e le pagine del
«Times». Più in là le signorine Leery cercano con lo sguardo i giovani ufficiali di
artiglieria che certamente passeggiano su e giù lungo la scogliera; e c'è anche
qualche esponente del mondo della City, impegnato a puntare un cannocchiale più
grande di un telescopio verso il mare aperto, onde non perdersi nemmeno
un'imbarcazione da diporto o un natante che si avvicini alla riva o se ne allontani.
Ma ci è forse concesso il tempo per descrivere Brighton? Brighton, una Napoli
pulita con Lazzaroni per bene, quella Brighton che ha sempre un aspetto allegro,
vivace e variopinto come la casacca di Arlecchino, e che al tempo della nostra
storia distava da Londra sette ore di viaggio (mentre ora bastano poco più di
un'ora e mezzo), e che potrà avvicinarsi a Londra ancor di più, a meno che
Joinville non sopravvenga a bombardarla.
«Che fior di ragazza c'è nell'appartamento sopra la modista,» disse uno dei
tre giovanotti a zonzo lungo il mare. «Per Giove, Crawley, avete visto? Quando
sono passato mi ha fatto l'occhiolino!»
«Non le spezzate il cuore, vecchia canaglia,» disse un altro dei tre, «non
scherzare col suo amore, brigante d'un Don Giovanni!»
«Suvvia!» disse Jos Sedley, tutto soddisfatto, mentre lanciava alla servetta
un'occhiata che, secondo lui, avrebbe dovuto tramortirla di piacere. Jos, a
Brighton, appariva ancora più elegante e vistoso che al matrimonio di sua sorella.
Portava certi panciotti all'ultimissima moda, così originali e chiassosi che
sarebbero bastati a dar la fama di elegantone a qualsiasi bellimbusto di minori
pretese. Indossava una giubba di taglio militare adorna di alamari, bottoni neri,
guarnizioni e greche ricamate. Da qualche tempo indulgeva sempre più
ostentatamente a queste pose militaresche. Camminava a fianco dei suoi due
amici (veri ufficiali, questi ultimi) facendo tintinnare gli speroni, dandosi un
mucchio d'arie e lanciando occhiate dense di passione a tutte le servette che gli
sembravano meritevoli della sua attenzione.
«Che cosa facciamo fino al ritorno delle signore?» chiese il nostro dandy. Le
signore avevano fatto una passeggiata sulla sua carrozza fino a Rottingdean.
«Potremmo fare una partita a biliardo,» propose uno degli amici, quello con
le basette impomatate.
«No, no, niente biliardo, caro capitano Crawley,» rispose Jos,
spaventatissimo. «Ne ho avuto abbastanza ieri.»
«Ma se siete un ottimo giocatore!» rispose Crawley ridendo. «Non trovi,
Osborne? Quando ha beccato quelle cinque palle! Un colpo da maestro!»
«Formidabile, veramente!» confermò Osborne. «Jos al biliardo è un vero
demonio. Peccato che non ci siano tigri, da queste parti: potremmo ammazzarne
un paio prima di cena! (Guarda che bella ragazza, Jos: che caviglie, eh?...)
Raccontaci quell'episodio della caccia alla tigre, Jos, spiegaci come hai fatto a
cavarla dalla giungla. È una storia veramente esaltante,» continuò con uno
sbadiglio. «Tutto sommato ci si annoia, in questo posto. Che cosa possiamo
fare?»
«Se andassimo a vedere i cavalli che Snaffler ha appena portato dalla fiera di
Lowes?» propose Crawley.
«Oppure potremmo andare a mangiare della gelatina di frutta da Dutton. C'è
una camerierina...» disse quel brigante di Jos, nella speranza di prendere due
piccioni con una fava.
«E perché non andare invece ad assistere all'arrivo del "Lightning"? È quasi
l'ora,» disse George. Questa proposta ebbe migliore accoglienza di quelle relative
alla gelatina di frutta e ai cavalli; onde i tre si diressero verso la stazione di posta
per attendere l'arrivo del «Lightning».
Mentre s'incamminavano, incrociarono la splendida carrozza aperta di Jos:
un sontuoso veicolo adorno di un bellissimo stemma, su cui era solito percorrere
le vie di Cheltenham, guidare tutto solo, in atteggiamento pomposo, con le braccia
incrociate e il cappello sulle ventitré (ma era più soddisfatto se aveva modo di
portarvi a spasso qualche bella signora seduta al suo fianco).
In quel momento la carrozza ospitava due signore: una, piuttosto bassa di
statura, dai capelli castano chiari, vestita all'ultima moda; l'altra con un mantello
di seta marrone e una cuffietta di paglia adorna di un nastro rosa, e un visino
tondo, roseo, soffuso di felicità, che dava gioia a guardarlo. Quando la carrozza
giunse all'altezza dei tre uomini, quest'ultima fece fermare la carrozza, ma dopo
questo gesto di autorità parve vergognarsene, e arrossì al colmo dell'imbarazzo.
«Abbiamo fatto una magnifica passeggiata, George,» disse, «ma... siamo
felici di esser di ritorno... Joseph, ti prego, non farlo tardare!»
«Non portate i nostri mariti alla perdizione, Mr. Sedley, perfido che non
siete altro,» esclamò Rebecca. E in segno di monito agitò davanti agli occhi di Jos
un ditino ricoperto da un raffinatissimo guanto di capretto francese. «Niente
biliardo, niente fumo, niente sregolatezze, mi raccomando!»
«Ma... Mrs. Crawley, vi pare! Vi giuro che...» fu tutto quanto Jos riuscì a
farfugliare a guisa di risposta. E assunse un atteggiamento vezzoso piegando il
capo da un lato con una specie di risolino rivolto alla sua vittima, mentre con una
mano si appoggiava al bastone da passeggio che teneva nascosto dietro la schiena,
e con l'altra (quella adorna del diamante) si gingillava con le gale della camicia
sotto il panciotto.
La carrozza si rimise in moto, ed egli con la mano adorna del gioiello lanciò
un bacio alle signore. Come gli sarebbe piaciuto se tutta Cheltenham, tutta la
Chowingree, tutta Calcutta lo avessero visto mentre, in compagnia di un
notissimo dandy come Rawdon Crawley, ufficiale delle Guardie, salutava con
gesto familiare una così incantevole esponente del sesso femminino!
I nostri giovani sposi avevano scelto Brighton per trascorrervi i primi giorni
di matrimonio, ed erano scesi allo Ship Inn soggiornandovi in pace e a loro agio
fin quando vi era giunto Jos. Ma non era la loro unica conoscenza. Ecco che un
giorno, di ritorno da una passeggiata sul lungomare, chi mai incontrarono
all'albergo? Nientemeno che Rebecca e consorte! Subito si riconobbero, e senza
un attimo di esitazione Becky si gettò fra le braccia dell'amica. Crawley e
Osborne si strinsero la mano con moderata cordialità, e Becky, nel giro di poche
ore, trovò il modo di far scordare a Osborne la spiacevole discussione che
avevano avuto.
«Certamente ricorderete il nostro ultimo incontro in casa di Miss Crawley.
Fui veramente scortese con voi, capitano Osborne. Mi era parso che il vostro
contegno nei confronti di Amelia non fosse dei più affettuosi. Di qui la mia
irritazione. Mi sono mostrata sgarbata, impertinente, ingrata. Me ne scuso davvero
e vi prego di perdonarmi. Rebecca gli tese la mano con una grazia così spontanea
e commovente, che Osborne non poté esimersi dallo stringerla. Miei cari, avviene
di rado che non si ottenga una cosa riconoscendo francamente e umilmente il
proprio torto. Una volta mi accadde di conoscere un tale; degnissimo esponente
della Fiera della Vanità, che usava deliberatamente piccoli torti al prossimo per
avere successivamente il destro di scusarsene. E con quale esito? Semplicissimo:
il mio amico Crocky Doyle era amato da tutti, e se veniva giudicato impulsivo, è
altrettanto vero che passava per uomo oltremodo onesto e sincero, il più sincero
che si potesse trovare. Onde anche George ritenne sincero l'atto di contrizione di
Rebecca.
Le due giovani coppie avevano infinite cose da raccontarsi, a cominciare dai
loro matrimoni. Con reciproco interesse e assoluta schiettezza si confidarono le
loro immediate prospettive per l'avvenire. Per quanto concerneva il matrimonio di
George, sarebbe spettato all'amico capitano Dobbin renderne edotto il padre; e il
giovane Osborne non nascondeva la sua inquietudine, quando pensava alle
conseguenze che avrebbe potuto suscitare quella notizia. Per altro verso Miss
Crawley, su cui riposavano le speranze di Rawdon Crawley, non mostrava ancora
di cedere. Vista l'impossibilità di rimetter piede nella casa di Park Lane, gli
affezionati nipoti l'avevano seguita fino a Brighton, ove avevano piazzato i loro
emissari davanti alla sua porta, a montarvi la guardia in permanenza.
«Se vedessi la faccia di certi amici di Rawdon che fanno la guardia alla
nostra porta!» disse Rebecca ridendo. «Ti è mai capitato di vedere la faccia di un
creditore, mia cara? Oppure quella di un ufficiale giudiziario e del suo assistente?
Per tutta la settimana due di quei poveri diavoli non si sono mossi dalla porta
dell'erbivendolo dirimpetto a casa nostra. Non abbiamo potuto muoverci fino alla
domenica. Se la zietta non cede, che cosa sarà di noi?»
Rawdon, scoppiando a ridere ogni momento, raccontò innumerevoli
aneddoti circa l'abilità di sua moglie nello sbarazzarsi dei loro creditori. Coi
creditori, giurava Rawdon, non c'era una donna in tutta Europa che sapesse
destreggiarsi come Rebecca. Subito (o quasi) dopo le nozze aveva dovuto
impratichirsi in questo genere di schermaglie, e Rawdon aveva avuto modo di
apprezzare il valore inestimabile di una moglie del genere. Disponevano di ampio
credito, ma avevano anche un numero incredibile di conti da pagare e pochissimo
denaro liquido. Ma Rawdon si guardava bene dal lasciarsi condizionare da una
simile situazione e non perdeva il suo buonumore. Chiunque conosca a fondo la
Fiera della Vanità sa con quanta disinvoltura vi guazzino coloro che sono
impegolati nei debiti fino al collo. Non si privano di nulla e sono sempre contenti
come pasque. Prova ne sia che nell'albergo di Brighton Rawdon e Rebecca erano
ospitati nelle stanze migliori, e l'albergatore, servendo loro il primo piatto, si
piegava nell'inchino riservato ai clienti di speciale riguardo. Rawdon, con molto
sussiego, si permetteva di criticare il vino, di far commenti poco lusinghieri sul
cibo. L'aspetto altezzoso, certe consuetudini acquisite, gli stivali, gli abiti eleganti,
producono talvolta il medesimo effetto di un pingue conto in banca.
Le due coppie di sposi si scambiavano frequenti visite nelle loro camere.
Poi, una sera, due o tre giorni dopo il loro incontro, mentre le signore
chiacchieravano fra loro, gli uomini si misero a giocare a carte. Questo
passatempo (oltre alle partite a biliardo con Jos Sedley, che subito dopo il suo
arrivo a bordo dell'elegante carrozza si era cimentato nel gioco in questione
insieme con Rawdon) avevano rimpannucciato un poco il nostro Crawley,
accordandogli certi vantaggi offerti solo dalla moneta sonante, senza di cui
talvolta anche gli spiriti più eletti non possono fare a meno.
Dunque, i tre amici andarono ad assistere all'arrivo del «Lightning»;
puntualissima, gremita dentro e sul tetto, la diligenza giunse a grande velocità
mentre echeggiava il corno del postiglione, e si fermò davanti alla stazione di
posta.
«Evviva, ecco il vecchio Dobbin!» gridò George felicissimo di vedere,
issato in cima all'imperiale, il suo caro amico che aveva rinviato sino a quel
momento la promessa visita a Brighton. «Come va, vecchio mio? Sono
felicissimo che tu sia venuto. Ed anche Emmy sarà molto lieta di vederti,» disse
Osborne stringendo calorosamente la mano di Dobbin quando questi riuscì a
districarsi e a scendere dal tetto della diligenza. Poi a voce bassa e agitata
aggiunse: «Quali nuove? Sei stato in Russell Square? Che cosa ha detto il
vecchio? Su raccontami tutto!»
Dobbin era molto pallido e grave «Sì,» rispose, «ho visto tuo padre. Come
sta Amelia? Cioè, volevo dire... come sta Mrs. Osborne? Fra poco ti dirò tutto, ma
per ora mi limito alla notizia più importante...»
«Coraggio, parla, vecchio mio...»
«Abbiamo ordine di partire per il Belgio: l'esercito al completo, le Guardie e
tutti gli altri. Heavytop ha un attacco di gotta ed è furibondo perché non può
muoversi. Sarà O' Dowd ad assumere il comando. C'imbarcheremo a Chatham la
settimana prossima.»
Quelle notizie di guerra caddero sui nostri giovani innamorati come un colpo
di fulmine, e sul volto di tutti si dipinse un'espressione grave ed assorta.
XXIII • IL CAPITANO DOBBIN CONTINUA A TESSERE LA SUA
TRAMA
Quale segreto ipnotismo ha il potere di trasformare uomini solitamente pigri,
o indifferenti, o schivi, in persone sagge attive e risolute, quando si tratti di agire
nell'interesse altrui? Come Alexis, dopo qualche seduta dal dottor Elliotson
diventa insensibile al dolore, legge con la nuca, vede a miglia di distanza, prevede
ciò che avverrà la settimana successiva ed è capace di altre azioni sorprendenti
che non potrebbe assolutamente compiere in condizioni normali, così, nelle cose
di questo mondo, per magico effetto dell'amicizia il pavido si trasforma in
ardimentoso, il timido acquista fiducia in se stesso, il pigro diventa attivo, e
l'impetuoso scopre la prudenza, la ponderazione. E come si spiega, per contro, che
un avvocato non intenda occuparsi di una causa che lo riguarda, e lo induca a
chiedere l'intervento di un dotto collega? Cosa spinge un medico, quando si sente
male, a convocare un suo rivale anziché sedersi, tirar fuori la lingua davanti alla
specchiera appesa sopra il caminetto, ed esaminarla per conto proprio, o ad
autoprescriversi una medicina, seduto alla scrivania del suo studio? A queste
domande sapranno come rispondere i miei avveduti lettori, i quali non ignorano
che noi siamo al tempo stesso creduli e scettici, arrendevoli e ostinati: decisi in
tutto ciò che riguarda gli altri, ma sempre incerti in ciò che riguarda noi stessi. Ad
ogni modo, una circostanza è indubbia: il nostro amico William Dobbin, sempre
perplesso in tutto ciò che lo concerneva di persona (al punto che, se i suoi genitori
glielo avessero chiesto, non avrebbe esitato a scendere in cucina e a sposare la
cuoca, e capacissimo, quando si trattava dei suoi interessi, di giudicare una
difficoltà insormontabile l'attraversamento di una strada) si occupò dei casi
personali di George Osborne con una dedizione e uno zelo simili a quelli con cui
il più rabbioso e avvertito egoista si sarebbe occupato dei propri.
Pertanto, mentre George e la sua giovane consorte se ne stavano a Brighton
godendosi i primi giorni della loro luna di miele, il bravo William era rimasto a
Londra in veste di procuratore generale di George per occuparsi di tutte le
vertenze pratiche legate a quelle fresche nozze. Suo compito era quello di andare
a trovare Mr. Sedley e sua moglie, cercando di tenere il primo di buon animo;
migliorare i rapporti fra Jos e suo cognato, e fare in modo che la posizione e la
dignità di cui godeva Jos nella sua qualità di ricevitore di Boggley Wollah
valessero in certo qual modo a compensare la perdita di prestigio e di ruolo
economico patita dal padre, inducendo così il vecchio Osborne a riconciliarsi con
l'idea di quell'unione; infine doveva comunicare la notizia a quest'ultimo nel meno
indisponente dei modi.
Prima di affrontare il vecchio Osborne e farlo partecipe delle novità che
spettava a lui riferirgli, Dobbin ritenne opportuno cercare di accattivarsi la
simpatia degli altri membri della famiglia, onde avere - se appena fosse stato
possibile - tre alleate nelle sorelle di George.
In cuor loro, pensava, non possono essere in collera. Nessuna donna può
inquietarsi al cospetto di un matrimonio d'amore. Strilleranno un poco, ma poi
finiranno per sentirsi alleate del fratello, e allora tutti e tre cingeremo d'assedio il
vecchio Osborne. Così il nostro machiavellico capitano cercò di architettare una
varia gamma di espedienti e stratagemmi per rivelare alle Osborne il segreto del
fratello, naturalmente procedendo per gradi, con tutta la cautela possibile.
Svolse una piccola indagine sugli impegni mondani della madre e venne a
sapere quali ricevimenti sarebbero stati dati durante la stagione dagli amici di
Mrs. Dobbin, e dove avrebbe avuto maggiori probabilità d'imbattersi nelle sorelle
di George; e sebbene Dobbin, non diversamente da tanti uomini di buon senso,
detestasse le feste da ballo e i trattenimenti mondani, ben presto riuscì ad
accertare che le sorelle Osborne erano invitate in casa di certi conoscenti. Dopo
essersi presentato alla festa in questione ed aver danzato con ciascuna di loro
almeno un paio di volte mostrandosi con entrambe estremamente gentile, osò
chiedere a Miss Jane Osborne di concedergli qualche minuto la mattina seguente
per una breve conversazione: aveva da comunicarle, le disse, notizie di
grandissima importanza.
Cosa fu a spingere Jane a fare un passo indietro, a posare istante lo sguardo
su di lui per poi chinarlo al suolo? Come mai per poco non svenne tra le sue
braccia, come sicuramente sarebbe accaduto se lui, con mossa oltremodo
opportuna e tempestiva, non le avesse pestato un piede costringendola a ritrovare
il proprio controllo? Perché parve tanto agitata davanti a quella richiesta di
Dobbin? Impossibile saperlo. Sta di fatto, comunque, che quando l'indomani il
capitano entrò in salotto, Maria non c'era e Miss Wirt uscì dalla stanza per andare
a chiamarla, onde il capitano e Jane rimasero a tu per tu. Tacevano entrambi,
cosicché il tic-tac della pendola sul caminetto (quella adorna del gruppo col
Sacrificio di Ifigenia) echeggiava in modo quasi sfrontato.
«Splendida festa, ieri sera!» disse alla fine Miss Osborne, in tono
incoraggiante. «E... quanti progressi avete fatto come ballerino, capitano Dobbin.
Immagino che qualcuno vi abbia insegnato...» aggiunse poi con garbata civetteria.
«Dovreste vedermi quando ballo il reel con la moglie del maggiore O'Dowd;
e quando ballo la giga... Avete mai visto ballare la giga? D'altra parte con voi
ballerebbe bene chiunque, Miss Osborne; siete bravissima in qualsiasi danza!»
«È forse giovane e bella la moglie del maggiore?» chiese la vezzosa
interlocutrice. «Ah, dov'essere difficile essere la moglie di un militare! C'è da
stupirsi che abbiano ancora voglia di ballare, e soprattutto in questo periodo di
guerra. Vi confesso, capitano Dobbin, che quando penso ai pericoli che corre il
nostro George, ai rischi cui si trova esposto un povero militare, mi vien da
tremare. Sono molti gli ufficiali sposati nel ...mo Reggimento, capitano Dobbin?»
«Parola mia, sta giocando a carte troppo scoperte,» bisbigliò la Wirt. Ma
questa breve osservazione, pronunciata a titolo di intermezzo, non venne udita
attraverso lo spiraglio della porta dietro la quale la governante spiava la coppia.
«Proprio di recente uno dei nostri ufficiali si è sposato,» rispose Dobbin
cogliendo la palla al balzo. «Era un amore che durava da molti anni e i due
coniugi non hanno un centesimo.»
«Oh, che cosa deliziosa, che cosa romantica!» esclamò Miss Jane, nell'udire
il capitano parlare di amore «che durava da molti anni» e di quell'assoluta povertà.
Questa calorosa partecipazione all'evento incoraggiò il capitano.
«È, il migliore del reggimento,» continuò Dobbin. «In tutto l'esercito non ce
n'è un altro bello e ardimentoso quanto lui. Anche la sposa, del resto, è
graziosissima. Sono certo che vi piacerà moltissimo, quando la conoscerete, Miss
Osborne!»
Jane pensò che fosse ormai giunto il momento; che il nervosismo di Dobbin
(chiaramente rivelato dalle contrazioni del volto, dai brevi colpi che il suo piede
batteva sul pavimento dai gesti concitati coi quali si abbottonava e sbottonava la
giubba) fosse dovuto semplicemente al fatto che il capitano non riusciva ancora a
trovare il coraggio per spiegarsi del tutto. Di conseguenza si apprestò, trepidante,
ad ascoltarlo. E siccome proprio in quel momento la pendola col gruppo di
Ifigenia si preparava, dopo una convulsione preliminare, a battere dodici colpi,
all'ansiosa zitella quei rintocchi parvero durare fino all'una, tanto le sembrarono
lunghi «Ma non è di matrimoni che sono venuto a parlare... o meglio, di quel
particolare matrimonio... cioè, volevo dire... cara Miss Osborne, si tratta del
nostro caro amico George,» riuscì a profferire Dobbin.
«Di George?» rispose la ragazza, esternando così palesemente la propria
delusione che dietro la porta Maria e Miss Wirt scoppiarono a ridere, e persino
quel mascalzoncello di Dobbin fu tentato di sorridere, poiché non era del tutto
all'oscuro della situazione. Spesso infatti George lo aveva preso in giro
dicendogli: «Maledizione, Will, ma perché non ti sposi la vecchia Jane. Se glielo
proponessi, non esiterebbe ad accettare: scommetto cinque contro due che ti
accetta.»
«Sì, di George,» continuò Dobbin. «Tra lui e Mr. Osborne c'è stato uno
screzio; ma io nutro per lui la massima stima; siamo sempre stati come due
fratelli, perciò mi auguro di tutto cuore che tutto possa appianarsi. La nostra
partenza per il fronte è ormai imminente, Miss Osborne, l'ordine può giungere da
un momento all'altro. Il campo di battaglia, lo si sa, è un'incognita... Per carità,
non è il caso che vi agitiate, Miss Osborne, tuttavia vorrei che padre e figlio si
congedassero l'uno dall'altro da bravi amici.»
«Non c'è stato nessuno screzio, capitano,» disse Jane. «Si è trattato piuttosto
di una delle solite scenate di papà. Papà agisce soltanto per il bene di George:
basterebbe che lui tornasse e tutto si aggiusterebbe per il meglio, ne sono certa.
Come sono certa che avrebbe il perdono della nostra cara amica Rhoda, che se n'è
andata di qui rattristata e in collera. Le donne, capitano, hanno forse un difetto:
sono sempre disposte al perdono!»
«Voi siete un angelo, e lo fareste certamente,» replicò Dobbin, con crudele
astuzia. «D'altro canto nessun uomo potrà mai perdonarsi di far soffrire una
donna. Voi cosa provereste, se un uomo vi fosse infedele?»
«Morirei... mi getterei dalla finestra... mi avvelenerei... soffrirei, morirei, ne
sono certissima,» proruppe la donzella, la quale era passata attraverso due o tre
delusioni d'amore senza che mai un pensiero del genere le avesse sfiorato il
cervello.
«Ebbene,» continuò Dobbin, «esistono altre fanciulle non meno felici di voi,
e dotate di pari sensibilità. Non alludo a quell'ereditiera delle Indie Occidentali,
Miss Osborne, ma ad una povera fanciulla che George ha sempre amato, e che sin
dall'infanzia è cresciuta nella convinzione di dover votare a lui i suoi più teneri
pensieri. L'ho vista prostrata dalla miseria, ma incapace di lamentarsene. Tuttavia
ha il cuore spezzato, ed è del tutto innocente. Mi riferisco a Miss Sedley. Cara
Miss Osborne, mi rifiuto di pensare che un cuore generoso come il vostro possa
mettersi in urto con vostro fratello per esserle stato fedele. Credete forse che la
sua coscienza gli avrebbe dato requie se lui l'avesse abbandonata? Vogliate
conservarle la vostra amicizia; lei, dal canto suo, vi ha sempre voluto bene. Io... io
sono appunto venuto per incarico di George; per dirvi ch'egli considera un sacro
dovere il fidanzamento con Amelia, e per scongiurarvi di essere solidale con lui.»
Quando Dobbin era in preda a una forte emozione, dopo un attimo
d'incertezza rivelava una sorprendente facondia. Del resto, s'intuiva che, in
quell'occasione, la sua eloquenza aveva prodotto un certo effetto sulla sua
interlocutrice.
«Ma...» rispose quest'ultima... «si tratta di una cosa molto... molto
sorprendente... penosa, davvero inconcepibile... Papà dirà che George ha sprecato
la straordinaria occasione che gli si era offerta... Nondimeno riconosco ch'egli ha
trovato in voi un coraggioso paladino, capitano Dobbin. Anche se non può
essergli di grande utilità,» concluse dopo una pausa. «Credetemi, provo per Miss
Sedley una pena sincera. Nondimeno, pur essendo sempre stati gentili con lei, non
abbiamo mai visto di buon occhio il suo matrimonio con mio fratello, e papà non
darà mai il suo consenso, ne sono assolutamente certa. Senza contare che una
ragazza di buona educazione, e con la testa sulle spalle, deve... voi mi capite...
deve rendersi conto... È necessario che George rinunci ad Amelia, caro capitano;
deve proprio farlo.»
«Dunque, un uomo dovrebbe abbandonare la donna amata nel momento in
cui questa è colpita dalla sventura?» chiese Dobbin porgendo la mano alla
ragazza. «È proprio questo il vostro consiglio, Miss Osborne? Cara Miss Osborne,
voi dovete esserle amica, George non può lasciarla. Secondo voi, un uomo
dovrebbe lasciarvi se voi foste povera?»
Questa domanda insinuante turbò Miss Jane, che accusò il colpo. «Mi
domando,» rispose «se noi donne si debba credere a tutto ciò che dite voi uomini.
Il cuore femminile è molto vulnerabile, e pecca facilmente di soverchia credulità.
Temo che voi siate dei perfidi ingannatori...» E su queste parole Dobbin avvertì
nettamente la mano di Jane che stringeva la sua.
Allarmato, la lasciò cadere. «Ingannatori, voi dite! Ebbene, no, miss
Osborne, non tutti gli uomini meritano un simile epiteto. Vostro fratello meno che
meno. George ama Amelia sin da quando era bambino e nessuna ricchezza
potrebbe mai indurlo a sposare un'altra. Dovrebbe abbandonarla? Osereste dargli
un consiglio del genere?»
Cosa avrebbe potuto rispondere Miss Jane, tenuto conto dei pensieri che in
quel momento aveva per la testa. Non poteva rispondere in modo esplicito a
quella domanda, onde per aggirare il discorso uscì a dire: «Se non siete un
ingannatore, certo siete dotato di un temperamento molto romantico, capitano.»
Dobbin non volle o non seppe ribattere.
Finalmente, quando ritenne, grazie all'ausilio di altri discorsi gentili, che
Miss Osborne fosse adeguatamente preparata ad accogliere la notizia per intero,
gliela riversò nell'orecchio: George non poteva assolutamente abbandonarla,
cosicché l'ha sposata. Dopo di che raccontò nei dettagli il matrimonio; riferì come
la povera ragazza sarebbe morta di dolore se il suo fidanzato non avesse
mantenuto la parola data; come il vecchio Sedley non avesse accondisceso a
quelle nozze, circostanza che aveva reso necessario procurarsi una licenza
matrimoniale; come Jos fosse venuto appositamente da Cheltenham per condurre
la sposa all'altare, e come si fossero poi recati a Brighton in luna di miele col tiro
a quattro di quest'ultimo; e come George facesse affidamento sulle dilette sorelle
per riconciliarsi col padre, nella certezza che loro, donne affettuose e fedeli,
sarebbero state pronte a intervenire a suo favore. Infine chiese il permesso
(ottenendolo all'istante) di tornare a trovarla, e ritenendo, non senza fondamento,
che le notizie da lui recate sarebbero state comunicate alle altre signore nel giro di
pochi minuti, si piegò in un inchino e prese congedo.
Non aveva ancor messo piede fuori di quella casa che Miss Maria e Miss
Wirt si precipitarono verso Miss Osborne, la quale rivelò per intero la segreta
notizia. Ebbene: rendiamo atto alle due sorelle che né l'una né l'altra si dolsero
troppo della cosa. È raro che una donna provi un autentico moto d'indignazione
perché due giovani fuggono col proposito di sposarsi, e in loro crebbe
l'ammirazione per Amelia, dato il coraggio di cui aveva dato prova acconsentendo
a un'unione del genere. Mentre commentavano diffusamente tra loro la notizia, e
soprattutto si domandavano cosa avrebbe detto e fatto il loro padre, un colpo
fragoroso come l'esplodere di un tuono d'estate venne battuto alla porta, facendo
sussultare le cospiratrici. Sarà papà, pensarono. Ma non era lui, bensì Mr.
Bullock, che giungeva apposta dalla City per condurle a un'esposizione floreale,
com'era stato precedentemente convenuto.
Com'è logico, il signore non tardò molto ad esser messo al corrente di quel
segreto Ma nell'apprenderlo il suo volto espresse uno stupore d'indole assai
diversa dall'estatica e sentimentale meraviglia che era affiorata sul viso delle due
Osborne. Mr. Bullock era un uomo di mondo, uno dei soci più giovani di una
banca assai importante, sapeva attribuire al denaro il suo giusto valore. Per questo
un vago sentimento d'ansia e di piacere illuminò i suoi occhietti e lo indusse a
sperare che, grazie al gesto inconsulto di George, la sua Maria poteva valere
trentamila sterline di più di quanto avesse mai sperato di ottenere sposandola.
«Perdio, Jane,» esclamò, osservando anche la sorella maggiore con
rinnovato interesse. «Adesso Eels recriminerà di avervi piantato. Forse ora siete
un'ereditiera da cinquantamila sterline!»
Fino a quel momento le due sorelle avevano mentalmente ignorato il fattore
denaro; ma durante l'intera passeggiata mattutina Bullock continuò a solleticarle
sull'argomento con una sorta di grazia mista ad arguzia, e quando rientrarono a
casa per il pranzo sentirono di avere ormai un più elevato concetto di sé. Il mio
distinto lettore si guardi bene dal protestare, sostenendo che tanta avidità, tanto
egoismo sono contro natura. Stamani stesso, mentre di ritorno da Richmond
venivano sostituiti i cavalli della diligenza, il cronista di questa storia, che sedeva
sull'imperiale, ha posato l'occhio su tre frugolette che, sporche luride ma felici,
giocavano diguazzando in una pozzanghera. A costoro poco dopo si avvicinò una
quarta. «Polly,» disse, «tua sorella ha un penny.» Subito le tre si alzarono e
andarono a rendere omaggio a Peggy. Mentre la diligenza si rimetteva in moto,
scorsi Peggy che, seguita dalla scorta delle tre bimbette, s'avviava con molta
dignità verso la bancarella della venditrice di dolciumi.
XXIV • MR. OSBORNE PRENDE LA BIBBIA DI FAMIGLIA
Dopo aver preparato le sorelle nel modo testé riferito, Dobbin si affrettò a
recarsi nella City per accingersi ad assolvere la parte restante dell'impegno che si
era assunto, ed anche la più gravosa.
Il pensiero di trovarsi a tu per tu col vecchio Osborne lo innervosiva
alquanto, e più di una volta fu tentato di lasciare che fossero le ragazze a rivelare
il segreto al padre, dal momento che non avrebbero saputo tenerlo a lungo per sé,
di questo erano certe. Ma aveva promesso di riferire a George le reazioni del
vecchio al momento in cui avesse appreso la notizia. Di conseguenza si recò
nell'ufficio di suo padre in Thames Street, e di lì inviò a Mr. Osborne un biglietto,
nel quale gli esternava la propria intenzione di parlargli di George e chiedendogli,
a tale scopo, mezz'ora di conversazione.
La persona inviata da Dobbin col suo messaggio fece ritorno dallo studio di
Mr. Osborne recando gli ossequi di quest'ultimo, il quale si dichiarava felicissimo
di ricevere senza indugio il capitano. Di conseguenza Dobbin non perse altro
tempo e si avviò per affrontarlo.
Entrò negli uffici di Mr. Osborne con espressione contrita e passo incerto:
quel segreto quasi peccaminoso che celava in seno e la prospettiva di
quell'abboccamento sicuramente sgradevole e tempestoso giustificavano la sua
agitazione. Quando attraversò il primo locale ove si trovava Mr. Chopper, e questi
gli elargì un saluto vivace e cordiale, si sentì ancora più desolato. Ma Chopper gli
fece l'occhiolino; poi con un cenno del capo e della penna gli indicò la porta del
capo dicendogli in tono baldanzoso e irritante: «Il capo è in gran forma, vedrete!»
Osborne si alzò, strinse con calore la mano di Dobbin e con una espansività
che accentuò il senso di colpa dell'ambasciatore di George gli disse: «Come state
ragazzo mio?» La mano del capitano giacque inerte nella stretta di quella del
vecchio. Aveva la sensazione di esser lui, in misura più o meno accentuata, la
causa di quanto era avvenuto. Era stato lui, infatti, a riportare George da Amelia;
era stato lui ad approvare, a incoraggiare, si potrebbe quasi dire a celebrare le
nozze che ora si accingeva a rivelare al padre di George. E questi, peraltro, lo
accoglieva col più garbato e sorridente dei benvenuto; lo chiamava con
l'appellativo di «ragazzo mio» battendogli una manata sulla spalla. Logico che
l'ambasciatore, imbarazzato, chinasse lo sguardo al suolo.
Osborne non aveva dubbi: era certo che Dobbin venisse ad annunciargli la
resa del figlio. Quando era sopraggiunto l'inviato di Dobbin, Chopper e il suo
principale stavano appunto parlando della discussione avvenuta tra George e il
padre, ed entrambi erano convinti che George volesse fare atto di contrizione.
Entrambi attendevano da giorni quel momento. «Buon Dio, Chopper,
faremo un matrimonio coi fiocchi!» aveva esclamato Mr. Osborne in tono di
trionfo, facendo schioccare le dita e tintinnare le ghinee e gli scellini nella
saccoccia rigonfia.
Ripetendo l'operazione in entrambe le tasche, Osborne dalla sua sedia
guardava Dobbin che gli sedeva di fronte, tetro in volto e silenzioso. Al contrario
il vecchio aveva dipinta in viso un'espressione soddisfatta e di compiaciuta
pregustazione. «Per essere un capitano dell'esercito è un fior di zotico,» pensava il
vecchio. «George avrebbe dovuto insegnargli cosa siano le buone maniere.»
Alla fine Dobbin si fece coraggio e prese a parlare. «Vi porto notizie molto
gravi, signore,» disse. «Stamani sono stato al comando delle Guardie a cavallo e
ho saputo che il nostro reggimento deve trasferirsi in Belgio. La notizia è di fonte
sicura. Partiremo entro la settimana, e come voi sapete non torneremo in patria
prima di una battaglia nella quale molti di noi potrebbero perdere la vita.»
Osborne assunse un'espressione grave: «Mio fi... il reggimento farà il suo
dovere, oso sperare.»
«I francesi sono molto forti,» continuò Dobbin. «Ci vorrà parecchio tempo
prima che i russi e gli austriaci possano inviare le loro truppe in una località tanto
lontana, signore. Il primo urto dovremo sostenerlo da soli, e Boney farà di tutto
per darci del filo da torcere.»
«Che cosa vorreste dire?» chiese il vecchio, aggrottando le sopracciglia e
cominciando a manifestare un certo disagio.
«Voglio sperare che nessun inglese abbia paura di quei maledetti francesi, sì
o no?»
«Volevo solo dire che prima della nostra partenza, e in vista del grave
pericolo che senza dubbio incombe su ciascuno di noi, se per caso vi fosse
qualche malinteso fra George e voi, ebbene... sarebbe giusto che vi stringeste la
mano: non vi pare? Se dovesse accadergli qualcosa, sicuramente non vi
perdonereste di esservi separato da lui senza aver prima sanato i vostri contrasti.»
Mentre parlava, Dobbin arrossiva; era convinto di essere un vero e proprio
traditore. Se non fosse stato per causa sua, forse tra padre e figlio non sarebbe
nato il minimo dissapore. Forse avrebbe dovuto indurre George a rinviare il
matrimonio. Era proprio indispensabile tanta urgenza? Sapeva che George
avrebbe saputo sopportare senza sforzo soverchio la separazione da Amelia, e
forse anche Amelia avrebbe saputo riprendersi dall'amara delusione di averlo
perduto. Invece, proprio per aver seguito il suo consiglio erano giunti al
matrimonio, con tutte le conseguenze che fatalmente ne sarebbero derivate. E
perché era avvenuto tutto ciò? Perché lui l'amava, e amandola non sopportava di
vederla infelice; o fors'anche perché la sofferenza che lui, Dobbin, provava in
quello stato di perenne incertezza era così frustrante da essere addirittura
intollerabile. Per questo aveva voluto allontanarla al più presto, proprio come si
desidera affrettare i funerali quando ci viene a mancare una persona cara. E
quando ci si deve separare da una persona cara, non si riesce ad aver pace fino a
quando la partenza non è avvenuta.
«Siete una brava persona, William,» disse il vecchio Osborne con voce
raddolcita.» In effetti non è giusto che io e George ci separiamo in collera l'uno
contro l'altro. Ebbene, statemi a sentire: per lui ho fatto tutto ciò che un padre può
fare per un figlio. Sono certo di avergli accordato il triplo del denaro che vostro
padre vi abbia dato nel corso di tutta la vostra esistenza, eppure mi guardo bene
dal vantarmene. Né dirò quanto abbia sgobbato per lui, quanto abbia messo in
pratica tutte le mie risorse ed energie a suo vantaggio. Chiedetelo a Chopper.
Chiedetelo a lui stesso. Chiedetelo nella City. Ora gli ho proposto un matrimonio
del quale qualsiasi aristocratico inglese andrebbe fiero. È la sola cosa che gli
abbia mai chiesto, e lui rifiuta. Ho forse torto? Sono forse io ad aver suscitato il
litigio? Che cosa voglio se non il suo bene, per il quale ho lavorato tutta la vita
come un negro? Chi oserebbe darmi dell'egoista? Che venga pure, desidero
rivederlo e dirgli: stringiamoci la mano, perdoniamoci e dimentichiamo ogni
rancore. Quanto al matrimonio, non è certo il caso di celebrarlo ora. Basta che lui
e Miss Swartz si mettano d'accordo: ci penseremo alla fine della campagna,
quando lui ritornerà col grado di colonnello. Certo che diventerà colonnello,
perdio, se i soldi varranno ancora qualcosa. Sono contento che lo abbiate indotto a
riflettere. So che più di una volta lo avete tolto voi dai pasticci, caro Dobbin.
George può dunque venire, non mi mostrerò duro con lui. Perché oggi stesso non
venite a pranzo tutti e due in Russell Square? Alla solita ora, nella solita vecchia
casa. Ci sarà dell'ottima selvaggina e nessuno vi farà delle domande.»
Il cuore di Dobbin fu profondamente colpito dalle parole di lode del vecchio
e dalle sue attestazioni di fiduciosa confidenza. E a mano a mano che la
conversazione procedeva su quel tono egli sentiva aumentare quel suo sentimento
di colpevolezza.
«Signore» disse, «temo che vi facciate delle illusioni. Sì temo proprio che
v'inganniate. George ha un animo troppo nobile per piegarsi a un matrimonio
suggerito dal denaro. D'altro canto, se minacciaste di diseredarlo qualora
disobbedisse ai vostri ordini, non fareste che accentuare la sua resistenza.»
«Maledizione, non chiamerete minaccia offrirgli otto o diecimila sterline
all'anno, spero!» continuò Mr. Osborne imperterrito nel mantenere il suo ottimo
umore. Caspita, se Miss Swartz mi volesse, non opporrei certo delle difficoltà
perché ha la pelle un po' scura!» E il vecchio proruppe in una risata volgare
accompagnata dall'espressione sardonica di chi la sa lunga.
«Voi, signore, dimenticate i precedenti impegni che vostro figlio si era
assunto,» disse l'ambasciatore in tono grave.
«Quali impegni? Cosa diavolo intendete dire? Non vorrete dire,» continuò
Mr. Osborne nella cui mente per la prima volta si affacciava un simile pensiero,
accentuando di momento in momento il suo stupore e la sua collera, «non vorrete
dire che è così maledettamente imbecille da correre ancora dietro alla figlia di
quel vecchio imbroglione fallito? Non sarete venuto a dirmi, spero, che vuole
sposare quella donna? Sposare quella là! Bella idea davvero! Mio figlio, il mio
erede; sposare la figlia di uno straccione, una che viene dai bassifondi! Se lo farà,
può anche andare ad impiccarsi! Si comperi una scopa e vada a fare lo spazzino!
Sì, sì, me ne ricordo benissimo: lei gli è sempre corsa appresso, gli ha sempre
fatto mille moine: senza dubbio seguiva le istruzioni di quella buona lana di suo
padre.»
«Non dimenticatevi che Mr. Sedley intratteneva con voi rapporti di
amicizia,» disse Dobbin, quasi piacevolmente sorpreso di constatare che il
vecchio si andava irritando sempre più. «In altri tempi voi vi riferivate a lui con
epiteti assai diversi da mascalzone e imbroglione, così come siete stato voi a
combinare quel matrimonio... George non aveva il diritto di venir meno alla
parola data!»
«Venir meno alla parola data!» urlò il vecchio Osborne. «Venir meno! Ma
queste, maledizione, sono le parole che ha usato quindici giorni fa questo bel
signorino quando si vantava di essere un ufficiale inglese e si dava un mucchio
d'arie con suo padre, che lo ha messo al mondo! Dunque siete stato voi a
montarlo, vero? Vi ringrazio davvero, capitano: a quanto pare siete voi che volete
introdurre dei pezzenti nella mia famiglia! Grazie tante!... Sposare quella... Lui! E
perché, poi, dovrebbe farlo? Sono sicuro che quella non esiterebbe ad andare con
lui anche senza essere sposata!»
«Signore,» esclamò Dobbin alzandosi in piedi, e senza più riuscire a frenare
la sua ira, «nessuno può permettersi di insultare quella signora in mia presenza, e
voi meno di ogni altro!»
«Ah, sì? Vorreste sfidarmi, a quanto pare. Ebbene, aspettate un momento:
suono il campanello e faccio portare un paio di pistole. George vi ha mandato qui
a insultare suo padre, vero?» disse Mr. Osborne dando uno strattone al cordone
del campanello.
«Mr. Osborne» disse Dobbin con un filo di voce, «voi, piuttosto, state
insultando la creatura più incantevole che esista sulla faccia della terra. Ma fareste
meglio a risparmiarvi le vostre ingiurie perché si tratta della moglie di vostro
figlio.»
Dopo di che, rendendosi conto che non avrebbe assolutamente potuto
aggiungere una sola parola, Dobbin se ne andò, mentre il vecchio si accasciava
sulla sua seggiola guardandolo con odio. In quella un impiegato, rispondendo alla
perentoria scampanellata di poc'anzi, entrò nell'ufficio; poi, mentre il capitano
Dobbin non era ancora uscito dal cortile per il quale si accedeva agli uffici di Mr.
Osborne, Chopper, senza nemmeno essersi infilato il cappello, lo raggiunse di
corsa.
«Per amor del cielo, cos'è successo?» domandò trattenendo il capitano per la
giacca. «Il capo è sconvolto. Che cos'ha fatto Mr. George?»
«Ha sposato Miss Sedley cinque giorni fa,» rispose Dobbin. «Io sono stato
testimone alle nozze e voi dovete schierarvi dalla sua parte, Mr. Chopper.»
Il vecchio impiegato scosse il capo. «Avete portato una bruttissima notizia,»
rispose, «la peggiore che mai potesse arrivare al mio padrone. Lui non perdonerà
mai.»
Dobbin invitò Chopper a raggiungerlo più tardi nell'albergo dov'era sceso
per riferirgli gli sviluppi della situazione; poi s incamminò verso il West End,
oltremodo preoccupato per il passato e per l'avvenire.
Quella sera stessa, quando in Russell Square la famiglia Osborne si radunò
come di consueto per la cena, il padrone di casa sedette al posto consueto; ma il
suo volto era atteggiato a un'espressione così cupa da indurre tutti al silenzio. Le
sorelle e Mr. Bullock, invitato a cena, compresero immediatamente che il vecchio
sapeva tutto. Il pessimo umore di Mr. Osborne colpì a tal punto Mr. Bullock, da
renderlo estremamente queto e riservato: anzi, fu insolitamente gentile e
premuroso nei riguardi di Miss Maria, che gli sedeva al fianco, e di Miss Jane, che
si trovava a capotavola.
Di conseguenza Miss Wirt era sola dalla sua parte della tavola, perché tra il
suo posto e quello di Miss Jane Osborne ce n'era uno vacante: era il posto di
George, quando consumava i suoi pasti a casa, un posto che - come già abbiamo
detto - veniva sempre apparecchiato in attesa del ritorno dell'assente. Durante la
cena nulla, fatta eccezione per le frasi confidenziali che il sorridente Mr.
Frederick profferiva in un lieve sussurro, ruppe il silenzio di quel mesto desinare.
I domestici si aggiravano discreti e furtivi, adempiendo alle loro mansioni: dei
muti che presenziassero a un funerale non avrebbero avuto un aspetto più
deprimente. Sempre silenzioso, Mr. Osborne scalcò la selvaggina che aveva
proposto a Dobbin quando lo aveva invitato a cenare con loro; nondimeno la sua
porzione fu ritirata dal domestico quasi intatta, mentre il suo bicchiere era sempre
vuoto e venne ripetutamente colmato dal cameriere.
Poi, verso la fine del pasto, i suoi occhi che si erano posati con moto alterno
ora sull'uno, ora sull'altro commensale, si posarono per qualche istante sul posto
preparato per George. Lo indicò con un gesto della mano sinistra, e le figlie, al
pari dei domestici, a tutta prima non capirono il significato di quel segno (o forse
finsero di non capire).
«Portate via quel piatto,» ordinò. Poi si alzò profferendo una bestemmia,
respinse rumorosamente la sedia e uscì per ritirarsi nella propria camera.
Dietro la sala da pranzo c'era un locale comunemente indicato come
«studio» e religiosamente riservato a Mr. Osborne. Qui il padrone si rintanava la
domenica mattina, quando non aveva voglia di recarsi in chiesa e trascorreva la
mattinata sprofondato nella sua poltrona di velluto rosso a leggere il giornale.
C'erano anche due librerie a vetri che ospitavano opere alquanto comuni dalle
solide rilegature dorate: l'«Annual Register», il «Gentleman's Magazine», i
Sermons di Blaire e la History of England di Hume & Smollett. Non gli accadeva
mai, in qualsiasi giorno dell'anno, di togliere quei libri dai loro scaffali, ma nessun
membro della famiglia avrebbe mai osato toccare quei volumi, anche se si fosse
trattato di vita o di morte. Unica eccezione, certe rarissime serate di domenica,
quando non c'erano ospiti a cena: in tali occasioni la grande Bibbia ricoperta di
cuoio scarlatto e il Common Prayer venivano tolti dall'angolo in cui si trovavano
accanto al Peerage e, mentre i domestici si radunavano in fila nella sala da
pranzo, Osborne con voce roca e altisonante leggeva alla famiglia le preci della
sera. Nessun membro della famiglia, fossero un bimbo o una persona di servizio,
entravano mai in quella stanza senza provare un sacro terrore. Era lì che il
padrone di casa verificava i conti della governante e controllava il registro dei vini
affidato al maggiordomo. Di là poteva inoltre sorvegliare, attraverso il cortile
ricoperto di ghiaia, l'accesso alle scuderie, collegate al suo studio per mezzo di
uno dei campanelli: quando lo suonava, imprecando dalla finestra dello studio, il
cocchiere usciva di gran carriera. Quattro volte l'anno Miss Wirt penetrava in quel
locale per ricevervi il suo stipendio, mentre le sue figlie vi accedevano per
percepirvi le loro rendite quadrimestrali. Più volte, quando era bambino, George
in quella stanza aveva subito la pena della frusta, mentre la madre, seduta sulle
scale, soffriva al sibilo di ogni sferzata. Di solito il ragazzo non piangeva nel
corso di quelle punizioni, ma la povera donna, quando usciva dallo studio, lo
copriva di carezze, lo baciava di nascosto e per consolarlo gli regalava del denaro.
Dopo la morte di Mrs. Osborne, sopra il caminetto era stato appeso un
ritratto di famiglia che in precedenza si trovava in sala da pranzo. George vi
figurava in sella a un pony; la sorella maggiore gli porgeva un mazzo di fiori,
mentre la più piccola veniva tenuta per mano dalla madre: tutti avevano i pomelli
e le labbra rosse, e si scambiavano sguardi languidi secondo gli schemi
convenzionali dei ritratti di famiglia. Ora la madre giaceva sottoterra, da gran
tempo dimenticata; le sorelle e il fratello avevano interessi e occupazioni
totalmente diversi l'uno dall'altro, e per quanto abitassero sotto lo stesso tetto,
vivevano come altrettanti estranei. Contemplandoli a decenni di distanza, quando
coloro che vi sono effigiati sono ormai anziani, quale amara ironia traspare da
quei ritratti di famiglia pervasi di convenzionale letizia, ingannevole simulacro di
falsi sentimenti e di ipocrisie, immagini di consapevole e compiaciuta innocenza!
Nella sala da pranzo, il ritratto ufficiale di Mr. Osborne, seduto nella sua poltrona
rossa davanti al grande calamaio d'argento, era subentrato al posto d'onore
precedentemente occupato dal ritratto di famiglia.
In questo studio si ritirò il vecchio, con grande sollievo degli altri membri
della famiglia che venivano lasciati soli. Quando anche la servitù si fu ritirata,
tutti presero a parlare concitatamente, ma a bassa voce. Poi, in silenzio, le donne
salirono al piano superiore seguite da Mr. Bullock che procedeva con passo
furtivo e scarpe scricchiolanti. Non aveva avuto il coraggio di restarsene solo a
fumare, in immediata vicinanza col terribile vegliardo chiuso nello studio.
Un'ora almeno dopo l'imbrunire, il maggiordomo, che fino a quel momento
non era stato chiamato dal suo padrone, si arrischiò a bussare all'uscio per recargli
il tè e le candele. Il padrone di casa, seduto in poltrona, fingeva di leggere il
giornale. Poi, quando il maggiordomo si ritirò dopo aver posato sulla tavola le
candele e il tè, Mr. Osborne si alzò e chiuse la porta a chiave. Questa volta non
potevano esserci dubbi su quanto stava accadendo: tutta la casa capì che una
catastrofe stava per abbattersi crudelmente sulla testa di George.
In un cassetto del grande scrittoio di mogano di Mr. Osborne erano
conservati i documenti e in genere tutto ciò che concerneva il figlio. Qui egli
teneva qualunque carta lo riguardasse fin da quando era bambino: c'erano i
quaderni con i disegni ricopiati in bella copia ( vi si riconosceva la mano di
George e quella del suo insegnante), c'erano le prime lettere vergate a grossi
caratteri rotondi nei quali faceva professione d'affetto nei confronti di mamma e
papà, con l'aggiunta della richiesta di una torta. E in quella lettera il caro padrino
Mr. Sedley veniva più volte menzionato. Sulle livide labbra di Mr. Osborne
tremavano parole di maledizione, e un sentimento d'odio incontenibile misto a una
frustrante delusione gli macerava il cuore ogni qual volta, nel rileggere quelle
carte, gli capitava sott'occhio quel nome. Le lettere erano tutte annotate, numerate
e legate con un nastro rosso. Per esempio: «23 aprile 18... George chiede 5
Cellini; risposto 25 aprile.» Oppure: «15 ottobre: George chiede un pony,» e così
via. Un altro pacchetto comprendeva i «Rapporti del dottor S.», i «Conti del sarto
di George e del suo abbigliamento», le «Tratte sul mio conto di G. Osborne Jn.»,
eccetera, oltre alle sue lettere dalle Indie Occidentali, alle lettere dei suoi
corrispondenti d'affari, alle lettere che riportavano la notizia delle sue promozioni
nei gradi dell'esercito. C'era, anche, un frustino che George soleva usare da
ragazzo e, in un piccolo involto, un ciondolo contenente una ciocca dei suoi
capelli che la madre aveva sempre portato al collo.
Il pover'uomo trascorse ore ed ore sfogliando quelle carte, indugiando su
quei ricordi. Quel cassetto era una sorta di condensato del suo amor proprio, delle
sue speranze più lusinghiere. Com'era fiero di quel suo figliolo! Era il più bel
bambino che si fosse mai visto: tutti dicevano che sembrava proprio un rampollo
dell'aristocrazia. Durante una passeggiata ai Kew Gardens una principessa reale lo
aveva notato, gli aveva dato un bacio e ne aveva chiesto il nome. Quale altro
mercante, in tutta Londra, poteva vantarsi di avere un figlio simile? Forse che un
principe era oggetto di maggiori attenzioni? Suo figlio aveva avuto qualunque
cosa si possa comprare col denaro. Nei giorni riservati alle visite dei parenti,
andava sempre a trovare il figlio in collegio a bordo di un tiro a quattro, con livree
nuove di zecca, e regalava scellini ai compagni di scuola di George. Prima che il
ragazzo s'imbarcasse per il Canada era andato con lui alla sede del Reggimento e
aveva offerto agli ufficiali una cena luculliana, in tutto degna del duca di York.
Non si era mai rifiutato di pagare le tratte di George: del resto, bastava
un'occhiata, le aveva lì dinanzi agli occhi, pagate sino all'ultimo centesimo. Molti
ufficiali dell'esercito non disponevano certo di un cavallo bello come quello di
George. Davanti agli occhi gli balenava l'immagine di George nei più disparati
atteggiamenti: dopo cena quando, altero come un baronetto, usava indugiare a
tavola a bersi un bicchiere, accanto al padre che sedeva a capotavola; a Brighton,
in sella al pony, quando saltava la siepe e teneva dietro al capocaccia, il giorno in
cui era stato presentato al Principe Reggente alla levée, quando tutta la Corte di
St. James non poteva annoverare un giovane di così bell'aspetto. Ed ecco, tutto era
finito così! George aveva sposato una ragazza senza un soldo, sprezzando la sua
fortuna, incurante dei propri doveri! Quale umiliazione, quale tormento quella
rabbia impotente, quale strazio l'ambizione frustrata, gli affetti delusi, che
martoriante oltraggio alla sua vanità e alla sua tenerezza si vedeva costretto a
pagare quel vecchio peccatore!
Dopo aver riesaminato tutte le carte indugiando ora sull'una ora sull'altra, in
preda al più cocente e al più inutile di tutti i dolori (quello degli uomini gretti
quando sono indotti a meditare sulla passata felicità), il padre di George levò dal
cassetto tutti i documenti che vi erano giaciuti per tanto tempo, li radunò in una
scatola e la legò suggellandola col proprio sigillo. Poi aprì la libreria e ne trasse la
grande Bibbia religiosa di cuoio scarlatto di cui abbiamo parlato poc'anzi: era
un'edizione sfarzosa, scintillante di fregi d'oro che veniva aperta di rado. Aveva
un frontespizio raffigurante il Sacrificio d'Isacco. Ivi, sul foglio bianco di
risguardo, in omaggio alla consuetudine, Osborne aveva annotato la data del suo
matrimonio, quelle della morte della moglie e della nascita dei figli, coi rispettivi
nomi. Venivano Prima Jane, poi George Sedley Osborne e infine Maria Frances,
nonché le date dei loro battesimi. Prese una penna, cancellò accuratamente il
nome di George e attese che l'inchiostro fosse ben asciutto, dopo di che ripose il
volume là donde lo aveva tolto. Infine levò un documento da un altro cassetto nel
quale conservava le sue carte personali, lo rilesse e lo appallottolò. Poi, accesa
una candela vi diede fuoco e rimase a guardarlo mentre bruciava nel caminetto,
fino a quando la fiamma non lo ebbe distrutto completamente. Era il suo
testamento; quando lo ebbe bruciato, sedette di nuovo al suo scrittoio, scrisse una
lettera, poi suonò il campanello per chiamare il domestico e affidargli l'incarico di
recapitare quella missiva la mattina dopo. Albeggiava. Mentre saliva le scale per
andare a letto, il sole già illuminava tutta la casa, e gli uccelli gorgheggiavano,
annidati fra le tenere foglie degli alberi di Russell Square.
Spronato dalla saggia intenzione di conservare cordiali rapporti con i
familiari e i dipendenti di Mr. Osborne, e nello stesso tempo di garantire a George
il maggior numero di amici, valido sostegno in simili frangenti, non appena
rientrato in albergo William Dobbin scrisse un cordiale biglietto al gentilissimo
Mr. Thomas Chopper, invitandolo a cenare con lui il giorno dopo da Slaughter.
Infatti il giovane capitano non ignorava l'effetto positivo che possono esercitare su
un uomo un buon pasto e una bottiglia d'ottimo vino. Mr. Chopper, che ricevette il
biglietto mentre si accingeva a recarsi nella City, rispose senza indugio dicendo
che «Mr. Chopper porgeva i più devoti ossequi ed era ben lieto di accettare il
cortese invito del capitano». La sera, tornato nella sua casa di Somers Town,
mostrò alla moglie e alle figlie la brutta copia della risposta, e in termini
altamente elogistici parlarono dei militari e della gente del West End, mentre
sedevano intorno alla tavola e prendevano il tè. Poi, quando le ragazze andarono a
dormire, i coniugi Chopper discussero degli strani eventi che turbavano la
famiglia del «capo». Mai prima d'ora il segretario aveva visto il suo principale
così sconvolto. Quando era entrato nell'ufficio di Mr. Osborne dopo che n'era
uscito il capitano Dobbin, aveva trovato il vecchio col volto livido, come se stesse
per venirgli un colpo apoplettico. Tra lui e Dobbin doveva esser scoppiata una lite
furibonda, n'era sicuro. Chopper aveva ricevuto l'ordine di fare il conto
complessivo delle somme percepite da George nel corso degli ultimi tre anni. «E
per dire la verità il ragazzo ha incassato una somma tutt'altro che trascurabile,»
commentò il vecchio contabile pervaso di rispetto sia nei confronti del padrone,
sia in quelli del figlio di quest'ultimo, data la liberalità con la quale era stato
profuso quel denaro. La lite era imperniata su una certa Miss Sedley. Mrs.
Chopper dichiarò di provare pietà per quella fanciulla costretta a rinunciare a un
bel giovanotto come il capitano Osborne, mentre dal canto suo il marito non
provava alcun sentimento di spiccata solidarietà per Miss Sedley, figlia di uno
speculatore improvvido; che aveva sempre pagato dei dividendi all'osso. Per lui la
ditta Osborne era superiore a qualsiasi altra nella City, e desiderava vivamente
che il capitano si legasse in matrimonio con un'esponente dell'aristocrazia. Quella
notte il contabile dormì di un sonno molto più tranquillo di quello del suo
principale; e accarezzando le sue figliole dopo aver consumato la sua colazione
con ottimo appetito (sebbene il suo tè fosse modestamente zuccherato con
zucchero bruno), se ne andò al lavoro con indosso il suo miglior vestito
domenicale e la camicia pieghettata, non senza aver promesso a Mrs. Chopper,
che lo guardava piena di ammirazione, di non abusare del Porto del capitano
Dobbin, quando la sera avrebbe cenato con lui.
Allorché Mr. Osborne arrivò in ufficio all'ora consueta, i suoi dipendenti
che, per comprensibili motivi, scrutavano sempre attentamente il principale,
notarono subito che la sua espressione era spaventosamente tetra. A mezzogiorno
Mr. Higgs (dello studio legale Higgs & Ellatherwick di Bedford Row) si presentò
puntualmente all'appuntamento fissato, e subito fu ammesso nello studio del
padrone col quale s'intrattenne per oltre mezz'ora. Poi, verso l'una, il domestico
del capitano Dobbin portò un biglietto a Mr. Chopper, unito al quale ce n'era uno
indirizzato a Mr. Osborne che il contabile andò a consegnare al destinatario.
Trascorse un'altra mezz'ora, e Mr. Chopper e Mr. Birch (il secondo contabile)
vennero chiamati per fungere da testimoni alla firma di un documento. «Ho fatto
un altro testamento,» fu la spiegazione succinta di Mr. Osborne; dopo di che, in
omaggio alla richiesta loro rivolta, i due vergarono la loro firma. Non venne
scambiata una parola. Quando uscì dallo studio Mr. Higgs appariva molto grave e
assorto: fissò Mr. Chopper ma non ebbe il coraggio di aprir bocca. Quanto a Mr.
Osborne, per tutto il resto di quella giornata parve a tutti particolarmente pacato e
gentile, tra la sorpresa generale di coloro che la mattina, notando il suo aspetto
così cupo, si erano attesi il peggio. Quel giorno non svillaneggiò nessuno e
nessuno lo udì profferire una sola bestemmia. Se ne andò molto prima del
consueto, ma prima di lasciare l'ufficio convocò ancora una volta il contabile e,
dopo avergli dato istruzioni di vario genere, gli chiese, non senza palese
riluttanza, se il capitano Dobbin si trovava a Londra. Chopper rispose che riteneva
di sì. E in verità entrambi ne erano perfettamente convinti.
Osborne prese una lettera indirizzata al capitano e la consegno a Chopper,
pregandolo di consegnarla senza indugio a Dobbin, ed in sua mano.
«Ed ora, Chopper,» concluse con uno strano sguardo, prendendo il cappello,
«posso considerarmi tranquillo.» Poi, nell'istante in cui la pendola batteva le due,
Mr. Frederick Bullock venne a prendere Mr. Osborne, e i due uscirono insieme.
Non c'è dubbio che si fossero dati appuntamento.
Il comandante del ...° Reggimento nel quale Osborne e Dobbin
comandavano una compagnia era un vecchio generale che aveva fatto la
campagna con Wolfe a Quebec ed era ormai troppo vecchio e indebolito per
sostenere le responsabilità del comando. Ma conservava il comando nominale del
Reggimento al quale continuava ad interessarsi, ed era sempre lieto di accogliere
qualche giovane ufficiale alla sua tavola: usanza che oggi non credo sia molto
diffusa fra i suoi colleghi.
Tra i favoriti del generale c'era il capitano Dobbin, il quale aveva un'ottima
conoscenza della letteratura militare, sapeva parlare di Federico il Grande e della
Regina Imperatrice e delle loro guerre con cognizione di causa quasi eguale a
quella del generale in questione, il quale, del tutto incurante dei trionfi bellici del
momento, era rimasto sentimentalmente attaccato al ricordo dei grandi strateghi di
cinquant'anni prima. Ora avvenne che il generale facesse pregare Dobbin di
recarsi a pranzo da lui il giorno stesso in cui Mr. Osborne aveva mutato
testamento e Mr. Chopper aveva indossato la sua miglior camicia pieghettata, e
comunicò al suo ufficiale prediletto con due giorni di anticipo rispetto ad ogni
altro le notizie che tutti aspettavano: bisognava imbarcarsi per il Belgio. Nel giro
di un paio di giorni il Quartier Generale avrebbe dato l'ordine al reggimento di
tenersi pronto, e dal momento che i mezzi di trasporto non scarseggiavano, la
partenza avrebbe avuto luogo entro la settimana. Nel periodo in cui il reggimento
era stato di stanza a Chatham si erano aggiunte nuove reclute, e il generale
confidava che un reggimento il quale aveva contribuito a sconfiggere Montcalm
nel Canada e a scacciare Washington da Long Island, una volta di più si sarebbe
mostrato all'altezza della sua fama e delle sue tradizioni battendosi sui campi dei
Paesi Bassi, già altre volte percorsi.
«E così, mio caro,» disse il generale prendendo una presa di tabacco con la
sua bianca mano tremante e indicando il punto della sua robe de chambre sotto il
quale pulsava ancora il suo debole cuore, «se avete per caso un affaire là, qualche
Fillide da consolare, o dovete dire addio a mamma e papà, oppure stilare un
testamento, vi invito a farlo senza por tempo in mezzo.» E dopo aver pronunciato
queste parole l'anziano militare porse al giovane amico un dito da stringere, e al
tempo accennò a un lievissimo inchino flettendo appena il capo incipriato e
adorno del codino incipriato. Poi, non appena la porta si fu richiusa alle spalle di
Dobbin, sedette per redigere un poulet (era fierissimo del suo francese) a
Mademoiselle Aménaide dell'e His Majesty's Theatre».
La notizia lasciò Dobbin costernato: subito gli venne fatto di pensare ai suoi
amici a Brighton, e non senza vergogna si rese conto che Amelia era sempre in
cima ai suoi pensieri (che venisse, cioè, prima di sua madre, delle sue sorelle e di
chiunque altro; che venisse prima di quello dei suoi stessi doveri quando si
svegliava, quando si addormentava, e in qualsiasi momento della giornata). Fu
così che, rientrato in albergo, inviò un biglietto a Mr. Osborne comunicandogli le
notizie che aveva testé apprese, nella speranza che lo persuadessero a riconciliarsi
con George.
Il biglietto, consegnato alla stessa persona che il giorno prima aveva portato
il biglietto d'invito a Chopper, allarmò non poco il bravo contabile. Infatti era
contenuto in una busta che recava, quale indirizzo, il suo nome, e mentre l'apriva
tremava al pensiero che il pranzo sul quale aveva fatto tanto assegnamento avesse
subito un rinvio. Di conseguenza fu oltremodo sollevato nel constatare che la
busta in questione conteneva solo due righe per ricordargli il suddetto impegno
(«Vi aspetto senz'altro alle cinque e mezzo,» scriveva Dobbin). Chopper era tutto
devozione nei confronti della famiglia del suo principale, ma, que voulez-vous?,
una cena di lusso gli stava più a cuore degli affari di qualsivoglia mortale.
Com'era logico, Dobbin comunicò la notizia avuta dal generale a tutti gli
ufficiali del reggimento che gli capitò d'incontrare nel corso delle sue
peregrinazioni. Ne informò anche l'alfiere Stubble incontrato dall'agente, il quale,
preso da un impeto di foga guerresca, si precipitò a comperare una sciabola nuova
nel negozio di forniture militari. Il nostro giovanotto, sebbene avesse solo
diciassette anni, fosse alto in tutto e per tutto diciassette pollici e avesse il fisico
minato dalle soverchie e precoci libagioni di brandy, era nondimeno coraggioso e
aveva un cuor di leone. Si mise dunque in posa e lì nella bottega, provò
ripetutamente l'arma curvando e ricurvando la lama con la quale si riprometteva di
far strage dei francesi. Due o tre volte, gridando «Ah! Ah!» e battendo a terra il
piccolo piede nervoso, spinse la punta della lama verso il petto del capitano
Dobbin, che ridendo parava i colpi servendosi del suo bastone da passeggio.
Com'è facile dedurre dalla sua esigua corporatura, Mr. Stubble apparteneva
alla fanteria leggera. Al contrario l'alfiere Sponney, un giovanottone grande e
grosso appartenente alla compagnia di granatieri comandata dal capitano Dobbin,
si provò un altissimo colbacco di pelo d'orso, sotto il quale il suo viso giovanile
appariva molto più truce di quanto fosse in realtà. Poi i due giovincelli se ne
andarono da Slaughter, ordinarono un pranzo pantagruelico e si accinsero a
scrivere lettere ai rispettivi quanto amati genitori: lettere traboccanti d'amore, di
calorosa esaltazione, di attestazioni di coraggio e di strafalcioni d'ortografia. Molti
cuori battevano d'inquietudine in quel momento, in Inghilterra; e dietro la facciata
di innumerevoli case molte mamme piangevano e pregavano.
Quando, nella coffee-room di Slaughter, Dobbin scorse il giovane Stubble
impegnato a scrivere la sua lettera (mentre le lacrime gli scendevano a ritmo
alterno lungo il naso, al pensiero che forse non avrebbe rivisto mai più la sua cara
mamma) rinunciò a vergare la lettera che stava scrivendo a George Osborne:
s'interruppe e un pensiero gli attraversò la mente: «A che pro' scrivergli?
Concediamogli un'altra notte di felicità. Domattina, di buon'ora, andrò a salutare i
miei genitori, e nel pomeriggio partirò per Brighton.»
Così si alzò, posò la sua larga mano sulla spalla di Stubble, confortò il
giovane eroe, gli disse che era sempre stato generoso e coraggioso e che sarebbe
diventato un ottimo soldato (a patto, beninteso, che avesse smesso di tracannare
brandy). Al che gli occhi di Stubble brillarono di soddisfazione, poiché Dobbin
nel reggimento era sempre stato considerato il miglior ufficiale e l'uomo più
capace.
«Grazie, Dobbin,» disse tergendosi le lacrime col dorso della mano. «Stavo
appunto... stavo appunto scrivendo alla mamma che sarò un bravo soldato; lei...
ah, capitano, la mamma è sempre stata così maledettamente buona con me!»
Dopo di che le cateratte si aprirono di nuovo, ed io non giurerei che al buon
capitano non si velassero gli occhi di commozione.
I due sottotenenti, il capitano Dobbin e Mr. Chopper cenarono insieme nello
stesso séparé. Chopper consegnò a Dobbin la lettera di Osborne nella quale
quest'ultimo porgeva i suoi saluti al capitano, e nel contempo lo pregava di voler
consegnare l'unito biglietto al capitano George Osborne. Chopper, in argomento,
non sapeva altro. Descrisse senza esitare l'aspetto del principale, riferì
dell'abboccamento con l'avvocato e manifestò il suo stupore per il fatto che quel
giorno il vecchio non avesse insultato nessuno dei suoi dipendenti. Le ripetute
libagioni lo indussero ad abbandonarsi vieppiù a una ridda di congetture e
riflessioni, che però ad ogni bicchiere si facevano sempre più vaghe e confuse, e
alla ne apparvero del tutto prive di senso. Era ormai tarda ora quando il capitano
Dobbin issò il suo ospite dentro una carrozza di piazza, mentre Chopper
continuava a professare farfugliando il suo proposito di serbare eterni sentimenti
di amicizia nei confronti del nostro amico.
Come abbiamo già visto, nel prender congedo da Miss Jane Osborne il
capitano Dobbin le aveva chiesto il permesso di rinnovare la sua visita, e il giorno
successivo, la matura signorina lo attese per alcune ore. Se si fosse recato da lei e
le avesse manifestato quei propositi ai quali ella era prontissima ad
accondiscendere, si sarebbe del pari dichiarata amica di suo fratello, e forse
avrebbe contribuito a rendere attuabile una riconciliazione formale tra George e il
suo adirato genitore. Ma l'attesa di Jane fu vana: William Dobbin non si fece
vedere. Aveva ben altro a cui pensare, in simili frangenti: doveva recarsi in visita
dai suoi genitori, e nelle prime ore del pomeriggio salire sul «Lightning» per
andare a Brighton in visita dai suoi amici. Durante la giornata Jane udì il padre
ordinare che per nessuna ragione si lasciasse entrare in casa quel farabutto,
quell'inframmettente del capitano Dobbin che amava pescar nel torbido; e così
svanirono tutte le speranze ch'ella aveva forse coltivato nel segreto del suo cuore.
Venne, invece, Mr. Frederick Bullock, e se si mostrò particolarmente tenero con
Maria, fu parimenti cortesissimo e ossequioso col vecchio signore mesto e
sconfortato. Infatti, sebbene avesse dichiarato che «ormai poteva star tranquillo»,
non si può dire che le misure adottate per garantirsi questa pace dello spirito
avessero prodotto l'effetto auspicato: era evidente che le vicende degli ultimi due
giorni lo avevano stroncato.
XXV • NEL QUALE TUTTI I PRINCIPALI PERSONAGGI RITENGONO
OPPORTUNO LASCIARE BRIGHTON
Quando si trovò alla presenza delle signore allo Ship Inn, Dobbin assunse
un'aria disinvolta e spensierata dalla quale è lecito dedurre come il giovane
ufficiale diventasse ogni giorno di più un perfetto esemplare d'ipocrita.
Innanzitutto si sforzava di nascondere i sentimenti che provava per Amelia, ormai
diventata Mrs. Osborne, e in secondo luogo di tener celate le notizie di cui era
latore, motivo di apprensione per sé e causa, senza dubbio, di dolore per lei.
«Sai, George,» aveva detto, «sono convinto che l'imperatore dei francesi ci
piomberà addosso con tutta la fanteria e la cavalleria nel giro di tre settimane, o
fors'anche meno. Darà del filo da torcere al duca, vedrai. Al confronto la guerra di
Spagna ci sembrerà uno zuccherino. Ma non è il caso che tu ne parli a tua moglie.
Può anche darsi che non si renda necessario scendere in campo aperto e che la
spedizione in Belgio si risolva in una pura e semplice occupazione militare. Sono
in tanti a condividere il mio parere, senza contare che Bruxelles è una città piena
di gente chic e di signore alla moda.» Pertanto convennero sull'opportunità di
presentare ad Amelia sotto questo profilo incoraggiante la faccenda della
spedizione in Belgio.
Dopo di che quell'impostore di Dobbin salutò Mrs. Osborne in tono quasi
gioviale e cercò di congratularsi con lei con la maggior naturalezza possibile circa
la sua nuova condizione di sposa. Ma quei complimenti, occorre convenire, erano
quanto mai goffi e impacciati. Poi Dobbin cambiò argomento e prese a diffondersi
su Brighton, sulle preclare virtù del suo clima marino, sui divertimenti che
offriva, sulle attrattive del tragitto, sui meriti del «Lightning», vuoi come
diligenza, vuoi come cavalli. Il tutto in un certo modo che riusciva quasi
incomprensibile ad Amelia, e la lasciava interdetta, mentre era affatto trasparente
per Rebecca, che si divertiva a studiare il capitano, come del resto era solita fare
con tutte le persone che l'avvicinavano.
Amelia, ammettiamolo francamente, non provava particolare simpatia per
quell'amico di suo marito, il capitano Dobbin, che aveva una pronuncia difettosa,
ed era piuttosto brutto con quella figura goffa e dinoccolata. Nondimeno
apprezzava la devozione che mostrava nei confronti di George, anche se ciò, dopo
tutto, non era motivo di molto merito, ed era piuttosto George a dar prova di
gentilezza e longanimità nell'accordare tanta amicizia a quel suo commilitone. Più
di una volta George si era divertito ad imitare la comica pronuncia e gli
atteggiamenti sgraziati di Dobbin, pur elogiandone sempre le qualità ed
esprimendosi nei suoi confronti con la massima stima. Nel breve periodo della sua
buona stella, quando ancora non lo conosceva a fondo, Amelia aveva sempre
snobbato il povero William, il quale d'altronde si rendeva perfettamente conto
della scarsissima considerazione ch'ella nutriva per lui, e vi si era rassegnato in
umile silenzio. Sarebbe venuto il momento in cui Amelia avrebbe mutato parere
su di lui, ma quel momento era ancora lontano.
Quanto a Rebecca, non erano ancora trascorse due ore da quando il capitano
Dobbin si trovava in loro compagnia, che già ne aveva perfettamente messo a
fuoco il segreto. Dobbin non le piacque, e nel suo intimo provò nei suoi confronti
una specie di timore. D'altra parte, anch'egli non provava simpatia per Rebecca. In
un uomo così schietto e sincero, tutte quelle moine e quei vezzi femminili non
soltanto non lo attraevano, ma suscitavano in lui un istintivo moto di repulsione. E
poiché Becky non era abbastanza superiore alle sue consimili per ignorare la
gelosia, egli la infastidì anche per quel suo sentimento di adorazione per Amelia.
Ciò non le impedì di manifestare, a suo riguardo, modi oltremodo affabili e
rispettosi. Si trattava, perbacco, di un amico degli Osborne! Un amico dei suoi
cari benefattori! Giurava che avrebbe sempre provato per lui il più vivo e sincero
affetto. Ricordava così bene quella serata passata insieme a Vauxhall!, disse con
una punta d'impertinenza ad Amelia, e quando le due signore si ritirarono per
cambiarsi prima di cena, gli rifece il verso con graziosa malizia. Da parte sua
Rawdon Crawley non si curò quasi di lui, giudicandolo uno scioccone innocuo e
un piccolo borghese di discutibile educazione, mentre Jos Sedley lo trattò con
sussiegosa condiscendenza.
Quando George e Dobbin si ritrovarono a tu per tu nella camera di
quest'ultimo, Dobbin levò dallo scrittoio la lettera che doveva consegnargli per
incarico di Mr. Osborne. «Non è la scrittura di mio padre,» osservò George
inquieto Aveva ragione: si trattava infatti di una lettera dell'avvocato di Mr.
Osborne. Diceva:
Bedford Row, 7 maggio 1815
Signore,
In conformità all'incarico ricevuto da Mr. Osborne, vi comunico ch'egli si
attiene alla decisione precedentemente manifestatavi, e che, in conseguenza del
matrimonio che voi avete ritenuto di contrarre, egli cessa d'ora in avanti di
considerarvi un membro della sua famiglia. Questa decisione è da considerarsi
definitiva e irrevocabile.
Sebbene il denaro speso a vostro profitto durante la minore età, e le tratte
che in questi anni avete emesso a suo nome senza alcuna economia superino di
gran lunga la somma di vostra spettanza (vale a dire un terzo della dote di vostra
madre, la presunta Mrs. Osborne, che vi toccò al momento della sua morte come
pure a Miss Jane Osborne e a Miss Maria Frances Osborne) ho avuto l'ordine da
Mr. Osborne di comunicarvi com'egli rinunci a rivalersi sui beni di vostra
proprietà, e che la somma di 2.000 sterline, in titoli al 4 per cento al valore
odierno della valuta (la terza parte dell'ammontare di 6000 sterline), verrà
pagata a voi, o a chi per voi, dietro ricevuta, dal
Vostro obbedientissimo servitore
S. Higgs
P.S. - Mr. Osborne desidera inoltre ch'io vi dica, una volta per tutte, ch'egli si
rifiuta di ricevere da voi qualsiasi lettera, messaggio o comunicazione di sorta su
questo od altro argomento.
«Non potevi sistemar meglio le cose!» esclamò George scrutando Dobbin
con occhi furibondi. «Leggi, dunque! Leggi!», E gli gettò la lettera scritta per
conto del padre. «Sono ridotto un pezzente, maledizione! E tutto questo per colpa
del mio dannato sentimentalismo! Ma non potevamo aspettare? Poteva darsi che
in guerra una pallottola mi facesse fuori. Anzi, può ancora capitare. Ma che
vantaggio potrà cavarne, Emmy, dall'esser la vedova di un mendicante? E tutto
per colpa tua. Ti sei dato da fare fino a quando non mi hai visto sposato e ridotto
sul lastrico. Cosa vuoi che me ne faccia di duemila sterline? Non mi basteranno
nemmeno per due anni! In pochi giorni, da quando sono qui, ne ho già perdute
centoquaranta giocando a carte e a biliardo con Rawdon Crawley! Sei un vero
campione a difendere gli interessi altrui, non c'è che dire.»
«Sì, la situazione è indubbiamente grave,» rispose Dobbin dopo aver letto la
lettera, «e in parte sarà anche colpa mia. D'altro canto, chissà quanta gente
sarebbe entusiasta di fare il cambio con te!» aggiunse con un amaro sorriso.
«Credi che al reggimento siano molti i capitani che dispongono di un capitale di
duemila sterline? È molto semplice: devi rassegnarti a vivere del tuo stipendio
fino a quando tuo padre non si piegherà, e se morrai in guerra tua moglie avrà una
rendita di cento sterline annue.»
«E tu credi che un uomo con le mie abitudini possa vivere del suo stipendio
e con cento sterline all'anno?» ruggì George al colmo dell'ira. «Sei un imbecille,
Dobbin, certi discorsi potresti risparmiarteli. Come pensi che possa mantenere la
mia posizione in società con delle disponibilità finanziarie ridotte all'osso? Non
rinuncio alle mie abitudini, e tanto meno alle mie comodità. Mi sono
indispensabili. Credi forse che sia cresciuto a base di porridge, come Mac
Wirther, o a patate come il vecchio O'Dowd? Ti sembra concepibile che mia
moglie si metta a fare la lavandaia per la truppa, o che debba viaggiare in un carro
della sussistenza per star dietro al reggimento?»
«Suvvia, le troveremo un veicolo più confacente,» rispose Dobbin,
conservando la sua calma. «Tu però tieni presente che per il momento sei un
principe spodestato, caro George. Cerca di star tranquillo in attesa che si sedi la
bufera. È questione di tempo. Presto tuo padre cambierà atteggiamento: basterà
che il tuo nome venga menzionato sulla "Gazette"... vedrai, ne sono sicuro.»
«Menzionato nella "Gazette"! E in quale pagina, di grazia? Fra i morti e i
feriti, e con ogni probabilità nelle prime righe!»
«Ma va'! Aspetta a lamentarti quando sarai ferito,» rispose Dobbin. «Del
resto,» aggiunse con un sorriso, «qualunque cosa accada, sai benissimo che ho
qualche soldo da parte. Non sono tipo da sposarmi, io, e nel testamento mi
ricorderò del mio figlioccio, io.»
Su queste battute la disputa si concluse, come già in tante altre occasioni si
erano felicemente risolti innumerevoli litigi fra i due amici. George dichiarò che
era impossibile conservare a lungo rancore a Dobbin e pertanto, nella sua
generosità, lo perdonò dopo averlo insultato senza motivo alcuno.
«Senti, Becky!» gridò Rawdon Crawley dal suo spogliatoio alla moglie, che
in camera da letto si stava preparando per la cena.
«Che cosa?» domandò la voce squillante di Rebecca, che da sopra la spalla
si stava ammirando allo specchio. Aveva indossato un fresco, delizioso abito
bianco con una piccola collana al collo e una lascia azzurra alla vita: la si sarebbe
detta l'incarnazione dell'innocenza femminile e della felicità.
«Dimmi, che cosa farà Mrs. O. quando O. sarà partito per il reggimento?»
continuò Crawley entrando nella camera in atto di spazzolarsi i capelli con due
grosse spazzole e contemplando ammirato la graziosa mogliettina da sotto il folto
ciuffo delle sue chiome scomposte.
«Probabilmente piangerà fino a consumarsi gli occhi. Ha già pianto con me
almeno una dozzina di volte alla sola idea del distacco.»
«A te invece non importa un bel niente, ci giurerei,» rispose Rawdon,
contrariato dal cinismo della moglie.
«Brigante! Sai benissimo che ho intenzione di seguirti» ribatté Becky. «E
poi la tua è una situazione diversa: tu vai come aiutante di campo del generale
Tufto e noi non siamo di fanteria.» Al che Mrs. Crawley sospinse la testa
all'indietro con una mossa che suo marito trovava altamente affascinante. Infatti
Rawdon si chinò per darle un bacio.
«Rawdon, tesoro, non credi che faresti bene a chiedere quei soldi a Cupido
prima che scompaia dalla circolazione?» continuò Becky, appuntandosi un fiocco
maliardamente civettuolo. Era stata lei ad appioppare quel soprannome a George.
Più di una volta aveva elogiato la sua avvenenza, e quando la sera si recava nella
loro stanza per fare una partita a carte prima di andare a coricarsi, gli lanciava
sempre delle occhiate languide.
Spesso ripeteva che Osborne era un coacervo di vizi, e aveva minacciato di
rivelare a Emmy le sue deplorevoli abitudini di scialacquatore. Conoscendo
l'effetto di quel gesto (giacché lo aveva già sperimentato con Crawley) spesso gli
portava il sigaro e glielo accendeva. Da parte sua George la giudicava gaia,
spiritosa, vivace, distinguée, incantevole. Inutile dire, poi, che nel corso delle
brevi passeggiate in carrozza, o durante le cenette intime, Becky faceva
scomparire Amelia, che se ne stava timida e muta mentre Mrs. Crawley e George
conversavano spigliatamente, e Rawdon beveva in silenzio con Jos (da quando,
beninteso, quest'ultimo si era unito alla compagnia).
L'amica cominciava a suscitare qualche ansietà nel cuore di Emmy. La
vivacità, le doti di spirito di Rebecca stavano all'origine di quella dolorosa
inquietudine. Erano sposati soltanto da una settimana, e George dava già prova di
apprezzare la compagnia di altre donne! Mio Dio, cosa aveva in serbo il futuro,
per lei? «Come potrò essergli buona compagna,» pensava, «io che sono tanto
modesta e insignificante, dal momento che lui è così intelligente e spiritoso? Ha
dato veramente prova di animo nobile, sposandomi, abbandonando ogni cosa per
ridursi a sposare una povera fanciulla insignificante come me! Avrei dovuto
rifiutarlo, ma me n'è mancato il coraggio. Avrei dovuto restarmene a casa e aver
cura del mio povero papà!»
Fu in quel momento, appunto, che per la prima volta si rese conto di aver
trascurato la sorte dei suoi genitori, e in verità il rimprovero che le muoveva la sua
coscienza inquieta non era privo di un certo fondamento. «Ah,» pensò, arrossendo
di vergogna, «sono stata davvero malvagia ed egoista! Egoista ad averli
abbandonati in preda al loro dolore, egoista nell'aver indotto George a sposarmi.
So di non essere degna di un uomo simile, sicuramente sarebbe stato più felice
senza di me. E tuttavia ho tentato... ho tentato di rinunciare a lui...»
È davvero penoso che, a meno di una settimana dalla celebrazione delle
nozze, siffatti pensieri e confessioni percorrano la mente di una giovane sposa.
Eppure le cose stavano proprio così; e la sera prima che Dobbin li raggiungesse,
in una dolce notte di maggio rischiarata dal raggio lunare - così dolce, così calma
che avevano spalancato le finestre del balcone dal quale George e Mrs. Crawley
contemplavano la placida distesa del mare che spaziava scintillante davanti a loro,
mentre Jos e Crawley erano impegnati in una partita di backgammon - Amelia,
dimenticata da tutti, se ne stava raggomitolata in una grande poltrona, e
contemplando le due coppie provava un sentimento di disperato rimorso: terribile
compagno per un'anima così timida e schiva! Non era passata una settimana dal
matrimonio, e già rimuginava questi tetri pensieri! L'avvenire non le offriva nulla
d'incoraggiante, ma Emmy era troppo timida, se così è lecito esprimersi, per
spinger lo sguardo tanto lontano, per imbarcarsi da sola in un mare tanto vasto, e
del tutto inadatta a navigare senza un nocchiero che le facesse da valida guida! So
perfettamente che Miss Smith non ha grande stima di lei; ma, vedete, cara
signorina, quanti credete che siano dotati della vostra prodigiosa forza d'animo?
«Dio mio, che splendida serata! Come brilla la luna!» esclamò George
emettendo una boccata dal suo sigaro che s'innalzò veloce verso il cielo.
«Com'è buono l'aroma dei sigari all'aperto!» osservò Becky. «Io lo adoro.
Chi direbbe che la luna disti duecentotrentaseimilaottocentoquarantasette
miglia?» E Rebecca levò lo sguardo verso l'astro lucente, sorridendo. «Sono
brava, eh, a ricordarmelo? Poh, sciocchezze! Sono le cose che abbiamo imparato
dalla Pinkerton. Com'è calmo il mare, e com'è tutto limpido! Secondo me si riesce
a scorgere la costa francese!» E i luminosi occhi verdi lanciarono un'occhiata
penetrante quasi potessero realmente vedere nella notte.
«Sapete cosa mi piacerebbe fare una di queste mattine?» aggiunse poi. «Ho
scoperto che so nuotare benissimo, e uno di questi giorni, quando Miss Briggs, la
vecchia dama di compagnia di mia zia Crawley (ve la ricordate immagino...
quella vecchia dal naso aquilino, con quelle ciocche di capelli che le pendono...?)
quando, dicevo, la vecchia Briggs va a fare il bagno, vorrei tuffarmi sotto la sua
cabina per tentare una riconciliazione acquatica. Non vi pare uno stratagemma
geniale?»
George, all'idea di quell'incontro tra i flutti, scoppiò in una risata fragorosa.
«Ehi, cos'avete voialtri da ridere?» gridò Crawley scuotendo il bossolo dei
dadi.
Nel frattempo Amelia, cedendo a un'assurda reazione isterica, s'era ritirata a
piangere nella solitudine della sua camera.
In questo capitolo, sembra fatale che la nostra storia debba muoversi avanti e
indietro come se fossimo indecisi sul modo di procedere. Abbiamo forse parlato
di domani? Ebbene: presto avremo l'occasione di riparlare di ieri, onde la storia
possa esser resa nota in ogni sua piega più riposta. Come in occasione dei
ricevimenti di Corte le carrozze degli ambasciatori e degli altri dignitari escono
pomposamente dal portone di una casa privata, mentre le modestissime mogli dei
vari capitani Jones sono costrette ad attendere una vettura a noleggio; o come
nell'anticamera del ministro del Tesoro un parlamentare irlandese o qualsivoglia
illustre personaggio entra senza tanti complimenti e si dirige a passo deciso verso
il sottosegretario, scavalcando una mezza dozzina di umili postulanti che
attendono pazientemente il loro turno; così nello sviluppo di un racconto il
romanziere deve piegarsi a una certa parzialità. Certo è necessario raccontare
anche i piccoli avvenimenti, ma è giocoforza posporli quando gli eventi principali
s impongono ed esigono precedenza. Una circostanza come quella che aveva
spronato Dobbin a recarsi a Brighton, vale a dire la partenza dell'esercito per il
Belgio, e il raduno delle truppe alleate al comando di Sua Grazia il duca di
Wellington una circostanza di tale portata, ripeto, non poteva non aver la
precedenza sulla cronaca dei minuti episodi di cui la nostra storia è tessuta.
Occorre dunque scusare un certo disordine espositivo, peraltro comprensibile.
Ora, prendendo come punto di riferimento il capitolo ventiduesimo, è trascorso il
tempo utile perché le nostre due coppie si trovino nelle rispettive camere da letto
impegnate a vestirsi per la cena, che la sera dell'arrivo di Dobbin non si svolse
diversamente dal solito.
George provava troppa compassione, o era troppo impegnato ad annodare le
vistose gale della sua cravatta, per riferire senza indugio ad Amelia le nuove che il
commilitone gli aveva portate fresche fresche da Londra. Quando si decise, entrò
nella stanza reggendo la lettera dell'avvocato in mano. Il suo volto era atteggiato a
un'espressione così grave e solenne, che la moglie, sempre incline a preconizzar
disgrazie, pensò subito al peggio. Pertanto gli corse incontro e supplicò il suo
adorato George di dirle tutto: che aveva ricevuto l'ordine di partire per il
Continente, che ci sarebbe stata una battaglia la settimana successiva... sì, sì,
sentiva che ci sarebbe stata una battaglia.
L'adorato George scosse melanconicamente il capo eludendo la faccenda
della partenza. «No, Emmy,» disse, «si tratta di ben altro. Non di me mi
preoccupo, ma di te. Mi sono giunte cattive notizie da mio padre: ha rotto ogni
rapporto con me. Ci scaccia lasciandoci in miseria. Io potrò anche adattarmici, ma
tu, cara, come potrai? Leggi, leggi.» E le porse la lettera.
Amelia ascoltò quei nobili sentimenti espressi dalla viva voce del suo eroe
con sguardo che diceva la sua tenera apprensione. Poi lesse la lettera che George
le aveva porto, assumendo quei suoi melodrammatici accenti di martire.
Nondimeno, quando ebbe letto quella missiva il volto le si schiarì: l'idea di
dividere povertà e privazioni con l'oggetto del proprio amore è, come abbiamo già
visto, tutt'altro che sgradita a una donna innamorata. Anzi, essa parve così
accettabile ad Amelia, da riuscirle addirittura accetta. Poi, come di consueto, si
vergognò per aver provato quel suo moto gioioso in un momento così inopportuno
e celò quella sua intima felicità dicendo in tono sommesso: «Oh, George, il tuo
povero cuore deve sanguinare all'idea di essere separato dal tuo caro papà!»
«Certo!» rispose George, col viso stravolto.
«Tuttavia sono certa che la sua collera non può durare a lungo. Nessuno può
restare in collera con te. Vedrai che si riconcilierà, mio caro, mio amatissimo
marito! Ah, se non lo facesse non riuscirei mai a perdonarmelo!»
«Non soffro tanto per la mia disgrazia quanto per la tua, cara Emmy,» disse
George. «Poco m'importa della povertà. Del resto, non voglio peccare di
presunzione, ma credo di avere abbastanza talento per farmi strada da solo.»
«Proprio così,» confermò la moglie, nella sua convinzione che in quattro e
quattr'otto la guerra sarebbe finita e il marito sarebbe stato automaticamente
promosso generale.
«Farò la mia strada come chiunque altro,» continuò George, «ma tu, mia
cara, come potrai essere privata degli agi e del ruolo in società che avevi pieno
diritto di aspettarti? La mia piccola Emmy costretta a vivere in caserma! A
seguire il reggimento sopportando privazioni e incomodi d'ogni genere! No, al
solo pensiero di una simile situazione mi sento terribilmente infelice.»
Emmy, resasi conto che questa era l'unica preoccupazione del marito, lo
prese per mano, e col volto radioso e sorridente prese a cantargli una canzone
allora in gran voga: Wapping Old Stairs, nella quale l'eroina rimproverava il suo
Tom per averla trascurata, ma al tempo stesso prometteva di «mettergli le pezze ai
calzoni e di preparargli anche il grog», sempre a patto che si mantenesse «gentile
e fedele, e non l'abbandonasse». «E poi,» aggiunse Emmy, mentre il suo viso
assumeva l'aspetto grazioso e lieto che si addice a una giovinetta, «non ti sembra
che duemila sterline all'anno siano una bella somma?»
George rise di quella naïveté e scesero per la cena. Al braccio del marito
Amelia canterellava a mezza voce Wapping Old Stairs, più felice e serena di
quanto non lo fosse stata nei giorni precedenti.
Così la cena, anziché esser dominata dal malumore generale, fu quanto mai
vivace e allegra. L'eccitazione causata dall'idea della battaglia controbilanciava
nella mente di George l'amarezza causata dalla lettera dell'avvocato di suo padre,
che gli annunciava di esser stato diseredato. Divertì il gruppo degli amici
diffondendosi nella descrizione della vita militare in Belgio, un paese dove
fervevano a getto continuo fêtes, mondanità e spassi d'ogni genere. Poi, seguendo
un suo piano molto preciso, l'astuto capitano prese a descrivere la moglie del
maggiore O'Dowd che preparava i suoi bagagli e quelli del marito, col risultato
che le spalline di lui andavano a finire, Dio sa come, in una scatola da tè, mentre il
famoso turbante giallo di lei, con l'uccello del paradiso avvolto in un pezzo di
carta scura, veniva invece cacciato dentro la cappelliera di latta destinata a
ospitare il cappello a tricorno del maggiore. Chissà che effetto farà alla Corte del
re di Francia a Gand, si domandava il capitano, o ai grandi balli militari a
Bruxelles.
«Come, come,» esclamò Amelia scuotendosi all'improvviso e sussultando.
«Gand, hai detto? Bruxelles? Ma allora è giunto l'ordine di partire! Vero, George,
che il reggimento deve partire?» E un'espressione terrorizzata si dipinse sul dolce
volto della fanciulla, che fino a qualche istante prima appariva ilare e sorridente,
mentre con moto istintivo Amelia si aggrappava al braccio di George.
«Non c'è motivo di aver paura, mia cara,» disse George con un sorriso, «la
traversata dura solo dodici ore. Non avrai il mal di mare, vedrai. Verrai anche tu,
Emmy.»
«Per conto mio ci vado senz'altro,» interloquì Rebecca. «Faccio parte dello
Stato Maggiore, dal momento che il generale Tufto mi fa la corte. Non è vero,
Rawdon?»
Rawdon, al solito, scoppiò nella sua risata sonora, mentre William Dobbin
arrossiva violentemente. «No, no, non dovete andare,» disse. E stava per
aggiungere: «E pericoloso...» Ma si trattenne, dal momento che nel corso di tutto
il pasto aveva sostenuto ostinatamente che non era il caso di temere alcun
pericolo, tacque confuso.
«Io debbo andare, voglio andare,» ripeté Amelia in tono risoluto. George
approvò la sua decisione, le diede un colpetto sotto il mento, e rivolgendosi agli
astanti chiese se avessero mai conosciuto una mogliettina diabolica come la sua,
confermando al tempo stesso che Emmy lo avrebbe accompagnato. «Chiederemo
a Mrs. O'Dowd di farti compagnia» le disse. Ma di chi poteva aver bisogno fino a
quando fosse rimasta accanto a suo marito? Questa considerazione valse a
dissolvere l'amarezza della separazione. Era pur vero che dinanzi a loro c'era la
prospettiva di una guerra inevitabile, ma forse sarebbero trascorsi altri mesi prima
che questa si traducesse in una realtà tangibile. Ad ogni modo, per il momento
regnava la tregua, e per la piccola Amelia significava la felicità, come se avesse
potuto contare sulla pace più assoluta. Anche Dobbin se ne rallegrò. Per lui,
ormai, vederla era il maggior dono, la massima felicità che la vita potesse
accordargli, ed egli nel segreto del suo cuore pensava a come avrebbe potuto
proteggerla e vegliare su di lei. «Se fosse stata mia ritoglie non le avrei permesso
di seguirmi in Belgio,» pensava. Ma spettava a George decidere, e William non
volle interferire.
Alla fine Rebecca cinse con un braccio la vita dell'amica e allontanandola da
quel tavolo attorno al quale non si era fatto che discutere di argomenti così
importanti, e lasciò gli uomini a chiacchierare e a bere allegri e soddisfatti, in
preda a uno stato di esilarata esaltazione.
Nel corso della serata Rawdon ricevette un bigliettino dalla moglie, e
sebbene egli si affrettasse ad appallottolarlo per poi bruciarlo sulla fiammella
della candela, abbiamo avuto la fortuna di poterlo leggere al di sopra della spalla
di Rebecca: «Grandi notizie,» scriveva, «Mrs. Bute Crawley se n'è andata. Fatti
dare il denaro da Cupido stasera stessa, perché molto probabilmente partirà
domani. Attento a non dimenticartene. R.» Di conseguenza, quando la nostra
piccola comitiva entrò nel salottino dove le signore erano radunate per il caffè,
Rawdon toccò Osborne per il gomito, e molto compitamente gli disse: «Scusami,
George, ragazzo mio, ma se la cosa non t'incomoda troppo vorrei pregarti di
provvedere a quella sciocchezzuola...»
La «sciocchezzuola» incomodava moltissimo George; tuttavia gli diede una
parte rilevante della somma in banconote levandole dal portafoglio, oltre a un
assegno, pari alla restante somma dovuta, da riscuotere presso la sua banca entro
una settimana.
Sistemata questa pendenza, George, Jos e Dobbin tennero consiglio di
guerra fumando i loro sigari, e stabilirono di partire l'indomani stesso per Londra
nella carrozza aperta di Jos. Suppongo che quest'ultimo avrebbe gradito
rimanersene fino a quando Rawdon Crawley non avesse lasciato a sua volta
Brighton; ma George e Dobbin s'imposero, ed egli accondiscese ad accompagnare
il giorno dopo a Londra tutti i suoi amici. Anzi, ordinò una pariglia di quattro
cavalli, in ossequio al suo rango, e trainati da questi focosi destrieri partirono il
giorno seguente dopo colazione. Amelia si era alzata di buon'ora preparando le
valigie con la massima solerzia, mentre George indugiava a poltrire a letto, pur
deplorando ch'ella non avesse una cameriera ad aiutarla. D'altro canto Amelia era
ben contenta di provvedere di persona a quelle incombenze, tanto più che
cominciava a provare, nei confronti di Rebecca, un vago senso d'inquietudine. Al
momento di congedarsi si salutarono con un bacio; ma sappiamo bene che ciò non
escludeva la gelosia, e insieme con le altre peculiarità del suo sesso Emmy
possedeva anche questa.
Oltre a questi personaggi che andavano e venivano, non dobbiamo
dimenticare che in quello stesso momento Brighton ospitava altri vecchi amici, e
per l'esattezza Miss Crawley e il codazzo di persone che si occupavano di lei. Ora,
quantunque Rebecca e suo marito abitassero a due passi dall'alloggio della
vecchia inferma, la casa di quest'ultima era loro rigorosamente preclusa, né più né
meno come quella di Londra. Fino a quando rimase accanto alla cognata, Mrs.
Bute Crawley pose ogni cura affinché un incontro col nipote non turbasse la
malata Matilda. Ogni qual volta l'anziana signorina faceva una passeggiata in
calesse le sedeva al fianco. Se invece Miss Crawley preferiva andare a respirare
una boccata d'aria seduta sulla poltrona a rotelle, Mrs. Bute Crawley camminava
di fianco al veicolo, mentre sull'altro lato procedeva Miss Briggs. E se accadeva
che incontrassero Rawdon e sua moglie, sebbene il nipote si togliesse ogni volta il
cappello col massimo ossequio, il gruppo di Miss Crawley e delle sue giannizzere
procedeva oltre ostentando la più raggelante indifferenza cosicché Rawdon aveva
quasi perso ogni speranza.
«Tanto varrebbe tornare a Londra. A che scopo trattenerci qui?» ripeteva
spesso il capitano con aria afflitta.
«Un comodo albergo a Brighton è senz'altro preferibile a una prigione per
debiti in Chancery Lane,» rispondeva sua moglie, di temperamento più gaio e
ottimista. Pensa a quei due aiutanti di campo di Mr. Moses, l'ufficiale giudiziario,
che sono stati a montar la guardia davanti a casa nostra per una settimana. I nostri
amici qui sono veramente stupidi, ma Mr. Jos e il capitano Cupido sono
certamente più piacevoli degli uomini di Moses, Rawdon, tesoro mio.»
«Sono davvero stupefatto che non mi abbiano tallonato sin qui con le loro
ingiunzioni di pagamento,» disse Rawdon, sempre abbattuto.
«Quando faranno la loro comparsa troveremo uno stratagemma per evitarli,»
ribatté l'indomabile Becky, la quale, per giunta, fece notare al marito quale
concreto vantaggio fosse stato, per loro, l'incontro con Jos e con George; incontro
che aveva fruttato un provvidenziale rifornimento in denaro liquido.
«Basterà a malapena a pagare il conto dell'albergo,» borbottò il capitano
delle Guardie.
«E perché dovremmo pagarlo?» disse la moglie, alla quale non veniva mai
meno la risposta a tempo debito.
Grazie al cameriere di Rawdon, il quale aveva mantenuto i contatti con la
servitù di Miss Crawley e aveva l'ordine di offrire da bere al cocchiere ogni qual
volta lo incontrava, i giovani coniugi erano al corrente di tutti i movimenti della
vecchia signorina, dimodoché potevano considerarsi quasi perfettamente
informati sulla situazione. Si aggiunga che Miss Briggs, per quanto fosse stata
indotta ad assumere un atteggiamento ostile, nel suo intimo non nutriva alcuna
inimicizia nei confronti di Rawdon e di Rebecca. Era, per natura, d'animo gentile
e incline all'indulgenza. Venuta meno la ragione della sua gelosia per Rebecca,
non aveva alcun motivo di trovarla antipatica, tanto più che ne ricordava con
piacere le espressioni cortesi e il costante buonumore. Si aggiunga che, per esser
sinceri, sia lei che Mrs. Firkin, la cameriera personale, soffrivano - al pari di tutta
la servitù di Miss Crawley - sotto l'imperante dispotismo di Mrs. Bute Crawley.
Come spesso avviene, quella zelante e autoritaria signora aveva passato il
segno, approfittando senza ritegno della posizione di vantaggio raggiunta. Le
erano bastate poche settimane per ridurre la povera vecchia all'impotenza, onde
Miss Crawley obbediva al suo volere senza reagire, e non aveva nemmeno il
coraggio di lamentarsi del proprio stato con la Briggs e la Firkin. Mrs. Bute
Crawley, per esempio, misurava con rigorosa oculatezza i bicchieri di vino che
Miss Crawley poteva bere giornalmente, con grande disappunto della Firkin e del
maggiordomo, che in tal modo si vedevano privati della possibilità di approfittare
della bottiglia dello sherry. E del pari era lei a spartire in porzioni il pollo, i dolci,
la marmellata, e a decidere in quale ordine andassero serviti, in quale quantità
andassero consumati. Mattina, mezzogiorno e sera recava di persona alla paziente
le orrende pozioni prescritte dal medico, e la povera vittima trangugiava tutto con
tale remissività che la Firkin diceva: «La mia povera signorina prende la medicina
come un agnellino.» Mrs. Bute Crawley decideva se si dovesse far la passeggiata
in carrozza oppure in carrozzina a rotelle insomma, affliggeva la povera malata
col genere di attenzioni che si addicevano a una brava, materna e virtuosa donna
di casa come lei. Se qualche volta la paziente osava muovere qualche timida
obiezione, supplicava di aver più cibo e dosi meno massicce di medicinali, subito
le veniva fatto balenare lo spettro di una morte subitanea, ed ella cedeva
all'istante. «Non ha più un briciolo di energia,» diceva la Firkin alla Briggs. «Sono
già tre settimane che non mi dà della cretina.» Ma non è tutto: nel suo intimo Mrs.
Bute Crawley già meditava di licenziare la sunnominata cameriera personale Mrs.
Firkin, il maggiordomo Mr. Bowls (il grosso uomo di fiducia di Miss Crawley) e
la stessa Miss Briggs per far venire dal presbiterio le sue amate figliole prima di
trasferire a Queen's Crawley la cara inferma, quando sopravvenne un odioso
incidente a distoglierla da queste graditissime incombenze.
Una sera, mentre tornava a casa, il reverendo Bute Crawley suo marito
cadde da cavallo e si spezzò una clavicola. Subentrarono febbre e sintomi
d'infiammazione, onde Mrs. Bute Crawley si vide costretta a lasciare il Sussex per
far ritorno nello Hampshire. Promise di ritornare presso la sua diletta amica non
appena il consorte si fosse ristabilito e partì, non senza lasciare perentorie
istruzioni alla servitù circa la linea di condotta che dovevano rispettare verso la
loro padrona.
Non appena fu salita sulla diligenza di Southampton, in tutta la casa di Miss
Crawley dilagarono un giubilo e un profondo senso di sollievo quale nessuno, fra
tutti coloro che vi abitavano, aveva provato da molte settimane. Quel giorno
stesso Miss Crawley rifiutò di prendere la dose pomeridiana di medicina, e quello
stesso pomeriggio Bowls sturò una bottiglia di porto esclusivamente per sé e per
la Firkin. Sempre quella sera, invece di leggere uno dei sermoni di Porteous, Miss
Crawley e la Briggs si permisero una partita a piquet, Proprio come nella vecchia
nenia infantile, il bastone dimenticava di battere il cane, e tutto da quel momento
si svolse in un clima di pacifica e ritrovata serenità.
Due o tre volte la settimana, nelle primissime ore del mattino, Miss Briggs
penetrava in una cabina da bagno, e dopo aver indossato un accappatoio di
flanella e una cuffia di tela cerata, si divertiva a diguazzare nell'acqua. Come già
abbiamo visto, Rebecca era al corrente di quest'abitudine, e senza tentare di
prender d'assalto la Briggs come aveva minacciato di fare - tuffandosi, cioè, e
riemergendo di colpo per il gusto di sorprendere la signora nell'intimo ricettacolo
di quel chiosco natante - decise di affrontarla quando fosse riemersa dal bagno
rinfrescata e rinvigorita dalla corroborante immersione. Probabilmente, pensava
Rebecca, sarebbe stata di umore più disteso. Pertanto, la mattina seguente, Becky
si alzò di buon'ora, impugnò il cannocchiale e si portò sul balconcino verso il
mare onde osservare da vicino le cabine natanti sulla spiaggia. Vide la Briggs
arrivare, infilarsi in una cabina e scendere al mare; e fece in modo di trovarsi sulla
spiaggia proprio nel momento in cui la vezzosa Nereide, uscita dalla piccola
cabina, posava il piede sulla ghiaia della riva. Era uno splendido scenario: la
spiaggia, le facce delle bagnine, il susseguirsi delle scogliere e degli edifici che si
accendevano, illuminati dal primo sole. Rebecca aveva sul volto il suo più
suadente sorriso, e fu pronta a tendere la sua bianca manina nell'istante in cui la
Briggs emergeva dall'abitacolo. Che altro poteva fare la Briggs se non accettare
quel saluto?
«Miss Sh... Mrs. Crawley!» esclamò.
Mrs. Crawley le afferrò la mano, se la premette sul cuore, poi cedendo a un
impulso improvviso, gettò le braccia al collo della Briggs e la baciò con trasporto.
«Cara, cara amica!» disse in un tono di tale spontaneità ed esuberanza
affettuose, che suo malgrado la Briggs ne fu commossa e persino la bagnina parve
intenerita.
Dopo di che Rebecca, con la massima naturalezza, diede corso a una lunga,
intima e piacevole conversazione con la Briggs. Questa le descrisse per filo e per
segno tutto quanto era avvenuto dal mattino dell'inopinata partenza di Becky dalla
casa di Miss Crawley in Park Lane, fino alla tanto invocata e auspicata partenza di
Mrs. Bute Crawley. La confidante illustrò tutti i sintomi di Miss Crawley, tutti i
particolari della malattia e tutte le cure prescritte dai medici con quella meticolosa
precisione che costituisce uno dei massimi piaceri riservati a una donna. Quando
mai le donne si saziano di parlare dei loro malanni e dei loro medici? Pertanto
anche nel caso in questione la Briggs si diffuse senza misericordia a raccontare,
né Rebecca si stancò di ascoltare. Era così lieta che la cara l'amabile Miss Briggs,
e la fedele, insostituibile Mrs. Firkin avessero potuto restare accanto alla loro
benefattrice durante la sua lunga degenza. Che il Cielo le accordasse la sua
benedizione! Sì, in apparenza Rebecca si era comportata male verso Miss
Crawley, ma la sua colpa non era forse la conseguenza di un sentimento naturale e
degno di perdono? Come avrebbe potuto rifiutare la sua mano all'uomo che aveva
conquistato il suo cuore? La vecchia Miss Briggs era molto sentimentale, e
nell'udire quelle considerazioni non poté fare a meno di levare gli occhi al cielo,
emettere un sospiro che esprimeva tutta la sua comprensione, ricordarsi delle pene
d'amore, da lei stessa conosciute e sofferte tanti anni prima e convenire che
Rebecca non era poi una criminale.
«Potrò mai scordare colei che ha dato tante e tali prove di amicizia a una
povera orfana sola?» continuò Becky. «Anche se mi ha scacciata non cesserò di
amarla e sarei pronta a votare l'intera mia esistenza al suo servizio. Miss Crawley
è stata la mia benefattrice ed è l'adorata zia del mio Rawdon; per questo, mia cara
Miss Briggs, io l'amo e l'ammiro più di qualsiasi altra donna al mondo, e dopo di
lei il mio affetto va a tutti coloro che le sono devoti. Non avrei mai trattato i fedeli
amici di Miss Crawley come li ha trattati quell'insoffribile filistea di Mrs. Bute
Crawley. Quante volte Rawdon (che aveva un cuor d'oro, anche se a volte poteva
sembrare rude e indifferente) le aveva ripetuto con le lacrime agli occhi come
fosse grato alla celeste Provvidenza per aver accordato alla sua amatissima zietta
due infermiere impareggiabili come l'affezionata Firkin e l'ammirevole Miss
Briggs! Se le trame ordite dalla detestabile Mrs. Bute Crawley si fossero concluse
(come Rebecca purtroppo temeva) con l'allontanamento di tutti coloro ai quali
Miss Crawley era profondamente affezionata, e con la sua segregazione al
presbiterio ove sarebbe definitivamente caduta in balìa di quelle megere, Rebecca
supplicava Miss Briggs di ricordare come la sua casa, per quanto assai modesta, le
fosse sempre aperta, pronta ad accoglierla con gioia. «Eh, sì, cara amica,»
concluse Becky in un impeto di entusiasmo, «ci sono anche dei cuori che non
dimenticano mai i benefici ricevuti. Non tutte le donne sono uguali a Mrs. Bute
Crawley, anche se francamente io non abbia nulla da rimproverarle sul piano
personale. Sono stata vittima dei suoi raggiri,» concluse Rebecca, «ma dopotutto
le sono debitrice, se oggi mi trovo sposata al mio amato Rawdon.»
E, Rebecca illustrò alla Briggs tutte le mene messe in atto da Mrs. Bute
Crawley a Queen's Crawley: manovre allora incomprensibili, ma diventate
chiarissime dopo che l'affetto incoraggiato da Mrs. Bute Crawley con mille
espedienti si era tramutato in un sentimento reale, e due creature innocenti, cadute
nella trappola da lei proditoriamente apprestata, si erano amate, sposate e rovinate
per colpa sua.
Era tutto vero. La Briggs non aveva alcuna difficoltà a rendersi conto come
avesse funzionato quello stratagemma. Era stata Mrs. Bute Crawley a porre le basi
del matrimonio fra Rawdon e Rebecca. Però, sebbene quest'ultima avesse agito in
assoluta buonafede, Miss Briggs non poteva sottacere all'amica il suo timore che
l'affetto di Miss Crawley per Rebecca fosse ormai perduto senza rimedio. E poi la
vecchia dama non avrebbe mai perdonato al nipote un matrimonio così
inopportuno.
Su questo punto Rebecca aveva una sua opinione personale e continuava a
nutrire fiducia. Anche se per il momento miss Crawley non era disposta a
perdonarli, non si poteva escludere che, col passare del tempo, il suo cuore
s'intenerisse. D'altronde, anche se questa situazione era destinata a cristallizzarsi,
tra Rawdon e il titolo di baronetto c'era solo quel tedioso e malaticcio Pitt
Crawley. Se fosse accaduto qualcosa al suddetto, tutto si sarebbe risolto nel
migliore dei modi. Ad ogni modo, per il momento Rebecca aveva avuto la
soddisfazione di rivelare i loschi retroscena concernenti Mrs. Bute Crawley e di
averla insultata a dovere con gli epiteti che le competevano. Forse Rawdon ne
avrebbe tratto vantaggio... Dopo aver chiacchierato per un'ora con l'amica
ritrovata, Rebecca si congedò da lei con le più tenere attestazioni di rispetto,
sicura che la loro conversazione sarebbe stata riferita a Miss Crawley nel giro di
poche ore.
Concluso questo incontro, Becky si affrettò a rientrare all'albergo, ove tutta
la compagnia si trovava già riunita per fare colazione assieme, in vista dell'ormai
imminente separazione. Rebecca salutò Amelia con quel trasporto di tenerezza
affatto naturale tra due donne che si amano come sorelle. Dopo aver fatto largo
uso del fazzoletto, dopo essersi appesa al collo dell'amica come se avesse dovuto
lasciarla per sempre, dopo aver sventolato dalla finestra il fazzoletto (asciutto,
beninteso), attese che la carrozza fosse partita e infine sedette a tavola dove
l'emozione non le impedì di mangiare di buon appetito una porzione di scampi.
Mentre mangiava, riferì al marito il suo incontro mattutino con la Briggs. Nutriva
molte speranze e riuscì a indurre il marito a condividerle. Di solito le riusciva di
indurre il marito a far proprie le sue convinzioni, liete o tristi che fossero.
«Ed ora, tesoro, devi farmi un piacere: siediti al tavolino e scrivi una bella
letterina a Miss Crawley per dirle che tu sei un gran bravo ragazzo e altre storie
del genere.» Rawdon sedette senza indugio e scrisse: «Brighton, giovedì.» Poi,
con altrettanta rapidità, aggiunse: «Cara zia.» Ma qui la fantasia del baldanzoso
ufficiale venne meno. Prese a mordicchiare la punta della penna e sollevò lo
sguardo verso sua moglie. Rebecca, nel vedere quella sua espressione smarrita,
non poté esimersi dal riderne. Intrecciò le mani dietro la schiena e camminando su
e giù per la stanza cominciò a dettare la lettera:
«"Prima di lasciare l'Inghilterra per prender parte a una campagna che molto
probabilmente mi sarà fatale..."»
«Come, come?» interruppe Rawdon. Ma poi comprese le implicazioni di
quella frase e la scrisse con un risolino.
«"... che molto probabilmente mi sarà fatale, venni in questo luogo..."»
«Perché non dire: "venni qui", Becky? "Venni qui", non è un errore di
grammatica,» obiettò il dragone.
«"Venni in questo luogo",» insistette Rebecca battendo il piede, «"per dire
addio a colei che è stata la mia prima e più cara amica. Prima della mia partenza, e
in considerazione del fatto che potrei non tornare mai più, vi scongiuro di
lasciarmi ancora una volta stringere quella mano dalla quale non ho avuto che
gentilezze nell'intero corso della mia vita."»
«"Gentilezze nell'intero corso della mia vita,"» ripeté Rawdon facendo eco
alla voce di Rebecca e scarabocchiando le parole, molto stupito della facilità con
la quale gli riusciva di esprimersi.
«"Una sola cosa vi chiedo; separarci senza rancore. Per certi aspetti ho
l'orgoglio della famiglia, anche se non sotto altri. Ho sposato la figlia di un pittore
e non ho motivo di vergognarmi del mio matrimonio."»
«No, non me ne vergognerei nemmeno se mi ammazzassero!» esclamò
Rawdon.
«Suvvia, bamboccione,» lo ammonì Rebecca, scherzosa, mentre sbirciava il
foglio per vedere se avesse fatto errori d'ortografia. «"Quella", si scrive con due l
e "gentilezze", con due z. Docile, egli corresse le due parole, inchinandosi al
maggior grado d'istruzione della piccola signora sua moglie.
«"Vi credevo al corrente di questo affetto sorto in me,"» continuò a dettare
Rebecca, «"e sapevo che Mrs. Bute Crawley lo incoraggiava. Ma non intendo
muovere rimproveri a nessuno, e accetto di buon grado di subire le conseguenze
del mio operato. Lasciate i vostri beni a chi volete, cara zia; non sarò io a
lamentarmi, né oggi né mai, di come avrete disposto al riguardo. Desidero
sappiate che voglio bene a voi, non al vostro denaro. Desidero riconciliarmi con
voi prima di lasciare l'Inghilterra. Concedetemi di vedervi prima della mia
partenza, ve ne prego. Fra qualche settimana, o fra qualche mese, potrebbe essere
troppo tardi, ed io non sopporto l'idea di partire senza una vostra affettuosa parola
di addio."»
«Non riuscirà a riconoscere il mio stile in una lettera del genere,» disse
Rebecca. «Ho elaborato apposta delle frasi brevi e secche.» Così la missiva, tale e
quale l'abbiamo qui riportata, fu inoltrata alla destinataria entro una busta
indirizzata a Miss Briggs.
La vecchia Crawley rise quando Miss Briggs, in aria di grande mistero, le
porse quella candida e semplice confessione. «Possiamo leggerla, ora che Mrs.
Bute Crawley non c'è,» disse. «Leggetemela, Briggs.»
Quando la Briggs ebbe finito di leggere l'epistola, la sua padrona rise di
nuovo. «Sciocca che non siete altro,» disse alla Briggs, molto commossa, a sentir
lei, dal sincero affetto che traspariva da quelle parole, «non vi rendete conto che
Rawdon non ha scritto di testa sua nemmeno una parola di questa lettera? In tutta
la vita Rawdon mi ha scritto solo per chiedermi denaro, e le sue lettere sono zeppe
di errori di ortografia e di grammatica! È quel piccolo serpente di istitutrice che lo
comanda a bacchetta.» E in cuor suo Miss Crawley pensava: «Sono tutti della
stessa risma: sperano solo che me ne vada all'altro mondo per metter mano sui
miei quattrini.»
«Non ho alcuna difficoltà a rivedere Rawdon,» aggiunse dopo una pausa, e
in un tono di perfetta indifferenza. Perché non dovrei stringergli la mano? Perché
non dovrei rivederlo. A patto che non ci siano scene, beninteso. Non ho nulla da
obiettare. Però la pazienza umana ha un limite; perciò ricordatevi bene, mia cara,
che per il momento rifiuto rispettosamente di ricevere Mrs. Crawley. È una cosa
che non mi sento ancora in grado di sopportare.»
Così Miss Briggs dovette accontentarsi di questo messaggio di mezza
riconciliazione. Pensò al miglior modo per combinare l'incontro fra Miss Crawley
e il nipote, dopo di che ritenne opportuno avvertire Rawdon di attendere lungo la
strada della scogliera il momento in cui l'anziana signorina si sarebbe recata a
farvi la sua passeggiata seduta sulla sedia a rotelle.
E in quel luogo, appunto, s'incontrarono. Non saprei dire se nel suo intimo
Miss Crawley provasse piacere o un'emozione purchessia rivedendo quel nipote
che un tempo era stato il suo prediletto: comunque gli porse due dita con volto
ilare e sorridente, come se si fossero visti la sera prima. Quanto a Rawdon, si fece
di bragia e strinse forte la mano di Miss Briggs, rivelando il suo stato d'intensa
confusione. Forse quel turbamento era dovuto a mere ragioni d'interesse, o forse
dall'affetto, o magari, chissà?, dal mutamento che la malattia aveva operato nella
zia durante le ultime settimane.
«La vecchia è sempre stata così generosa con me,» disse poi alla moglie,
raccontandole l'incontro con Miss Crawley, a ed io, come puoi immaginarti, ero
piuttosto imbarazzato... insomma... non saprei che altro dirti... Ho camminato di
fianco a quel... a quell'affare, come si chiama?... fino alla porta di casa sua. Bowls
è venuto per aiutarla ad entrare, e avevo molta voglia di entrare anch'io, ma...»
«Non sei entrato?» strillò la moglie.
«No, cara. A questo punto ho avuto una tale paura, maledizione...»
«Imbecille! Avresti dovuto entrare e non uscire più!» esclamò Rebecca.
«Non ammetto che tu m'insulti!» Si risentì il grosso dragone, corrucciato.
«Sarò anche stato imbecille, Becky, ma tu non sei autorizzata a dirmelo.» E
Rawdon fissò la moglie con quella spiacevolissima espressione che assumeva nei
momenti di collera.
«E allora, caro, domani sta' all'erta: va' a trovarla, che t'inviti o no,» rispose
Rebecca cercando di placare il risentimento del suo irritato consorte. Ma lui reagì
esortandola ad usare un linguaggio più forbito, e che per il resto avrebbe fatto a
modo suo. Poi il marito offeso se ne andò a trascorrere il resto della mattinata in
una sala da biliardo, cupo in volto, silenzioso e turbato da mille sospetti.
Ma prima di notte fu costretto a cedere, e ad ammettere una volta di più che
la moglie era dotata di una prudenza e di una lungimiranza fuori del comune.
Purtroppo il nero presentimento che Rebecca aveva avuto circa le conseguenze
dell'errore di Rawdon si rivelò fondato. Indubbiamente Miss Crawley aveva
provato una certa emozione nel rivedere Rawdon e nello stringergli la mano dopo
un così lungo periodo di rottura. «Rawdon è ingrassato da far paura, Briggs,»
disse alla sua dama di compagnia, «sta invecchiando. Gli è venuto il naso rosso e
ha un aspetto oltremodo volgare. Il suo matrimonio con quella donna lo ha reso
volgarissimo. Mrs. Bute Crawley ha sempre detto che quei due sono dediti al
bere, e dov'essere vero. Puzzava di gin in modo spaventoso. Me ne sono accorta
subito. Voi no?»
Invano la Briggs obiettò che Mrs. Bute Crawley sparlava di lutti; e nei limiti
di giudizio consentiti a un'umile persona come lei, quella era una...
«Un'ipocrita? Un'intrigante? Certo, e parla male di tutti; tuttavia sono sicura
che quell'istitutrice ha spinto Rawdon al bere. Tutte le persone di bassa estrazione
sono dedite a quel vizio...»
«Eppure si è commosso veramente nel vedervi,» disse la Briggs, «e sono
certa che il pensiero di dover partire per la guerra...»
«Vi ha promesso del denaro, vero Briggs? E quanto, di grazia?» prese a
strillare la vecchia zitella, in un subitaneo accesso di furibonda esaltazione.
«Ecco, ci siamo: vi mettete a piangere. Sapete benissimo che detesto le scene. Ma
perché dovete sempre tormentarmi? Se avete voglia di piangere, siete libera di
andarvene in camera vostra e di mandarmi la Firkin... No, restate. Sedetevi,
invece, soffiatevi il naso e scrivete una lettera al capitano Crawley.»
La povera Briggs ubbidì e si mise davanti alla cartella. I fogli del blocco di
carta da lettere recavano ancora, chiaramente visibile, l'impronta della scrittura
ferma, forte e veloce dell'amanuense che aveva preceduto la signorina: Mrs. Bute
Crawley.
«Cominciate con "Mio caro signore", o semplicemente "Caro signore", e
dite che Miss Crawley vi ha pregata... no, che Mr. Cramer, il medico di miss
Crawley, vi ha incaricata d'informarlo che il mio stato fisico è tale da
sconsigliarmi qualsiasi emozione. Nell'attuale, delicata situazione potrebbe
essermi dannosa. Dite che sono costretta a rinunciare a qualsiasi incontro o
discussione familiare, che lo ringrazio di esser venuto a Brighton per me, ma non
è il caso che vi si trattenga oltre. Se volete potete aggiungere il mio augurio di
Bon voyage, e che se vuol prendersi la briga di passare dal mio legale in Gray's
Inn Square, vi troverà una comunicazione per lui. Sì, mi sembra una buona idea.
Così se ne andrà da Brighton.» E la buona Briggs scrisse questa frase con estrema
soddisfazione.
«Assalirmi il giorno immediatamente successivo alla partenza di Mrs.
Bute,» diceva intanto la vecchia dama, «è stato troppo grossolano, mia cara
Briggs. E scrivete anche a Mrs. Bute Crawley dicendole di non tornare, che non
c'è alcun bisogno di lei. Non voglio assolutamente che ritorni. Non voglio esser
schiava in casa mia, non voglio patir la fame, non voglio morire avvelenata. Tutti
mi vogliono ammazzare... tutti... tutti!» E su queste parole la povera, triste
vecchietta scoppiò in un torrente di lacrime isteriche.
L'ultima scena della squallida scena da lei recitata alla Fiera della Vanità
stava rapidamente volgendo al termine. Le luci ingannevoli si spegnevano l'una
dopo l'altra e il nero sipario era ormai prossimo a calare.
L'ultima frase della lettera, quella in cui s'invitava Rawdon a passare dal
legale di Miss Crawley a Londra e che la Briggs era stata così lieta di vergare,
valse a consolare un poco il dragone e la moglie, dopo il primo moto di delusione
e d'incredulità provocato dalla constatazione che la vecchia zitella rifiutava di
riconciliarsi con loro. E ottenne esattamente lo scopo per il quale Miss Crawley
l'aveva fatta scrivere: suscitare in Rawdon il più vivo desiderio di tornare
immediatamente a Londra.
Grazie alle perdite al gioco di Jos e al denaro contante di Osborne, Rawdon
pagò il conto dell'albergo (e forse ancor oggi l'albergatore non sa quale rischio
avesse corso). Infatti, come un generale saggiamente manda nella retroguardia le
salmerie prima della battaglia, Rebecca non meno oculatamente aveva preparato i
bagagli contenenti le loro suppellettili di maggior valore, e li aveva spediti a
Londra affidando questo delicato incarico al cameriere di George, il quale li aveva
caricati sulla diligenza per Londra. E con lo stesso mezzo il giorno dopo anche
Rawdon e sua moglie fecero ritorno in città.
«Mi sarebbe piaciuto vedere la vecchia prima di partire,» disse Rawdon. «È
molto cambiata e ha un aspetto così abbattuto che secondo me non potrà campare
ancora a lungo. Chissà che assegno mi avrà lasciato da Waxy. Saranno duecento
ster... eh, sì, non possono essere meno di duecento... cosa ne dici, Becky?»
In conseguenza delle ripetute incursioni degli ufficiali giudiziari inviati dal
tribunale del Middlesex, Rawdon e Rebecca non rientrarono nel loro
appartamento di Brompton, ma scesero in un albergo. La mattina dopo Rebecca
per caso li vide mentre di buon'ora percorreva le strade di quel quartiere diretta a
Fulham, ove intendeva far visita a Mrs. Sedley, alla cara Amelia e agli amici di
Brighton. Erano partiti tutti per Chatham, donde si sarebbero spostati ad Harwich
ove si sarebbero imbarcati per il Belgio col reggimento. La cara, vecchia Mrs.
Sedley era molto depressa. Tornata dalla visita, Rebecca trovò il marito reduce
dalla spedizione in Gray's Inn ove aveva appreso il suo destino. Era furente.
«Per Giove, Becky, sai cosa mi ha lasciato? Venti sterline! Solo venti
sterline!»
Sebbene le conseguenze ricadessero negativamente su di loro quello scherzo
era troppo divertente perché Becky non scoppiasse a ridere di cuore davanti alla
delusione di Rawdon.
XXVI • TRA LONDRA E CHATHAM
Lasciata Brighton, il nostro amico George, come si addice ad una persona
del suo rango e della sua eleganza che viaggi a bordo di un tiro a quattro, scese in
pompa magna in un ottimo albergo di Cavendish Square, dove uno splendido
appartamento di numerose camere e una tavola apparecchiata con magnifica
argenteria, servita da uno stuolo di domestici neri e silenziosi, erano pronti a
ricevere il giovane Mr. Osborne e consorte. George, con arie e modi principeschi,
fece gli onori di casa a Jos e a Dobbin, mentre Amelia, per la prima volta e con
soverchio imbarazzo e timidezza, presiedeva a quella tavolata che George aveva
definito «degna di lei».
George criticò il vino e fece osservazioni ai domestici con aria regale,
mentre Jos, con palese soddisfazione, s'ingozzava di zuppa di tartaruga, e Dobbin
lo aiutava a servirsi, perché la «padrona di casa» davanti alla quale era stata
posata la zuppiera, manifestava la più assoluta ignoranza circa il suo contenuto,
tanto che avrebbe servito Mr. Sedley senza offrirgli né calipash né calipi.
La cena sontuosa e il lusso dei locali nei quali veniva servita allarmarono
Dobbin, il quale, concluso il pasto, fece le sue rimostranze approfittando del fatto
che Jos si era addormentato in una poltrona. Ma invano egli protestò per
l'enormità della tartaruga e la qualità dello spumante, che avrebbe figurato
degnamente sulla mensa di un arcivescovo. «Sono sempre stato abituato a
viaggiare come un gentiluomo,» disse George, «e intendo che mia moglie viaggi
come una signora, per Giove! Finché in cassaforte ci sarà un soldo non le
mancherà niente,» concluse, compiacendosi della prova di generosità e di
opulenza che stava dando. Dobbin non osò nemmeno tentare di convincerlo che la
felicità di Amelia non era affidata alla zuppa di tartaruga.
Dopo cena, Amelia manifestò timidamente il desiderio di andare a Fulham a
salutare sua madre, permesso che George le accordò non senza brontolare. Ella
pertanto si diresse verso l'enorme camera da letto nella quale troneggiava l'enorme
e tetro talamo «ove aveva dormito la sorella dell'imperatore Alessandro quando i
sovrani alleati erano venuti a Londra», e tutta lieta indossò prontamente lo scialle
e la cuffietta. Quando fece ritorno in sala da pranzo, George stava ancora bevendo
e non palesava la minima intenzione di volersi mettere in moto. «Non vieni con
me, tesoro?» gli chiese Amelia. No, quella sera il suo «tesoro» era impegnato. Si
sarebbe occupato il domestico di trovarle una carrozza di piazza e accompagnarla
a Fulham. Quando la carrozza sostò davanti all'albergo, Amelia, delusa, fece un
piccolo inchino a George; invano ne cercò due o tre volte lo sguardo, poi, mesta
in volto scese la gradinata, seguita da Dobbin che l'aiutò a salire sul veicolo e la
vide allontanarsi verso la meta prefissa. Persino il domestico si vergognò di dare
l'indirizzo al cocchiere al cospetto del personale dell'albergo, e disse che gli
avrebbe dato le istruzioni del caso non appena si fossero allontanati.
Dobbin si avviò a piedi verso Slaughter, dove alloggiava, e molto
probabilmente pensava a come sarebbe stato piacevole viaggiare all'interno di
quella carrozza in compagnia di Mrs. Osborne. Ma evidentemente George non era
dello stesso parere, perché dopo una copiosa bevuta si recò a teatro, a vedere a
metà prezzo Mr. Kean che recitava nel ruolo di Shylock. Il capitano Osborne
aveva una vera passione per il teatro, ed egli stesso aveva recitato con successo
parti drammatiche in molti spettacoli allestiti nelle guarnigioni. Ormai s'era fatto
buio, ma Jos continuò a dormire e si destò di soprassalto solo quando il domestico
fece rumore togliendo e vuotando le caraffe rimaste sulla tavola. Pertanto
qualcuno fu inviato di nuovo a cercare una carrozza per rispedire il nostro grasso
eroe a casa sua e sotto le coltri del suo letto.
Mrs. Sedley (chi oserebbe stupirsene?) si strinse al petto la figlia con affetto
e slancio materno, appena la carrozza si era fermata dinanzi al cancelletto del
giardino, si era precipitata all'ingresso per dare il benvenuto alla sposina tremante
e commossa. Il vecchio Mr. Clapp che, in maniche di camicia, era impegnato a
regolare la siepe del giardino, si scostò allarmato. Quanto alla servetta irlandese,
accorse dalla cucina e disse sorridendo: «Dio vi benedica!» Amelia quasi
barcollava mentre percorreva il vialetto e saliva la breve scalinata che portava al
salottino.
E che le cataratte si siano aperte, che madre e figlia abbiano pianto insieme
strettamente abbracciate è cosa facilmente immaginabile per qualsiasi lettore, per
quanto scarsamente incline al sentimentalismo. Ma quando non piangono le
donne? C'è forse occasione lieta o triste, circostanza purchessia della vita in cui
non siano pronte a scoppiare in lacrime? Dopo un evento clamoroso come un
matrimonio, madre e figlia hanno senza dubbio pieno diritto di dar libero sfogo a
un'emozione al tempo stesso tenera e liberatoria. Ho visto, in occasione di
matrimoni, donne che si detestano baciarsi quasi affettuosamente, abbracciarsi
piangendo. Figuriamoci cosa accade quando si vogliono bene! In occasione del
matrimonio delle figlie, una madre si sposa praticamente per la seconda volta. Per
non dire dei sentimenti ultra-materni delle nonne. Anzi, si può affermare che una
donna, prima di diventar nonna, spesso ignora cosa significhi esser madre.
Rispettiamo dunque l'intimità di Mrs. Sedley e di Amelia, che nella penombra del
salotto ridono, piangono, bisbigliano, singhiozzano. E a tale rispetto si attenne
anche il vecchio Mr. Sedley. Non aveva indovinato chi recasse la carrozza di
piazza fermatasi davanti al cancelletto. Non era corso incontro alla figlia sebbene
l'avesse baciata molto affettuosamente quand'era entrata nel salotto (dove come di
consueto trafficava con le sue scartoffie, le sue fettucce, i suoi estratti-conto), e
dopo essersi brevemente intrattenuto con le due donne, saviamente le aveva
lasciate a tu per tu.
Frattanto il domestico di George squadrava dall'alto in basso il povero Mr.
Clapp che, in maniche di camicia, ora annaffiava le sue rose. Nondimeno si degnò
di togliersi il cappello al cospetto di Mr. Sedley, il quale chiese notizie di suo
genero, e s'informò sulla carrozza di Jos e sui cavalli (erano stati portati a
Brighton?), oltre che sul quel maledetto traditore di Buonaparte e sulla guerra,
finché comparve la servetta con un piatto e una bottiglia di vino, e il vecchio volle
a tutti i costi che il domestico ne bevesse. Gli diede anche una mezza ghinea, che
quello si cacciò in tasca con un misto di stupore e di disprezzo.
«Alla salute del vostro padrone e della vostra padrona, Trotter,» disse Mr.
Sedley. Ed eccovi qualcosa per bere alla vostra salute quando sarete tornato a casa
.»
Erano trascorsi solo nove giorni da quando Amelia aveva lasciato quella
piccola casa, eppure quel momento del distacco le sembrava già così lontano!
Quale voragine si era spalancata fra lei e la sua vita di un tempo! Dalla sua
presente condizione poteva volgersi a contemplare, quasi si fosse trattato di
tutt'altra persona, la fanciulla assorta nel suo amore, che aveva occhi solo per una
sola persona e accettava l'affetto dei suoi genitori, non dirò con ingratitudine, ma
come qualcosa che le fosse dovuto, mentre il suo cuore e la sua mente erano
ciecamente rivolti al raggiungimento di quella meta tanto desiderata. Il ricordo di
quei giorni, al tempo stesso vicini e lontani, suscitavano in lei un sentimento di
vergogna e la vista dei diletti genitori la colmò di tenerezza e di rimorso. Quella
meta, quell'invocato approdo erano stati raggiunti. Come mai, allora, Amelia era
perplessa e insoddisfatta? Di solito, quando l'eroe e l'eroina del romanzo sono
giunti al matrimonio, l'autore cala il sipario, come se la commedia fosse
terminata; come se i dubbi, come se le lotte della vita avessero cessato di esistere;
come se una volta sbarcati sull'agognato lido nuziale vi si trovassero solo fiori e
piaceri; come se marito e moglie non avessero altro da fare che prendersi a
braccetto e dolcemente incamminarsi verso la vecchiaia, in perpetua serenità e
letizia. Ma la nostra piccola Amelia aveva appena messo piede sulle rive di quella
nuova contrada, e già si volgeva a guardare le melanconiche figure amiche che le
dicevano addio dalla lontana, opposta sponda.
La madre volle celebrare il ritorno della giovane sposa non so con quali
insoliti festeggiamenti. Dopo lo scambio delle prime frenetiche battute di
conversazione prese momentaneo congedo da Mrs. Osborne e scomparve nei
sotterranei recessi della casa, in una stanza che fungeva al tempo stesso da cucina
e tinello che solitamente serviva a Mr. e Mrs. Clapp (oltre che a Miss Flannigan,
la cameriera irlandese, quando la sera aveva terminato di rigovernare e si era tolta
i diavolini dai capelli). Quivi diede le opportune disposizioni perché fosse
preparata una ricca merenda. Ognuno manifesta a modo suo la propria gentilezza
d'animo, e Mrs. Sedley che pensava che biscottini e marmellata d'arance servita in
piattini di cristallo scanalato costituissero un asciolvere pienamente intonato alla
nuova condizione di Amelia.
Mentre al piano di sotto venivano preparate queste leccornie, Amelia salì al
piano superiore, e senza quasi rendersene conto si ritrovò dapprima nella piccola
stanza che aveva occupato fino al giorno delle nozze, poi nella poltroncina ove
aveva trascorso tante ore immersa nella più profonda mestizia. Si lasciò dunque
cadere tra le braccia di quella vecchia amica e prese a meditare sulle settimane
trascorse, a ricamare ipotesi sul suo futuro. Quale destino era mai toccato a
quell'innocente creatura che si aggirava indifesa e sperduta tra l'immensa turba
ostile della Fiera della Vanità? Quella di rivangare il passato con un sentimento
misto d'incertezza e di malinconia, di continuare a desiderare qualcosa che, pur
ottenuta, anziché recarle gioia alimentava in lei dubbi e tristezza.
Quivi indugiò seduta, rievocando la visione di George inginocchiato dinanzi
a lei prima del matrimonio. Ebbe forse l'ardire di confessare a se stessa che l'uomo
da lei sposato era nella realtà diverso dal baldanzoso e avvenente eroe che era
stato oggetto della sua cieca adorazione? Occorrono anni e anni, e bisogna che
l'uomo sia veramente scellerato perché l'orgoglio e la vanità di una donna le
consentano di pervenire a una simile confessione. Poi davanti a lei balenarono gli
scintillanti occhi verdi e il maligno sorrisetto di Rebecca, e la colmarono di
un'improvvisa ansietà. Pertanto rimase a lungo in preda a quella solitaria
meditazione, nello stesso atteggiamento di malinconica apprensione in cui l'aveva
sorpresa la servetta il giorno in cui le aveva recapitato la lettera di George nella
quale il giovane le rinnovava la sua richiesta di matrimonio.
Il suo occhio si posò sul candido lettino nel quale aveva dormito fino a pochi
giorni addietro, e pensò che le sarebbe piaciuto dormirvi, quella notte, svegliarsi
come allora salutata dal sorriso di sua madre. E subito dopo le si parò dinanzi
l'immagine funerea dell'immenso letto col baldacchino che l'attendeva nella sua
camera d'albergo in Cavendish Square. Caro lettino bianco! Quante lunghe notti
aveva trascorso piangendo su quel guanciale! Quante volte vi aveva dato sfogo
alla sua disperazione, augurandosi di morirvi! Ed ora non aveva ottenuto ciò che
voleva? Non aveva fatto suo per sempre l'uomo amato, dopo aver creduto per
tanto tempo di averlo perduto? Cara mamma! Quante volte aveva vegliato,
affettuosa e paziente, a quel capezzale. Andò a inginocchiarsi accanto a quel letto,
e alla fine la sua anima ferita e timorosa, ma buona e gentile, cercò conforto là
dove (conviene ammetterlo) la nostra piccola amica lo aveva raramente cercato.
Fino a quel giorno la sua fede si era identificata con l'amore; ora il suo cuore
mesto, deluso, sanguinante cominciò a sentire il bisogno di un altro consolatore.
Abbiamo forse il diritto di ripetere o di ascoltare le sue preghiere? Queste,
fratello, sono segrete; escono dai confini della Fiera della Vanità nel cui alveo si
svolge la nostra storia.
Nondimeno possiamo dire che quando finalmente annunciarono il tè,
Amelia scese assai riconfortata. Aveva cessato di meditare tristemente sulla sua
sorte, di pensare all'indifferenza di George o agli occhi di Rebecca, come invece
le era accaduto così spesso nei giorni testé trascorsi. Scese dunque da basso, baciò
entrambi i genitori e conversò animatamente col povero vecchio rendendolo
allegro come non lo era stato da molti e molti giorni. Sedette al pianoforte
comperatole da Dobbin e cantò tutte le canzoni che il padre prediligeva. Disse che
il tè era squisito e lodò il gusto col quale la marmellata di arance era stata disposta
nei piattini di cristallo. Aveva deciso di render tutti felici, e scoprì di esserlo lei
stessa. Più tardi si addormentò profondamente sotto il funereo baldacchino, e
quando George tornò dal teatro si svegliò con un sorriso.
L'indomani George aveva da sbrigare «affari» assai più importanti di quelli
che lo avevano spinto ad andare a teatro a vedere recitare Mr. Kean nel ruolo di
Shylock. Infatti, appena giunto a Londra aveva scritto una lettera ai legali di suo
padre esternando il regale piacere di avere un abboccamento con loro la mattina
successiva. Il conto dell'albergo, le partite a carte e a biliardo col capitano
Crawley avevano quasi prosciugato il portafoglio del giovanotto, il quale
intendeva riempirlo prima di mettersi in viaggio e non aveva altro cespite al di
fuori delle duemila sterline che gli avvocati avevano ricevuto disposizione di
pagargli. Nel suo intimo si sentiva fermamente convinto che suo padre avrebbe
ceduto entro breve termine. Come avrebbe potuto un genitore perseverare in un
atteggiamento tanto spietato nei confronti di un figlio meraviglioso come lui? E se
per caso le sue benemerenze presenti e passate non fossero valse ad ammansire il
padre, George decise che si sarebbe distinto in modo così clamoroso durante
l'imminente campagna di guerra, che senza dubbio il vecchio sarebbe stato
costretto a cedere. E in caso contrario? Bah! Aveva tutta la vita davanti a se.
Chissà che giocando a carte, non cominciasse a vincere, anziché perdere. E poi
duemila sterline erano pur sempre una discreta sommetta.
Pertanto mandò di nuovo Amelia da sua madre in carrozza e accordò piena
libertà alle due signore di comperare tutto quanto poteva servire all'abbigliamento
di una signora del rango di Mrs. George Osborne, in procinto di recarsi all'estero.
Avevano una sola giornata per fare le loro commissioni: è quindi facile
immaginare che quelle incombenze assorbirono tutto il loro tempo. Di nuovo in
una carrozza, passando dalla modista al negozio di telerie, scortata alla carrozza
da commessi ossequiosi o garbati proprietari di botteghe, Mrs. Sedley aveva
l'illusione di esser tornata quella di un tempo, e per la prima volta da quando la
sventura si era abbattuta su di loro visse qualche ora di perfetta felicità. Del resto,
anche Amelia non mancò di gustare il piacere di scegliere, contrattare, comperare
belle cose (quale uomo, anche il più filosofo, darebbe due soldi per una donna che
li disdegnasse?) Ligia alle disposizioni del marito, non si curò certo di risparmiare
e acquistò parecchi vestiti dando prova (come le dissero i negozianti) di buon
gusto e accorta eleganza nelle sue scelte.
Quella guerra prossima a scoppiare non era motivo di seria preoccupazione
per Mrs. Osborne. Buonaparte sarebbe stato sconfitto senza necessità d'ingaggiare
una dura lotta. Ogni giorno salpavano da Margate navi cariche di uomini e signore
dell'alta società diretti a Gand e a Bruxelles. Non si trattava di prender parte alla
campagna, ma semplicemente di intraprendere un viaggio alla moda. I giornali
sbeffeggiavano quel cialtrone avventuriero. Quel pezzente corso aveva l'ardire di
sfidare gli eserciti di tutta Europa e il genio dell'immortale Wellington! Amelia lo
disprezzava senza remissione. Inutile precisare che quella dolce, gentile creatura
faceva proprie le opinioni delle persone che la circondavano, giacché la sua
modestia e il suo temperamento schivo le impedivano di ragionare con la sua
testa. Stavamo dunque dicendo che Amelia, scortata da sua madre, dedicò l'intera
giornata alle compere, e quantunque si trattasse della sua prima incursione nel
mondo dell'eleganza londinese, diede prova di adeguate dignità e disinvoltura.
George, nel frattempo, si avviò verso Bedford Row sporgendo i gomiti in fuori e
col cappello sulle ventitré, ed entrò nell'ufficio legale con l'aria di chi si crede il
padrone di tutti quegli smunti travetti che vi scribacchiavano. In tono di altezzosa
sufficienza ordinò a uno di costoro di avvisare Mr. Higgs che il capitano Osborne
stava aspettando, come se quel pékin di un avvocato, che aveva tre volte più
cervello di lui, cinquanta volte più denaro e mille volte più esperienza fosse stato
un umilissimo lacchè, pronto a interrompere all'istante le sue occupazioni in
omaggio ai comodi del signor capitano. Quest'ultimo non si accorse dei risolini
ironici che tutti si scambiarono nella stanza, dal primo sostituto del legale ai
giovani di studio, e dai giovani di studio ai modestissimi scrivani, e dagli scrivani
agli smunti fattorini nelle loro misere giacche troppo strette, mentre lui sedeva
battendo lo stivale col bastone e pensando che quei poveracci erano proprio un
mucchio di miserabili. In realtà quei «poveracci» conoscevano per filo e per
segno la sua situazione, e la sera egli costituiva per loro un argomento di
conversazione, allorché si ritrovavano seduti al circolo con altri giovani di studio
e altri scrivani davanti a un boccale di birra. Dei dell'Olimpo, quante e quali cose
sanno gli avvocati di Londra e i loro giovani di studio! Nulla sfugge al loro occhio
indagatore, e sono loro a guidare silenziosamente i destini della City.
Non è escluso che George, varcando la soglia dello studio di Mr. High,
sperasse che il padre lo avesse incaricato di giungere a una transazione, o
addirittura a una riconciliazione; o forse il legale aveva assunto quell'espressione
fredda e altera per dar prova del suo coraggio e della sua determinazione. Fatto sta
che Mr. Higgs oppose all'albagia di George una gelida indifferenza che fece
naufragare nel nulla la ridicola presunzione del capitano. Quando George entrò
nel suo studio, l'avvocato finse di essere impegnato a scrivere. «prego,
accomodatevi,» disse, «tra un minuto mi occuperò della vostra faccenduola. Per
favore, Mr. Poe, prendete la pratica col benestare.» Dopo di che riprese a scrivere.
Quando Poe ebbe preso l'incartamento, il suo principale calcolò l'ammontare
delle duemila sterline di azioni alla quotazione giornaliera, poi chiese a Osborne
se desiderava la somma in un assegno presso una banca o se invece preferiva delle
azioni.
«Uno degli esecutori testamentari della defunta Mrs. Osborne è fuori città,»
disse con indifferenza, «ma il mio cliente desidera venire incontro ai vostri
desideri a venire a capo di questa faccenda nel più breve tempo possibile.»
«Fatemi un assegno,» rispose il capitano, con espressione cupa, «e lasciate
perdere quei maledetti spiccioli,» aggiunse, vedendo che il legale stava calcolando
la cifra esatta fino all'ultima monetina. Poi, compiacendosi di credere che quel
gesto di liberalità avesse costretto quel vecchio eccentrico a vergognarsi, uscì
impettito dall'ufficio con l'assegno in tasca.
«Quello nel giro di due anni finirà in galera,» disse Mr. Higgs a Mr. Poe.
«Non credete che il vecchio Osborne finirà per smuoversi?»
«E voi credete che il Monument si smuoverà?» gli rispose Mr. Higgs.
«Con le donne si dà da fare,» disse l'impiegato. «Si è sposato da una
settimana appena e l'ho veduto mentre accompagnava alla sua carrozza Mrs.
Highflyer dopo la recita, insieme con altri ufficiali.» Dopo di che venne tirata
fuori un'altra pratica e Mr. George Osborne fu cancellato completamento dalla
mente di questi due degni personaggi.
L'assegno era depositato presso la banca dei nostri amici Hullock & Bullock
in Lombard Street, dove, sempre convinto di occuparsi di affari, George diresse i
suoi passi e riscosse il denaro. Quando George entrò, Mr. Frederick Bullock, la
cui faccia giallognola emergeva al di sopra di quella di un misero scribacchino
piegato in due su un libro mastro, per combinazione si trovava nella banca. Nel
vedere il capitano, la faccia giallognola assunse una colorazione ancor più
cadaverica, e il nostro banchiere sgattaiolò prontamente in un locale retrostante,
quasi si sentisse colpevole. Ma George era troppo occupato a contemplare con
occhi avidi il denaro (non aveva mai visto una somma come quella prima di
allora) per accorgersi dell'aspetto o per notare la fuga del cadaverico promesso
sposo di sua sorella.
Frederick Bullock riferì al vecchio Osborne della comparsa di suo figlio in
banca e del suo comportamento. «È entrato e ha chiesto tutto fino all'ultimo
scellino. Che faccia di bronzo!» disse. «Quanto tempo potranno durare a un tipo
simile poche centinaia di sterline?» Osborne giurò che non gli importava un fico
di come e di quando le avrebbe spese. Ora Fred cenava tutte le sere in Russell
Square. Dal canto suo George era soddisfattissimo dell'esito di quella giornata.
Diede ordine che il suo bagaglio personale e il suo equipaggiamento venissero
preparati senza indugio, e pagò tutti gli acquisti di Amelia mediante l'emissione di
assegni sul proprio conto corrente con la munificenza di un Pari del regno.
XXVII • NEL QUALE AMELIA RAGGIUNGE IL SUO REGGIMENTO
Quando la carrozza di Jos si fermò davanti all'albergo di Chatham, il primo
volto che Amelia riconobbe fu quello del capitano Dobbin, che da un'ora
camminava su e giù per la strada, in attesa dell'arrivo dei suoi amici. Il capitano,
con le spalline metalliche sulla lunga casacca militare, la fascia rosso cremisi
intorno alla vita e la sciabola al fianco, aveva un aspetto marziale che rese Jos
quasi orgoglioso di poter annoverare tra le sue una simile conoscenza. Pertanto
quel pingue borghese lo salutò con molta cordialità, in contrasto con l'accoglienza
che gli aveva sempre riservato a Brighton o in Bond Street.
Col capitano Dobbin c'era anche il sottotenente Stubble, il quale, mentre la
carrozza si accostava all'albergo, uscì a dire: «Per Giove, che bella ragazza!»,
elogiando così la scelta di Osborne. In effetti Amelia, vestita del mantello
marrone che aveva indossato il giorno del matrimonio, con in capo la cuffietta
adorna di nastri rosa e le guance accese dalla lunga corsa all'aria aperta, aveva un
aspetto così grazioso da giustificare in pieno il complimento di Stubble. Dobbin
gli fu grato per aver esternato apertamente la sua approvazione. Poi, mentre si
avvicinava al portello per aiutare Amelia a scendere dalla carrozza, il sottotenente
si accorse altresì di quanto fosse graziosa la piccola mano ch'ella gli porgeva, e
piccolo quel piede che, nell'atto di uscire dal veicolo, posava sul predellino.
Arrossì mentre si piegava nel miglior inchino che gli riuscisse di fare. Da parte
sua Amelia, quando vide il numero del ...° Reggimento ricamato sul chepì, a sua
volta si fece rossa in volto e sorridendo s'inchinò al giovane, cosa che conquistò
del tutto il giovane ufficiale.
Da quel giorno in poi Dobbin avviò un rapporto più confidenziale con
Stubble, e nelle loro stanze, o nel corso delle loro passeggiate a tu per tu, lo esortò
a esternare le sue impressioni su Amelia. Per la verità, fra tutti gli ufficiali del ...°
Reggimento si propagò rapidamente la moda di ammirare e adorare Amelia. La
sua grazia così spontanea, la sua cortesia, la sua riservatezza le conquistarono tutti
i cuori semplici cortesia grazia e riservatezza che non si possono descrivere a
parole. Ma a chi non è accaduto di ravvisare ogni sorta di qualità in una donna
purchessia, anche se si è limitata a dire che è già impegnata per la prossima
quadriglia, o che fa veramente un caldo insopportabile? George, che al
reggimento era sempre stato considerato una specie di eroe, salì ulteriormente
nella stima di tutti i giovani del suo corpo per esser stato così galante da
accondiscendere alle nozze con quella ragazza senza dote, e per aver scelto al
tempo stesso una compagna così graziosa e garbata.
Nel salottino che attendeva i viaggiatori, Amelia fu alquanto sorpresa di
trovare una lettera indirizzata alla moglie del capitano Osborne. Era un biglietto
triangolare di carta rosa, sigillato con una colomba e un ramo di ulivo, e con una
profusione di ceralacca celeste. L'indirizzo era vergato con una larga e malcerta
scrittura femminile.
«È proprio di pugno di Peggy O'Dowd,» disse George ridendo. «Lo
riconosco dai baci sul sigillo.» Il biglietto era infatti della moglie del maggiore
O'Dowd, col quale invitava quella sera stessa la moglie del capitano Osborne a un
piccolo party fra amici. «È bene che tu vada,» disse George, «così conoscerai il
reggimento. Il maggiore O'Dowd comanda il reggimento, ma Mrs. O'Dowd
comanda il maggiore!»
Non ebbero agio tuttavia di compiacersi oltre del biglietto di Mrs. O'Dowd,
poiché in quel momento la porta si spalancò e una signora allegra e rubiconda in
abito da amazzone entrò nella stanza, seguita da due ufficiali.
«Non mi sentivo di aspettare fino all'ora del tè. Caro George, presentatemi a
vostra moglie, ve ne prego. Signora, sono veramente lieta di conoscervi e di
presentarvi mio marito, il maggiore O'Dowd.» Dopo di che l'allegra signora
vestita da amazzone afferrò e strinse calorosamente la mano di Amelia, la quale
comprese all'istante di aver di fronte la donna tante volte derisa da suo marito.
«Senza dubbio avrete sentito tante volte parlare di me da vostro marito,»
disse la O'Dowd in tono vivace.
Amelia confermò sorridendo.
«E ve ne avrà parlato male,» continuò l'altra. «George è un maligno senza
pari.»
«Di questo mi rendo garante io,» intervenne il maggiore, con l'aria di chi
vuoi scherzare. George scoppiò a ridere e Mrs. O'Dowd mise a tacere il consorte
con un colpo di frustino. Poi pretese di esser presentata alla moglie del capitano
Osborne in conformità alle buone regole dell'etichetta.
«Questa, mia cara,» disse George in tono grave, «è la mia ottima, gentile,
eccellente amica Aurelia Margaretta, comunemente chiamata Peggy.»
«Esatto,» confermò il maggiore.
«Comunemente detta Peggy, moglie del maggiore Michael O'Dowd del
nostro reggimento e figlia di Fitzgerald Berdsford de Burgo Malony di
Glenmalony, della contea di Kildare.»
«E di Muryan Square a Dublino,» aggiunse Mrs. O'Dowd in tono di placida
superiorità.
«E di Muryan Square a Dublino, e come no?» bisbigliò il maggiore.
«Là dove tu mi hai fatto la corte, caro il mio maggiore,» precisò la signora.
E il marito assentì, come sempre faceva in presenza d'altri.
Il maggiore O'Dowd, che aveva reso i suoi servigi al re in ogni parte del
mondo dando prova di grande coraggio e meritandosi le sue promozioni, era
l'uomo più mite, modesto e riservato che mai fosse esistito, e ubbidiva alla moglie
come se fosse stato il suo paggetto. A mensa sedeva in silenzio e beveva
moltissimo; poi, quand'era pieno d'alcool, se ne tornava a casa malcerto sulle
gambe. Se parlava, era solo per manifestare il suo consenso su quanto si diceva,
qualunque fosse l'argomento della conversazione: ottimo sistema per vivere in
pace, senza contrasti con nessuno. Il caldo torrido dell'India non aveva intaccato il
suo buonumore, né la malaria di Walcheren aveva lasciato in lui la pur minima
traccia. Attaccava una postazione di artiglieria nemica con la stessa indifferenza
con la quale sedeva a tavola; mangiava zuppa di tartaruga o carne di cavallo con
lo stesso appetito e lo stesso piacere; e aveva una vecchia madre, l'esimia Mrs.
O'Dowd di Dowdstown, alla quale non aveva mai disubbidito se non quando era
scappato di casa per andarsi ad arruolare, e quando si era intestardito a voler
sposare quell'insoffribile Peggy Malony.
Peggy era una delle cinque sorelle e degli undici rampolli della nobile casata
dei Glenmalony ma il marito, sebbene fosse suo cugino, lo era da parte di madre,
onde non fruiva dell'impagabile vantaggio di appartenere alla schiatta dei Malony,
che, a sentire lei, erano la più aristocratica famiglia della terra. Dopo aver tentato
invano, per nove stagioni a Dublino, due a Bath e due a Cheltenham, di trovare un
compagno col quale trascorrere il resto dei suoi giorni, Miss Malony, che ormai
aveva trentatré anni, aveva imposto a suo cugino di sposarla. Il brav'uomo aveva
accettato e l'aveva condotta seco nelle Indie Occidentali a presiedere il gruppo,
delle signore del ...° Reggimento, al quale proprio allora era stato assegnato.
Non era trascorsa mezz'ora da quando ne aveva fatta la conoscenza, e già la
loquace Mrs. O'Dowd aveva raccontato ad Amelia vita, morte e miracoli della sua
famiglia e del suo albero genealogico. Si trattava, del resto, di una sua inveterata
abitudine. «Vi confesso, mia cara,» le disse, «di aver sperato che George
diventasse mio cognato, perché mia cognata Glorvina sarebbe stata una compagna
ideale, per lui. Ma è acqua passata. Lui, del resto, era fidanzato con voi, ed io
allora ho deciso di scegliere voi come sorella. Sì, voglio considerarvi una sorella,
credetemi, proprio come se faceste parte della mia famiglia. Avete un faccino
delizioso e dei modi così garbati... Sono sicura che andremo d'accordo, e sarete
comunque un nuovo membro della nostra famiglia.»
«Ma certo, lo sarà,» disse il maggiore O'Dowd in aria di approvazione.
Amelia era al tempo stesso divertita e riconoscente per esser stata adottata di
punto in bianco a una così nutrita schiera di parenti.
«Siamo tutti brave persone, qui,» continuò la moglie del maggiore. «In tutto
l'esercito non c'è un solo reggimento nel quale si possa trovare una compagnia più
felicemente amalgamata, una mensa più cordiale e piacevole. Fra noi non ci sono
liti, né maldicenze, né pettegolezzi. Andiamo tutti d'amore e d'accordo.»
«Andiamo d'amore e d'accordo soprattutto con Mrs. Magenis,» disse George
ridendo.
«La moglie del capitano Magenis ed io ci siamo riconciliate, sebbene il suo
comportamento nei mici riguardi, potesse, ahimè, portare i miei capelli grigi alla
tomba.»
«Ma tu, cara Peggy, hai degli splendidi capelli neri,» protestò il maggiore.
«Chiudi la bocca, Mick, scioccherellone! Questi mariti, cara Mrs. Osborne,
li abbiamo sempre tra i piedi; io al mio Mick non mi stanco di ripetere che
dovrebbe aprir bocca solo per dare ordini ai suoi subalterni o per riempirla di
carne e vino. Ed ora presentatemi a vostro fratello: è indubbiamente un bell'uomo,
e mi ricorda mio cugino Dan Malony (un Malony di Ballymallony, mia cara:
saprete certo che ha sposato Ophelia Scurry, di Oysterstown, cugina in primo
grado di Lord Poldoody). Molto lieta di conoscervi, Mr. Sedley. Immagino che
oggi pranzerete alla mensa. (Sta' alla larga da quel demonio di dottore, Mick, e
per il resto fa' quello che ti pare, ma fa in modo di non essere ubriaco al mio
ricevimento di stasera.)»
«È il 150° Reggimento che ci offre la cena di addio questa sera, tesoro mio,»
intervenne il maggiore, «comunque non sarà difficile ottenere un invito per Mr.
Sedley.»
«Simple (è il sottotenente Simple del nostro Reggimento, cara Amelia, ho
dimenticato di presentarvelo), correte subito dal colonnello Tavish, portategli i
saluti di Mrs. O'Dowd e ditegli che il capitano Osborne è arrivato qui con suo
cognato, e che alle cinque in punto lo porterà alla cena offerta dal 150°. Quanto a
noi, mia cara, possiamo mangiare un boccone qui se lo gradite.»
Mrs. O'Dowd non aveva ancora finito di parlare, e già il sottotenente Simple
si precipitava giù per le scale per adempiere all'incarico testé ricevuto.
«L'obbedienza è l'anima dell'esercito, Emmy,» disse George. «Noi andremo
a fare il nostro dovere mentre Mrs. O'Dowd rimarrà con te e ti darà tutte le
istruzioni del caso.» Ciò detto, i due uomini si posero al fianco del maggiore e
uscirono con lui scambiandosi un sorrisetto d'intesa sopra la sua testa.
Ed ora che aveva la sua nuova amica ad esclusiva, personale disposizione,
Mrs. O'Dowd diede la stura a un tal fiume di notizie, che nessun altro povero
cervello femminile avrebbe mai potuto ricordare. Riferì ad Amelia migliaia di
minuti episodi sulla numerosissima famiglia di cui la stupefatta giovane s'era
trovata inopinatamente a far parte. Mrs. Heavytop, la moglie del colonnello, era
morta in Giamaica di febbre gialla, ma anche di crepacuore, perché quel vecchio
libidinoso con la testa pelata come una palla da cannone faceva il cascamorto con
una ragazza di dubbia reputazione che aveva conosciuto sul posto. Quanto a Mrs.
Magenis, tutto sommato era una brava persona, sebbene fosse ignorante e
linguacciuta come il diavolo, e giocando a carte non disdegnasse di barare persino
con sua madre. La moglie del capitano Kirk? Ah, quella levava al cielo quei suoi
occhi da aragosta non appena si ventilava l'idea di un'onesta partita a carte (e
pensare che mio padre, l'uomo più intemerato e più religioso che abbia mai
varcato la soglia di una chiesa, come pure mio zio Dane Malony e mio cugino il
Vescovo si facevano una partita a loo o a whist tutte le sante sere). Questa volta,
precisò Mrs. O'Dowd, né l'una né l'altra partono col reggimento. Mrs. Magenis si
ferma a Londra con sua madre, la quale molto probabilmente vende patate e
carbonella a Islington, lì a due passi da Londra, anche se lei mena gran vanto delle
navi di suo padre e ce le indica quando passano sul fiume. Invece Mrs. Kirk si
fermerà coi bambini, in Bethesda Place, per non allontanarsi dal suo predicatore
preferito, il dottor Ramshorn. Mrs. Bunny è incinta, tanto per cambiare (sette, ne
ha già regalati, al tenente), e Mrs. Posky, che è arrivata qui due mesi prima di voi,
ha già litigato con Tom Posky almeno venti volte; ma al punto di farsi sentire da
tutta la caserma (qualcuno dice che si tirano i piatti, e del resto Tom non è mai
riuscito a spiegare come mai avesse un occhio nero); così lei se ne torna a
Richmond da sua madre, che dirige un educandato per ragazze. Poverina! Non si
può dire che le abbia portato fortuna scappar di casa. E voi, mia cara, dove siete
stata educata? Per me non si è badato a spese: sono stata educata da Mrs.
Flanahan in Ilyssus Grove, a Booterstown, vicino a Dublino. Una marchesa ci
insegnava il francese secondo la vera pronuncia parigina e un generale
dell'esercito francese in pensione ci faceva far ginnastica.
Insomma, Mrs. O'Dowd era la sorella maggiore di quell'incongrua famiglia
nella quale la nostra stupitissima Amelia si trovò conglobata. All'ora del tè venne
presentata alle altre sue parenti d'acquisto di sesso femminile, e dal momento che
era dolce, riservata, non proprio bellissima, produsse un'impressione
complessivamente favorevole fino a quando non tornarono, provenienti dalla
mensa del 150° Reggimento, i signori uomini, i quali l'ammirarono al punto che le
sorelle - inutile dirlo - cominciarono a trovarle dei difetti.
«Voglio augurarmi che Osborne si sia stancato di correr la cavallina,» disse
Mrs. Magenis a Mrs. Kirk.
«Se un libertino pentito è in grado di trasformarsi in un buon marito, non c'è
dubbio che lei troverà in George il migliore dei mariti possibili,» commentò la
O'Dowd rivolta alla Polsky, la quale, avendo perso con l'arrivo di Amelia la sua
qualifica di sposina del Reggimento, era furibonda contro l'usurpatrice. Quanto a
Mrs. Kirk, nella sua qualità di discepola del dottor Ramshorn, rivolse alla nostra
amica alcune domande atte a rivelarle se fosse una cristiana osservante; dopo di
che, essendosi resa conto dalle risposte alquanto puerili di Mrs. Osborne come
quest'ultima vivesse ancora nelle tenebre, le mise in mano tre libriccini illustrati
da un soldo l'uno, intitolati Pianto in solitudine, La lavandaia di Wadsworth
Common e La miglior baionetta del soldato inglese, esortandola a leggerli prima
di coricarsi onde il suo spirito si destasse prima del sopraggiungere del sonno.
Da parte loro, tutti gli uomini, da quei bravi ragazzi che erano, fecero
cerchio intorno alla graziosa mogliettina del loro commilitone, e le fecero la corte
con militaresca galanteria. Amelia riscosse dunque un piccolo trionfo personale
che valse a risollevarle lo spirito e le fece brillare gli occhi. George si sentì
orgoglioso dell'ammirazione di cui sua moglie era oggetto, e si compiacque del
modo allegro e garbato, ancorché timido e ingenuo, col quale ella reagiva alle
attenzioni e rispondeva ai complimenti degli ufficiali. E lui! Com'era più bello,
nella sua uniforme, di tutti gli altri presenti nella stanza; Amelia sentì ch'egli la
contemplava con occhio affettuoso, e quella gentilezza la colmò di un sentimento
di calore e conforto. «Sarò amabile con tutti i suoi amici», pensò, «e come amo lui
così vorrò bene a tutti. Cercherò di esser sempre gaia e di buonumore e la nostra
sarà una casa serena.»
Sta di fatto che il reggimento l'adottò all'unanimità. I capitani approvarono, i
tenenti applaudirono, i sottotenenti ammirarono. Il vecchio Cutter, il medico,
raccontò due o tre storielle che, data la loro indole professionale, non è il caso di
ripetere, mentre Cackle, l'assistente medico laureato a Edimburgo, acconsentì a
esaminarla in chiave letteraria e per lei tirò in ballo le sue tre migliori citazioni in
francese. Il giovane Stubble sussurrava ora all'uno, ora all'altro: «Ma non trovi
che è semplicemente incantevole?» E non le tolse gli occhi di dosso fino a quando
non venne servito il negus.
Per parte sua il capitano Dobbin non le rivolse la parola per tutta la serata; fu
lui, nondimeno, che insieme al capitano Porte del 150° ricondusse all'albergo Jos,
il quale era in preda a soverchia euforia e aveva raccontato la frusta storia della
caccia alla tigre, prima a mensa, poi nel corso della Soirée di Mrs. O'Dowd, che si
pavoneggiava in turbante giallo guarnito di un uccello del paradiso. Dopo aver
affidato il degno Ricevitore al domestico, Dobbin indugiò a passeggiare davanti
alla porta della locanda fumando il sigaro. Nel frattempo George, con gesto
attento e affettuoso, avvolgeva nello scialle sua moglie e con lei lasciava la casa
di Mrs. O'Dowd, dopo che Amelia si era congedata con una stretta di mano da
tutti i giovani ufficiali, i quali l'accompagnarono fino alla carrozza e la salutarono
ancora quando il veicolo si mise in moto. Poi, scesa dalla carrozza, Amelia porse
la sua piccola mano a Dobbin e lo rimproverò per averla ignorata nel corso di
tutta la serata.
Quando ormai tutti i clienti della locanda e gli abitanti della strada erano a
letto, il capitano indulgeva ancora al deleterio piacere del sigaro. Vide la luce
svanire dietro le finestre del salottino di George e accendersi nell'adiacente
camera da letto. Quando tornò a casa, l'alba era ormai prossima. Voci giungevano
sino a lui dal fiume, dove le navi da trasporto stavano già caricando prima di
mettersi in moto in direzione del Tamigi.
XXVIII • NEL QUALE AMELIA INVADE I PAESI BASSI
Il reggimento coi suoi ufficiali doveva essere trasportato sulle navi che il
governo di Sua Maestà aveva preparate allo scopo. Così, due giorni dopo il
festoso ricevimento in casa di Mrs. O'Dowd, tra gli allegri saluti delle navi
provenienti dalle Indie Orientali all'ancora nel fiume e quelli dei militari rimasti a
riva, mentre la banda suonava God Save the King, gli ufficiali agitavano i cappelli
e la ciurma gridava a squarciagola «hurrah!», i trasporti presero a scendere il
fiume e proseguirono la navigazione in convoglio facendo rotta su Ostenda.
Frattanto il galante Jos aveva accettato di scortare sua sorella e la moglie del
maggiore. Armi e bagagli di costei (ivi incluso il famoso turbante con l'uccello del
paradiso) erano stati spediti in anticipo con le salmerie del reggimento. Così le
nostre due eroine arrivarono senza impicci di sorta a Ramsgate, ove sostavano in
attesa innumerevoli imbarcazioni, una delle quali le portò con rapida traversata a
Ostenda.
Da quel momento Jos cominciò a vivere una stagione così fitta di
avvenimenti, che per molti anni sarebbe stato argomento ricorrente delle sue
conversazioni. Persino la decrepita storia della caccia alla tigre fu messa in soffitta
per lasciare il posto a racconti molto più emozionanti e aggiornati sulla battaglia
di Waterloo.
Più d'uno ebbe agio di notare che, dopo aver deciso di accompagnare in
Belgio la sorella, Jos cessò di radersi il labbro superiore. A Chatham seguì sempre
le sfilate e le esercitazioni militari con encomiabile assiduità. Ascoltò sempre con
molta compunzione i discorsi dei suoi colleghi ufficiali (come in seguito prese
l'abitudine di chiamarli) e imparò tutta la terminologia militare che riuscì a
cacciarsi in testa, validamente assistito in quest'opera di apprendistato da Mrs.
O'Dowd. Finalmente, il giorno in cui dovevano imbarcarsi sulla Lovely Rose che
doveva condurli a destinazione, comparve in giacca lunga adorna di galloni,
calzoni di nanchino e berretto parimenti adorno di un elegante gallone dorato.
Aveva portato con sé la sua carrozza, e a tutti i passeggeri della nave aveva
confidato con noncuranza che andava a raggiungere le armate al comando del
duca di Wellington. Tutti pertanto lo credettero un personaggio di rilievo, forse un
commissario generale o per lo menu un emissario del governo.
Durante la traversata patì spaventosamente il mal di mare, come del resto lo
patirono le signore. Tuttavia Amelia si riprese senza indugio allorché, giunta
davanti a Ostenda, vide entrare in porto, quasi in concomitanza con la Lovely
Rose, la nave che trasportava il reggimento. Jos, sull'orlo del collasso, si rifugiò in
albergo, mentre Dobbin accompagnava le signore e si dava da fare per svincolare
dalla dogana la carrozza e gli effetti personali di Jos, rimasto senza domestico.
Quest'ultimo, infatti, dopo essersi accordato a Chatham con quello di George,
aveva rifiutato d'imbarcarsi. Quella specie di ammutinamento, scoppiato
inopinatamente l'ultimo giorno, aveva colto di sorpresa Mr. Sedley che, oltremodo
contrariato, era stato sul punto di rinunciare alla spedizione; ma il capitano
Dobbin (che in quell'occasione, come disse Jos, si dimostrò oltremodo zelante),
un po' lo prese in giro un po' lo rimproverò, finché Jos - i cui baffi nel frattempo
erano cresciuti - si lasciò convincere e salì a bordo. In sostituzione dei compiti e
ben pasciuti domestici londinesi, di lingua inglese, Dobbin rimediò a Jos e
famiglia un domestico belga piccolo e olivastro che non sapeva una sola parola
d'inglese, ma che, grazie alla sua frastornante operosità, e per il fatto di rivolgersi
immancabilmente a Jos chiamandolo Milord, si procacciò immantinenti il favore
di Mr. Sedley. Sono cambiate le cose, ora, a Ostenda. Vi capitano ben pochi
inglesi di modi e di aspetto aristocratici. Quelli che oggi vi mettono piede sono
quasi tutti individui male in arnese, con la biancheria in disordine, ferventi adepti
del biliardo, del brandy, del sigaro, e di un pranzo rimediato alla bell'e meglio.
Ad ogni modo, in linea di massima si può affermare che tutti gli inglesi che
facevano parte dell'armata del duca di Wellington abbiano regolarmente pagato i
loro conti, e il ricordo di tale circostanza merita senza dubbio di esser registrato
negli annali di un popolo di mercanti. Essere invaso da un esercito di clienti fu
senza dubbio dono di Dio' per un popolo così avido di commercio; fu una
benedizione dover dar da mangiare e da bere a guerrieri tanto degni di credito.
Quel paese che erano venuti a proteggere non aveva proprio nulla di guerresco.
Per innumerevoli anni i belgi avevano lasciato che fossero gli altri a scannarsi sul
loro territorio. Quando colui che scrive andò a volgere il suo sguardo d'aquila sul
campo di battaglia di Waterloo, chiese al cocchiere della diligenza, un maestoso
veterano dall'aspetto militaresco, se avesse perso parte a quella battaglia. «Pas si
bête», fu la risposta: risposta e sentimento di cui un francese non sarebbe mai
capace. D'altro canto il postiglione della nostra vettura era un Visconte, figlio di
qualche generale dell'Impero ridotto sul lastrico, che lungo il tragitto non ebbe
alcuna difficoltà ad accettare la mancia di un soldo di birra. Dal che non è difficile
ricavare una morale.
Quel pianeggiante, confortevole e florido paese non avrebbe potuto avere
aspetto più ricco e florido di quello che presentava in quella prima estate del
1815, quando i suoi campi verdeggianti e le sue quiete borgate erano invasi da
innumerevoli giubbe scarlatte; quando sulle sue ampie chaussées sciamavano
brillanti inglesi, quando i suoi grandi battelli (che navigavano per i canali
costeggiando pascoli opimi, strani, antichi paesi, vetusti castelli celati da alberi
secolari) erano stracarichi di ricchi villeggianti inglesi; quando il soldato che
beveva all'osteria di un villaggio qualsiasi, oltre a bere pagava, e lo scozzese
Donald, alloggiato in qualche fattoria fiamminga, dondolava la culla dell'ultimo
nato mentre Jean e Jeannette erano per i campi a raccogliere il fieno.' Dal
momento che in questo momento va di gran moda fra i nostri pittori dipingere
scene di vita militare, mi permetto indicare questo soggetto al pennello che
volesse illustrare l'inizio di una rispettabile guerra tutta inglese. In effetti ogni
cosa presentava l'aspetto gaio e innocuo di una parata in Hyde Park. Nel frattempo
Napoleone, protetto da una linea fortificata di frontiera, si preparava allo scontro
che doveva travolgere in un impeto di furia sanguinosa quella brava gente così
composta e disciplinata; e nel quale tanti avrebbero perso la vita.
Tutti riponevano una fiducia così cieca nel comandante supremo (il duca di
Wellington aveva ispirato all'intera nazione inglese una fede incrollabile, in tutto
simile all'entusiasmo fanatico che anni prima Napoleone aveva ispirato ai
francesi), il paese sembrava così perfettamente e sistematicamente difeso, le
riserve disponibili (caso mai ce ne fosse stato bisogno) così numerose e a portata
di mano, che non vi era alcun motivo di allarmarsi, e i nostri viaggiatori (due dei
quali molto timorosi per natura) apparivano tranquilli non meno di tutta quella
moltitudine inglese. Il reggimento di cui ormai conosciamo tanti ufficiali fu
trasportato su battelli lungo i canali che collegano Bruges a Gand, da dove
proseguì a piedi fino a Bruxelles. Quanto a Jos, scortò le signore su uno di quei
battelli di linea che tutti coloro che un tempo solevano viaggiare per le Fiandre
senza dubbio ricordano per il loro lusso e il loro comfort. Cibo e bevande erano
così prelibati su queste lentissime ma confortevoli imbarcazioni, che si racconta
ancora I episodio di quell'inglese che, recatosi in Belgio per una settimana, dopo
un primo percorso su uno di quei vapori ne fu talmente deliziato da decidersi ad
andare avanti e indietro fra Gand e Bruges? fino al giorno in cui, inauguratasi la
linea ferroviaria, decise di Por fine ai suoi giorni annegandosi nel corso
dell'ultimo viaggio del battello. Jos non avrebbe fatto una così triste fine, ma
dobbiamo convenire che si trovava perfettamente a suo agio, anche se Mrs.
O'Dowd si ostinava a ripetergli che solo la presenza di sua cognata Glorvina
sarebbe valsa a fare di lui una persona veramente felice. Se ne stava tutto il giorno
seduto sul tetto della cabina a scolare bottiglie di birra fiamminga, e ogni tanto
chiamava il domestico Isidor oppure conversava con le signore.
Senza parlare del suo coraggio veramente straordinario. a Buonaparte che
osa attaccarci! Osa attaccare noi!» diceva. «Mia cara Emmy, non aver paura, te ne
prego. È un pericolo inesistente. Ti prometto che fra due mesi gli Alleati saranno
a Parigi, ed io, per Giove, ti porterò a pranzo al Palais Royal! Ci sono
trecentomila russi che stanno entrando in Francia da Magonza e dal Reno. Te lo
dico io! Trecentomila uomini, al comando di Wittgenstein e Barclay de Tolly,
tesoro mio. Tu di faccende militari non capisci nulla, ma io me ne intendo, e ti
posso garantire che la fanteria francese non è in grado di resistere alla fanteria
russa, e non c'è un solo generale di Buonaparte che sia degno di allacciare gli
stivali a Wittgenstein. E poi ci sono gli austriaci. Sono almeno cinquecentomila al
comando di Schwarzenberg e del principe Carlo. Attualmente sono circa dieci
giorni di marcia dalla frontiera. Poi ci sono i prussiani al comando del coraggioso
principe maresciallo. Vorrei sapere dove si trova un comandante di cavalleria
francese che lo equivalga, adesso che Murat non c'è più. Non è vero, Mrs.
O'Dowd? Credete che la nostra cara bambina abbia motivo di aver paura? C'è
forse da temere qualcosa, Isidor? Suvvia, portatemi dell'altra birra!»
Mrs. O'Dowd rispose che la sua Glorvina non aveva paura di nessuno, e men
che meno dei francesi, figuriamoci! E ingoiò un bicchiere di birra con
un'ammiccatina che stava a indicare quanto apprezzasse quella bevanda.
Ormai Jos si era trovato tante volte a tu per tu col nemico, e cioè, in altre
parole, aveva dovuto affrontare altre volte la compagnia di signore, vuoi a
Cheltenham, vuoi a Bath; onde il nostro amico aveva perso gran parte della sua
timidezza. Se poi trovava stimolo nell'alcool, ecco che diventava molto loquace.
Al reggimento godeva di molte simpatie, perché offriva generosamente da
bere ai giovani ufficiali, e li divertiva con le sue arie militaresche. Un famoso
reggimento inglese marciava con una capra in testa alla colonna, un altro con un
cervo, e George diceva, alludendo al cognato, che il suo reggimento marciava
preceduto da un elefante.
Da quando Amelia era stata introdotta al reggimento, George aveva
cominciato a vergognarsi di certe persone alle quali suo malgrado era stato
costretto a presentarla. Pertanto decise, come confidò a Dobbin (ed è facile
immaginare come quest'ultimo ne fosse soddisfatto), di farsi trasferire a un
reggimento migliore, onde la moglie non fosse costretta a frequentare quelle
maledette donnaccole così triviali. Ma questa forma di volgarità - il vergognarsi
della compagnia dei propri simili - è un fenomeno assai più diffuso tra gli uomini
che tra le donne (a parte le signore dell'alta società, che non ne vanno esenti), e
Amelia, creatura semplice e senza fronzoli, non provava affatto quel rispetto
umano che suo marito, invece, scambiava per educata riservatezza. Mrs. O'Dowd
indossava un cappello adorno di piume di gallo e portava al collo un vistoso
orologio a ripetizione che faceva suonare ad ogni occasione raccontando che suo
padre glielo aveva regalato nell'istante preciso in cui ella saliva in carrozza dopo
la cerimonia nuziale. Questi accessori ed altri particolari dell'abbigliamento della
moglie del maggiore erano motivo di sofferenze atroci per il capitano Osborne
ogni qual volta Mrs. O'Dowd si trovava in compagnia di sua moglie. Amelia
invece trovava né più né meno divertenti le stravaganze della brava signora, e
apprezzava la sua compagnia senza provarne la minima vergogna.
Del resto, nel corso di quel famoso viaggio, che si può dire ogni inglese
della media borghesia si sia premurato di fare, dopo di allora, Amelia avrebbe
potuto usufruire di una compagnia più istruttiva, ma certo non più divertente di
quella offertale da Mrs. O'Dowd. «Battelli fluviali, questi? quelli che collegano
Dublino e Ballinasloe! Quelli sì che sono veri battelli! Quelli sì che sono viaggi
veloci! Per non dire del bestiame. Basti dire che mio padre si è meritata una
medaglia d'oro (da Sua Eccellenza in persona che, dopo aver mangiato una
bistecca, ha dichiarato di non aver mai messo sotto i denti una carne così squisita)
per un manzo di quattro anni. Parola mia, una bestia così in questo paese non l'ho
mai vista.» E questo discorso riscosse l'approvazione di Jos, il quale dichiarò con
un sospiro che se si voleva della carne di bue veramente mista di grasso e di
magro non c'era che l'Inghilterra.
«E dall'Irlanda,» si affrettò a precisare la moglie del maggiore. E continuò,
fenomeno assai frequente tra i suoi compatrioti, a snocciolare paragoni dai quali
la sua terra natale usciva sempre vincente. L'idea di raffrontare il mercato di
Bruges a quello di Dublino, sebbene fosse stata proposta da lei, fu valido pretesto
per esternare la sua ironica indignazione.
«Vi sarei davvero grata se riusciste a spiegarmi che cosa ci sta a fare quel
vecchio torrione in fondo alla piazza del mercato,» disse, e scoppiò in una risata
così fragorosa che la torre avrebbe potuto crollarne.
La cittadina era zeppa di soldati inglesi. I nostri amici venivano destati la
mattina da trombe inglesi, e la sera andavano a letto al suono dei tamburi e delle
cornamuse. Tutto il paese, tutta l'Europa si erano levati in armi. Il più grande
avvenimento della storia era ormai in procinto di verificarsi, e Mrs. O'Dowd, la
quale, secondo ogni logica, avrebbe dovuto interessarsene al pari di chiunque
altro, preferiva parlare di Ballinafad e dei cavalli delle scuderie di Glenmalony, e
del chiaretto che vi si beveva, interrotta di quando in quando da Jos per dir la sua
sul riso e sul curry di Dumdum.
Da parte sua Amelia pensava al marito e al modo migliore per testimoniargli
il suo affetto. Insomma, si sarebbe detto che questi fossero gli argomenti più
interessanti del mondo.
Coloro che si divertono a dimenticarsi dei testi di storia e a lavorar di
fantasia, pensando a ciò che sarebbe potuto succedere se le cose non fossero
andate come invece sono andate (un genere di meditazione sconcertante,
stimolante, fantasioso e quanto mai utile) senza dubbio hanno pensato tante volte
che Napoleone non abbia scelto il momento più opportuno per evadere dall'Isola
d'Elba e lanciare la sua aquila dal golfo di San Juan a Notre Dame. I nostri storici
affermano che gli eserciti alleati erano tutti sul piede di guerra, pronti a
scaraventarsi da un momento all'altro sull'imperatore dell'Elba. Gli augusti
intriganti radunati a Vienna e intenti a spartire i reami d'Europa secondo saggezza,
avevano tali e tanti motivi per farsi la guerra, che avrebbero potuto benissimo
sfruttare all'uopo le armate che avevano sconfitto Napoleone, se proprio in quel
momento non fosse riapparso all'orizzonte l'oggetto del timore e dell'odio comuni.
Un re aveva un esercito efficientissimo perché aveva domato la Polonia ed era
ben deciso a tenersela; un altro si era impadronito di mezza Sassonia ed era
altrettanto deciso a non mollarla; un altro guardava con occhio avido all'Italia.
Ognuno si doleva della rapace smania di conquista del suo vicino, e se il Corso
avesse avuto la pazienza di attendere nella sua isola di prigionia fino a quando
quei signori si fossero scannati fra di loro, avrebbe potuto tornare a regnare
indisturbato. Ma quale sarebbe stata, allora, la sorte dei nostri amici? Quale il
corso della nostra storia? Se tutte le gocce di cui si compone si asciugassero, cosa
ne sarebbe del mare?
Frattanto quell'esercizio quotidiano che si chiama vivere, e la corsa al
piacere proseguivano imperterriti, come se non dovessero mai cessare e il nemico
fosse pura immaginazione. Quando i nostri viaggiatori arrivarono a Bruxelles
dov'era di stanza il loro reggimento (quale fortuna!, fu il loro commento),
scoprirono di trovarsi in una delle più brillanti fra tutte le piccole capitali
d'Europa: i baracconi della Fiera della Vanità vi erano adorni degli orpelli più
smaglianti, attraenti, tentatori che si potessero immaginare. Si giocava e ballava
dappertutto, per non dire delle cene, che sembravano fatte apposta per saziare nel
modo più delizioso l'ingordigia del nostro Jos. C'era un teatro nel quale
l'insuperabile Catalani' mandava in visibilio il pubblico; c'erano splendide
passeggiate ravvivate dallo splendore marziale delle uniformi. Bruxelles era
un'antica, attraente città ove la diversità dei costumi e le splendide architetture
incantavano gli occhi della piccola Amelia, che non era mai stata all'estero c le
riservavano di continuo seducenti sorprese. Perciò da quel momento e per un
periodo di qualche settimana, in un elegante appartamento affittato da Jos e da
Osborne (il quale profondeva denaro e attenzioni nei riguardi della moglie), per
circa quindici giorni, dicevo, trascorsi i quali la sua luna di micie ebbe termine
Mrs. Amelia si sentì lieta e felice come può esserlo qualsiasi sposina inglese di
fresca data che si trovi in viaggio di nozze all'estero.
Per quel benedetto lasso di tempo ogni giorno ci furono divertimenti e
novità per tutti. C'era da visitare una chiesa, oppure un museo: un giorno si
organizzava una gita in campagna, un altro si andava all'Opera. Le bande dei
reggimenti suonavano ad ogni ora del giorno. Nel parco passeggiavano esponenti
della più raffinata società inglese. George che ogni sera conduceva la moglie in
nuovi ritrovi, in nuovi ristoranti, era come sempre molto soddisfatto di se e
giurava che stava diventando un marito-modello. Al ristorante con lui! Al picnic
con lui! Non bastava, tutto ciò, a far battere di gioia il piccolo cuore di Amelia?
Le lettere che la giovane sposa scriveva a sua madre traboccavano di gratitudine e
di felicita. Il marito la esortava a comperare trine, cappellini, gioielli e ninnoli di
ogni genere. Sì, era davvero il migliore, il più affettuoso, il più generoso nonio
che fosse mai apparso sulla faccia della terra!
Il semplice fatto di posar l'occhio sul nobile consenso di duchi e duchesse e
di tutti gli esponenti dell'aristocrazia che gremivano la città (e si potevano vedere
in tutti i locali pubblici) bastava a deliziare George, colmando il suo animo
totalmente britannico di profonda, intima compiacenza. Avevano messo in
disparte quell'aria di disincantato insolente buonumore che a volte sono peculiari
dei grandi signori quando sono in patria, e dal momento che frequentavano quasi
tutti i ritrovi, acconsentivano a mescolarsi alla gente che vi trovavano. Una sera, a
un ricevimento organizzato dal generale che comandava la divisione alla quale
apparteneva anche il reggimento di George, quest'ultimo fu onorato di un giro di
ballo con Lady Blanche Thistlewood, figlia di Lord Bareacres, onde si diede un
gran daffare per procacciare gelati alla sua dama e alla di lei madre, per chiamare
la loro carrozza.
Poi, di nuovo a casa, prese a vantare quella sua conoscenza con la contessa
in questione con una mancanza di tatto quale nemmeno suo padre sarebbe riuscito
a raggiungere. Il giorno dopo si recò a far visita alle due signore; cavalcò nel
parco al loro fianco; le invitò a pranzo in un ristorante insieme con tutto il loro
seguito, e quando esse accettarono, sembrava non stesse più nella pelle per la
gioia.
In effetti, il vecchio Lord Bareacres, che era dotato di scarso orgoglio ma di
un ottimo appetito, sarebbe andato a cena ovunque e con chiunque.
«Voglio augurarmi che non ci saranno altre donne oltre a quelle del nostro
gruppo,» disse Lady Bareacres, un tantino preoccupata per quell'invito accettato
con eccessiva precipitazione.
«Per l'amor del Cielo, mamma, credi che quel bellimbusto si porterà
appresso anche sua moglie?» strillò Lady Blanche che la sera prima si era
languidamente abbandonata fra le braccia di George durante un giro di walzer,
una nuova danza di recente importazione che cominciava ad andar di moda. «Gli
uomini sono sopportabili, ma le donne...»
«Si sono appena sposati,» rispose il vecchio conte, «e a quanto mi dicono la
moglie è oltremodo graziosa.»
«Se tuo padre ci tiene ad andare, dobbiamo andare, cara Blanche,» disse la
madre. «D'altronde, una volta rientrati in Inghilterra non manterremo certo
rapporti con loro.» Pertanto, una volta presa la decisione di ignorare quella nuova
conoscenza quando fossero tornati a Londra, le due aristocratiche signore si
recarono a consumare la cena che George offriva loro in quel di Bruxelles, e
avendo accettato ch'egli la pagasse onde procurar loro un divertimento, posero al
riparo la propria dignità mettendone a disagio la moglie ed escludendola dalla
conversazione. Per un filosofo che frequenti la Fiera della Vanità, è motivo di
autentico divertimento osservare come una dama d'alto lignaggio si comporti nei
confronti di una donna di condizione sociale più modesta.
Questo banchetto, che costò a George un bel po' di quattrini, fu per Amelia
la serata più deprimente della sua luna di miele. Scrisse a sua madre un penoso
resoconto di quel festino: come Lady Blanche la fissasse con l'occhialino; come il
capitano Dobbin si fosse indignato per il loro contegno; e come Milord, al
momento di andarsene, avesse chiesto di vedere il conto per poi dichiarare che la
cena era stata tanto costosa quanto pessima. Ma sebbene Amelia avesse inviato a
casa sua un simile resoconto, e avesse parlato sia della disobbliganza dei loro
ospiti, sia dell'umiliazione ch'ella aveva patita, cionondimeno Mrs. Sedley si
compiacque di quella conoscenza, e prese a parlare ai quattro venti della nuova
amica di Amelia, la contessa di Bareacres, tanto che la notizia che il figlio
invitava a cena dei Pari del Regno raggiunse la City e le orecchie di Mr. Osborne.
Coloro che conoscono nelle sue sembianze attuali il tenente generale Sir
George Tufto, commendatore dell'Ordine del Bagno, e lo hanno visto come è dato
d'incontrarlo quasi tutti i giorni durante la stagione mentre, infagottato e
imbustato, passeggia pavoneggiandosi per Pall Mall nei suoi lucidi stivali a tacco
alto; coloro, dicevo, che lo vedono oggi in questa guisa stenterebbero certo a
riconoscere l'ardimentoso ufficiale delle campagne di Spagna e di Waterloo. Ora
ha nere sopracciglia, un folto groviglio di riccioli bruni e un paio di mustacchi
quasi violetti. Nel 1815 era biondo, calvo e aveva il corpo molto più grosso
rispetto alle gambe, che in questi ultimi tempi sembrano addirittura essersi
rattrappite. A settant'anni (ora è prossimo agli ottanta) i suoi capelli, che erano
radi e bianchi, di colpo diventarono folti, bruni e ricciuti, e i baffi e le sopracciglia
assunsero il colore che hanno ora. I maldicenti sostengono che ha il torace
imbottito di lane, e che i capelli altro non sono che una parrucca, dal momento
che non crescono mai. Tom Tufto, col padre del quale il generale ebbe a litigare
alcuni anni addietro, afferma che Mademoiselle de Jasey, del Teatro Francese,
strappò tutta la chioma di suo nonno nel ridotto del teatro; ma Tom - lo sanno tutti
- è un maligno e un invidioso, e comunque la parrucca del generale non ha niente
a che vedere con la nostra storia.
Un giorno, mentre i nostri amici del ...° passeggiavano per il mercato dei
fiori di Bruxelles dopo aver visitato il Municipio (naturalmente Mrs. O'Dowd
aveva subito dichiarato che il palazzo di sua madre a Glenmalony era molto più
grande e molto più bello), giunse nel mercato un alto ufficiale a cavallo scortato
dal suo attendente; scese tra le bancarelle delle fioraie e scelse il più bel mazzo
che si potesse trovare. Il mazzo fu avvolto in un foglio di carta, dopo di che
l'ufficiale risalì sulla sua cavalcatura, e consegnò i fiori all'attendente, che lo prese
e lo portò seguendo con un sorriso il suo superiore che si allontanava al trotto,
fiero e soddisfatto.
«Se vedeste i fiori di Glenmalony!» stava dicendo frattanto la O'Dowd.
«Mio padre ha tre giardinieri scozzesi e nove aiutanti. Abbiamo un ettaro di serre
e al momento propizio gli ananassi maturano come se fossero pere. La nostre viti
fanno grappoli da tre chili l'uno, le nostre magnolie hanno fiori grossi come teiere,
ve lo giuro sul mio onore.» Dobbin, che non dava mai spago a Mrs. O'Dowd,
come invece faceva con suo sommo divertimento quel perfido di George (con
grande terrore e imbarazzo di Amelia che lo scongiurava di risparmiarla), si
allontanò in mezzo alla folla sbuffando e cercando di reprimere le risa, fino a
quando, raggiunto un angolo sufficientemente lontano, si abbandonò a una
fragorosa, interminabile risata, fra lo stupore di tutti i fiorai del mercato.
«Si può saper cos'ha da sghignazzare quell'idiota?» disse Mrs. O'Dowd. «Gli
sanguina di nuovo il naso? Dice sempre che gli sanguina il naso, ormai non deve
averne più una sola goccia nelle vene.Vero, O'Dowd, che le magnolie di
Glenmalony sono grosse come teiere?»
«Certo che lo sono, Peggy, e forse sono anche più grandi,» rispose il
maggiore.
La conversazione venne interrotta, come abbiamo visto, dal sopraggiungere
dell'ufficiale che acquistò il mazzo di fiori.
«Che cavallo fantastico, accidenti!» esclamò George. «Chi è?»
«Dovreste vedere Molasses, il cavallo di mio fratello Molloy Malony, che
ha vinto la coppa al Curragh,» prese a dire la moglie del maggiore; e stava per
continuare la storia del cavallo e della famiglia, quando venne interrotta dal
marito che disse:
«È il generale Tufto, il comandante della ...ma Divisione di cavalleria. A
Talavera siamo stati feriti tutti e due alla stessa gamba,» aggiunse in tono pacato.
«Donde la vostra promozione,» soggiunse Osborne ridendo.«Il generale
Tufto? Ma allora, mia cara, sono arrivati i Crawley.»
Amelia si sentì mancare, senza sapere il perché. Il sole le parve si
offuscasse. Di colpo i tetti spioventi, gli antichi abbaini le parvero meno
pittoreschi. Eppure c'era un magnifico tramonto, lo splendente tramonto di una
limpida giornata di fine maggio.
XXIX • BRUXELLES
Mr. Jos aveva affittato una coppia di cavalli per la sua carrozza aperta, e
grazie ai due destrieri e all'elegante veicolo di provenienza londinese faceva una
figura più che decente durante le passeggiate nei dintorni di Bruxelles. George per
parte sua si era comperato un cavallo, e insieme col capitano Dobbin scortava
spesso la carrozza nella quale Jos e sua sorella compivano le loro gite quotidiane.
Un giorno, mentre si trovavano nel parco per la consueta scarrozzata, ebbero
modo di constatare che la deduzione di George era del tutto rispondente al vero:
Rawdon Crawley e sua moglie erano arrivati. Ecco infatti, frammista a un piccolo
stuolo di cavalieri (alcuni tra i più eminenti personaggi della città) e a lato del
galante generale Tufto, apparire Rebecca vestita di un delizioso e attillato abito da
amazzone, in sella a uno stupendo cavallo arabo ch'ella cavalcava alla perfezione
avendo imparato quest'arte a Queen's Crawley, ove il baronetto, Mr. Pitt e lo
stesso Rawdon le avevano dato un certo numero di lezioni.
«Ma quello è il duca in persona;» esclamò Mrs. O'Dowd, mentre Jos si
copriva di rossore. «E quello sul buio è Lord Uxbridge. Che eleganza! Tale e
quale mio fratello Molloy Malony: si somigliano come due gocce d'acqua!»
Rebecca non si avvicinò alla carrozza, ma appena si accorse che nel veicolo
sedeva la sua vecchia amica Amelia lasciò capire di averla vista con un vezzoso
cenno del capo e con un sorriso, mandandole un bacio e agitando scherzosamente
il dito in direzione della carrozza. Poi riprese la conversazione col generale Tufto,
il quale domandò chi fosse «quel grassone di ufficiale col berretto adorno di un
gallone d'oro». Becky rispose che era un ufficiale amministrativo delle Indie
Orientali. Rawdon Crawley invece abbandonò momentaneamente il suo gruppo e
si accostò ad Amelia alla quale strinse calorosamente la mano; poi si rivolse a Jos
e lo salutò dicendogli: «E allora, vecchio mio, come va la vita?» Dopo di che
prese a fissare la faccia e le penne di gallo nere di Mrs. O'Dowd con
un'espressione così attonita, ch'ella s'illuse di averlo conquistato.
«George, ch'era rimasto indietro, si avvicinò quasi subito accompagnato da
Dobbin, ed entrambi portarono la mano al berretto per riverire quegli illustri
personaggi in mezzo ai quali Osborne notò immediatamente Mrs. Crawley. Nel
contempo si compiacque di vedere Rawdon chino sulla carrozza intento a
conversare con Amelia, e rispose con molta cordialità al caloroso saluto
dell'aiutante di campo. Quanto al cenno di saluto che si scambiarono Rawdon e
Dobbin, rimase confinato entro i limiti della più stretta cortesia.
Rawdon disse a George che erano scesi all'Hôtel du Parc insieme al generale
Tufto, e George indusse l'amico a promettere che sarebbero venuti in visita a casa
loro. «È un vero peccato non avervi incontrato tre giorni fa. Abbiamo offerto una
cena al Restaurateur... una serata deliziosa, davvero! Lord Bareacres e la contessa,
con Lady Blanche sono stati così gentili da accettare il nostro invito. Sarei stato
ben lieto di avere ospiti anche voi.» Dopo di che, avendo trovato il modo di far
sapere a Rawdon che anch'egli aveva pieno diritto di esser considerato un
personaggio alla moda, Osborne prese congedo dall'amico, il quale seguì l'augusta
comitiva lungo il viale, mentre George e Dobbin tornavano al loro posto, ai due
lati della carrozza nella quale sedeva Amelia.
«Che aspetto marziale ha il duca!» commentò Mrs. O'Dowd. «I Wellesly e i
Mallony sono imparentati, ma io, inutile dirlo, sono una povera donna... come
potrei osare di presentarmi a Sua Grazia? A meno che lui non ricordi i leganti che
uniscono le nostre famiglie...»
«È un vero soldato,» disse Jos, che si sentiva molto più a suo agio, ora che
l'eminente personaggio si era allontanato. Chi mai ha saputo vincere una battaglia
come quella di Salamanca! Eh, cosa ne dici, Dobbin? Già: ma dove ha imparato il
mestiere? In India! Eh, sì, caro mio. La giungla è la scuola ideale per un generale,
tieni a mente quello che ti dico. Anch'io l'ho conosciuto, Mrs. O'Dowd. Una sera,
a Dumdum, abbiamo ballato tutti e due con Miss Cutler, figlia di quel Cutler
dell'artiglieria. Fior di bella ragazza, perdìo!»
Durante l'intera passeggiata l'apparizione di quegli illustri personaggi fu il
tema fisso della loro conversazione. E non solo durante la passeggiata: anche a
cena, e più tardi, fino al momento di recarsi tutti insieme all'Opera. Sembrava
quasi di essere nella vecchia Inghilterra. Il teatro era gremito di notissime facce
inglesi e di quelle splendide toilettes per le quali le signore inglesi vanno famose.
Fra costoro Mrs. O'Dowd non era certo la meno splendida: aveva un ricciolo
che le scendeva sulla fronte e intorno al collo una parure di diamanti irlandesi e di
cairngorms che, a sentir lei, mortificavano qualunque altro gioiello presente in
teatro.
La sua presenza causava a Osborne le pene dell'inferno. Non solo la O'Dowd
prendeva immancabilmente parte a tutti i divertimenti ai quali sapeva che i suoi
giovani amici avrebbero partecipato, ma non le passava nemmeno per
l'anticamera del cervello che la sua compagnia potesse non essere molto accetta.
«Finora ti è servita, mia cara,» commentò George il quale, in effetti, quando
sapeva che Amelia era in sua compagnia esitava meno a lasciarla sola, «ma
adesso grazie al Cielo è arrivata Rebecca. Ora sarà lei a farti compagnia e potremo
sbarazzarci di quella maledetta irlandese.» Amelia non rispose ne sì né no; ma chi
potrebbe dire quali fossero i suoi pensieri?
Naturalmente il coup d'oeil offerto dal Teatro dell'Opera di Bruxelles parve
ben misera cosa a Mrs. O'Dowd, in confronto a quello del Teatro di Fishamble
Street a Dublino; ed anche la musica francese, secondo lei, non era all'altezza
delle melodie della sua terra natia. Tutte opinioni, queste, che la O'Dowd
esternava ai suoi interlocutori ad altissima voce, sventolandosi con un enorme e
schioccante ventaglio di cui faceva mostra con evidentissima compiacenza.
«Chi è quella squisita signora seduta vicino ad Amelia, Rawdon, amor
mio?» chiese nel palco di fronte una signora che, sempre gentile col marito in
privato, era addirittura affettuosissima con lui in pubblico. «Non vedi
quell'incredibile donna con quello strano aggeggio nel turbante, un abito di raso
rosso e un enorme orologio al collo?»
«Vicino a quella graziosa creatura in bianco?» domandò a sua volta un
signore di mezz'età seduto accanto alla signora che aveva rivolto la precedente
domanda: un signore imbottito di panciotti, col petto coperto di decorazioni e un
vistoso cravattone bianco annodato attorno al collo.
«Quella graziosa creatura in bianco è Amelia, generale. Lei nota sempre le
belle donne, vero, birbante?»
«No, no, per me conta solo una, perbacco!» replicò il generale, estasiato,
mentre la signora gli dava un colpetto con un gran mazzo di fiori che teneva in
mano.
«Càspita, è proprio lui,» disse Mrs. O'Dowd, «e quello è proprio il mazzo
che ha comperato al mercato dei fiori!» E quando Rebecca, avendo colto lo
sguardo di Amelia, rispose di nuovo col gesto di mandarle un bacio con la mano,
la moglie del maggiore O'Dowd, convinta che quel pensierino fosse indirizzato a
lei, rispose al saluto con un garbato sorriso, cosa che costrinse di nuovo il povero
Dobbin a uscire dal palco per ridersela tranquillamente.
Terminato l'atto, George si precipitò fuori del palco per recarsi a porgere i
suoi ossequi a Rebecca seduta nella sua loge. Ma nel ridotto s'imbatté in Rawdon
e fu costretto a scambiare con lui qualche impressione sugli avvenimenti delle
ultime due settimane.
«Avete potuto incassare il mio assegno senza difficoltà?» chiese George,
dandosi tono.
«Sì, grazie, ragazzo mio,» rispose Rawdon. «Felicissimo di darvi la
rivincita, se lo vorrete. E il vecchio? Ha mollato?»
«Non ancora,» rispose George, «ma mollerà. E poi ho un patrimonio
personale che mi viene da mia madre. E la zia ha ceduto?»
«Mi ha mandato venti sterline, quella vecchia spilorcia. Allora, quando ci
vediamo? Il generale cena fuori martedì. Andrebbe bene, per Voi, martedì? E poi
dite a Sedley di tagliarsi quei baffi. Ma come può venire in mente a un borghese
di farsi vedere in giro con quei mustacchi e quegli alamari sulla giacca?
Arrivederci, dunque, e cercate di venire martedì.» Dopo di che Rawdon si
allontanò con due brillanti giovanotti lustri e azzimati, come lui aiutanti di campo
di qualche generale.
George non si sentì al settimo cielo per essere stato invitato proprio il giorno
in cui il generale non ci sarebbe stato. «Vado a porgere i miei omaggi a Mrs.
Crawley,» aggiunse. «Prego,» rispose Rawdon: e in volto aveva un'espressione
piuttosto tetra, mentre i due aiutanti di campo si scambiavano l'occhiata di chi la
sa lunga. Ad ogni modo George si allontanò e attraverso il ridotto si avviò verso il
palco del generale, di cui aveva accuratamente contato il numero.
«Entrez» disse una vocetta squillante, e il nostro amico si trovò al cospetto
di Rebecca la quale balzò in piedi, batté sonoramente le mani e poi gliele tese,
felicissima - a quanto pareva - di rivederlo. Quanto al generale dal petto coperto
di decorazioni, fissò il nuovo venuto con le sopracciglia aggrottate, con l'aria di
pensare: «Chi diavolo siete, voi?»
«Caro capitano George!» esclamò Rebecca giubilante. «È stato veramente
gentile da parte vostra venirci a trovare. Io e il generale cominciavamo ad essere
un po' stufi del nostro tête-à-tête. Questo, generale, è il capitano George, di cui mi
avete già sentito parlare.»
«Sì, sì,» confermò il generale accennando appena ad un lievissimo inchino.
«E a quale reggimento appartiene il capitano?»
George rispose che apparteneva al ...° Reggimento, ma che gli sarebbe
piaciuto immensamente appartenere a un famoso reggimento di cavalleria.
«Se non erro è rientrato da poco dalle Indie Occidentali e non ha preso parte
a nessuna campagna nell'ultima guerra. Siete di stanza qui, capitano George?»
chiese il generale in tono gelido e altezzoso.
«Non si chiama George, scioccone,» corresse Rebecca, «il suo nome è
Osborne.»
Il generale continuava a passare dall'uno all'altro i suoi occhi furibondi.
«Ah, dunque siete il capitano Osborne. Imparentato con gli Osborne duchi
di Leeds?»
«Abbiamo lo stesso stemma,» rispose George. Il che era vero. Infatti, circa
quindici anni prima, quando Mr. Osborne aveva comperato una carrozza, dopo
aver consultato un esperto di araldica a Long Acre si era fatto dipingere sulla
portiera lo stemma dei Leeds.
Il generale non replicò a questa rivelazione, ma prese l'occhialino (il
binocolo da teatro non era ancora stato inventato) e fece finta di dare un'occhiata
in platea; ma Rebecca si accorse che con l'occhio libero guardava invece nella sua
direzione e lanciava occhiate di fuoco a lei e a George.
Allora Rebecca accentuò il suo tono amichevole. «Come sta la mia cara
Amelia? Ah, ma non c'è bisogno che lo chieda. Com'è graziosa! E chi è quella
simpatica signora dall'aria così buona e cordiale che le siede accanto? Una vostra
fiamma, scommetto... Ah, che perfidi siete, voialtri uomini! E quello è proprio
Mr. Jos: ha l'aria di piacergli molto, quel gelato! Perché non abbiamo preso dei
gelati anche noi, generale?
«Volete che vada a prendervene uno?» proruppe il generale, furibondo.
«Lasciate che vada io, ve ne supplico,» disse George.
«No, no, voglio andare nel palco di Amelia, voglio andare a trovare la mia
cara, la mia diletta amica. Datemi il braccio, capitano George.» Così dicendo fece
un cenno del capo al generale e uscì nel ridotto. Quivi, non appena si trovarono a
tu per tu, lanciò a George uno sguardo carico di sottintesi e che forse stava a
significare: «Lo vedete come stanno le cose e come mi burlo di lui» Ma George
non se ne accorse la sua mente era totalmente assorbita dai suoi progetti e dalla
contemplazione della propria irresistibile forza di seduzione
Le maledizioni che il generale pronunciò a bassa voce non appena Rebecca
e il suo conquistatore lo ebbero lasciato furono così spaventose, che se mai
qualcuno si arrischiasse a scriverle, nessun proto di Bradbury & Evans si
arrischierebbe a comporli. Gli sgorgavano proprio dal cuore, ed è davvero
sorprendente che il cuore umano sia in grado di produrre simili frutti, che
all'occasione sia pronto ad espellere tanta rabbia, tanto odio, tanto furore.
Anche i dolci occhi di Amelia avevano continuato a fissare ansiosamente la
coppia che aveva a tal punto scatenato la gelosia del generale. Rebecca entrò nel
suo palco e in un impeto incontenibile d'affetto corse incontro ad Amelia
abbracciandola, affatto incurante del luogo e del pubblico; abbracciò la sua diletta
amica sotto gli occhi di tutta la sala, o per lo meno in modo da esser vista
dall'occhialetto del generale, che adesso era rivolto verso di lei e il gruppo degli
Osborne. Mrs. Crawley salutò anche Jos con molta affabilità, ammirò gli stupendi
diamanti irlandesi e i cairngorms di Mrs. O'Dowd e disse che non riusciva a
credere che non venissero direttamente da Golconda. Chiacchierò, svolazzò, si
rigirò, sorrise a destra e a manca, e tutto sotto lo sguardo infuocato del generale
che la osservava dal palco di fronte. Quando ebbe inizio il balletto (nel quale
nessun esecutore poteva vantare una mimica pari alle sue smorfie e alle sue
mossette), fece ritorno a precipizio nel proprio palco, ma questa volta al braccio
del capitano Dobbin. No, non voleva che fosse George a riaccompagnarla: doveva
restare lì a conversare con la sua piccola, dolcissima, incantevole Amelia.
«Che razza di commediante è quella donna!» mormorò il buon Dobbin a
George, quando ritornò d'aver accompagnato Rebecca al suo palco: tragitto
percorso senza aprir bocca e col volto atteggiato all'espressione di un impresario
di pompe funebri. «Si dimena e divincola come un serpente. Non ti sei accorto
che per tutto il tempo che è rimasta qui ha recitato la commedia per far dispetto al
generale che la fissava dal suo palco?»
«Commediante? Commedia? Ma cosa ti viene in mente' È la donna più
simpatica di tutta l'Inghilterra,» rispose George mostrando la sua candida
dentatura e arricciandosi i baffi profumati. «Guardala: Tufto si è già consolato.
Guarda guarda come ride! Dio, che spalle ha! Amelia, come mai non hai un
mazzo di fiori anche tu? Lo hanno tutte!
«Perché non gliene avete offerto uno?» disse Mrs. O'Dowd. Amelia e
Dobbin in cuor loro la ringraziarono per questa osservazione veramente
tempestiva. Dopo questa battuta le due signore non aggiunsero parola. Amelia era
stata affascinata dal brio, dalla conversazione così vivace e frizzante della sua
rivale, e persino la O'Dowd rimase silenziosa e come soggiogata dopo quella
brillante incursione di Becky. Per tutta la serata non disse più una parola su
Glenmalony.
«Quando ti deciderai a smettere di giocare, George, come mi hai promesso
Dio sa quante volte in questi ultimi cento anni?» chiese Dobbin all'amico qualche
sera dopo. «E tu quando ti deciderai a smettere di farmi la predica?» ribatté l'altro.
«Si può sapere di cosa diavolo hai paura? Puntiamo basso, e ieri sera ho vinto.
Oppure temi che Crawley sia un baro? Se si gioca onesto, alla fine dell'anno ci si
ritrova sempre in pari.»
«Già, ma se perdesse dubito che sarebbe in grado di pagare,» rispose
Dobbin.
Ma il suo consiglio ebbe l'accoglienza che solitamente viene appunto
riservata ai consigli. Ormai Osborne e Crawley si vedevano con estrema
frequenza. Il generale Tufto cenava quasi sempre fuori, e George era sempre
accolto con la massima cordialità nell'appartamento che l'aiutante di campo e sua
moglie occupavano all'Hôtel du Parc.
Il comportamento di Amelia fu tale, quando per la prima volta lei e George
si recarono assieme in visita ai coniugi Crawley, che per poco non scoppiò fra di
loro il primo litigio. George infatti le rivolse duri rimproveri per aver manifestato
la più viva riluttanza all'idea di quell'incontro, e per aver trattato con altezzosa
sufficienza Mrs. Crawley, che dopo tutto era una sua vecchia arnica. Amelia non
osò replicare, ma sotto lo sguardo del marito, e per giunta con la sensazione che
Rebecca cercasse d'indovinare i suoi sentimenti, la seconda volta fu ancora più
taciturna della prima, e si sentì, se possibile, ancor più a disagio.
Inutile dire che Rebecca, dal canto suo, si mostrò più affettuosa che mai, e
non volle assolutamente dar peso alla freddezza dell'amica nei suoi confronti. «Ho
l'impressione che Amelia si dia più tono da quando il nome di suo padre è finito
sul... volevo dire, dopo la disgrazia,» sussurrò a George. «Per esser sincera, a
Brighton avevo creduto che mi facesse l'onore di esser gelosa di me, e adesso
immagino che la scandalizzi il fatto che io, Rawdon e il generale viviamo
assieme. D'altra parte, mio caro, ditemi voi come potremmo vivere senza un
amico col quale dividere le spese. E credete forse che Rawdon non sia abbastanza
grande e grosso per tutelare validamente il mio onore? Però sono molto grata a
Emmy, molto grata davvero.»
«Bah, la gelosia!» rispose George con sprezzante noncuranza. «Quale donna
non è gelosa?»
«E quale uomo non lo è? Anche voi eravate geloso del generale Tufto,
quella sera all'Opera, come il generale Tufto era geloso di voi. Figuriamoci!
Credevo che volesse mangiarmi solo perché ero andata con voi a far visita a
quella scioccherella di vostra moglie. Come se m'importasse qualcosa di voi due!
Volete cenare qui? Stasera il dragone mangia col comandante in capo. Grandi
notizie: sembra che i francesi abbiano varcato la frontiera. Potremmo farci una
cenetta tranquilla.»
George accettò l'invito, sebbene sua moglie fosse leggermente indisposta.
Erano ormai sposati da sei settimane. Un'altra donna la dileggiava, la prendeva in
giro e lui non se ne offendeva Non se la prendeva nemmeno con se stesso, quel
bravo ragazzo. Sarà scandaloso, diceva a se stesso, ma se un: bella donna ti fa
delle avances così precise, cosa deve fare un brav'uomo? Tirarsi indietro, forse?
«Io non mi faccio tanti pregare con le donne,» ripeteva spesso a Stubble, a
Spooney e ad altri commilitoni alla mensa, e questi si guardavano bene dal
biasimarlo per questo: anzi ammiravano le sue prodezze. Da che mondo è mondo,
dopo le conquiste militari le conquiste in amore sono sempre state motivo di
orgoglio tra gli uomini della Fiera della Vanità. Altrimenti perché gli studentelli
alle prime armi sarebbero tanto fieri dei loro amori, e Don Giovanni sarebbe un
personaggio tanto popolare?
Pertanto Mr. Osborne, convinto com'era di far strage di cuori femminili e di
esser destinato per naturale vocazione a far sua ogni donna, lungi dall'opporsi al
destino lo assecondava con la massima compiacenza. D'altro canto poiché Emmy
non parlava molto e non lo affliggeva con manifestazioni o scenate di gelosia, ma
si limitava a sentirsi infelice e a soffrire in silenzio, egli trovò del tutto naturale
concludere che ella ignorasse ciò che invece era ormai sulla bocca di tutti, e cioè
che lui faceva una corte serrata a Mrs. Crawley. Andava a cavallo con Rebecca
ogni qual volta lei non aveva impegni, fingeva di avere impegni al reggimento
(menzogna alla quale Amelia non credeva di certo) e, lasciando la moglie sola, o
tutt'al più in compagnia del fratello, passava le serate coi Crawley, perdendo a
carte con Rawdon e illudendosi che la moglie si struggesse d'amore per lui. Non è
probabile che i degni coniugi ordissero di comune accordo un vero e proprio
complotto, volto ad attirare George con le grazie di lei onde perdesse al gioco col
marito; ma indubbiamente i due se la intendevano alla perfezione, tanto che
Rawdon permise a Osborne di andare e venire a suo piacimento senza muovere la
minima obiezione.
Assorbito com'era dai suoi nuovi amici, George non frequentava più Dobbin
con l'assiduità di un tempo. Cercava di scansarlo sia in pubblico sia alla mensa e,
come abbiamo visto poc'anzi, non mostrava affatto di gradire i moniti che l'amico
più anziano gli rivolgeva. Certi suoi atteggiamenti incontravano chiaramente la
disapprovazione di Dobbin, come la sua serietà e freddezza nei confronti di
George palesavano senza possibilità di equivoco. Perciò, dal momento che in quei
giorni, quando si recava in visita dagli Osborne, ben di rado accadeva che Dobbin
vi trovasse l'amico, i due evitarono di proposito certi colloqui tanto penosi quanto
inutili. Da parte sua il nostro caro George filava a vele spiegate sul mare
incantatore della Fiera della Vanità.
Forse dai tempi di Dario non si era più visto un seguito brillante come quello
che nel 1815 accompagnò il duca di Wellington nei Paesi Bassi. E ve lo
accompagnò in un tripudio di banchetti e feste da ballo fino alla vigilia della
battaglia. Il 15 giugno del suddetto anno una nobile duchessa diede a Bruxelles un
ballo che sarebbe diventato storico. L'evento determinò uno stato di generale,
elettrizzante attesa, e personalmente ho sentito raccontare da signore che si
trovavano allora in quella città che tutte le persone del loro sesso si
preoccupavano molto più di quel ballo che del vicino schieramento nemico Le
beghe, le mene, le suppliche per assicurarsi un biglietto d'invito furono, né più né
meno, quelle che solo le signore inglesi sanno mettere in atto per intrufolarsi nella
società dei loro compatrioti appartenenti alla classe aristocratica.
Anche Jos e Mrs. O'Dowd smaniavano per ottenere l'invito, ma lottarono
invano per procacciarsi un biglietto. Altri, fra i nostri amici, ebbero invece
maggior fortuna. Per esempio, per il tramite di Lord Bareacres (che intese così
ricambiare l'invito a cena) George ottenne un invito per il capitano e Mrs.
Osborne, circostanza questa che lo mandò al settimo cielo. Quanto a Dobbin, che
era in rapporti amichevoli col generale comandante la divisione alla quale
apparteneva il loro reggimento, un giorno si recò ridendo da Mrs. Osborne e le
mostrò un analogo invito. Jos moriva d'invidia, mentre George si chiedeva come
mai un Dobbin potesse essere accolto dall'alta società. Inutile dire che i coniugi
Crawley, amici di un generale comandante una brigata di cavalleria, erano tra gli
invitati.
Finalmente la sera fatidica George, che per l'occasione aveva ordinato per
Amelia nuovi vestiti e Dio sa quanti altri fronzoli, si recò al ballo dove sua moglie
non incontrò anima viva di sua conoscenza. Dopo essere andato alla ricerca di
Lady Bareacres (la quale fece finta di non vederlo, dal momento che l'invito, a suo
giudizio, era sufficiente) e dopo aver piazzato sua moglie su un divano, George
l'abbandonò ai suoi pensieri, nella ferma convinzione di essersi comportato
benissimo con lei, perché le aveva comperato uno splendido abito e l'aveva
condotta a una festa da ballo ove era libera di divertirsi come più le piacesse. Ora,
non si può dire che i pensieri di Amelia fossero dei più allegri, ma nessuno venne
a turbarli ad eccezione del nostro amico Dobbin.
Mentre la presenza di Amelia passò affatto inosservata (con grande scorno
di suo marito), il début di Mrs. Crawley fu per contro dei più brillanti. Arrivò
molto tardi, in abito elegantissimo, il volto raggiante. In mezzo a quell'accolita di
eletti personaggi, con tutti gli occhialetti puntati su di lei, Rebecca aveva la stessa
aria compunta e distaccata di quando conduceva in chiesa le piccole allieve di
Miss Pinkerton. Tutti gli elegantoni presenti nel salone e molti gentiluomini d'alto
rango le si affollarono intorno. Quanto alle donne, mormoravano che Rawdon
l'aveva rapita da un convento e che era imparentata coi Montmorency. D'altra
parte il suo francese era così perfetto che quella voce poteva anche corrispondere
a verità. Tutte, poi, erano costrette a riconoscere che i suoi modi erano
impeccabili e aveva un tratto veramente distingué. Almeno cinquanta candidati
cavalieri le fecero ressa attorno e la supplicarono di conceder loro l'onore di un
ballo. Ella peraltro rispose di essere impegnata e che avrebbe ballato pochissimo.
Subito dopo si diresse verso il punto ove Amelia sedeva dimenticata e in preda
alla più cupa disperazione. Così, come se la sofferenza della povera infelice non
bastasse, ecco che sopraggiungeva Rebecca a salutare la sua carissima Amelia,
assumendo quella sua aria protettrice. Dapprima trovò a ridire sull'abito
dell'amica, poi criticò la pettinatura, quindi si stupì che potesse essere chaussée in
un modo simile e per concludere giurò che l'indomani le avrebbe mandato la sua
corsetière. Dichiarò che era una festa da ballo semplicemente fantastica: tutti
(salvo due o tre persone) si conoscevano. Nel giro di quindici giorni, e dopo due o
tre pranzi al massimo, quella giovane donna aveva assimilato in modo così
perfetto il gergo dell'alta società, che una vera aristocratica non avrebbe potuto
esprimersi in modo più appropriato: solo dal suo francese così perfetto si poteva
dedurre la diversità della sua estrazione.
George, che aveva lasciato Emmy seduta sul piccolo divano non appena
avevano messo piede nel salone, ora che Rebecca sedeva al fianco della sua
carissima amica non tardò ad avvicinarsi. In quel momento Becky stava mettendo
in guardia Amelia circa le follie che commetteva il suo consorte. «Per amor del
cielo,» diceva, «convincilo a smettere di giocare, altrimenti finirà col rovinarsi.
Lo sai che è povero. tutte le sere gioca a carte con Rawdon, e se non sta in guardia
Rawdon gli vincerà fino all'ultimo scellino. Ma perché non lo previeni, piccola
imprudente che non sei altro? Perché la sera non vieni anche tu con noi invece di
startene a casa con quel tuo capitano Dobbin? Non nego che sia très aimable, ma
come si può amare un uomo con dei piedoni simili? Tuo marito sì che ha dei bei
piedini. Eccolo che arriva. Dove siete stato, brigante? Qui c'è la povera Emmy che
sta rovinandosi gli occhi a furia di versar lacrime per causa vostra. Siete venuto a
cercarmi per la quadriglia?» E abbandonato lo scialle accanto ad Amelia, si
allontanò per ballare con George. Eh, sì, solo le donne sanno vibrare colpi simili:
nella punta delle loro frecce piccole e acuminate si cela un veleno molto più
pernicioso che nelle armi più taglienti degli uomini. La nostra povera Emmy, che
non aveva mai odiato né schernito anima viva in vita sua era del tutto impotente,
in balla di quella spietata, piccola nemica.
George ballò con Rebecca due o tre volte, Amelia non avrebbe nemmeno
saputo dire esattamente quante. Se ne rimase seduta sola sola nel suo angolino,
salvo nei momenti in cui Rawdon le si avvicinava e tentava di avviare un minimo
di conversazione; e più tardi, quando il capitano Dobbin ebbe l'ardire di portarle
un rinfresco e di sederlesi accanto. Non gli andava di chiederle perché mai fosse
così triste; ma fu lei che, per giustificare le lacrime che stavano per sgorgarle dagli
occhi, disse che Mrs. Crawley l'aveva spaventata riferendole che George non
aveva perso il vizio di giocare.
«Strano a dirsi: quando un uomo si lascia trascinare al gioco, finisce per
cadere nelle grinfie di volgarissimi lestofanti.» «È vero,» rispose Amelia, ma il
suo pensiero era altrove: non erano le perdite di denaro a causare le sue
sofferenze.
Finalmente George tornò a prendere lo scialle e il mazzo di fiori di Rebecca.
Mrs. Crawley si accingeva ad andarsene e non si degnò nemmeno di venire a
salutare Amelia. La povera infelice non disse una parola: attese che il marito si
allontanasse, poi chinò il capo sul petto. Qualcuno era venuto a chiamare Dobbin,
che in quel momento stava conversando animatamente col generale di divisione e
non aveva assistito a quest'ultima scena. George aveva preso il mazzo, ma nel
momento in cui lo restituiva alla sua legittima titolare, arrotolato in mezzo ai fiori
come un serpente c'era un bigliettino. Rebecca se ne accorse all'istante: le era
capitato molte volte di ricevere biglietti galanti e sapeva come comportarsi in
queste circostanze. Afferrò il mazzo che le veniva porto, e quando i loro occhi
s'incontrarono egli capì ch'ella sapeva benissimo ciò che vi avrebbe trovato.
Quanto al marito, si affrettò a condurre via la moglie, troppo assorto nei suoi
pensieri per accorgersi dei cenni d'intesa che potevano essersi scambiati la moglie
e l'amico. Del resto, si trattò di cenni appena percettibili: Rebecca porse la mano a
George con una della sue fugacissime occhiate, fece un piccolo inchino e se ne
andò. Quanto a George, si chinò a baciarle la mano, non rispose alle parole
rivoltegli da Rawdon e forse nemmeno le udì. Tale era la sensazione di trionfo e
lo stato di esaltazione che gli sconvolgevano il cervello che li guardò allontanarsi
senza battere ciglio.
Quanto a sua moglie, colse almeno una parte della scena del mazzo di fiori.
Era del tutto naturale che George, su richiesta di Rebecca, fosse venuto a ritirare il
suo scialle e il suo mazzo; era esattamente quello che negli ultimi giorni aveva
fatto non meno di venti volte; ma questa volta Amelia non seppe resistere.
«William,» disse all'improvviso, afferrandosi a Dobbin che le stava accanto, «voi
siete sempre stato così gentile con me... io... io... non mi sento bene. Per favore,
accompagnatemi a casa.» Non si era nemmeno resa conto di averlo chiamato per
nome come faceva solitamente George.
La casa non era molto lontana, e si allontanarono in mezzo alla folla che
sembrava non meno turbinosa e agitata di quella che si trovava radunata alla festa
da ballo. Più di una volta, tornando da una festa o da un ricevimento, George si
era inquietato trovando la moglie ancora sveglia, cosicché andò a letto
immediatamente. Naturalmente non dormì, ma sebbene il frastuono e il galoppo
dei cavalli fosse incessante, le ragioni che la tenevano sveglia erano di tutt'altra
natura.
Osborne intanto al colmo dell'eccitazione, si avvicinò a un tavolo da gioco e
prese a giocare a ritmo frenetico. Vinse ripetutamente. «Mi va tutto a gonfie vele,
stasera,» disse. Ma nemmeno quella vincita a carte valse a placare la sua
eccitazione, onde si avvicinò al buffet e tracannò vari bicchieri di vino.
Qui Dobbin lo trovò mentre chiacchierava, visibilmente alterato e irrequieto,
ridendo sgangheratamente. Era già stato a cercarlo al tavolo da gioco, e come
George era ilare e acceso in volto, l'amico appariva pallido e grave.
«Salve, Dob. Ehi là, vecchio Dob, vieni a farti una bevutina! Il vino del duca
è veramente squisito. Un'altra, prego,» soggiunse, porgendo al capitano la coppa
con mano tremante.
«Vieni fuori, George,» disse Dobbin sempre serio in volto. «E smettila di
bere.»
«Bere! Ah, non c'è niente che valga il vino, in fatto di bere! Bevi anche tu e
cerca di lasciar perdere quella tua faccia da funerale, vecchio mio. Alla tua
salute!»
Dobbin gli si avvicinò e gli sussurrò qualcosa. George ebbe un violento
sussulto. Lanciando un fragoroso «Hurrah!» Vuotò d'un fiato il bicchiere, lo
sbatté sul tavolo e si allontanò rapidamente al braccio dell'amico. «Il nemico ha
varcato la Sambre e il nostro fianco sinistro e già impegnato,» gli aveva detto
Dobbin. «Fra tre ore partiamo.»
George lasciò il ballo eccitatissimo e coi nervi a fior di pelle a causa di
quella notizia tanto attesa e desiderata, e adesso giunta così repentina. Cosa
contavano adesso l'amore e le avventure? Ripensò alla vita passata e alle
prospettive che gli riservava l'avvenire, al destino che lo attendeva, alla moglie, al
bimbo dal quale: si stava forse separando prima ancora di averlo conosciuto. Ah,
come avrebbe voluto poter cancellare ciò che era accaduto quella notte! Come
avrebbe desiderato sentirsi la coscienza tranquilla, almeno per dire addio a quella
dolce, innocente creatura della quale aveva saputo così puro apprezzare l'amore!
Ripercorse col pensiero il fugace periodo trascorso dal giorno del suo
matrimonio. Nel giro di pochi giorni aveva, con assoluta incoscienza, dissipato il
suo piccolo capitale. Era stato un mascalzone, un irresponsabile. E se gli fosse
accaduta una disgrazia? Cosa sarebbe stato di lei? Era veramente indegno di
Amelia. Perché l'aveva sposata? Non era un uomo adatto al matrimonio. Perché
aveva disobbedito a suo padre, sempre tanto generoso con lui? Il cuore gli
traboccava di speranze, di rimorso, di ambizione, di tenerezza e di egoistici
rimpianti. Sedette e cominciò a scrivere al padre, e alla mente gli riaffiorava il
ricordo di un'altra lettera, scritta alla vigilia di un duello. L'alba accendeva
lievemente il cielo mentre terminava quella lettera di addio. La suggellò e ripensò
alle circostanze in cui aveva abbandonato il padre, alle mille gentilezze che quel
vecchio così severo gli aveva sempre usate.
Appena giunto a casa aveva spinto lo sguardo in camera da letto. Amelia
riposava tranquilla. Aveva gli occhi chiusi ed egli fu contento che dormisse.
L'attendente, già impegnato nei preparativi della partenza, intese a volo il segno di
George che gli ingiunse di non aprir bocca e continuò a lavorare alacre e veloce.
George non sapeva se svegliare Amelia o lasciare un biglietto al fratello
pregandolo di consegnarglielo. Di nuovo entrò nella camera per guardarla ancora.
Amelia era sveglia anche quando lui era entrato per la prima volta, ma aveva
finto di dormire perché non voleva che il farsi trovar desta venisse interpretato dal
marito come un rimprovero. Vedendolo rientrare subito dopo di lei, si era sentita
un poco rasserenata, e dopo averlo seguito mentre usciva dalla stanza l'aveva colta
un sonno leggero. George si accostò al letto per guardarla, con un passo ancora
più leggero di prima. Alla tenue luce della lampada da notte contemplò quel
dolce, tenero viso, le palpebre chiuse, di un rosa acceso, erano frangiate dalle
lunghe ciglia e un braccio rotondo, bianco e liscio, poggiava sulla coperta. Buon
Dio, com'era pura, com'era gentile, tenera e sola, completamente sola! Com'era
stato egoista, colpevole, brutale! Col cuore stretto dall'angoscia e dalla vergogna
indugiò ai piedi del letto contemplando la giovane moglie dormiente. Come
poteva osare, come poteva pregare per una creatura tanto innocente? Dio la
benedica! Dio la benedica! Facendosi accosto al letto posò lo sguardo sulla mano,
su quella piccola mano morbida che giaceva inerte nel sonno; poi, silenzioso, si
chinò su quel pallido, dolce visino.
Mentre si curvava, due braccia leggiadre si chiusero teneramente intorno al
suo collo. «Sono sveglia, George,» disse la povera bimba infelice, con un
singhiozzo che sembrava volesse spezzare quel cuoricino che premeva stretto
contro il suo. Era sveglia, e per che cosa, povera creatura?
In quel momento dalla Piazza d'Armi giunse nitido e squillante il suono di
una tromba, ed altre le risposero da ogni parte della città. Poi la città si destò al
rullo dei tamburi delle fanterie e al suono stridulo delle cornamuse scozzesi.
XXX • LA RAGAZZA CHE HO LASCIATO
Non abbiamo alcuna pretesa si essere annoverati fra gli autori di romanzi di
guerra. Il posto che ci compete è tra i non-combattenti. Quando i ponti vengono
sgomberati in vista delle imminenti operazioni, noi ci ritiriamo sottocoperta
accontentandoci modestamente di attendere. Saremmo solo d'ingombro ai prodi
che stanno battendosi sopracoperta. Pertanto non sarà nostro compito
accompagnare il ...° Reggimento oltre le porte della città, lasciando che il
maggiore O'Dowd compia il suo dovere per ritornare a sua moglie, alle altre
signore e ai bagagli.
Il maggiore e la Consorte, non essendo stati invitati al ballo al quale, nel
capitolo precedente, avevano preso parte altri nostri amici, ebbero agio di
riposarsi molto meglio di coloro che, oltre a compiere il loro dovere, smaniavano
di divertirsi. «Sono convinto, cara Peggy,» disse il maggiore tirandosi
placidamente sul capo il berretto da notte, «che fra un paio di giorni dovremo
ballare un certo ballo di cui molti fra quei signori non hanno mai sentito la
musica.» E, dopo essersi bevuto in pace un buon bicchiere, era molto più
soddisfatto di andarsene a dormire, che di prender parte a qualsiasi genere di
festeggiamento. Peggy, dal canto suo avrebbe probabilmente gradito di poter
approfittare del ballo per sfoggiare il suo turbante giallo e relativo uccello del
paradiso, ma le notizie che le aveva dato suo marito la indussero a meditare su
pensieri molto più gravi.
«Per favore, svegliami mezz'ora prima dell'adunata,» disse il maggiore a sua
moglie. «Chiamami all'una e mezzo e preparami la roba, se non ti spiace.
Potrebbe darsi che non tornassi per colazione, Mrs. O'Dowd.» E dopo aver
pronunciato queste parole, che stavano a significare come a suo parere il
reggimento si sarebbe messo in marcia la mattina seguente, il maggiore tacque e
si addormentò.
Mrs. O'Dowd, in diavolini e corpetto, da brava moglie qual era comprese
che in quel momento il suo dovere era agire, non dormire. «Per dormire ci sarà
tempo quando Mick sarà partito,» pensò. Così gli preparò il bagaglio, gli spazzolò
la giubba, il berretto e gli altri indumenti militari, poi li dispose in bell'ordine,
pronti per essere indossati. Da ultimo infilò nella tasca del cappotto un piccolo
involto con qualcosa da mangiare per il viaggio e una fiaschetta impagliata piena
di un Cognac forte, sano, di ottima qualità, che lei e il marito apprezzavano in
modo affatto particolare. Poi, non appena le lancette del suo orologio segnarono
l'una e mezza, e la suoneria (pareva quella dell'orologio di una cattedrale, diceva
spesso la sua proprietaria) suonò l'ora fatale, Mrs. O'Dowd svegliò il maggiore,
dopo di che bevve con lui una buona tazza di caffè, non dissimile da tante altre
che quella mattina furono bevute a Bruxelles. E chi mai oserebbe affermare che i
preparativi messi in atto da quella semplice e brava donna manifestassero un
affetto meno profondo dei fiumi di lacrime e degli attacchi isterici coi quali altre
donne meno salde di nervi esternarono il loro attaccamento, o che il rito frugale di
sorbire insieme una tazza di caffè, mentre le trombe suonavano l'adunata e in tutti
i quartieri della città rullavano i tamburi, non fossero molto più utili e intonati alle
circostanze di altre più conclamanti estrinsecazioni amorose?
Fatto sta che il maggiore comparve all'adunata fresco, lindo e in forma e
che, una volta in sella al suo cavallo, il suo volto roseo e ben rasato ispirò allegria
e fiducia a tutto il battaglione. Gli ufficiali salutarono la moglie del maggiore,
mentre il reggimento sfilava sotto il balcone al quale si trovava affacciata qualche
donna coraggiosa, che ricambiava il loro saluto mentre passavano. E mi
permetterei di avanzare l'ipotesi che Peggy O'Dowd si rassegnava a non condurre
di persona in battaglia il ...° Reggimento, non per mancanza di coraggio, ma per
un senso di delicatezza e di dignità femminili.
La domenica, o in altre occasioni solenni, Mrs. O'Dowd indugiava a leggere
qualche pagina di un grosso volume di sermoni dello zio decano. (quel libro le era
stato di grande aiuto morale quando, durante il viaggio di ritorno dalle Indie
Occidentali, la nave sulla quale viaggiavano per poco non aveva fatto naufragio.
Di conseguenza, non appena il reggimento fu partito, ella lo prese onde leggere e
meditare. Può darsi che non comprendesse perfettamente ciò che leggeva, o che i
suoi pensieri fossero volti altrove; ma dormire quando il berretto da notte del suo
Mick era ancora li, posato sul guanciale, le era proprio impossibile. Così va il
mondo: Jack e Donald se ne partono verso la gloria col sacco sulle spalle, e
marciano spediti sul motivo di La ragazza che ho lasciato, mentre chi rimane ha
tutto il tempo di pensare, di ricordare, di soffrire.
Mrs. Rebecca, perfettamente consapevole di quanto i rimpianti fossero
inutili, e come l'abbandonarsi al sentimento sia solo fonte d'infelicità, molto
saggiamente decise di non abbandonarsi a manifestazioni di dolore, e affrontò la
separazione dal marito con stoicismo quasi spartano. Per dire la verità, il capitano
Rawdon soffri per quella separazione molto di più della risoluta donnina alla
quale aveva dovuto dire addio. Mai, in tutta la sua vita, era stato felice come negli
ultimi mesi, dopo il matrimonio. La moglie era riuscita ad aver ragione della sua
natura rozza e grossolana, e lui l'amava, l'adorava, la rispettava, dando fondo ai
migliori sentimenti di cui era capace. Tutti i piaceri che aveva conosciuto prima,
alle corse, alla mensa ufficiali, a caccia, al tavolo da gioco; tutte le sue lontane
marachelle amorose con sartine e ballerinette dell'Opera, ed altri consimili
successi di quell'Adone in divisa, diventavano ben misera cosa in confronto alle
legittime gioie maritali che aveva apprezzato ultimamente. Lei sapeva come farlo
divertire, ed egli la ricambiava dando prova di gradire la propria casa e la
compagnia della consorte di gran lunga più piacevole di qualsiasi luogo, di
qualsiasi casa avesse mai frequentato dall'infanzia a oggi.
Imprecava contro le follie del passato, malediceva gli scialacquii e
soprattutto si doleva per gli innumerevoli debiti tuttora insoluti: situazione,
questa, che impediva alla moglie di fruire di una posizione più elevata in società.
Era, questo, un ricorrente argomento delle loro conversazioni notturne mentre da
scapolo non gli era mai passato per il cervello di darsene pensiero. (questo
fenomeno non mancava di stupirlo. «Maledizione!» diceva, (quando non ricorreva
ad espressioni più «forti» fra quante gliene consentiva il suo scarno vocabolario).
«Prima di sposarmi non m'importava un fico di firmare cambiali, e finché Moses
era disposto ad aspettare o Levy rinnovava per tre mesi, continuavo
tranquillamente ad infischiarmene. Ma da Quando mi sono sposato. ti giuro che
non ho più toccato una sola cambiale (eccetto, beninteso, per rinnovarle.)»
Rebecca sapeva a quali espedienti ricorrere per fargli superare quelle crisi di
malinconia. «Tesoro mio,» diceva, «sei proprio uno scioccone. Non abbiamo
perso ancora tutte le speranze con la zia. E se anche la zia non cedesse, non
abbiamo forse quella che tu chiami la "Gazette"?» Oppure... stammi a sentire: ho
un'idea per quando tuo zio Bute morirà. Il beneficio ecclesiastico è sempre
spettato al fratello minore, e tu perché non dovresti vendere il tuo brevetto di
capitano e entrare nelle gerarchie della chiesa?»
L'idea di questa metamorfosi fece scoppiare Rawdon in una risata così
fragorosa, che nel silenzio della notte rimbombò per tutto l'albergo. Anche il
generale Tufto, dalla sua camera al piano superiore, udì gli ah! ah! ah! della
grossa voce del dragone. A colazione, poi, Rebecca rifece spiritosamente tutta la
scena per il diletto del generale, e arrivò al punto d'improvvisare, lì sui due piedi,
il primo sermone di Rawdon.
Ma questi discorsi appartenevano ormai alle giornate trascorse. Quando
arrivò la notizia definitiva che la campagna era iniziata, e giunse
contemporaneamente l'ordine di mettersi in marcia, Rawdon si fece così serio ed
inquieto che Rebecca lo prese in giro, e quasi offese la suscettibilità del nostro
ufficiale della Guardia. «Non crederai che abbia paura, Becky,» le disse con un
tremito nella voce. «Ma sono un bersaglio abbastanza visibile perché sia facile
prendermi di mira; e se vado all'altro mondo lascio una persona (o fors'anche due)
alle quali sarei stato felice di provvedere, dal momento che sono stato io a
metterle nei pasticci. Quindi non direi che la cosa sia molto comica, cara Mrs.
Crawley.»
Rebecca cercò di sedare l'irritazione del marito con moine e carezze. Solo
quando l'innato senso dell'umorismo aveva la meglio su di lei (ed era una
circostanza che si verificava spesso), quella gaia creatura si metteva a far dello
spirito; ma sapeva anche assumere un'aria compunta. «Amore mio, pensi forse
che anch'io non sia inquieta?» disse, tergendosi qualcosa dagli occhi che,
verosimilmente, doveva trattarsi di lacrime; poi alzò lo sguardo e fissò il marito
con un sorriso.
«Senti,» disse Rawdon, «facciamo il conto di quel ch'io posso lasciare, caso
mai dovessi rimetterci la pelle. Ho avuto abbastanza fortuna al gioco, e qui ci
sono duecentotrenta sterline. Dei dieci napoleoni che ho in tasca, ne ho a
sufficienza. Tanto il generale offre sempre di tasca sua. Se poi ci rimarrò secco, il
problema sarà risolto perché non avrò più bisogno di niente. Non piangere, bimba
mia. Può anche darsi che campi così a lungo da farti stancare di me. Non porterò
con me nessuno dei miei cavalli: prenderò quello grigio del generale. È una
soluzione molto più conveniente, e del resto gli ho già detto che il mio è zoppo.
Se non torno, potrai vendere i due cavalli e ricavarne una bella sommetta. Giggs
ieri mi ha offerto novanta sterline per la cavalla, prima che arrivasse questa
malaugurata notizia, ed io sono stato così stupido da non cederla per una cifra che
non avesse due zeri. Bullfinch ti renderà il suo valore in qualsiasi momento, ma
sarebbe meglio che cercassi di venderlo qui, perché in Inghilterra ho in
circolazione troppe cambiali: meglio quindi sbarazzarsene qui. Anche la giumenta
che ti ha regalato il generale vale qualcosa, e poi qui non ci sono da pagare tutti
quei dannati conti di scuderia che a Londra ci rovinano. Poi c'è quel servizio da
toilette che ho pagato duecento sterline, i flaconi col tappo d'oro ne varranno
almeno trenta o quaranta. Ti prego di includere anche questo nell'elenco, insieme
con le mie spille, gli anelli, l'orologio, la catena d'oro c quanto ancora rimane.
Sono costati un pozzo di quattrini. So che Miss Crawley ha pagato cento sterline
solo per la catena e l'orologio. Flaconi col tappo d'oro. Proprio così! Adesso mi
pento di non aver comperato altre cose. Edwards aveva insistito perché
comperassi un calzastivali d'argento, e avrei anche potuto comperarmi un servizio
con lo scaldaletto d'argento. Bisogna accontentarsi e cercare di ricavare il
massimo da quel che abbiamo.
E così, nel dare le ultime disposizioni, il capitano Crawley, che fino al
momento in cui Amore non lo aveva soggiogato con le sue frecce aveva pensato
solo a se stesso, continuò l'elenco di tutti i suoi effetti personali per stabilire quale
somma la moglie avrebbe potuto ricavarne qualora gli fosse capitata una
disgrazia. Si diverti ad annotare a matita, con la sua rozza scrittura infantile, tutti i
beni che, una volta venduti, avrebbero reso un po' di denaro alla vedova. «La
carabina di Manton, per esempio: direi sulle quaranta ghinee; il mantello guarnito
di zibellino: circa cinquanta sterline; le pistole da duello nel loro astuccio di bois
de rose (quelle con cui ho ucciso il capitano Marker), bah... facciamo venti
sterline, la sella con la fondina d'ordinanza, la sella di Laurie...» E proseguì
nell'elenco di tutti gli oggetti che Rebecca si sarebbe trovata in eredità.
Coerente col proprio proposito di fare economia, il capitano indossò
l'uniforme e le spalline più vecchie e logore, affidando quella nuova a sua moglie
(che sarebbe potuta diventare la sua vedova). Fu così che il ben noto bellimbusto,
abituale frequentatore di Windsor e di Hyde Park, partì per la guerra con un
equipaggiamento modesto come quello di un sergente, e mormorando a fior di
labbra una specie di preghiera per la donna che si vedeva costretto a lasciare. La
sollevò da terra e per un istante la tenne stretta fra le braccia, col cuore che
pulsava all'impazzata; e quando la posò di nuovo a terra, aveva il viso acceso e gli
occhi velati. Fumando il sigaro, cavalcò silenzioso di fianco al generale,
procedendo a veloce andatura perché doveva raggiungere gli uomini della brigata
del generale che li precedevano. Solo quando ebbero percorso qualche miglio,
smise di torcersi i baffi e ruppe il silenzio.
Come abbiamo visto, Rebecca saggiamente aveva deciso di non dar la stura
a inutili sentimentalismi per la partenza del marito. Dalla finestra gli fece un
cenno di addio, e quivi indugiò qualche istante quando lui se ne fu andato. I
campanili delle chiese e i frontoni delle strane, vecchie case di Bruxelles
cominciavano a rosseggiare, illuminati dai raggi del sole nascente. Non aveva
dormito, quella notte. Indossava ancora il suo elegante abito da ballo, i capelli
biondi le scendevano in disordine giù per le spalle e aveva gli occhi segnati da
occhiaie per la veglia. «Sono un orrore!» pensò, guardandosi allo specchio,
«questo color rosa mi rende ancor più pallida.» Perciò si tolse il vestito rosa e nel
fare quel gesto le cadde un biglietto dal bustino. Con un sorriso lo raccolse e lo
chiuse a chiave nel suo cofanetto. Poi depose il mazzo di fiori in una caraffa
d'acqua e se ne andò a letto in un profondo sonno ristoratore.
Si svegliò verso le dieci e bevve il caffè (dopo la stanchezza e gli affanni che
le avevano causato gli eventi di quella mattina, un buon caffè andava a
meraviglia). Ormai la città era immersa nel silenzio.
Terminata la colazione, riprese a fare i calcoli che il buon Rawdon aveva
cominciato la notte avanti e considerò la propria situazione. Se fosse accaduto il
peggio, tutto sommato si sarebbe trovato in una discreta situazione. Oltre a ciò
che le aveva lasciato il marito c'erano il suo corredo e i suoi gioielli. Ci siamo già
intrattenuti sulla generosità di Rawdon al tempo delle loro nozze; ma oltre a tutto
questo e alla giumenta, il generale, suo schiavo e adoratore, le aveva fatto
bellissimi regali: scialli di cashemire comperati a un'asta dei beni della moglie di
un generale francese caduto in miseria e molti altri doni tutti provenienti da
botteghe di gioielliere, tutti eccellenti testimonianze della ricchezza e del buon
gusto del suo adoratore. Quanto poi ai tic-tac, come Rawdon era solito chiamare
gli orologi, la casa risuonava del loro ticchettio. Una sera Becky aveva detto
incidentalmente che l'orologio inglese donatole da Rawdon non funzionava molto
bene, e il mattino dopo aveva ricevuto un autentico gioiello, un orologio di marca
Leroy con catena e coperchietto adorno di turchesi, oltre a un secondo orologino,
un Breguet, tempestato di piccole perle, poco più grosso di mezza coronai Uno
l'aveva comperati, il generale Tufto, l'altro era un delicato pensiero del capitano
Osborne. Dal canto suo Mrs. Osborne non possedeva un orologio, tuttavia è
doveroso ammettere che, se Amelia glielo avesse chiesto, George non avrebbe
esitato a regalarglielo, e in quanto a Mrs. Tufto, in Inghilterra possedeva un
oggetto che avrebbe potuto servire da scaldaletto d'argento, al pari di quello che
aveva menzionato Rawdon. Se la ditta Howell & James dovesse pubblicare
l'elenco delle persone che comperano gioielli, quali sorprese si avrebbero in molte
famiglie! E se tutti questi preziosi ninnoli finissero alle mogli e alle figlie di
coloro che li acquistano, nelle più nobili case della Fiera della Vanità sarebbe tutta
una profusione di gioielli. Terminati i suoi conti, Mrs. Rebecca Crawley constatò,
non senza un vivo senso di soddisfazione e di sollievo, che in caso di necessità
avrebbe potuto ricominciare la vita da sola facendo assegnamento su almeno sei o
settecento sterline. Di conseguenza trascorse piacevolmente la mattinata
disponendo in bell'ordine i suoi oggetti, osservandoli, prendendoli in mano,
riponendoli. Nel portafoglio di Rawdon trovò, fra altre carte anche un assegno di
Osborne per venti sterlina La circostanza le fece venire in mente Mrs. Osborne.
«Andrò a incassare l'assegno,» pensò, «e poi andrò a far visita alla povera Emmy»
Siccome questo è un romanzo senza eroe, consentite almeno che abbia un'eroina.
Nessuno, fra quanti facevano parte dell'esercito inglese partito per il fronte fra
tante difficoltà e incertezze; nessuno, dicevo, nemmeno il duca di Wellington in
persona, era più freddo e sereno della piccola, indomabile moglie dell'aiutante di
campo.
Un altro, fra i nostri amici, rientrava nel novero di coloro che non partivano
per il fronte. Era un non-combattente, cosicché è nostro diritto sondarne le
emozioni e le reazioni. Si tratta di Jos, l'ex ricevitore di Boggley Wollah, il cui
riposo (come quello di ogni altro) venne bruscamente interrotto di primo mattino
dallo squillo delle trombe. Dal momento che era un dormiglione e gli piaceva
moltissimo poltrire a letto forse avrebbe continuato a dormire, ad onta di tutti i
tamburi e di tutte le cornamuse dell'esercito britannico, fino alla consueta ora
pomeridiana, se non fosse stato destato dal suo sonno. A svegliarlo non fu George
Osborne, che era troppo assorbito dai preparativi della partenza e dolente di
doversi separare dalla moglie per preoccuparsi di prender congedo dal cognato
dormiente, bensì il capitano Dobbin, che volle a tutti i costi stringergli la mano
prima di partire.
«Siete stato veramente gentile,» disse Jos sbadigliando, mentre in cuor suo
mandava al diavolo il capitano.
«Non... non potevo partire senza prima venirvi a salutare...» disse il capitano
esprimendosi in modo piuttosto confuso. «Voi comprenderete certo che... che
qualcuno di noi potrebbe anche non tornare... ed io ho piacere di... di vedervi tutti
in buona salute... insomma... capirete... è così.»
«Che cosa intendete dire?» chiese Jos stropicciandosi gli occhi.
Il capitano non udì affatto le sue parole; anzi, non vide nemmeno quel
grasso signore in berretto da notte per il quale stava manifestando un così vivo
interessamento. L'ipocrita stava invece cercando di vedere c di sentire ciò che
accadeva nelle stanze di George e camminava su e giù per la camera,
tamburellava con le dita, si mordicchiava le unghie, incespicava nelle sedie e le
faceva cadere, palesava insomma il suo forte stato emotivo.
Jos non aveva mai avuto un'alta opinione di Dobbin, ma ora lo colse il
dubbio che avesse paura.
«C'è qualcosa ch'io potrei fare per voi, capitano?» gli chiese in tono
sarcastico.
«Ve lo dico io cosa potreste fare,» rispose Dobbin, avvicinandosi al letto.
«State dunque attento a quel che vi dico. non allontanatevi di qui sino a quando
non saprete esattamente come vanno le cose; abbiate cura di vostra sorella,
confortatela e vegliate su di lei. Tenete presente che, se dovesse capitare qualcosa
a George, lei non ha nessuno al mondo a cui potersi affidare tranne voi. Se
dovessimo subire una sconfitta, pensate voi a riportarla sana e salva in Inghilterra
e datemi la vostra parola che non l'abbandonerete mai. So che non
l'abbandonerete, di questo mi sento sicuro. Quanto al denaro, ne avete sempre
speso con una certa generosità. Vi chiedo tuttavia se ne avete bisogno. Voglio
dire, ne avete a sufficienza per tornare in Inghilterra in caso di disgrazia?»
«Signore,» rispose Jos in tono solenne, «quando ho bisogno di denaro so
perfettamente come procurarmelo. In quanto a mia sorella, non avete nessun
bisogno di spiegarmi come debbo comportarmi con lei.»
«Sono parole in tutto degne di voi,» rispose Dobbin in tono affatto naturale e
cortese, «e mi conforta il fatto che George possa affidarla in mani così degne.
Quindi io potrò dargli la vostra parola d'onore che in caso di disgrazia voi non
l'abbandonerete?»
«E come no?» rispose Jos, del quale Dobbin aveva esattamente valutato la
generosità in fatto di denaro.
«E che procederete ad allontanarla da Bruxelles nell'eventualità di una
sconfitta?»
«Sconfitta? Ma non è il caso di considerare una simile ipotesi, per Giove!
Cercate forse di spaventarmi?» gridò l'eroe dal suo letto. Così Dobbin, sentendo
Jos esprimersi con tanta decisione circa l'atteggiamento che avrebbe assunto nei
confronti della sorella, si tranquillizzò. «Anche se dovesse accadere il peggio,»
pensò il capitano, «sarà sempre in grado di fuggire.»
Ad ogni modo, se il capitano Dobbin si aspettava di avere il conforto e la
consolazione di vedere ancora una volta Amelia prima della partenza, il suo
egoismo ebbe la punizione che meritava una siffatta, odiosamente egocentrica
concessione della vita. La porta della camera di Jos si apriva in un salottino che
serviva per tutta la famiglia e aveva di fronte la porta della camera da letto di
Amelia. Le trombe avevano svegliato l'intera città, non aveva più senso
nascondere la notizia. In quel salottino l'attendente di George era impegnato a
preparare i bagagli, e Osborne andava e veniva tra quel locale e la camera da letto
gettandogli tutto ciò che a suo giudizio poteva tornargli utile in guerra. Ben presto
Dobbin vide concretarsi quell'occasione che nel segreto del suo cuore desiderava
tanto ardentemente: rivedere una volta ancora il volto di Amelia. Ma quale volto!
Un volto così pallido e pervaso di cupa disperazione, che Dobbin vedendolo, fu di
nuovo assalito dal rimorso, come se avesse commesso un delitto. Quella visione
lo colmo di angoscia, e al tempo stesso di commossa pietà.
Amelia era avvolta in una vestaglia bianca, i capelli sciolti sulle spalle, i
grandi occhi fissi e vitrei. Per offrire il suo aiuto e dimostrare che anche lei sapeva
comportarsi a dovere in un momento tanto critico, la povera infelice aveva
prelevato una fusciacca di George dal cassetto ove si trovava, e con quell'oggetto
in mano lo seguiva innanzi e indietro osservando i preparativi senza dir parola.
Poi uscì dalla stanza e si appoggio alla parete, sempre tenendosi quella fusciacca
stretta al petto dal quale la striscia cremisi ricadeva come una lunga macchia di
sangue. Guardandola, il nostro buon capitano pensò: «Mio Dio, come posso osare
di accostarmi a un dolore come questo?» Non era possibile aiutarla; recare
conforto a quella muta, desolante disperazione. Indugiò in piedi a contemplarla
per qualche istante, impotente e col cuore esulcerato dalla pietà, come un padre
che assista impotente alle sofferenze della propria creatura.
Alla fine George prese Emmy per mano, la condusse in camera da letto e da
questa uscì, poco dopo, solo. Si dissero addio in quel breve lasso di tempo. Poi
George partì.
«Grazie a Dio, questa è finita,» si disse George mentre scendeva le scale a
precipizio, con la sciabola sotto braccio, e accorreva verso il luogo di adunata del
reggimento, e verso il quale affluivano ufficiali e soldati, provenienti dai loro
alloggi. Aveva le guance accese, il cuore gli pulsava veloce nel petto. La grande
partita della guerra stava per iniziare, ed egli era uno dei giocatori. Quale
esaltazione, quale gioia, quanti dubbi e quante speranze! Quale rischio tremendo,
si trattasse di perdere o di vincere! Cos'erano mai tutti i giochi d'azzardo coi quali
si era cimentato, in confronto a questo che stava per affrontare? Fin dall'infanzia
si era sempre buttato coraggiosamente in tutte le gare che richiedessero coraggio e
forza fisica, riscuotendo il plauso dei suoi compagni: dalle partite di cricket alle
gare di guarnigione, aveva riscosso innumerevoli trionfi.. Ovunque andasse,
suscitava l'ammirazione di uomini e donne. Esistono forse qualità capaci di
riscuotere un successo immediato e spontaneo come quelle direttamente connesse
alla superiorità fisica? Da tempo immemorabile bardi e romanzieri esaltano nelle
loro opere la forza e l'ardimento, e dal tempo della guerra di Troia sino ad oggi,
per i poeti gli eroi sono i soldati. Chissà se gli uomini ammirano tanto il coraggio,
e collocano il valore militare al di sopra di altre qualità ben altrimenti meritorie e
degne di ammirazione perché in cuor loro sono dei codardi?
Sta di fatto che, al suono di quell'appassionante richiamo alla battaglia,
George si sottrasse al tenero abbraccio in cui aveva a lungo indugiato (sebbene il
fascino che sua moglie esercitava su di lui fosse assai modesto) e, tutto sommato,
provò una certa vergogna per avervi ceduto così a lungo. Anche altri suoi amici,
sui quali è occasionalmente caduto il nostro sguardo, provavano lo stesso
sentimento di esaltazione e di elettrizzata attesa, dal corpulento maggiore che
guidava il reggimento in battaglia al piccolo Stubble, che quel giorno fungeva da
portabandiera.
Il sole si levò nel momento stesso in cui si mettevano in marcia, e lo
scenario era stupendo: la banda in testa alla colonna intonava la marcia del
reggimento. Seguiva il maggiore, in sella a Piramo, il suo grosso stallone, poi i
granatieri guidati dal loro capitano. Al centro sfilavano le bandiere sorrette dagli
alfieri giovani e anziani, poi veniva George alla testa della sua compagnia. Alzò la
testa, sorrise ad Amelia e scomparve. Poi anche l'eco della musica svanì in
lontananza.
XXXI • NEL QUALE JOS SEDLEY SI PRENDE CURA DELLA
SORELLA
Dal momento che ormai tutti gli ufficiali superiori erano partiti, Jos Sedley
rimase al comando della piccola colonia di Bruxelles: Amelia invalida, il
domestico belga Isidor, la bonne che fungeva da domestica tuttofare per l'intera
famiglia, costituivano la guarnigione alle sue dirette dipendenze. Sebbene
l'inopinata visita di Dobbin e gli eventi della mattinata lo avessero maldisposto
rovinandogli altresì il riposo, Jos indugiò parecchie ore a letto perfettamente
sveglio a crogiolarsi nel calduccio delle coltri, finché giunse l'ora in cui era solito
alzarsi. Il sole splendeva già alto nel cielo, e prima che il nostro borghese si
presentasse a colazione in veste da camera a fiori, i nostri valorosi amici del ...°
Reggimento avevano già alle spalle parecchie miglia di marcia.
Non solo l'assenza del cognato George non lo turbava minimamente, ma al
contrario se ne compiaceva, perché quando Osborne era presente a lui spettava il
secondo posto in famiglia, e George non si peritava di manifestare il suo
disprezzo nei confronti di quel grasso borghese. Ma Emmy, con lui, era sempre
stata gentile e gli aveva dato prova di ogni sorta di attenzioni. Era lei che si
preoccupava di garantirgli le comodità alle quali era assuefatto, era lei a fargli
preparare i cibi preferiti, e andava a passeggio o in carrozza con lui (anzi, aveva
innumerevoli occasioni di andare a spasso con suo fratello, perché dov'era mai
George?) o interponeva il suo dolce viso tra la collera di Jos e lo scherno di
Osborne. Si era persino arrischiata a muovere qualche timido rimprovero a
George in difesa del fratello; ma suo marito, con quei modi bruschi che gli erano
congeniali, aveva drasticamente posto fine alle rimostranze di Amelia dicendole:
«Sono un uomo schietto, io e non riesco a nascondere quello che penso. Come
diavolo puoi pretendere che rispetti un imbecille come tuo fratello?» Ecco perché
Jos si rallegrava in cuor suo che George se ne fosse andato. La vista del cappello
da borghese e dei guanti di suo cognato posati sul davanzale, uniti alla
consapevolezza che il loro legittimo proprietario si era tolto dai piedi, suscitarono
in Jos un brivido di piacere. «Almeno stamane non sarò infastidito dalla sua
improntitudine e da quelle sue arie da gran signore,» pensò.
«Portate il cappello del capitano in anticamera, Isidor,» ordinò al domestico.
«Chissà, può anche darsi che non ne abbia più bisogno,» rispose Isidor
rivolgendo al suo padrone uno sguardo d'intesa. Anche lui detestava George, il
quale aveva sempre avuto nei suoi confronti un atteggiamento insolente, di
stampo prettamente britannico.
«E chiedete alla signora se viene a far colazione con me,» aggiunse Mr.
Sedley, seccato di aver apertamente palesato agli occhi di un domestico la sua
antipatia per il cognato. Ma in realtà, già in altre occasioni aveva sparlato con lui
di George.
Ahimè, la signora non poteva venire a colazione e tagliare le tartines che
piacevano tanto a Mr. Jos. La signora, riferì la bonne, si sentiva troppo male: da
quando il marito era partito versava in uno stato da far pietà. Jos, per manifestare
la sua comprensione, le versò una bella tazza di te. Era il suo modo di darle una
prova lampante di quanto sapesse mostrarsi cortese nei suoi confronti. Ma non si
limitò a quel gesto: non solo le mandò la colazione ma si preoccupò delle
leccornie che Emmy avrebbe potuto gradire per pranzo.
Isidor aveva indugiato a guardare con aria cupa l'attendente di George,
mentre si affannava a preparare il bagaglio del suo padrone prima della partenza.
Odiava Osborne, perché il suo modo di comportarsi verso di lui, come in genere
verso tutti i subalterni, era spesso intollerabile (occorre tener presente che i
domestici del continente, meno remissivi dei loro colleghi inglesi, non ammettono
di essere trattati con insolenza). Inoltre lo indisponeva l'idea che tanti oggetti di
valore gli venissero sottratti per finire in altre mani al momento della sconfitta
inglese: una sconfitta sulla quale, sia lui che tante altre persone a Bruxelles e in
tutto il Belgio, non nutrivano il minimo dubbio. Quasi tutti pensavano che
l'imperatore avrebbe disgiunto l'esercito inglese da quello prussiano, avrebbe
sgominato prima l'uno e poi l'altro, dopo di che avrebbe marciato su Bruxelles
prima che fossero trascorsi tre giorni. E allora tutti i valori che attualmente
appartenevano ai suoi padroni (destinati ad essere uccisi, o ad esser fatti
prigionieri, o a fuggire a rotta di collo) sarebbero passati nelle mani di Monsieur
Isidor.
Ecco pertanto che, mentre assisteva Jos nella sua complessi e faticosa
toeletta quotidiana, il pensiero del fido servitore era rivolto all'uso che avrebbe
fatto degli indumenti e degli oggetti coi quali, momentaneamente, stava facendo
bello il sul padrone. I flaconi da profumo d'argento e le altre suppellettili da
toeletta sarebbero serviti per farne omaggio a una gentili fanciulla della quale era
invaghito, mentre avrebbe tenuto per sé la grossa spilla di rubini e il servizio di
coltelli inglesi. Con una di quelle belle camicie pieghettate, col berretto gallonate
d'oro, la giacca adorna di alamari che si sarebbe facilmente potuta modificare
adattandola alle sue misure, il bastone da passeggio del capitano col pomo dorato,
il grosso anello di rubini che avrebbe fatto trasformare in orecchini, il caro Isidor
sarebbe diventato un perfetto Adone, tale da fare di Mademoiselle Reine una
facilissima preda. «Come mi doneranno questi gemelli!» pensava, mentre ne
allacciava un paio intorno ai polsi grassocci di Mr. Sedley. «Un paio di gemelli mi
ci vorrebbero proprio. E gli stivali del capitano! Quelli con gli speroni rimasti
nell'altra stanza! Corbleu, che fior di figura mi faranno fare sull'Allée Verte!»
Così, mentre Monsieur Isidor radeva il suo padrone reggendogli il naso con la
punta delle dita, con gli occhi della fantasia già si vedeva passeggiare su e giù per
l'Allée Verte in berretto gallonato e giacca adorna di alamari. E in compagnia,
beninteso, di Mademoiselle Reine. Con la mente sostava lungo gli argini sotto le
fresche ombre degli alberi, contemplando il lento transito delle chiatte che
scendevano i canali, oppure si ristorava con un buon bicchiere di Faro al banco
della birreria della strada per Laeken.
Ma, ed è una fortuna per la sua intima serenità, Jos non sospettava
minimamente quali propositi passassero per la mente del suo domestico, così
come io e i miei cortesi lettori non ci sogniamo di sapere quali idee passino per la
testa di John o di Mary, ai quali paghiamo il salario. Se sapessimo quali pensieri i
nostri cari parenti, o comunque le persone che hanno rapporti di dimestichezza
con noi, coltivano nei nostri riguardi, saremmo felicissimi di trasferirci in un
mondo completamente diverso giacché ci troveremmo a vivere in preda al terrore
e in condizioni di spirito né più né meno insopportabili. Così il domestico di Mr.
Jos stava contrassegnando la sua vittima, proprio come un cameriere del ristorante
di Mr. Paynter in Leadenhall Street adorna il collo di un'ignara tartaruga di
cartellino sul quale sta scritto: «Domani, zuppa di tartaruga.»
Al contrario, la cameriera di Amelia non coltivava propositi tanto egoisti.
Del resto, pochi dipendenti potevano accostarsi a quella fanciulla così dolce e
gentile senza accordarle quel tributo di lealtà e di affetto ch'ella si meritava in
virtù del suo carattere affettuoso e lietamente disposto verso il prossimo. Non c'è
dubbio che Pauline, la cuoca, consolasse la sua padrona assai più di chiunque
altro potesse o sapesse fare in quell'infausta mattinata. Infatti, constatando che
Amelia aveva indugiato per ore silenziosa, immobile e stravolta, davanti alla
finestra dalla quale aveva visto sparire le ultime baionette della colonna in marcia,
la brava ragazza prese la mano della padrona e le disse: Tenez, madame, est-ce
qu'il n'est pas aussi à l'armée, men homme à moi?». Dopo di che era scoppiata in
un pianto dirotto, mentre Amelia, gettandosi fra le sue braccia, aveva fatto
altrettanto, e così si erano compiante e consolate a vicenda.
Più di una volta nel corso del pomeriggio, Isidor si era recato in città,
sostando davanti agli alberghi e alle pensioni nelle adiacenze del parco, ove
alloggiavano gli inglesi; e là, mescolato ad altri domestici e servitori andava
raccogliendo le notizie che circolavano di bocca in bocca, per poi tornare dal suo
padrone informandolo con ripetuti bollettini. Si può senz'altro affermare che quasi
tutti questi messeri erano schierati dalla parte dell'imperatore e avevano opinioni
affatto personali circa la rapida conclusione della campagna. Il proclama che
l'imperatore aveva lanciato ad Avesnes era stato distribuito in numerosissime
copie in tutti i quartieri di Bruxelles. «Soldati!» diceva «oggi ricorre l'anniversario
delle battaglie di Marengo e di Friedland, là ove si e deciso il destino d'Europa.
Allora, come dopo Austerlitz, come dopo Wagram, ci siamo comportati con
troppa magnanimità. Abbiamo creduto ai giuramenti e alle promesse dei principi
che abbiamo lasciato sui loro troni. Ebbene: ora marciamo una volta ancora
contro costoro. Non siamo forse, noi e loro, gli stessi uomini? Soldati, gli stessi
prussiani che oggi ostentano tanta arroganza, erano tre volte più numerosi di noi a
Jena, sei volte a Montmirail. Quanti fra voi sono stati prigionieri in Inghilterra
potranno narrare ai loro commilitoni quali spaventosi tormenti abbiano patito a
bordo delle navi inglesi. Insensati! Sono stati accecati da un momento fugace di
fortuna, e se varcheranno il confine della Francia sarà solo per trovarvi la morte!»
Ma i sostenitori dell'imperatore preconizzavano uno sterminio dei suoi nemici
ancor più repentino, ed erano certi che prussiani e inglesi avrebbero fatto ritorno
solo come prigionieri al seguito dell'armata conquistatrice.
Queste opinioni, ripetute con insistenza a Mr. Sedley nel corso di quella
giornata, finirono col produrre un certo effetto. Gli venne infatti riferito che il
duca di Wellington si era portato sulla linea del fronte nel tentativo di radunare i
resti del suo esercito, che la notte precedente era stato completamente sconfitto.
«Sconfitto. Figuriamoci!» esclamò Jos che all'ora di colazione appariva
abbastanza ottimista. «Il duca è andato a debellare l'imperatore, esattamente come
ha debellato tutti i suoi generali prima di lui!»
«Hanno già bruciato tutti i suoi documenti, portato via i suoi effetti
personali. Inoltre stanno preparando la casa dove alloggiava per farne la residenza
del duca di Dalmazia,» ribatté a Jos il suo zelante informatore, «Me lo ha detto il
suo maître d'hôtel. Anche la servitù di Sua Grazia il duca di Richmond sta
preparando i bagagli. Il duca è già fuggito e la duchessa attende solo che sia stata
imballata l'argenteria per raggiungere il re di Francia a Ostenda.
«Il re di Francia si trova a Gand, mio caro,» osservò Jos, mostrandosi
incredulo.
«La scorsa notte si è rifugiato a Bruges e oggi s'imbarca per Ostenda. Il duca
di Berry è stato fatto prigioniero. Chi vuoi scappare è meglio che si affretti,
perché domani stesso verranno aperte le dighe, e chi potrà darsi alla fuga quando
l'intero paese sarà allagato?»
«Stupidaggini. Siamo tre contro uno, quali che siano le forze messe in
campo da Napoleone,» rispose Mr. Sedley. «Le armate russe e austriache sono già
in marcia. Napoleone dov'essere battuto, e lo sarà,» concluse, battendo il pugno
sul tavolo.
«Anche a Jena i prussiani erano tre contro uno, ma lui li ha fatti fuori e nel
giro di una settimana si è impadronito di tutto il regno. Erano in sei contro uno a
Montmirail, e li ha fatti scappare come un branco di pecore. Già; sta arrivando
l'esercito austriaco. E come no? Ma chi li comanda? L'imperatrice e il re di Roma!
Quanto ai russi, poi! Quelli se la daranno a gambe. Non bisogna dar tregua agli
inglesi, che sulle loro navi maledette si sono comportati così crudelmente coi
nostri prigionieri! Guardate: sta scritto proprio qui, nero su bianco. Questo è il
proclama di Sua Maestà l'Imperatore e Re!» esclamò il domestico, che ormai non
si curava punto di nascondere la sua solidarietà con Napoleone. Levò di tasca il
documento e lo schiaffò sotto il naso del padrone: si sentiva già proprietario
dell'abito, degli alamari, di tutti gli oggetti di pregio.
Jos, pur non sentendosi seriamente allarmato, pure era abbastanza scosso da
quelle notizie.
«Datemi la giacca e il berretto,» ordinò, «e seguitemi. Voglio andare di
persona ad informarmi per controllare cosa vi sia di vero in queste notizie.»
Quando Jos indossò la casacca con gli alamari Isidor era furibondo.
«Milord farebbe meglio a non mostrarsi con una giacca simile,» disse, «è un
indumento militare e i francesi hanno giurato di massacrare fino all'ultimo soldato
inglese.»
«Tacete!» gli ingiunse Jos, e con incrollabile determinazione infilò il braccio
nella manica. Mentre compiva quel gesto ardimentoso, fu sorpreso da Mrs.
Crawley, che in quella funesta circostanza era venuta a far visita ad Amelia ed era
penetrata in anticamera senza annunciarsi suonando il campanello.
Come di consueto, Rebecca era vestita con molta proprietà e raffinatezza Il
sonno profondo che si era concessa dopo la partenza di Rawdon l'aveva alquanto
rinfrancata, e faceva davvero piacere osservare le sue guance rosse e sorridenti in
quella giornata nella quale l'aspetto di ciascuno rivelava uno stato di profonda
ansietà e malinconia. Nel sorprendere Jos in quell'atteggiamento fu colta da uno
scoppio di risò, e infatti fu solo con molti sforzi e contorcimenti che il grasso
signore riuscì finalmente a indossare la sua giacca adorna di alamari.
«Intendete forse arruolarvi, Mr. Joseph? Non rimarrà dunque anima viva, a
Bruxelles, per vegliare su di noi, povere donne indifese?» Jos, uscito trionfatore
dai reiterati tentativi di penetrare nella giacca, avanzò verso la vezzosa visitatrice
arrossendo e balbettando parole di scusa. Come stava la signora dopo gli
avvenimenti del mattino e dopo le fatiche del ballo svoltosi la notte precedente?
Frattanto Isidor si dileguava nell'adiacente camera da letto, reggendo in mano la
veste da camera a fiori del suo padrone.
«Siete veramente gentile,» rispose Rebecca, stringendo nella sua la mano di
Jos. Mi sembrate molto tranquillo e compassato in un momento in cui tutti si
lasciano cogliere dal panico. E ditemi, come sta la cara, piccola Emmy? Il
distacco dov'essere stato veramente terribile!»
«Sì, terribile,» confermò Jos.
«Voi uomini sapete sopportare ogni cosa,» continuò Mrs. Crawley. «La
separazione, il pericolo sono ben poca cosa per voi. Suvvia, ammettete che stavate
per aggregarvi all'esercito, abbandonandoci al nostro destino. Sì, stavate per farlo:
qualcosa mi dice che stavate per farlo. Quando sono stata colta da questo dubbio,
mi ha percorsa un brivido di spavento (sapete, Mr. Jos, talvolta mi accade di
pensare a voi, quando sono sola); così mi sono precipitata col proposito di
pregarvi, di supplicarvi... Non abbandonateci, ve ne scongiuro!»
Questo bel discorsetto poteva essere interpretato nei seguenti termini: «Caro
signore, se la fortuna non arridesse al nostro esercito e fosse necessario ritirarci,
voi avete una confortevole carrozza nella quale sarei veramente lieta che mi
riservaste un posto.» Non so se Jos capisse esattamente l'antifona. Certo, si era
veramente mortificato dall'indifferenza che la signora in questione, durante
l'intero soggiorno a Bruxelles, aveva ostentato nei suoi riguardi. Non era mai stato
presentato a uno solo tra i nobili amici dei Crawley, e ben di rado era stato
ammesso ai ricevimenti di Rebecca. Giocatore alquanto timoroso e circospetto,
non si lasciava mai andare a grosse puntate, e la sua presenza tediava sia George
sia Rawdon, fors'anche perché né l'uno né l'altro desiderava che qualcuno
presenziasse al loro passatempo preferito. «Eh già,» pensò Jos, «ora che ha
bisogno di me, si ricorda della mia esistenza. In mancanza di meglio, ecco che le
torna in mente il povero vecchio Joseph Sedley.» Però, nonostante queste
perplessità, si sentì molto lusingato dalle espressioni che Rebecca aveva usato
circa il suo presunto coraggio. Si fece ancor più rosso e disse con molto sussiego:
«Anch'io in effetti vorrei prender parte all'azione. Chiunque abbia un briciolo di
fegato non può non desiderarlo. In India ho fatto un poco di servizio militare, ma
niente di paragonabile a un evento simile.»
«Voi uomini siete pronti a immolare qualunque cosa sull'altare del vostro
piacere personale,» disse Rebecca. «Stamane il capitano Crawley mi ha lasciato
felice e contento come se si fosse accinto ad andare a una partita di caccia. Cosa
gliene importa? Cosa importa a chiunque di voialtri dello strazio e delle torture di
una povera donna sola e reietta? (Chissà se è proprio vero che voleva arruolarsi,
questo ghiottone, questo pigrone!) Sì, caro Mr. Sedley, sono venuta da voi alla
ricerca di un poco di conforto, di consolazione. Ho trascorso l'intera mattinata in
ginocchio. Tremo al pensiero dello spaventoso pericolo che stanno correndo i
nostri mariti, i nostri amici, tutto il nostro esercito. Ebbene, nel momento in cui
vengo qui in cerca di rifugio, cosa scopro? Che l'ultimo dei nostri amici, l'ultimo
che mi resti, vuole anch'egli lanciarsi in questa mischia terrificante!»
«Mia cara signora,» prese a dire Jos, ormai completamente ammansito, «non
è il caso che vi allarmiate. Ho detto semplicemente che mi piacerebbe andarci.
Quale inglese non condivide in questo momento la mia aspirazione? Ma il mio
dovere mi trattiene qui: non posso abbandonare l'infelice creatura che sta in quella
camera.» E col dito indicò la porta della stanza nella quale si trovava Amelia.
«Un fratello veramente buono, d'animo veramente nobile!» uscì a dire
Rebecca portandosi il fazzoletto agli occhi e aspirando l'aroma d'acqua di colonia
del quale era impregnato. «Ho formulato su di voi un giudizio temerario. Avete
un cuore, dunque. Ed io che pensavo non lo aveste!»
«È vero,» confermò Joseph, facendo un gesto col quale sembrava volesse
portar la mano all'altezza del punto in questione, «voi, cara Mrs. Crawley, non mi
rendete giustizia.»
«Proprio così. Sta di fatto che ora il vostro cuore parla per vostra sorella. Ma
ricordo che due anni or sono non ha parlato per me,» rispose Rebecca fissandolo
per qualche istante e poi distogliendo rapidamente lo sguardo in direzione della
finestra.
Jos si coperse di rossore. Il cuore - quel cuore che Rebecca lo accusava di
non possedere - prese a pulsare con violenza. Gli torno alla mente il tempo in cui
l'aveva sfuggita, la passione che lo aveva infiammato... i giorni in cui l'aveva
condotta a passeggio in carrozza. Rammentò la borsa di maglia verde ch'ella
aveva confezionato appositamente per lui, la volta in cui aveva indugiato a
contemplare, estasiato, le candide braccia e i lucenti occhi di lei.
«Lo so, voi mi giudicate un'ingrata,» riprese Rebecca scostandosi dalla
finestra, tornando a guardarlo e parlando in tono tremulo e sommesso. «Tutto lo
conferma: la vostra freddezza nei miei riguardi, l'atteggiamento che avete assunto
di recente, ed anche poc'anzi, quando sono entrata in casa vostra. Ma non avevo
forse valide ragioni per evitarvi? Lasciate al vostro cuore di rispondere a questa
domanda. Pensate forse che mio marito fosse particolarmente incline ad
accogliervi? Le uniche parole poco obbliganti ch'io abbia sentito profferire dalla
sua bocca (debbo rendere questa giustizia al capitano Crawley) sono state per
voi... e sono state parole molto, molto, molto aspre, potete credermi.»
«Mio Dio, quali saranno mai i miei torti» pensò Jos in un misto di piacere e
di perplessità: «Cos'ho mai fatto per... per...»
«Secondo voi la gelosia non esiste?» disse Rebecca. «Mi fa impazzire per
causa vostra. Le sue scenate di gelosia sono semplicemente spaventose. Eppure il
mio cuore ora gli appartiene, quali che siano stati i sentimenti che una volta ho
nutrito per voi. Sono innocente. Non sono forse innocente, Mr. Sedley?»
Nell'osservare quella vittima del suo fascino, Jos sentiva il sangue
formicolargli in ineffabile delizia. Qualche parolina collocata nel modo più
confacente, qualche tenero sguardo... ed ecco il suo cuore nuovamente divorato da
quella fiamma, ecco che i dubbi e i sospetti erano dimenticati. Da Salomone in
poi, quanti uomini molto più saggi di lui non sono stati irretiti e gabbati dalle
donne? «Così,» pensava frattanto Rebecca, «la mia ritirata è ormai cosa fatta, e
avrò il posto a destra nella carrozza.»
Non possiamo avanzare ipotesi sulle dichiarazioni di amore appassionato cui
il tumulto del suo cuore avrebbe potuto indurre Mr. Sedley, se in quel momento
Isidor non fosse riapparso mettendosi a trafficare per la casa. Jos, ormai prossimo
a profferire ansimando la sua confessione, poco mancò non soffocasse a causa di
quel tumulto emotivo che l'inopinata intrusione lo aveva costretto a reprimere.
D'altra parte Rebecca ritenne fosse ormai giunto il momento di andare a recar
conforto ad Amelia. «Au revoir,» disse, gettando con la mano un bacio a Mr.
Joseph dopo di che bussò con mano leggera alla porta di Amelia. Poi, quando fu
entrata nella stanza accanto ed ebbe richiuso l'uscio, Jos si lasciò cadere su una
sedia e quivi ristette a fissare quella porta, sospirando e sbuffando. «Quella
casacca è troppo stretta per Milord,» osservò Isidor, che non riusciva a staccar lo
sguardo dagli alamari. Ma il padrone non lo udì: era troppo assorto nei suoi
pensieri: ora in preda all'esaltata contemplazione della divina Rebecca ora pronto
a ritirarsi in buon ordine davanti alla visione dei gelosissimo Rawdon Crawley,
coi suoi fieri mustacchi arricciati e le sue terribili pistole da duello, cariche e
pronte a sparare.
La comparsa di Rebecca colmò di terrore Amelia, che si ritrasse. Quella
vista la riportava sulla terra e ridestava in lei il ricordo del giorno innanzi. Il
soverchiante timore del futuro l'aveva portata suo malgrado a dimenticarsi di
Rebecca, della gelosia che aveva provato, di tutto insomma. Ricordava una cosa
sola: che suo marito era lontano, e correva un grave pericolo. Così, fino all'istante
in cui Rebecca con la sua disinvolta mondana presenza non comparve nella stanza
rompendo quell'incantesimo, fino a quando non girò la maniglia, anche noi ci
siamo guardati dal varcare la soglia di quella camera immersa nella mestizia.
Quante ore aveva trascorso in ginocchio, la povera infelice, immersa nella
preghiera! Quante ore vi aveva passato, in preda alla più cupa prostrazione,
mormorando silenziose preci! I cronisti di guerra raramente indugiano su queste
cose, impegnati come sono a fornire il brillante resoconto di battaglie e di trionfi
militari! Questo è un lato troppo umile della gigantesca farandola. Le grida di
giubilo, nel Gran Coro della Vittoria, soffocano il pianto delle vedove, i
singhiozzi delle madri! Eppure, è mai esistita un'epoca nella quale non abbiano
pianto? Poveri, umili cuori spezzati, che innalzano inascoltato il loro lamento: un
lamento che nessuno ode nell'esultante clangore del peana!
Dopo il primo momento, quando i verdi occhi di Rebecca che si avvicinava
a braccia tese per abbracciarla, frusciante di rigida seta e luccicante di gioielli, si
furono posati su di lei, nella mente di Amelia il terrore cedette il posto all'ira. Da
mortalmente pallida qual era si fece rossa e rispose allo sguardo di Rebecca con
una fermezza che lasciò sorpresa e quasi spaventò la sua rivale.
«Amelia, mia carissima,» cominciò Rebecca tendendo la mano per stringere
quella di Amelia, «tu ti senti male. Cosa ti succede? Non sarei stata tranquilla fino
a quando non mi fossi rassicurata sul tuo stato.»
Amelia ritrasse la mano. Mai era accaduto, da quando era venuta al mondo,
che quell'anima gentile rifiutasse di prestar fede a qualsivoglia attestazione di
benevolenza e di amicizia. Ed ora, ecco che ritraeva la mano, tremando tutta.
«Come mai sei venuta qui, Rebecca?» chiese, continuando a fissarla, i suoi
grandi occhi pervasi da un'espressione piena di austera solennità.
Quello sguardo turbò la visitatrice. «Deve averlo colto nell'atto di darmi il
biglietto al ballo,» pensò Rebecca.
«Non è il caso che t'inquieti, cara Amelia,» disse chinando gli occhi. «Ero
semplicemente venuta a vedere se potevo... se stavi bene.»
«E tu stavi bene? A quanto pare direi di sì. Non c'è da stupirsene, dal
momento che non ami tuo marito. Se lo amassi non saresti qui. Dimmi, Rebecca:
ti ho mai usato qualche scortesia?»
«Certo che no, Amelia,» rispose l'altra, sempre a capo chino.
«Quando eri poverissima, chi ti ha offerto la sua amicizia? Non sono forse
stata una sorella per te? Tu ci hai conosciuti in tempi migliori, per noi: prima che
lui mi sposasse. Allora io rappresentavo tutto, per lui. Se così non fosse stato,
avrebbe forse rinunciato alla sua famiglia, alla sua ricchezza, come tanto
nobilmente ha fatto, per rendermi felice? Perché sei venuta a metterti fra me e il
mio amore? Chi ti ha inviata a separare coloro che sono stati uniti da Dio? Chi ti
ha mandata a derubarmi del cuore del mio amore, del cuore di mio marito? Credi
forse che potresti amarlo come lo amo io? Il suo amore era tutto, per me: tu lo
sapevi e hai voluto sottrarmelo. Vergognati, Rebecca! Sei una donna perversa,
una donna malvagia, come sei una falsa amica e una falsa moglie.»
«Amelia, ti giuro davanti a Dio di non aver fatto alcun torto a mio marito,»
disse Rebecca, scostandosi da lei.
«E nemmeno a me hai fatto alcun torto, Rebecca? Non ci sei riuscita, ma lo
hai tentato. Domanda al tuo cuore se non lo hai fatto.»
«No, non sa niente», pensò Rebecca.
«E lui è tornato a me. Lo sapevo che sarebbe tornato. Sapevo che non
c'erano ipocrisie, non c'erano lusinghe capaci di tenerlo a lungo lontano da me.
Sapevo che sarebbe venuto. Ho pregato tanto perché venisse.»
La povera ragazza diceva queste cose dando prova di un ardire, di uno
slancio quali Rebecca non aveva mai riscontrato in lei prima di allora, e la
lasciavano ammutolita.
«Cosa ti ho fatto,» continuò Amelia in un tono ancora più straziante,
«perché tu cercassi di portarmelo via? L'ho avuto per sei settimane, sei settimane
soltanto. Queste avresti potuto concedermele, Rebecca! E invece sei venuta a
rovinare ogni cosa sin dal primo giorno delle mie nozze. Adesso che lui se n'è
andato, sei per caso venuta a vedere quanto soffra?» continuò. «In questi ultimi
quindici giorni hai fatto tutto il possibile per rendermi infelice. Oggi, almeno,
avresti potuto risparmiarmi.»
«Io... io non sono mai venuta qui,» interruppe Rebecca. E, sfortunatamente
per lei, ciò non era che troppo vero.
«Certo, non sei venuta. Lo portavi via. Saresti forse venuta a prendertelo
anche ora?» continuò Amelia in tono sempre più desolato. «Ebbene, c'era, ma
adesso non c'è più. Sedeva proprio lì, su quel divano. Non lo toccare. Io ero lì
sulle sue ginocchia, le braccia allacciate intorno al suo collo. E insieme abbiamo
recitato il Padre Nostro. Sì, era proprio lì. Poi sono venuti a prenderlo, ma lui mi
ha promesso di ritornare.»
«Tornerà, mia cara,» disse Rebecca, commossa suo malgrado.
«Guarda,» disse Amelia, «questa è la sua fusciacca. Che bel colore, vero?»
Prese la frangia e vi depose un bacio. Nel corso della giornata, più volte se n'era
cinta la vita. Ora l'ira le era venuta meno. Aveva dimenticato la gelosia, e
fors'anche la presenza della rivale. Infatti si avvicinò silenziosa al letto, un sorriso
che le aleggiava sul volto, e prese ad accarezzare il guanciale di George.
Anche Rebecca si ritirò in silenzio. «Come sta Amelia?» chiese Jos, che
sedeva ancora sulla sedia senza aver mutato posizione.
«Sarebbe bene che qualcuno le stesse vicino,» rispose Rebecca. «Mi sembra
che stia proprio male.»
E se ne andò, il volto atteggiato a un'espressione grave, dopo aver declinato
la proposta di Mr. Sedley il quale l'aveva pregata di trattenersi e dividere con lui il
pranzo che aveva ordinato gli fosse servito per tempo.
Rebecca una persona di buon carattere e lietamente disposta nei confronti
del prossimo. Nell'insieme provava più simpatia che antipatia per Amelia. Tutto
sommato, le dure espressioni che quest'ultima le aveva rivolto suonavano quasi
come un complimento: erano il lamento di una donna che piange sulla propria
sconfitta. Pertanto, quando s'imbatté in Mrs. O'Dowd, che non aveva tratto alcun
conforto dai sermoni del decano e passeggiava sconsolata nel parco, Rebecca le si
avvicinò, fra la sorpresa della moglie del maggiore la quale non era assuefatta a
simili attestazioni di cortesia da parte di Mrs. Crawley. Quest'ultima le riferì come
la povera, piccola Mrs. Osborne fosse preda a una crisi di sconforto veramente
terribile, e sembrasse addirittura prossima alla pazzia, tanto cocente era il dolore
per la partenza del marito. Fu, né più né meno, come esortare la buona irlandese a
recarsi immediatamente in visita dalla sua giovane e prediletta amica, onde
cercare di recarle conforto.
«Anch'io sono preoccupata,» disse Mrs. O'Dowd con espressione grave, «e
pensavo che oggi la povera Amelia non avesse voglia di vedere chicchessia. Ma
se davvero sta male come dite, e se non avete modo di occuparvi di lei (voi che le
siete tanto amica), vi prometto di andare a vedere se in qualche modo possa
esserle d'aiuto. Buongiorno a voi, signora.»
Profferite queste parole, con un gesto altero del capo la signora dall'orologio
a ripetizione si congedò da Mrs. Crawley, la cui compagnia le riusciva per nulla
gradita.
Becky rimase ad osservarla mentre si allontanava, la bocca atteggiata ad un
sorriso. Aveva un fortissimo senso dell'umorismo, e lo sguardo che Mrs. O'Dowd
le lanciò da sopra le spalle mentre si ritraeva, quasi fosse stata la freccia del Parto
rischiò seriamente di vanificare l'austero atteggiamento che Mrs. Crawley aveva
conservato durante quel breve colloquio. «Serva vostra, e veramente lieta di
constatare che siete di così ottimo umore,» pensò Peggy O'Dowd. «Una cosa è
certa: gli occhi non vi schizzeranno dalle orbite per il troppo piangere.» Dopo di
che a passo veloce si avviò in direzione della casa di Mrs. Osborne.
La povera Amelia se ne stava ancora accanto al letto ove Rebecca l'aveva
lasciata, ed era letteralmente stravolta dal dolore. Da parte sua la moglie del
maggiore, donna dal carattere franco e posato, fece il possibile per confortare la
sua giovane amica. «Devi farti coraggio, mia cara Amelia,» le disse. «Non è
proprio il caso che lui ti trovi ammalata quando ti manderà a chiamare dopo la
vittoria. Non sei l'unica donna a trovarsi nelle mani di Dio, in questo momento.»
«Lo so. Sono molto cattiva, ed anche molto debole;» rispose Amelia che si
rendeva pienamente conto della propria fragilità. Tuttavia la presenza di
quell'amica così energica le consentì di controllarsi. Quella compagnia, e
l'influenza che esercitava su di lei, ebbero un effetto benefico. Chiacchierarono
fino alle due. I cuori di entrambe seguivano la colonna dei militari in marcia che,
col passare del tempo, si allontanava sempre di più. Angosce e dubbi frustranti,
ansie, timore, dolore indicibile seguivano il reggimento. Era il tributo offerto dalle
donne alla guerra: la guerra che chiede in pari misura ai due sessi: pretende il
sangue dagli uomini, le lacrime dalle donne.
Alle due e mezzo avvenne qualcosa di veramente importante nella giornata
di Mr. Joseph: giunse l'ora del pranzo. Che i guerrieri combattessero pure;
morissero, se fosse stato necessario. Quanto a lui? doveva mangiare. Entrò
pertanto nella stanza di Amelia per vedere se fosse disposta a dividere il pasto con
lui. «Perché non provi?» le disse. «La minestra è squisita. Prova, Emmy!» E le
baciò la mano. Mai prima d'ora, tranne il giorno delle sue nozze con George, il
fratello si era permesso un gesto simile.
«Sei molto buono, Joseph, sei molto caro,» rispose Amelia. «Lo sono tutti,
con me. Ma ti prego, per oggi consentimi di rimanere in camera.»
Al contrario, il profumino della minestra raggiunse le narici di Mrs. O'Dowd
con positivo effetto, onde la signora concluse che la compagnia di Mr. Jos poteva
anche riuscirle sopportabile. I due? pertanto, sedettero a tavola.
«Dio benedica il nostro cibo,» disse in tono solenne la moglie del maggiore,
il pensiero rivolto al suo buon Mick che cavalcava alla testa del reggimento. «Che
brutto pranzo consumeranno quei poveri ragazzi, oggi!» esclamò con un sospiro.
Quindi, da brava filosofa, attaccò il suo piatto di minestra.
Il coraggio di Jos andava aumentando a mano a mano che il pranzo
procedeva. Dapprima brindò alla salute del reggimento, poi (per esser sinceri)
cominciò a cogliere qualsiasi pretesto per mandar giù un bicchiere di spumante
dopo l'altro. «Brindiamo a O'Dowd e al suo coraggioso ...°,» disse, inchinandosi
galantemente alla sua ospite. «Coraggio, Mrs. O'Dowd. Riempite il bicchiere di
Mrs. O'Dowd, Isidor.»
Ma all'improvviso Isidor ebbe un sussulto, mentre la moglie del maggiore
posava il coltello e la forchetta. Le finestre esposte verso sud erano aperte, e da
quella direzione, al di sopra dei tetti illuminati dal sole, giunse un cupo
rimbombo.
«Be', cosa ti prende?» chiese Jos. «Perché non ci servi da bere, briccone?»
«C'est le feu,» rispose Isidor, correndo al balcone.
«Che Dio abbia pietà di noi!» esclamò Mrs. O'Dowd. «È il cannone.» Si
alzò e anch'ella si affrettò alla finestra. Da altre finestre migliaia di facce
guardavano, pallide, ansiose. Bastarono pochi istanti, e parve che l'intera
popolazione della città si riversasse per le strade.
XXXII • NEL QUALE JOS FUGGE E LA GUERRA FINISCE
Noi pacifici cittadini di Londra non abbiamo mai assistito - e Dio voglia che
il futuro ci risparmi un simile spettacolo - a una scena di panico e di generale
sgomento come quella offerta in quei giorni da Bruxelles. La gente correva a
frotte in direzione di Namur, donde giungeva il rombo, e molti percorsero al
galoppo la chaussée per apprendere in anticipo le notizie che potevano pervenire
dalla zona delle operazioni di guerra. Ognuno chiedeva all'altro, e persino lords e
ladies britannici si degnarono di rivolgere la parola a persone che non avevano
mai conosciuto. I fautori della vittoria francese si aggiravano come folli, in preda
alla più viva esaltazione, preconizzando il trionfo del loro amato imperatore. I
negozianti chiusero le loro botteghe e uscirono per le strade dando il loro
contributo al clamore e alla confusione generale. Le donne correvano verso le
chiese, affollavano le cappelle, s'inginocchiavano a pregare sul pavimento, sulle
gradinate. Il cupo rombo del cannone tuonava incessante. Non trascorse molto
tempo, e già numerose carrozze cariche di viaggiatori cominciarono a varcare al
galoppo la barriera di Gand. Le profezie dei partigiani dei francesi venivano
ormai scambiate per l'effettivo svolgimento dei fatti. «È riuscito a dividere i due
eserciti,» diceva la gente. «Sta marciando su Bruxelles. Sconfiggerà l'esercito
inglese e questa notte stessa raggiungerà la città,» strillava Isidor, elettrizzato.
Correva fuori e dentro, dalla casa alla strada, e ogni volta faceva ritorno recando
nuovi particolari sulla catastrofe in corso. La faccia di Jos si faceva sempre più
pallida e a poco a poco la paura s'impadroniva del pingue borghese. Tutti i
bicchieri di spumante che aveva tracannato non riuscivano a infondergli un'oncia
di coraggio. Il sole non era ancora tramontato, ed egli era ormai in preda al
parossismo dell'agitazione, con gran gioia del caro Isidor che ormai dava per certo
di metter le mani sulle spoglie del proprietario della giacca adorna di alamari.
In quelle ore le donne erano assenti. Non appena era echeggiato il rombo
delle artiglierie, la florida moglie del maggiore si era ricordata dell'amica nella
stanza accanto e si era precipitata da Amelia nella speranza di riuscire a
rincuorarla. Il proposito di far coraggio a quella semplice e mite fanciulla
accresceva il naturale ardimento della buona irlandese. Trascorse dunque cinque
ore accanto all'amica, ora esortandola a nutrir speranza, ora facendole animo, più
spesso tacendo e pregando fervidamente. «Non ho mai lasciato la sua mano» ebbe
a riferire più tardi la O'Dowd, «fin dopo il tramonto, quando cessò il fuoco delle
artiglierie». Quanto a Pauline, la bonne, era in una chiesa vicina a pregare per son
homme à elle.
Quando il tuono delle cannonate si spense, Mrs. O'Dowd uscì dalla camera
di Amelia e passò nel salottino attiguo ove Jos, ormai deluso e rassegnato, sedeva
circondato da bottiglie vuote. Un paio di volte si era affacciato alla camera della
sorella con il volto atteggiato a un'espressione angosciata quasi avesse voluto dir
qualcosa. Ma la moglie del maggiore non aveva la minima intenzione di cedergli
il posto, ed egli fu costretto a ritirarsi senza aver avuto modo di pronunciare il
discorsetto che, evidentemente, gli stava tanto a cuore. In poche parole, voleva
fuggire, ma si vergognava a dirglielo. Tuttavia, quando ella finalmente entrò nel
piccolo salotto ov'egli sedeva in penombra, scarsamente allietato dalle bottiglie
vuote del suo spumante, si decise ad aprirle il suo cuore e a palesarle i suoi
propositi.
«Mrs. O'Dowd,» disse, «non sarebbe meglio che induceste Amelia a
vestirsi?...»
«Avete forse l'intenzione di portarla a fare una passeggiata,» rispose la
moglie del maggiore. «Secondo me è troppo debole.»
«Io... Io...,» continuò Jos, «ho ordinato la carrozza. E dei cav... dei cavalli di
posta. Ho mandato Isidor...»
«Andare in carrozza? Stasera? Che strana idea!» esclamò la signora. «Non è
meglio che se ne stia a letto? Sono riuscita or ora a farla coricare.»
«Fatela alzare,» disse Jos. «Deve alzarsi, ho detto.» E batté un piede in terra
con gesto energico e impaziente. «Ho ordinato i cavalli, ho detto... Sì, li ho
ordinati. Ormai è tutto finito, e...»
«E cosa?»
«E voglio partire per Gand,» continuò Jos. «Se ne vanno tutti. Del resto, c'è
un posto anche per voi. Partiremo tra mezz'ora.»
La moglie del maggiore gli gettò un'occhiata carica di disprezzo. «Io partirò
solo quando sarà il maggiore O'Dowd a dirmelo,» rispose. «Partite pure, se volete,
Mr. Sedley, ma in quanto ad Amelia e a me, potete star certo che non ci
muoveremo di qui.»
«Amelia verrà, invece!» strillò Jos, battendo un'altra volta il piede in terra.
Mrs. O'Dowd si pose a braccia conserte davanti alla porta della camera di Amelia.
«Spiegatevi bene, Mr. Sedley,» disse, «volete condurla da sua madre, o siete
voi, piuttosto, che volete rifugiarvi tra le braccia della vostra mammina?
Benissimo: arrivederci e buon viaggio, caro Mr. Sedley. Bon voyage, come
dicono qui. Ad ogni modo vi do un buon consiglio: tagliatevi quei baffi, altrimenti
sapranno procurarvi certi guai»
«Maledizione!» urlò Jos, pazzo di rabbia, di paura e di mortificazione. In
quel mentre tornò Isidor, a sua volta bestemmiando. «Pas de chevaux, sacrebleu!»
sibilò il domestico, furibondo. Tutti i cavalli di Bruxelles erano già stati prenotati.
Jos non era il solo che, in una giornata simile, si fosse lasciato travolgere dal
panico.
Ma, prima che la notte fosse terminata, per quanto grandi e tormentosi i
timori di Jos erano destinati ad aumentare fino a trasformarsi in una vera e propria
frenesia di terrore. Abbiamo accennato alla circostanza che Pauline, la bonne,
annoverasse son homme à elle tra i soldati in armi che facevano parte dell'esercito
inviato a combattere la suprema battaglia contro l'imperatore Napoleone. Questo
innamorato era un ussaro belga, di Bruxelles. Nel corso di questa campagna i
soldati belgi si distinsero in tutto tranne che nel coraggio, e il giovane Van
Cutsum (il corteggiatore di Pauline) era un soldato troppo ligio ai suoi doveri per
obiettare agli ordini del suo colonnello, e cioè di darsi alla fuga. Mentre il suo
reggimento si trovava di stanza a Bruxelles, il giovane Regulus (era nato durante
la Rivoluzione) trovava un gran conforto nella cucina di Pauline, ove infatti
trascorreva gran parte del suo tempo libero; di conseguenza qualche giorno prima
aveva preso congedo dalla sua ragazza in lacrime, per prender parte alla battaglia,
dopo essersi riempito le tasche e tascapane di un sacco di cose buone che Pauline
aveva tolto dalla dispensa.
Per quanto concerneva il suo reggimento, la campagna poteva considerarsi
conclusa. Aveva fatto parte di una divisione al comando del suo sovrano, il
principe d'Orange. E pensare che, se qualcuno avesse voluto giudicare dalla
lunghezza delle sciabole e dei mustacchi, nonché dalla ricchezza delle uniformi e
dell'equipaggiamento, Regulus e i suoi camerati sarebbero apparsi come il più
prode fra tutti i corpi militari per i quali fosse mai stata suonata la carica!
Mentre Ney si lanciava sulle avanguardie delle truppe alleate, conquistando
una posizione dopo l'altra, finché l'arrivo da Bruxelles del grosso dell'esercito
inglese non valse a capovolgere la situazione alla battaglia di Quatre Bras, gli
squadroni fra i quali militava Regulus diedero prova della massima attività
continuando a ritirarsi, incalzati dai francesi, e facendosi cacciare dalle varie
posizioni che in precedenza avevano occupato con straordinaria alacrità. La loro
ritirata incontrò un ostacolo solo nelle truppe britanniche che sopravvenivano alle
loro spalle. A partire dal momento in cui si videro obbligati ad arrestare l'impeto
di quella loro fuga, la cavalleria nemica (la cui sanguinaria ostinazione non potrà
mai essere oggetto di adeguata condanna) ebbe finalmente modo di venire ai ferri
corti coi coraggiosi belgi che aveva dinanzi. Senonché i bravi belgi preferirono
scontrarsi con gli inglesi, anziché coi francesi; di conseguenza fecero dietrofront,
presero a cavalcare tra le linee inglesi e si sparpagliarono in ogni direzione. Il
reggimento aveva cessato di esistere. Praticamente non c'era. Non aveva un
comandante. Regulus si trovò a cavalcare tutto solo, a varie miglia dal campo di
battaglia; e dove mai avrebbe dovuto rifugiarsi se non dove l'istinto lo guidava, e
cioè in quell'accogliente cucina e tra quelle braccia fedeli che così spesso lo
avevano stretto a sé?
Verso le dieci, dunque, chi si fosse trovato sul posto avrebbe avuto agio di
percepire il rumore metallico di una sciabola su per le scale della casa di cui gli
Osborne, secondo l'uso continentale, occupavano un piano; e avrebbe udito
bussare alla porta della cucina. La povera Pauline, di ritorno dalla chiesa, aprì
l'uscio e quasi svenne dal terrore trovandosi al cospetto del suo ussaro stravolto e
timoroso, e pallido quasi come l'ussaro che a mezzanotte faceva visita a Leonora.
Pauline si sarebbe messa a urlare se non avesse temuto che le sue grida,
richiamando l'attenzione dei padroni, svelassero la presenza del suo amoroso.
Pertanto represse quel pur legittimo grido di emozione e, trascinato il suo eroe in
cucina, lo rifocillò con un bicchiere di birra e coi migliori bocconi della cena che
Mr. Jos non aveva avuto cuore di assaggiare. L'ussaro non era uno spettro,
tutt'altro; tant'è vero che bevve una quantità spropositata di birra e si rimpinzò ben
bene di carne. Così, tra un boccone e l'altro, ebbe modo di raccontare a modo suo
le fasi del disastro.
Il suo reggimento aveva compiuto prodigi di valore e a lungo si era
tenacemente opposto all'assalto dei francesi; ma alla fine era stato sopraffatto,
come senza dubbio, a questo punto, doveva esser stato sopraffatto anche l'esercito
inglese. Ney sgominava i reggimenti l'uno dopo l'altro a mano a mano che se li
trovava davanti, e i belgi si erano adoperati inutilmente per evitare quella
carneficina di inglesi. Gli uomini del duca di Brunswick, ormai in rotta, si davano
alla fuga, il duca era stato ucciso. Uno sfacelo generale. E lui cercava di annegare
il dolore della sconfitta in quel fiume di birra.
Isidor, entrato in cucina, captò quella conversazione e si precipitò ad
avvisare il suo padrone. «Tutto è finito,» strillò a Jos. «Milord il duca è stato fatto
prigioniero. Il duca di Brunswick è morto. L'esercito inglese sta scappando a rotta
di collo. Si è salvato soltanto un uomo. È in cucina: venite, venite a sentire cosa
racconta.» Così Jos si diresse in cucina, ove Regulus sedeva ancora a tavola
davanti al suo boccale di birra. Facendo appello al miglior francese che sapesse
rimediare, e che a dire il vero risultava alquanto sgrammaticato, invitò l'ussaro a
parlare. Via via che Regulus procedeva nel suo resoconto degli avvenimenti, la
calamità assumeva tinte sempre più fosche. A sentir lui, era l'unico in tutto il
reggimento che fosse riuscito a salvar la pelle. Aveva visto il duca di Brunswick
cadere esanime e gli ussari neri fuggire, e gli scozzesi massacrati a colpi di
cannone.
«E il ...?» chiese Jos, ansante.
«È ridotto a pezzi,» rispose l'ussaro.
Al che Pauline fu colta da un attacco isterico e riempì la casa di grida
urlando come un'ossessa: «Ah, la mia signora! Ma bonne petite dame!»
Pazzo terrore, Mr. Sedley non sapeva dove fuggire in cerca di rifugio. Dalla
cucina tornò a precipitarsi in salotto e lanciò un'occhiata supplichevole alla porta
della stanza di Amelia, che Mrs. O'Dowd gli aveva chiuso a chiave sulla faccia.
Poi ricordò con che tono sprezzante l'irlandese gli avesse risposto; pertanto, dopo
aver sostato davanti all'uscio e aver teso l'orecchio per cercar di cogliere le parole
che venivano pronunciate nella camera della sorella, tornò sui suoi passi, e per la
prima volta nel corso di quella giornata decise di scendere in strada. Impugnato un
candeliere, andò alla ricerca del berretto gallonato e lo trovò al solito posto, vale a
dire sopra la console, di fronte alla specchiera davanti alla quale era sua
consuetudine pavoneggiarsi assestandosi i riccioli e aggiustando l'inclinazione del
berretto prima di presentarsi in pubblico. Ebbene, per quanto sopraffatto dal
terrore, la forza dell'abitudine lo indusse a ripetere meccanicamente quei gesti; poi
fissò stupefatto quel volto smunto riflesso nello specchio, e in particolare quei
mustacchi che nel giro di sei settimane avevano ormai raggiunto notevoli
dimensioni. «Mi scambieranno di certo per un militare,» pensò, ricordandosi del
monito di Isidor circa la minaccia di generale massacro che gravava sull'intero
esercito inglese. Con passo malcerto fece dunque ritorno in camera sua e diede
uno strattone frenetico al campanello col quale soleva chiamare al suo cospetto il
servitore.
Isidor rispose prontamente all'appello. Jos si era accasciato su una seggiola
liberandosi del fazzoletto da collo, aveva sbottonato il collo della camicia e
sedeva con le mani alzate all'altezza della gola.
«Coupez-moi, Isidor,» strillò. «Vite! Coupez-moi!»
Per un istante Isidor credette che fosse impazzito e volesse farsi recidere la
gola.
«Les moustaches,» ansimò Jos; «les moustaches... coupy... rasy... vite!»
disse, esprimendosi in questo suo francese. Un francese disinvolto, ma non
proprio impeccabile, come già abbiamo detto, dal punto di vista della grammatica.
In un baleno Isidor, armato di rasoio, spazzò via i baffi del suo padrone; poi,
con immaginabile suo compiacimento, ne ebbe l'ordine di preparargli un abito e
un cappello da borghese. «Ne porty plu habit militair... bonne.,, donny... a voo,
prenny dehors.»
Furono queste le parole sconnesse di Jos. L'abito e il berretto passavano
finalmente in sua proprietà.
Elargito quel dono, Jos scelse un vestito nero con panciotto di foggia molto
sobria, con un cappello parimenti nero e un largo colletto bianco. Se avesse avuto
a disposizione un cappello da prete non avrebbe esitato a calzarlo; ma anche così
poteva essere scambiato senza difficoltà per un florido vicario della Chiesa
d'Inghilterra.
«Venny maintenong» disse poi, «suivy ally... ally party dong la ru,» E
profferite queste parole, si precipitò per le scale di casa e uscì nella strada.
Regulus aveva giurato e spergiurato di essere l'unico di tutto il reggimento
che Ney non avesse fatto a pezzi, ma la sua asserzione non rispondeva al vero, dal
momento che un ingente numero di codeste «vittime» era scampato al presunto
massacro. Decine e decine di suoi commilitoni avevano riguadagnato la strada di
Bruxelles, e, dal momento che tutti asserivano di essersi dati alla fuga, la
popolazione cittadina si convinse che gli eserciti alleati erano stati sconfitti
L'arrivo dei francesi era atteso da un'ora all'altra e in ogni quartiere della città ci si
apprestava a fuggire. «Niente cavalli!» pensava Jos, terrorizzato. Mandò Isidor a
informarsi presso innumerevoli persone per sentire se avessero cavalli da vendere
o da affittare; e siccome il domestico ritornava sempre con una risposta negativa
si sentiva vieppiù scoraggiato. Doveva dunque rassegnarsi ad affrontare il viaggio
a piedi? Nemmeno la paura aveva il potere di rendere così attivo un corpo di mole
siffatta!
Gli alberghi di Bruxelles occupati dagli inglesi prospettavano quasi tutti il
Parco. Jos vagava per quel quartiere, non diversamente da tanti altri, senza sapere
che pesce pigliare, al colmo dello spavento e dell'ansietà. Assistette alla partenza
di famiglie più fortunate che erano riuscite ad assicurarsi una cavalcatura e si
allontanavano percorrendo rumorosamente le strade al galoppo, ma non mancava
chi si trovava nella sua stessa condizione, non avendo avuto modo di procurarsi,
né con le mance né con le suppliche, i mezzi necessari alla fuga. Fra questi
candidati fuggiaschi Jos notò anche Lady Bareacres e la figlia, sedute nella
carrozza carica di bagagli sotto l'androne dell'albergo, ma impossibilitate a fuggire
a causa della medesima mancanza di forza motrice che tratteneva Jos.
Anche Rebecca Crawley alloggiava in quell'albergo, e più di una volta,
prima di quella drammatica circostanza, c'erano stati fra lei e le nobili signore
Bareacres, incontri carichi di reciproca ostilità. Se per caso s'incontravano sulle
scale, Lady Bareacres si guardava bene dal salutare Mrs. Crawley, e ovunque
venisse pronunciato il suo nome si premurava di dirne tutto il male possibile. La
contessa trovava letteralmente scandalosa la familiarità con la quale il generale
Tutto frequentava la moglie del suo aiutante maggiore, e in quanto a Lady
Bianche, la scansava come fosse stata un'appestata. Solo il conte, quando si
trovava al riparo dal severo controllo delle due donne, si arrischiava a intrattenere
con lei dei furtivi e fuggevoli rapporti personali.
Ed ecco che a Rebecca si offriva l'occasione di prendersi una rivincita su
quelle insolenti nemiche. All'albergo tutti sapevano che i cavalli del capitano
Crawley erano rimasti a Bruxelles, e quando il panico cominciò Lady Bareacres si
rassegnò a mandare la cameriera dalla moglie del capitano recando i complimenti
di Sua signoria e chiedendo, nel contempo, quale fosse il prezzo richiesto per i
cavalli di Mrs. Crawley. Questa rispose ricambiando i complimenti e precisando
altresì che non era sua abitudine trattare affari tramite una cameriera.
Questa secca risposta portò il conte in persona nelle stanze di Becky; ma Sua
Signoria non ottenne maggior successo della precedente ambasciatrice. «Mandare
a me una cameriera!» gridò Mrs. Crawley fuori di sì per la collera. «E perché mai
Lady Bareacres non mi ha dato l'ordine di andare a sellare i cavalli? È Sua
Signoria che intende fuggire, oppure è la sua femme de chambre?» E questa fu
l'unica risposta che il conte poté recare alla contessa.
Cosa può fare la necessità? Ecco che, fallita anche la seconda ambasciata, la
contessa in persona si recò da Mrs. Crawley. La scongiurò di chiederle un prezzo,
qualunque prezzo desiderasse. Arrivò al punto di invitare Becky a Bareacres
House sempre che la legittima proprietaria di tanta dimora riuscisse a ritornarvi.
Ma Mrs. Crawley le rispose sprezzante:
«Non ci tengo affatto ad esser ricevuta da ufficiali giudiziari in livrea;'
d'altra parte è assai improbabile che voi riusciate a far ritorno in patria,
quantomeno coi vostri diamanti. Se li prenderanno i francesi, questo è poco ma
sicuro. Tra un paio d'ore saranno qui, mentre io ormai sarò a metà strada fra
Bruxelles e Gand. No, i miei cavalli non ve li venderei nemmeno in cambio dei
due diamanti più grossi che portavate al ballo.»
La Bareacres tremava di rabbia e di sconforto. I diamanti in questione erano
cuciti nel suo vestito e nelle spalline e negli stivali di Sua Signoria il conte. «I
diamanti sono in banca, brava donna; ed io i cavalli li avrò, costi quello che
costi!» esclamò; ma Rebecca le rise in faccia. Furibonda, la contessa ridiscese e
tornò a sedere in carrozza. La cameriera, il cocchiere e il conte furono rispediti in
giro per la città alla ricerca degli agognati destrieri. F, peggio per chi fosse tornato
per ultimo, giacché Sua Signoria era decisa a partire nel momento stesso in cui
fossero giunti i cavalli. Quindi, anche senza il nobile consorte.
Rebecca ebbe la soddisfazione di vedere Sua Signoria seduta in quella
carrozza priva di cavalli, e di fissarla negli occhi mentre a voce stentorea andava
enumerando i guai della contessa:
«Non riuscire a trovare un paio di cavalli!» diceva. Eppure i cuscini della
carrozza sono letteralmente imbottiti di diamanti! Che deliziosa sorpresa per i
francesi, quando arriveranno! La carrozza e i diamanti, voglio dire. non la
signora! Il tutto veniva profferito al cospetto dei proprietari, dei domestici e degli
ospiti dell'albergo, nonché dei numerosi sfaccendati che sostavano nel cortile.
Lady Bareacres sarebbe stata felice di poterle sparare una pistolettata dal
finestrino della carrozza.
Mentre gongolava di gioia davanti all'umiliazione della sua nemica, Rebecca
vide Jos. Questi, non appena la scorse, le mosse incontro.
Il volto del grassone, stravolto, alterato dall'angoscia, parlava in termini
oltremodo eloquenti. Anche lui voleva fuggire, ma non sapeva come. «I cavalli li
venderò a lui, pensò Rebecca, «ed io cavalcherò la giumenta.
Jos si avvicinò alla sua amica e ripete la domanda che nel giro di un'ora
aveva ripetuto almeno cento volte. Sapeva per caso dove fosse possibile trovare
dei cavalli?
«Come, come? Voi fuggite?» chiese Rebecca scoppiando a ridere. «Ed io
che vi davo per il paladino di tutte le donne, Mr. Sedley!»
«Ma io... io non sono un militare,» rispose Jos ansimando.
«E Amelia? Chi si prenderà cura della vostra povera sorellina?» chiese
Rebecca. «Sono certa che non intendete abbandonarla.»
«Ma cosa potrei fare per lei se... se per esempio sopraggiungesse il
nemico?» rispose Jos. «Le donne verranno sicuramente risparmiate; ma il mio
domestico dice che agli uomini daranno una caccia spietata... Quei maledetti
vigliacchi!»
«Mostruoso!» esclamò Rebecca, si divertiva a vedere l'agitazione di Mr.
Sedley.
«D'altra parte non intendo certo abbandonarla al suo destino,» proseguì il
fratello. «Nella mia carrozza c'è posto per lei. Ed uno anche per voi, Mrs.
Crawley, se volete venire... E sempre che riusciamo a rimediare dei cavalli...»
concluse con un sospiro.
«Ne ho due da vendere» disse Rebecca.
A quella notizia Jos per poco non le butto le braccia al collo. «Presto, presto,
porta la carrozza, Isidor! Abbiamo trovato i cavalli!» gridò.
«I miei cavalli non sono mai stati attaccati a una carrozza,» continuò Mrs.
Crawley. «Se lo si mettesse alle stanghe Bullfinch fracasserebbe la vettura a
calci.»
«Ma è docile se lo si cavalca?» domandò il borghese.
«Docile come un agnello e rapido come una lepre,» rispose Rebecca.
«Credete che riuscirebbe a sopportare il mio peso?» chiese Jos. Già si
vedeva a cavallo del destriero, completamente dimentico di Amelia. Quale
appassionato d'ippica avrebbe potuto resistere a una simile tentazione?
A titolo di risposta, Rebecca lo esortò senz'altro a salire nella sua stanza per
concludere l'affare, e Jos la seguì, quasi senza respiro. Raramente una mezz'ora
della sua vita gli costò cara quanto gli costò quella. Rebecca calcolò il valore
degli animali in base all'estrema carenza dei medesimi e alla smania di Jos di
disporne. (chiese pertanto un prezzo così elevato da lasciare interdetto persino il
nostro borghese. O tutte e due, o nessuno, disse in tono risoluto. Non era disposta
a venderli separatamente. D'altronde era stato Rawdon a ingiungerle di non
cederli a chicchessia se non al prezzo testé sollecitato. Lord Bareacres, che
attendeva da basso ed era senza cavalli, era disposto a pagare la stessa somma... E
poi, pur con tutto il riguardo, con tutto l'affetto ch'ella nutriva per la famiglia
Sedley, Jos non poteva non rendersi conto che la gente deve pur campare. In
poche parole, nessuno al mondo avrebbe potuto trattare un affare in termini più
affettuosi, ma altresì più fermi e inesorabili.
Jos, com'è facile immaginare, finì per accondiscendere. La cifra richiesta era
però così alta che si vide costretto a pregarla di concedergli un po' di tempo... Sì,
era così alta da costituire un piccolo patrimonio per Rebecca, la quale non
impiegò molto tempo a calcolare che, con quel gruzzolo, aggiunto al ricavato
della vendita degli effetti personali di Rawdon e alla pensione di vedova (qualora
il marito fosse caduto in battaglia) avrebbe praticamente goduto di un'assoluta
indipendenza finanziaria, affrontando in tutta tranquillità il periodo del lutto.
Un paio di volte, nel corso della giornata, aveva pensato alla fuga; ma poi la
sua mente rigorosamente razionale le aveva suggerito miglior consiglio.
«Ammettiamo pure che arrivino i francesi,» si disse, «cosa diamine possono fare
alla moglie di un ufficiale? I saccheggi appartengono al passato. Ci lasceranno
tornare a casa in santa pace, o alla peggio potrà i continuare a vivere all'estero su
una piccola rendita.»
Intanto Jos e Isidor erano andati in scuderia per esaminare i cavalli testé
acquistati. Jos ordinò al domestico di sellare i cavalli senza indugio. Voleva
partire quella sera stessa, anzi, immediatamente. Poi, lasciato il domestico ad
occuparsi dei due animali, se ne tornò a casa per fare i preparativi della partenza.
Ma doveva agire in gran segreto. Decise pertanto di penetrare nella sua camera
dall'ingresso posteriore. Non aveva il coraggio di ritrovarsi al cospetto di Amelia
e di Mrs. O'Dowd, e confessare che stava scappando.
Frattanto, fra la definizione del contratto per la vendita dei cavalli a Jos da
parte di Rebecca, e la visita e l'esame delle - suddette cavalcature, era spuntata
l'alba. Ad ogni modo, sebbene la mezzanotte fosse trascorsa da un pezzo la città
non si dava riposo. La gente era alzata, le finestre erano illuminate la popolazione
di Bruxelles usciva a frotte dalle case e le strade apparivano gremite. Le notizie
più varie e contraddittorie continuavano a correr di bocca in bocca: chi diceva che
i prussiani erano stati sconfitti, chi gli inglesi, chi ribatteva che questi ultimi erano
riusciti a resistere. Dei francesi, nemmeno l'ombra. In città arrivarono altri
sbandati, recando informazioni che via via si facevano più favorevoli. Alla fine
giunse in città addirittura un aiutante di campo con dispacci per il comandante
della Piazza, e subito fece affiggere sui muri di tutta la città il comunicato
ufficiale che informava della vittoria ottenuta dagli eserciti alleati a Quatre Bras, e
della fuga precipitosa delle truppe francesi al comando di Ney dopo una battaglia
protrattasi per sei ore. È probabile che questo aiutante di campo sia arrivato
proprio mentre Jos e Rebecca stavano contrattando la compravendita dei cavalli, o
mentre I acquirente esaminava le bestie in questione. Fatto sta che tornato a casa,
Jos trovò una frotta d'inquilini impegnati a discutere sulle recentissime notizie
pervenute in città. Erano autentiche, su questo non c'era dubbio; onde si affrettò a
salire di sopra per comunicarle alle signore affidate alla sua protezione. Per altro
verso, non ritenne opportuno informarle dei suoi propositi di fuga, né di aver
comperato all'uopo un paio di cavalli (né tantomeno di rivelare quanto gli erano
costati).
Ma per Amelia e Mrs. O'Dowd, l'eventualità di una vittoria come di una
sconfitta non aveva particolare rilievo: a loro premeva soltanto la salvezza dei
rispettivi, amatissimi consorti. Amelia, alla notizia della vittoria, si turbò ancor di
più: voleva ad ogni costo raggiungere il campo di battaglia. Con le lacrime agli
occhi supplicò il fratello di portarla da suo marito. I suoi dubbi e i suo' timori
erano ormai parossistici; e la povera ragazza, rimasta per ore ed ore in quello stato
di abulia malinconica, prese ad agitarsi, a muoversi innanzi e indietro, a
vaneggiare come una folle in preda a un attacco isterico. Uno spettacolo
veramente penoso. Nessuno fra quanti, a quindici miglia di distanza, si torcevano
per il dolore sul campo ove avevano così strenuamente combattuto, e dove
giacevano dopo la lotta i corpi di tanti ardimentosi, nessuno patì sofferenze
terribili come quelle di cui ebbe a soffrire una vittima tanto inerme, tanto
inoffensiva del conflitto. La vista di quel dolore riuscì intollerabile a Jos. Affidò
una volta di più la sorella alle premurose attenzioni della sua corpulenta amica e
di nuovo scese sotto l'androne, ove un fitto assembramento di persone sostava, in
attesa di ulteriori notizie.
Attesero così fino a giorno fatto, quando altre nuove cominciarono ad
affluire, recate da uomini che erano stati attivi partecipi di quella drammatica
giornata. Una processione di carri straripanti di feriti entrarono rumorosamente in
città, c ne giungevano lamenti strazianti. Corpi dilaniati giacevano osservando con
un sentimento di dolorosa curiosità uno di quei carri (dal momento che il gemito
dei feriti era atroce, e i cavalli stentavano a trainare i veicoli) quando qualcuno
con un fil di voce gridò dal giaciglio di paglia ov'era coricato: «Ferma! Ferma!» E
il carro si arrestò.
«È George! Sono certa che è lui!» gridò Amelia correndo al balcone coi
capelli sciolti sulle spalle. No, non era George, ma quanto di meglio si poteva
attendersi, dopo di lui: cioè sue notizie.
Era il povero Tom Stubbles, che ventiquattr'ore prima era marciato
fieramente fuori da Bruxelles recando lo stendardo del reggimento da lui
strenuamente difeso sul campo. Un lanciere francese aveva trafitto una gamba
dell'infelice alfiere, che era stramazzato a terra senza peraltro lasciarsi sfuggire di
mano il vessillo. A battaglia conclusa, il coraggioso ragazzo era stato caricato su
uno dei carri e trasportato a Bruxelles.
«Mr. Sedley! Mr. Sedley!» gridò con voce flebile il giovanotto. Jos,
impaurito, si avvicinò. Lì per lì non aveva compreso a chi appartenesse la voce
che invocava il suo nome.
Il piccolo Tom Stubble gli porse una mano debole e bruciante di febbre.
«Debbono lasciarmi qui...» disse, «l'hanno detto Osborne e Dobbin... sì, proprio
loro, lo hanno detto. Vi prego, date due napoleoni al conducente. Ci penserà mia
madre a restituirveli.»
I pensieri dell'infelice giovane, durante quelle ore logoranti trascorse sul
carro, erano andate al presbiterio del padre che aveva lasciato pochi mesi innanzi;
e in preda a quel delirio si era quasi scordato della sofferenza.
La casa era grande e abitata da gente di buon cuore. Quasi tutti coloro che
occupavano il carro vennero accolti e adagiati su divani. Il giovane sottotenente fu
portato di sopra, nell'appartamento di Amelia, dal momento che quest'ultima e la
O'Dowd si erano precipitate in strada non appena la giovane sposa del capitano
Osborne lo aveva riconosciuto. Lascio ai lettori immaginare quali fossero i
sentimenti delle due donne non appena seppero che la battaglia era terminata e i
loro mariti entrambi incolumi. Con quale muto rapimento Amelia si gettò al collo
dell'amica e l'abbracciò! Con quale sentimento di appassionata gratitudine verso
l'Altissimo cadde in ginocchio e rivolse una preghiera di ringraziamento a Dio
Onnipotente che aveva risparmiato la vita di suo marito!
Nessun medico avrebbe potuto prescrivere alla signora una medicina
salutare, e più idonea a placare il suo orribile stato di spasmodica tensione, di
quella che il caso le aveva largito. Amelia e Mrs. O'Dowd si prodigarono in cure
onde recare sollievo al povero giovane che soffriva moltissimo. Il uovo dovere
che si vedeva costretta a compiere distoglieva Amelia dalle sue ansie, e le
impedivano di abbandonarsi di nuovo - come fatalmente sarebbe accaduto - ai
suoi dubbi e alle sue ansie. Il ragazzo con parole molto semplici raccontò gli
eventi di quella giornata e le gesta del valoroso ...° Reggimento che ben
conosciamo. Avevano subito pesantissime perdite. Mentre il reggimento si
lanciava alla carica il cavallo del maggiore era stato ferito a morte, e tutti avevano
creduto che anche il povero maggiore fosse stato ucciso, cosicché Dobbin avrebbe
preso il suo posto. Ma quando, dopo la carica, il reggimento aveva recuperato le
posizioni di partenza, avevano visto il maggiore che, seduto sulla carcassa di
Piramo, si stava rinfrancando col contenuto di una fiaschetta. Quanto al capitano
Osborne, aveva ucciso il lanciere francese che aveva ferito Stubbles. Nell'udire
questa notizia Amelia si fece così pallida che Mrs. O'Dowd si vide costretta a
interrompere il resoconto del giovane. Era stato il capitano Dobbin che più tardi,
quantunque a sua volta ferito, si era caricato il ragazzo tra le braccia, lo aveva
condotto dal chirurgo e di lì al carro che lo aveva riportato a Bruxelles. Ed era
stato lui a promettere due napoleoni al conducente se avesse portato il ferito alla
casa di Mr. Sedley e avesse detto a Mrs. Osborne che il combattimento era
concluso, e suo marito sano e salvo.
«Bisogna riconoscere che quel capitano Dobbin ha un cuor d'oro,» disse
Mrs. O'Dowd, «anche se mi prende sempre in giro».
Da parte sua il giovane Stubbles confermò queste parole affermando che non
esisteva un ufficiale come lui in tutto l'esercito inglese, e prese a snocciolare una
sfilza di lodi all'indirizzo del secondo capitano e a parlare della sua modestia del
suo garbo, del coraggio eccezionale di cui aveva dato prova sul campo di
battaglia. Ma a questa parte del racconto Amelia prestò scarsa attenzione.
Ascoltava solo quando si parlava di George; e se non si parlava di lui, pensava a
lui.
Intenta alle cure del ferito e impegnata a riandare col pensiero allo scampato
pericolo, la giornata passò alquanto velocemente per Amelia. Per lei, in tutto
l'esercito, esisteva soltanto un uomo, e bisogna ammettere che, se l'uomo in
questione godeva buona salute, i movimenti dell'intera armata a lei interessavano
ben poco. Le notizie riferite da Jos giungevano alle sue orecchie come una eco
lontana, anche se bastavano a tenere suo fratello (e molta altra gente, a Bruxelles)
in uno stato di viva inquietudine. Sì, i francesi erano stati respinti, ma solo dopo
una lotta incerta e sanguinosa. E poi si era trattato di una sola divisione
dell'esercito nemico L'imperatore col grosso delle truppe si trovava a Ligny, dove
aveva sconfitto definitivamente i prussiani, e si apprestava ormai a scagliarsi con
tutte le sue forze contro gli Alleati. Il duca di Wellington stava retrocedendo in
direzione della capitale, ed era probabile che proprio sotto le mura venisse
ingaggiata una grande battaglia, il cui esito si prospettava incerto. Il duca poteva
fare assegnamento solo su ventimila inglesi, perché i tedeschi non erano addestrati
e i belgi erano pavidi. E con quel pugno di soldati Sua Grazia doveva fronteggiare
una marea di centocinquantamila uomini penetrati nel territorio belga al comando
di Napoleone. Al comando di Napoleone! Esisteva forse un altro comandante
militare, per quanto celebre e avveduto, il quale potesse misurarsi con lui in
condizioni tanto svantaggiose?
Jos rimuginava fra se e se questi pensieri, e tremava. Come del resto
tremavano tutti, a Bruxelles, perché capivano come lo scontro del giorno
precedente fosse soltanto il preludio di un combattimento imminente e di portata
decisiva Uno degli eserciti inviati a fronteggiare l'imperatore era già stato
debellato e disperso. I pochi inglesi che potevano essere schierati contro di lui nel
tentativo di opporgli resistenza, sarebbero morti ai loro posti, e il conquistatore
avrebbe fatto il suo ingresso nella capitale passando sui loro corpi. Guai a coloro
che si fossero lasciati sorprendere in città! Già veniva redatto il testo di discorsi
celebrativi, i pubblici funzionari indivano riunioni segrete, preparavano
appartamenti degni di riceverlo adeguatamente, venivano confezionati vessilli
tricolori ed emblemi trionfali per accogliere Sua Maestà l'Imperatore e Re.
Lo sfollamento proseguiva; tutte le famiglie che riuscivano a trovare un
mezzo di trasporto purchessia si davano alla fuga. Il 17 giugno Jos, recatosi da
Rebecca, notò che la carrozza dei Bareacres aveva finalmente lasciato la porte
cochère. A dispetto di Rebecca il conte era riuscito, non si sa come, a trovare un
paio di cavalli, ed ora si trovava in viaggio sulla strada per Gand. Quivi anche
Luigi il Desiderato preparava i bagagli. Si sarebbe detto che la Disgrazia
continuasse a tallonare ovunque quello sventurato esule.
Jos capiva perfettamente che gli eventi del giorno avanti non significavano
altro che una breve pausa, e che i cavalli acquistati a quel prezzo astronomico gli
sarebbero tornati utilissimi. Quel giorno soffrì angosce indicibili. Fino a quando
l'armata inglese si frapponeva tra Napoleone e Bruxelles, il pericolo non era
imminente e la necessità di fuggire non era immediata. Tuttavia fece condurre i
cavalli dalla remota scuderia ov'erano ospitati in quella del cortile di casa, in
modo da tenerli sott'occhio e prevenire il rischio che gli venissero sottratti a viva
forza. Pertanto Isidor teneva lo sguardo perennemente puntato sulle porte della
scuderia e aveva già sellato gli animali, perché fossero pronti alla partenza. Il
domestico attendeva con ansia quel momento.
Data l'accoglienza che ne aveva avuta il giorno avanti Rebecca non aveva la
minima voglia di ritornare dalla cara Amelia. Tagliò un poco gli steli del
mazzolino di fiori che George le aveva regalato, gli cambiò l'acqua e rilesse il
biglietto che lui le aveva scritto.
«Che scioccherella!» pensava, arrotolandosi l'esile foglio di carta intorno al
dito. «Basterebbe questo a distruggerla. E lei che si tormenta per un uomo del
genere! Per un idiota... per un vanesio che non si cura affatto di lei! È veramente
incredibile. Quel brav'uomo del mio Rawdon ne vale dieci, di uomini come lui!»
Dopo di che prese a pensare a cosa avrebbe dovuto fare se... se qualcosa
fosse successo a quel brav'uomo del suo Rawdon. Era davvero una fortuna che le
avesse lasciato i cavalli!
Quello stesso giorno Mrs. Crawley, la quale, non senza rabbia, aveva dovuto
rassegnarsi a veder partire i Bareacres, ripensò alle precauzioni che aveva preso
Lady Bareacres e decise di darsi anch'essa a un prudente lavoro d'ago e di filo.
Pertanto si cucì addosso la maggior parte dei gioielli e del denaro in banconote
che possedeva, dopo di che si accinse a fronteggiare qualsiasi avvenimento: anche
a fuggire' se proprio fosse stato necessario, e a dare il benvenuto ai vincitori
inglesi o francesi che fossero. E non potrei giurare che quella notte ella non
sognasse di diventare duchessa, o Madame la Maréchale, mentre Rawdon,
avvolto nella sua mantella militare, bivaccava sotto la pioggia a Mont-Saint-Jean
pensando con tutta la forza del suo cuore alla mogliettina che aveva lasciato.
L'indomani, domenica, Mrs. O'Dowd ebbe la soddisfazione di constatare che
i suoi due ammalati facevano progressi, sia dal lato fisico che da quello morale,
grazie al riposo notturno che gli aveva arrecato nuove energie. Quanto a lei, si era
adattata a dormire in una grande poltrona nella camera di Amelia, pronta ad
accorrere qualora fosse stato necessario accudire alla sua amica o al giovane
ferito. Più tardi, quando ormai era mattina, la robusta signora fece ritorno alla
dimora dove aveva alloggiato con suo marito il Maggiore, e diede corso a una
splendida, accurata toeletta, in tutto degna di quel giorno memorando. Non è da
escludere che, mentre si aggirava sola per quella camera che aveva occupata col
consorte (sul guanciale c'era ancora il suo berretto da notte, e in un angolo il suo
bastone da passeggio), almeno una preghiera sia salita al cielo per la vita di quel
prode guerriero ch'era Michael O'Dowd.
Poi, accingendosi a far ritorno da Amelia, prese con sì il suo libro di
preghiere e la famosa raccolta di sermoni dello zio decano, di cui ogni domenica
non mancava mai di leggere qualche pagina. Non capiva tutto, beninteso, e
pronunciava male gran parte dei vocaboli, che erano lunghi e astrusi, giacché il
decano in questione era un uomo erudito e amava far sfoggio di parole latine; ma
leggeva in atteggiamento molto solenne, con molta enfasi e una certa esattezza.
«Quante volte il mio Mick ha ascoltato questi sermoni,» pensava, «quando io
glieli leggevo in cabina durante i momenti di bonaccia!» Di conseguenza deliberò
di riprendere quell'abitudine salutare oggi stesso, davanti a un uditorio costituito
da Amelia e dall'alfiere ferito Quel giorno, alla stessa ora, lo stesso servizio venne
letto in ventimila chiese, e milioni d'inglesi inginocchiati implorarono la
protezione del Padre celeste.
Ma all'orecchio di costoro non giunse il rumore che, invece, turbò la nostra
minuscola congregazione, radunata in quella casa di Bruxelles. Infatti, mentre
Mrs. O'Dowd dava inizio alla lettura del servizio facendo appello alla miglior
intonazione di cui fosse capace, cominciarono a tuonare i cannoni di Waterloo.
Non appena Jos udì quel clamore terrificante, decise di non poter tollerare
oltre quegli alterni accessi di paura, e di fuggire senza ulteriori indugi. Pertanto
irruppe nella stanza del malato, ove i nostri tre amici avevano interrotto le
preghiere, e a sua volta li interruppe rivolgendo un fervido appello ad Amelia.
«Non ne posso più, Emmy. Non ne posso più. E tu devi venire con me. Ho
comperato un cavallo per te, e l'ho pagato a peso d'oro. Vestiti e seguimi.
Cavalcherai dietro Isidor.»
«Che Dio mi perdoni, Mr. Sedley, ma voi siete un perfetto esemplare di
vigliacco,» disse Mrs. O'Dowd posando il libro dei sermoni.
«Amelia, vieni, ho detto;» continuò il borghese. «Lasciala dire quel che più
le aggrada. Perché dovremmo restarcene qui a farci massacrare dai francesi?»
«Voi dimenticate il ...° Reggimento, caro mio,» disse dal suo letto il piccolo
Stubbles. «E... voi non mi lascerete; vero, Mrs. O'Dowd?»
«No, amico mio,» rispose lei alzandosi e schioccandogli un bacio. «Finché
sarò al vostro fianco, non potrà accadervi nulla di male. Ed io non mi muoverò di
qui fino a quando non me lo dirà il mio Mick. Bella figura farei, abbarbicata a un
ronzino dietro quell'individuo, vi pare?»
Quell'immagine fece scoppiare in una risata il ferito, e strappò un sorriso
persino ad Amelia.
«Ma io non mi sono rivolto a... a questa irlandese,» disse Jos. «L'ho chiesto
a te, Amelia. Te lo ripeto un'ultima volta: vuoi venire sì o no?»
«Senza mio marito, Joseph?» chiese Amelia con uno sguardo carico di
stupore; e tese la mano alla moglie del maggiore. Jos aveva esaurito le sue scorte
di pazienza.
«Arrivederci, allora,» strillò, agitando i pugni arrabbiatissimo e sbattendo
l'uscio. Questa volta diede realmente l'ordine di partire e, sceso in cortile, montò a
cavallo. Mrs. O'Dowd udì lo scalpitio dei cavalli, mentre varcavano il cancello, e
non si peritò di esternare sarcastiche osservazioni sul conto di Joseph, che
cavalcava seguito da Isidor in berretto gallonato. Rimasti a riposo da parecchi
giorni, i due destrieri erano particolarmente arzilli, e scalpitando allegramente si
lanciarono sulla strada. Jos, goffo e tremebondo com'era, non si può dire che in
sella si comportasse da brillante cavallerizzo. «Guardalo, cara Amelia,» disse la
O'Dowd accostandosi alla finestra del salottino. Sembra un elefante in un negozio
di cristallerie. Non ho mai visto niente di simile, parola mia.» Poi i due cavalieri si
allontanarono al trotto in direzione della strada per Gand, seguiti dagli infuocati
sarcasmi di Mrs. O'Dowd, finché alla fine scomparvero.
Per tutta la giornata, dal mattino sino al tramonto, il cannone non cessò di
tuonare. Quando all'improvviso tacque, era notte.
Tutti noi abbiamo letto ciò che accadde durante quel silenzio. Ogni bocca
inglese è in grado di raccontarlo: anche voi ed io, che eravamo bambini quando
quell'immane battaglia fu vinta e perduta, non ci stanchiamo di udir ripetere, e di
ripetere a nostra volta, il resoconto di quelle gesta memorabili. Il loro ricordo
riesce ancor oggi a commuovere milioni di compatrioti dei prodi che in quel
giorno patirono la sconfitta. Essi continuano ad attendere l'occasione di vendicarsi
dell'umiliazione subita; e se realmente dovesse rinnovarsi una lotta che, vittoriosa
per loro, accordasse ai francesi il piacere di scaricare su di noi un maledetto
retaggio di odio e di rabbia, la cosiddetta gloria e la cosiddetta vergogna non
avrebbero mai fine, come non avrebbe fine l'alternarsi di quel fortunato o
sfortunato assassinio nel quale verrebbero impegnate per sempre le energie di due
valorose nazioni. Invano trascorrerebbero i secoli, giacché francesi ed inglesi, in
preda al furore implacabile dell'orgoglio, continuerebbero a massacrarsi a vicenda
in omaggio al loro diabolico codice dell'onore.
Nell'immane battaglia tutti i nostri amici compirono il loro dovere e si
comportarono da veri uomini. Per tutto il giorno, mentre a dieci miglia di distanza
le donne pregavano, le linee dell'indomabile fanteria inglese subirono e respinsero
gli attacchi della cavalleria francese. I cannoni che echeggiavano sino a Bruxelles
scavavano solchi nelle loro file. Ma mentre i loro commilitoni cadevano, i
superstiti serravano nuovamente i ranghi. Verso sera l'iterato assalto dei francesi,
respinto con tanto coraggiosa tenacia, diminuì un poco d'intensità. Evidentemente
i francesi erano impegnati a respingere altri nemici, oppure si preparavano a
sferrare un nuovo attacco. E questo attacco venne, finalmente. Le colonne della
Guardia Imperiale si buttarono verso la collina di Saint-Jean per cacciare gli
inglesi dall'altura che, a dispetto di tutto, avevano difeso per l'intera giornata. Ad
onta degli spari delle artiglierie inglesi che seminavano la morte, la tetra colonna
proseguì nella sua avanzata verso il colle. Poi si arrestò, sempre al cospetto del
fuoco nemico. Fino a quando gli inglesi si lanciarono dalla postazione donde
nessun nemico era riuscito a sloggiarli. La Guardia si volse e prese a fuggire.
Fu allora che a Bruxelles non si udì più il rombo dei cannoni.
L'inseguimento si protrasse per miglia e miglia. Le tenebre scesero sul campo di
battaglia e sulla città; e Amelia pregava per George, che giaceva a faccia in giù
morto, con il cuore trapassato da una pallottola.
XXXIII • NEL QUALE I PARENTI DI MISS CRAWLEY SONO MOLTO
IN ANSIA PER LA SUA SALUTE
Il cortese lettore è pregato di ricordare che - mentre l'esercito avanza verso
le Fiandre, e dopo aver compiuto le sue gesta eroiche procede per metter mano
sulle fortificazioni di frontiera e invadere il suolo della Francia - esistono
nondimeno altre persone coinvolte nel nostro racconto le quali continuano a
condurre una pacifica esistenza in Inghilterra, ed ora debbono ripresentarsi alla
ribalta per recitare la parte che gli compete.
In quei giorni di battaglia e di pericoli la vecchia Miss Crawley continuava a
starsene in quel di Brighton, poco o nulla turbata da simili eventi. Naturalmente le
vicende in questione rendevano più interessante la lettura dei giornali. Non solo:
Miss Briggs leggeva anche la «Gazette» nella quale si faceva menzione del
coraggio dimostrato da Rawdon Crawley e si dava ufficialmente notizia della
promozione ottenuta.
«Peccato che quel ragazzo abbia commesso un errore veramente
irrimediabile,» commentava la zia. «Col suo grado e il suo nome avrebbe potuto
impalmare la figlia di un birraio con duecentocinquantamila sterline di dote come
Miss Grains, oppure avrebbe potuto imparentarsi con una famiglia dell'alta
aristocrazia inglese. Prima o poi avrebbe disposto del mio denaro, o lo avrebbero
avuto i suoi figli, anche se per la verità io non ho la minima fretta di andarmene,
Miss Briggs, mentre voi non vedete l'ora di liberarvi di me. E invece, Rawdon è
condannato a restare un pezzente, sposato a una ballerina!»
«Perché mai la mia cara Miss Crawley non volge uno sguardo
compassionevole verso il prode soldato, il cui nome è iscritto negli annali delle
glorie patrie?» chiese Miss Briggs elettrizzata dagli eventi di Waterloo e ben lieta
di potersi abbandonare a quei toni enfatici ogni qual volta se ne presentava
l'occasione. «Non trovate che il capitano (anzi, il colonnello, dal momento che ora
posso chiamarlo così) ha compiuto gesta che conferiscono lustro al casato dei
Crawley?»
«Siete la solita idiota, Briggs!» protestò rabbiosamente Miss Crawley. «Il
colonnello Crawley ha trascinato il nomi della sua famiglia nel fango. Sposare la
figlia di un maestro d disegno. Sposare una dame de compagnie! È stata una cosa
indegna, Briggs! Già, perché lei non era niente di più di questo. Anzi, era
esattamente quello che siete voi, con la sola differenza di essere di gran lunga più
giovane, più graziosa ed anche più intelligente. Del resto, non escludo che siate
state complice di quella sciagurata, di quella miserabile per la quale provavate una
così viva ammirazione, e delle cui arti perverse egli è stato vittima. Sì, non esito a
credere che siate stata sua complice. Ma la lettura del mio testamento vi riserverà
delle brutte sorprese, siatene pur certa. Frattanto siate così cortese da voler
scrivere a Mr. Waxy che desidero vederlo senza indugio.» Ormai Miss Crawley
aveva preso l'abitudine di scrivere al suo legale, Mr. Waxy, quasi ogni giorno:
intatti aveva annullato tutte le precedenti disposizioni riguardanti i suoi beni, ma
ora non sapeva esattamente cosa farne.
Si aggiunga che la vecchia zitella si stava rimettendo in salute: circostanza
comprovata dalle ritrovate energie e dai ripetuti dileggi di cui faceva oggetto Miss
Briggs: dileggi che l'infelice sopportava con docilità, con viltà e con una sorta di
rassegnazione a mezza strada fra la generosità e l'ipocrisia: in altri termini, con
quella rassegnazione servile di cui le persone del suo carattere e nella sua
posizione sono costrette a dar prova. Chi non ha assistito ai tormenti cui una
donna sa sottoporre una sua consimile? Forse che gli uomini sono costretti a
soggiacere a torture paragonabili alle quotidiane, crudeli e sprezzanti frecciate con
cui le povere donne vengono di continuo ferite dalle tiranne del loro sesso?
Povere vittime! Ma ci stiamo scostando dai nostri propositi: volevamo infatti
dimostrare che, ogni qual volta Miss Crawley si rimetteva da un malanno, si
rivelava più cattiva e pungente del consueto: proprio come le ferite, che prudono
di più quando stanno rimarginandosi.
Mentre la convalescenza, auspicata da tutti, si stava ormai avvicinando, Miss
Briggs era l'unica vittima ammessa alla presenza dell'inferma. Ciò non toglie che i
parenti di Miss Crawley, sebbene si trovassero molto lontano, non dimenticassero
la loro beneamata congiunta; e facendo ricorso a doni, lettere squisitamente
cortesi e disparate attestazioni d'affetto, facevano di tutto per mantenersi vivi nel
suo ricordo.
Prima di tutto menzioniamo suo nipote, Rawdon Crawley. Qualche
settimana dopo la celebre battaglia di Waterloo, e dopo che la «Gazette» aveva
recato a Miss Crawley la notizia della promozione conseguita dal valoroso
ufficiale e del coraggio di cui aveva dato prova sul campo, il postale di Dieppe le
recò a Brighton una scatola contenente una doverosa lettera del nipote colonnello.
La scatola in questione conteneva alcune reliquie del campo di battaglia, costituite
da un paio di spalline francesi, dall'impugnatura di una sciabola e da una croce
della Legion d'Onore. La lettera riferiva in termini decisamente comici come
l'impugnatura della sciabola appartenesse a un comandante delle Guardie il quale,
subito dopo aver giurato che «la Guardia muore ma non si arrende», era stato fatto
prigioniero da un soldato semplice che gli aveva spezzato la sciabola col calcio
della carabina; dopo di che Rawdon si era impossessato dei frammenti di
quell'arma. Quanto alla croce e alle spalline, erano appartenuto a un colonnello
francese di cavalleria che era stato ucciso dal nostro aiutante di campo in persona.
E la lettera proseguiva dicendo che il bottino in termini non poteva avere
destinataria migliore della carissima, amatissima amica del mittente. Poteva forse
continuare a scriverle da Parigi, ove l'esercito era diretto? Chissà che da quella
capitale non avesse modo di farle giungere interessanti notizie di certi vecchi
amici di Miss Crawley, che quest'ultima aveva conosciuto negli anni
dell'emigrazione, e ai quali ella aveva usato tante cortesie in quello sventurato
periodo!
La zitella ordinò alla Briggs di rispondere al colonnello con una garbata
lettera nella quale si complimentava con lui e lo esortava a continuare quella
corrispondenza testé iniziata. La prima lettera era così spigliata e amena, che
avrebbe atteso le successive con sentimento di vivo piacere «Inutile dire,» spiegò
a Miss Briggs, «che lui non è assolutamente in grado di scrivere lettere del genere,
né più né meno come non sareste in grado voi. È quella dannata volpe di Rebecca
ad avergliela dettata, parola per parola. D'altra parte, se in questo modo mio
nipote riesce a divertirmi, non c'è motivo per impedirglielo. Per questo desidero
informarlo che sono di ottimo umore.»
Non saprei dire se Miss Crawley fosse informata che era stata Becky, non
solo a compilare quella lettera, ma a concepire l'idea di spedire in patria quei
trofei acquistati per pochi franchi da uno dei tanti venditori ambulanti che subito
dopo la battaglia si erano messi a vendere cimeli, e reliquie varie della guerra testé
conclusa. Il romanziere però sa tutto, e di conseguenza sa anche questo.
Comunque fossero andate le cose, è certo che la cortese lettera di Miss Crawley
spronò il nostro Rawdon e la consorte a riporre speranze nel ripristinato
buonumore della zietta; onde si premurarono di divertirla con varie, spiritose
lettere spedite da Parigi dove, come si esprimeva Rawdon, avevano avuto la
fortuna di arrivare al seguito dell'esercito vincitore.
Al contrario, i messaggi che Miss Crawley inviava alla moglie del vicario,
partita per assistere il marito che si era fratturata una scapola al presbiterio di
Queen's Crawley, non erano certo così obbliganti. La solerte, efficiente, imperiosa
Mrs. Bute Crawley aveva commesso, nei riguardi della cognata, il più fatale degli
errori. Non soltanto aveva oppresso lei e tutte le persone che abitavano sotto il suo
tetto, ma per giunta l'aveva annoiata. Pertanto, se la povera Miss Briggs avesse
avuto un briciolo di spirito, sarebbe stata felice per aver ricevuto dalla sua
padrona l'incarico di scrivere una lettera a Mrs. Bute Crawley, nella quale si
diceva come la salute di Miss Crawley fosse molto migliorata dopo la sua
partenza, e al contempo la si esortava a non disturbarla e a non lasciare la famiglia
per far ritorno da lei. Un simile trionfo conseguito ai danni di una persona che
l'aveva trattata in modo così altezzoso e crudele avrebbe fatto la felicità di un
nugolo di donne; ma Miss Briggs - lo dicevamo poc'anzi - non era una donna di
spirito, e nel momento stesso in cui ebbe modo di contemplare la sconfitta della
sua nemica, prese a compatirla.
«Sono stata una sciocca a lasciarmi sfuggire che intendevo tornare, quando
ho scritto a Matilda la lettera che accompagnava quelle faraone in regalo» pensò
Mrs. Bute Crawley E non si può dire che avesse torto. «Avrei dovuto andarci
senza dire nemmeno una parola a quella povera vecchia rimbambita, togliendola
dalle mani di quell'idiota della Briggs e di quell'arpia della femme de chambre.
Oh, Bute, Bute, perché ti sei spezzata la clavicola?»
Già, perché? Come abbiamo visto? fino a quando la fortuna l'aveva assistita
Mrs. Bute Crawley aveva giocato le sue carte con grande abilità, esercitando un
così cieco e implacabile dominio sulla casa di Miss Crawley da esserne cacciata
con la stessa determinazione non appena se n'era presentata l'occasione propizia.
Invece Mrs. Bute Crawley e la famiglia erano convinti che alla base di tutto ci
fosse una mostruosa congiura, e che i sacrifici affrontati per il bene di Miss
Crawley fossero stati ricompensati con la più sinistra ingratitudine. Inoltre la
promozione di Rawdon e la menzione del medesimo sulla «Gazette» suscitarono
la comprensibile preoccupazione della religiosissima signora. Chissà' ora che
Rawdon era stato promosso al grado di tenente colonnello ed era diventato C.B.,
la vecchia signorina avrebbe ceduto... Quell'odiosa Rebecca sarebbe rientrata
nelle sue grazie? La moglie del vicario si affrettò a scrivere per il marito un
sermone che stigmatizzava la gloria militare e deprecava il dilagare della
malvagità sermone che il degno consorte lesse facendo appello alla migliore
intonazione di voce senza capire un'acca del contenuto. Tra l'uditorio figurava
anche Pitt Crawley, il quale si era recato in compagnia delle sorellastre in quella
chiesa che nessuno avrebbe potuto convincere il baronetto a frequentare.
Dopo la partenza di Becky Sharp quel vecchio malandrino si era
abbandonato ai vizi più turpi, fra lo scandalo dell'intera contea e il muto orrore del
figlio. Nastri e guarnizioni sul cappello di Miss Horrocks diventavano ogni giorno
più vistosi. Inorridite, le famiglie dabbene disertavano il palazzo e fuggivano la
compagnia del suo proprietario. Sir Pitt non faceva che bere: dai fittavoli, dai
contadini a Mudbury e nei villaggi circostanti, quando era giorno di mercato.
Conduceva Miss Horrocks a Southampton nella carrozza padronale guidando i
cavalli di persona; pertanto, sia la popolazione della contea, sia il figlio muto
d'angoscia, si attendevano di settimana in settimana che i giornali pubblicassero la
notizia ufficiale dell'imminente matrimonio. Indubbiamente il baronetto costituiva
una vera piaga per Mr. Crawley. In occasione dei raduni missionari e di altre
riunioni religiose ch'egli soleva presiedere dando prova in passato di straordinaria
facondia e leggendo sproloqui interminabili, si sarebbe detto che il flusso
inesauribile della sua eloquenza si fosse arrestato. Quando si alzava, aveva la
sensazione che la gente mormorasse: «Ecco, costui è il figlio di quel vecchio
libertino di Sir Pitt. Probabilmente il padre in questo momento è ubriaco fradicio
in qualche osteria.» Un giorno, mentre stava commentando le deprecabili
condizioni in cui si trovava l'anima del re di Timbuctu e delle sue numerose mogli
le quali, al pari di lui, conducevano un'esistenza peccaminosa, uno zotico
miscredente mescolato alla folla lo apostrofò gridando: «Di' un po' e a Queen's
Crawley quante ce ne sono, brutto smorfioso?» Parole che naturalmente
seminarono il più vivo sconcerto fra l'uditorio e mandarono a catafascio il
discorsetto di Mr. Pitt. Da parte sua Sir Pitt aveva giurato che nessuna istitutrice
avrebbe più varcato la soglia di Queen's Crawley, e le sue ragazze sarebbero
cresciute analfabete se Mr. Crawley non lo avesse costretto con le minacce a
mandarle a scuola.
Nel frattempo, indipendentemente dalle contese personali che potevano
travagliare i diletti nipoti e le amate nipoti di Miss Crawley, tutti concordavano
nel volerle un bene dell'anima e nel testimoniarle il loro affetto con regali d'ogni
genere. Ed ecco che Mrs. Bute Crawley le inviava faraone, oppure certi cavolfiori
di una qualità veramente sopraffina, oppure una deliziosa borsettina, per non dire
di un puntaspilli ricamato dalle sue adorate figliole con le loro manine industriose.
E queste ultime pregavano la carissima zia di serbare nel suo cuore un posticino
per loro, mentre dal castello Mr. Pitt inviava pesche, uva e selvaggina. Di solito
era il postale di Southampton a recare a Miss Crawley, in quel di Brighton, siffatte
testimonianze dell'affetto parentale, ma qualche volta il postale portava Mr. Pitt in
persona, il quale, dati i grandi rapporti che intratteneva col genitore, era indotto ad
assentarsi con crescente frequenza. Per di più Brighton gli offriva motivo di
piacevole richiamo nella persona di Lady Jane Sheepshanks, del cui fidanzamento
con lui è già stata fatta menzione in questa storia. Sua signoria viveva infatti a
Brighton insieme con le sue sorelle e con la madre, contessa Southdown: una
donna molto energica particolarmente apprezzata nella società delle persone
ammodo.
Ma è opportuno spendere qualche parola sul conto di Sua Signoria e della
sua nobile famiglia, unita da legami presenti e futuri alla famiglia Crawley. Per
quanto concerne il capo dei Southdown, Clement William, quarto conte di
Southdown, basterà dire che era entrato in parlamento (al pari di Lord Wolsey)
grazie alla protezione di Mr. Wilberforce, e che per un certo tempo si comportò in
modo affatto degno del suo padrino politico dando prova indiscutibile di assoluta
serietà. Ma non ci sono parole atte a descrivere efficacemente i sentimenti della
sua degna genitrice allorché, poco dopo la morte del suo nobile consorte, ebbe la
sgradita ventura di scoprire che il figlio era membro di numerosi circoli mondani,
che aveva perso cospicue somme al gioco da Wattier e al Cocoa-Tree, che si era
fatto prestare denaro sull'eredità futura, che aveva ipotecato i beni familiari, che
guidava un tiro a quattro, che assisteva a incontri di pugilato, e per concludere
aveva un palco all'opera dov'era solito radunare una ghenga di scapoli scapestrati.
Nella cerchia della genitrice il suo nome veniva sempre nominato con
accompagnamento di sospiri.
Lady Emily era di parecchi anni maggiore del fratello, e tra le persone come
si deve godeva di ottima reputazione quale autrice di opuscoli edificanti dei quali
abbiamo già avuto occasione di parlare, nonché d'innumerevoli inni e canti
religiosi. Zitella ormai matura aveva praticamente accantonato l'idea di potersi
maritare, e quasi tutti i suoi sentimenti erano votati all'affetto per i negri. E a lei,
se non vado errato, che dobbiamo questi versi stupendi:
Guidaci a un'isola di sole fulgente
nei lontani mar d'occidente
dove sempre il cielo è ridente,
e i negri piangono chiedendo pietà, ecc.
Intratteneva una fitta corrispondenza con ecclesiastici sparsi in tutti i territori
delle Indie Occidentali e Orientali, ed era segretamente innamorata del reverendo
Silas Hornblower, che era stato tatuato nelle isole dei Mari del Sud.
Quanto a Lady Jane - colei che, come abbiamo visto, aveva suscitato
l'affetto di Mr. Pitt Crawley era una creatura timida, gentile, taciturna, facile al
rossore. A dispetto della sua vita dissipata piangeva per il fratello, vergognandosi
di continuare a volergli bene. Gli scriveva dei bigliettini frettolosi che imbucava
di nascosto. L'unico, spaventoso segreto della sua vita consisteva nell'essersi
recata in compagnia di una vecchia governante nella stanza che il fratello abitava
all'Albany, dove lo aveva sorpreso - ah, misero scellerato! - in atto di fumare un
sigaro davanti a una bottiglia di curaçao. Ammirava sua sorella, adorava sua
madre e considerava Mr. Crawley l'uomo più piacevole e compito della terra,
beninteso dopo il fratello, il suo angelo precipitato agli inferi. La madre e la
sorella, donne veramente di elevato sentire, si occupavano di tutto ciò che la
riguardava e la trattavano con quella benevola considerazione che le nostre donne,
quando sono veramente superiori, possiedono con tale dovizia da poterla elargire
a destra e a manca senza risparmio. Spettava alla madre sceglierle i vestiti, i
cappelli, i libri, le idee. A seconda di ciò che passava per la testa a Lady
Southdown, Jane era tenuta ad andare a cavallo, a esercitarsi al pianoforte, ad
andare a passeggio o ad ingurgitare medicine. Sua Signoria non avrebbe esitato a
tenere la figlia in grembiulino fino all'attuale sua età di anni ventisei compiuti, se
non fosse stata costretta a toglierglielo per presentarla alla regina Charlotte.
Quando le signore in questione si erano trasferite nella loro casa di Brighton,
Mr. Crawley aveva riservato a loro e soltanto a loro l'onore di una sua visita
personale, mentre a casa della zia si era limitato a lasciare il suo biglietto da visita
e a chiedere con assoluta modestia notizia sulla salute della malata a Mr. Bowls, il
maggiordomo, e al suo aiutante. Ma il giorno in cui incontrò Miss Briggs che
ritornava dalla biblioteca con un fascio di romanzi sotto braccio, arrossì
vivamente (circostanza in lui affatto insolita), le si fece incontro e le strinse la
mano. Poi presentò la Briggs alla signora che si trovava in sua compagnia
dicendo: «Lady Jane, concedetemi di presentarvi a Miss Briggs, alla migliore
amica e alla più affezionata compagna di mia zia. Voi, del resto, la conoscete già
sotto altro nome, quale autrice delle Liriche del cuore che suscitano in voi una
così viva ammirazione.» Al che fu Lady Jane ad arrossire mentre porgeva a Miss
Briggs la sua vezzosa manina e farfugliava parole garbate quanto sconnesse circa
sua madre, nonché il desiderio di recarsi in visita da Miss Crawley e di far
conoscenza coi parenti e gli amici della stessa. Poi, congedandosi, salutò Miss
Briggs con occhioni dolci come quelli di una colomba, mentre Mr. Crawley si
piegava in un profondo inchino simile a quelli che elargiva a Sua Altezza la
duchessa di Pumpernickel quando fungeva da attaché presso quella Corte.
Ed eccolo all'opera, l'astuto diplomatico e degno allievo del machiavellico
Binkie! Era stato lui a far dono a Lady Jane di una copia delle poesie giovanili
della Briggs, che aveva scovato a Queen's Crawley con una dedica dell'autrice alla
defunta seconda moglie di suo padre. E del pari era stato lui a portare il volumetto
a Brighton e a leggerlo durante il percorso in diligenza fino a Southampton, e a
farvi alcune preziose annotazioni a matita prima di affidarlo alle gentili mani di
Lady Jane. Ed era sempre lui che aveva illustrato a Lady Southdown i cospicui
vantaggi (sia morali sia materiali aveva detto lui) che sarebbero scaturiti
dall'avvio di amichevoli rapporti tra la sua famiglia e Miss Crawley, specie ora
che la zia versava nella più desolante solitudine, giacché aveva negato il suo
affetto a quel reprobo di Rawdon a causa del suo deplorevole contegno e
dell'ignobile matrimonio da lui contratto. D'altra parte l'avidità, la tirannia e le
smaniose mire di Mr. Bute Crawley avevano spinto la vecchia zitella a ribellarsi,
respingendo le sfrontate pretese di quel ramo della famiglia. E sebbene fino a quel
momento egli non avesse sollecitato in alcun modo i favori e l'amicizia di Miss
Crawley, fors'anche per una sorta di malinteso orgoglio, riteneva che ormai fosse
giunto il momento di appellarsi ad ogni espediente plausibile per salvare l'anima
della zia dall'eterna dannazione, e per assicurarne il patrimonio a lui, nella sua
qualità di capo della famiglia Crawley.
Da quella donna di chiare vedute che era, Lady Southdown si dichiarò
perfettamente d'accordo su entrambi i propositi del futuro genero, palesando
altresì la sua propensione a ottenere quanto prima possibile la piena conversione
di Miss Crawley. Quando era a casa, a Southdown oppure a Trottermone Castel,
quella terrificante e irriducibile divulgatrice della Verità percorreva le campagne
in calesse, seguita dai suoi staffieri, e lanciava fasci di opuscoli ai contadini e ai
fittavoli, ordinando al Tale di convertirsi né più né meno come ingiungeva al
Talaltro di prendere le pillole del dottor James. Il tutto senza accordare libertà di
appello, libertà di opposizione o beneficio d'immunità ecclesiastica. Il defunto
consorte, Lord Southdown, un nobile epilettico e d'intelligenza men che mediocre,
aveva l'abitudine di approvare incondizionatamente qualunque cosa la sua Matilda
dicesse o pensasse. Di conseguenza Lady Southdown, quali che fossero le
variazioni cui andava soggetta la sua fede (la quale, per dire il vero, si adattava
con sorprendente facilita alle svariatissime opinioni esternate ora da questo ora da
quel teologo appartenenti a questa o a quella setta dissidente) non esitava
minimamente nell'ordinare ai suoi fittavoli o subalterni di abbracciare le sue
nuove convinzioni religiose. Perciò, sia che ricevesse il reverendo Saunders
MacNitre, l'apostolo della Chiesa di Scozia, oppure il reverendo Luke Waters, il
buon metodista Wesleyano, per non dire del reverendo Giles Jowls, l'illuminato
ciabattino che si era autopromosso reverendo esattamente come Napoleone si era
autoincoronato Imperatore, i figli, i fittavoli, il personale di Lady Southdown
erano rigorosamente tenuti a inginocchiarsi insieme con Sua Signoria e a dire
«Amen» a conclusione delle preghiere pronunciate dal tale o dal talaltro
ecclesiastico. Nel corso di questi edificanti rituali il vecchio Southdown era
peraltro autorizzato a starsene in camera sua a bersi un bicchiere di vin caldo e a
farsi leggere il giornale. Lady Jane era la figlia prediletta del conte che ella amava
sinceramente e al quale prodigava le sue cure. Quanto a Lady Emily, l'autrice
della Lavandaia di Finchley Common, le sue descrizioni dei castighi che
attendevano i malvagi nell'inferno (in quegli anni, poiché successivamente le sue
convinzioni in proposito subirono un drastico mutamento) erano così terrificanti
che il vecchio gentiluomo ne era letteralmente sconvolto, e i medici dichiaravano
che gli attacchi di cui soffriva seguivano sempre alle prediche di Sua Signoria.
«Andrò subito a farle visita,» rispose Lady Southdown, accogliendo le
esortazioni del prétendu di sua figlia, Mr. Pitt Crawley. «Chi è il medico di Miss
Crawley?»
Mr. Crawley menzionò il nome di Mr. Creamer.
«Un praticone, un uomo ignorante e pericoloso, caro Pitt. La Provvidenza si
è degnata di servirsi più volte di me onde allontanarlo dal capezzale di molti
infermi, sebbene in un paio di casi non sia purtroppo arrivata in tempo. Non sono
riuscita a salvare il povero generale Glanders, che è morto per essersi
abbandonato nelle mani di un uomo simile. Morendo dico... Gli somministrai le
pillole Podger e potei riscontrare un certo miglioramento, ma purtroppo era tardi.
Ahimè, non c'era niente da fare, ormai! D'altra parte la sua morte è stata
meravigliosa; ed è stato un cambiamento in meglio! Caro Pitt bisogna
assolutamente sottrarre vostra zia a Mr. Creamer.»
Pitt manifestò il suo consenso. Anche lui era stato travolto dall'energia della
nobildonna e futura suocera. Anche lui era stato indotto ad accettare Saunders
McNitre, Luke Waters Giles Jowls, le pillole Podger, le pillole Rodger, l'elisir
Pokey: insomma, tutte le medicine di Sua Signoria, non importa se sacre o
profane. Non usciva mai da quella casa senza portar seco, con ossequiosa docilità,
enormi quantitativi di quelle cianfrusaglie teologiche e medicinali. Eh, miei cari
amici e fratelli che insieme a me percorrete questa Fiera della Vanità chi di voi
non conosce qualche benevola despota di tale specie, o non soffre, oppresso sotto
il suo giogo implacabile? E del tutto inutile dirle: «Cara signora, l'anno scorso, in
omaggio alle vostre esortazioni, ho preso le pillole Podger avendone grande
beneficio; perché ora dovrei cambiare parere e abbandonarle per le pillole
Rodger?» Fatica sprecata. La nostra missionaria non demorde, e se non le riesce
di convincervi col ragionamento ricorrerà alle lacrime. Onde alla fine il riluttante
finisce col trangugiare l'amaro calice e col dire: «D'accordo, d'accordo... Vada per
le pillole Rodger!»
«Per quanto riguarda la salute della sua anima,» continuò la signora, «inutile
dire che dobbiamo occuparcene immediatamente. Affidata a Creamer potrebbe
morire da un momento all'altro; e in quali condizioni, mio caro Pitt, in quali
spaventevoli condizioni! Le manderò subito il reverendo Irons. Jane, scrivi a
nome mio un biglietto al reverendo Bartholomew Irons e dirli che sollecito l'onore
della sua presenza per il tè, alle sei e mezzo. È un uomo che sa come destare le
coscienze. Bisogna assolutamente che s'incontri con Miss Crawley prima che lei
si addormenti stasera. E tu, Emily, tesoro, prepara per lei un pacco di libri per
Miss Crawley Mettici Una voce si leva tra le fiamme, Le trombe di Gerico,
Crogiuoli spezzati, ossia: il cannibale convertito.»
«E La lavandaia di Finchley Common, mamma. Mi sembra più opportuno
cominciare con qualcosa di più lieve.»
«Basta così, care signore,» intervenne il diplomatico Pitt. «Con tutto il
rispetto per le opinioni dell'amata e rispettata Lady Southdown, personalmente
ritengo controproducente affrontare di punto in bianco problemi così gravi con
Miss Crawley. Non dimenticate che la sua salute è alquanto cagionevole, e che a
tutt'oggi ha meditato assai poco sull'immortalità della sua anima.»
«E allora come potete affermare che è troppo presto per cominciare?» chiese
Lady Emily alzandosi in piedi con sei libri in mano.
«Se cominciate affrontando di petto la situazione, non farete che
sgomentarla. Conosco il carattere di mia zia e sono certo che qualunque tentativo
troppo solerte per indurla alla conversione porterebbe a conseguenze deleterie per
l'anima di quella sventurata. La spaventereste. Molto probabilmente getterebbe i
libri e si rifiuterebbe di ricevere coloro che glieli avessero mandati.»
«Pitt, voi siete legato alle vanità di questo mondo come vostra zia,» rispose
Lady Emily, e uscì dalla stanza coi suoi libri.
«Inutile dirvi, poi, cara Lady Southdown,» continuò Pitt a bassa voce e
senza badare a quell'interruzione, «come qualsivoglia mancanza di tatto o
soverchia tempestività potrebbe frustrare le speranze che coltiviamo circa i beni
terreni di mia zia. Non dimenticate che possiede una fortuna di settantamila
sterline; pensate alla sua età e alle condizioni oltremodo precarie del suo sistema
nervoso. So che ha annullato il suo testamento a favore di mio fratello, il
colonnello Crawley. Solo placando quell'anima ferita riusciremo a ricondurla sulla
retta via. Per questo bisogna assolutamente evitare di spaventarla. Penso quindi
che sarete d'accordo con me che... che...»
«Certo, certo,» disse Lady Southdown. a Jane, tesoro, per ora è inutile che tu
scriva quel biglietto al reverendo Irons. Se le sue attuali condizioni di salute sono
tali che una discussione potrebbe affaticarla, è meglio attendere che si senta
meglio. Domani andrò a far visita a Miss Crawley.»
«E se posso permettermi un consiglio, mia dolce signora,» disse Pitt in tono
suadente, «eviterei di portare con voi la vostra preziosa Emily. È troppo zelante.
Mi sembra meglio che vi facciate accompagnare dalla nostra dolce e cara Lady
Jane.»
«Emily rovinerebbe tutto, non c'è dubbio.» rispose Lady Southdown E
questa volta si rassegnò a rinunciare alla tattica consueta, che consisteva - come
abbiamo visto - nello sparare una quantità di opuscoli contro l'individuo
minacciato prima di piombargli addosso per soggiogarlo, (proprio come i francesi
fanno precedere la carica da un furibondo cannoneggiamento). Sta di fatto che
Lady Southdown, per riguardo alla salute della malata, o alla salvezza della sua
anima, o alla sorte del suo denaro, accondiscese a temporeggiare.
L'indomani la grande carrozza padronale dei Southdown fregiata della
corona comitale e dello stemma (sul quale i tre agnelli d'argento in campo verde
dei Southdown erano incorniciati di nero e oro, e attraversati da tre strisce
marrone e rosse, emblema del casato dei Binkie) si arrestò solennemente davanti
alla porta della casa di Miss Crawley, dove un solenne domestico porse a Mr.
Bowls un biglietto da visita per Miss Crawley e uno per Miss Briggs. D'altro
canto, in seguito a una soluzione di compromesso, quella sera stessa Lady Emily
inviò alla Briggs un pacco contenente alcune copie della Lavandaia e altri
opuscoli d'intonazione alquanto moderata destinati a lei, nonché altri improntati a
fosche tinte (quali, ad esempio, Briciole della dispensa, La padella e la brace e
La livrea del peccato) per la servitù.
XXXIV • LA PIPA DI JAMES CRAWLEY VIENE SPENTA
L'amabile atteggiamento di Mr. Crawley e la gentile accoglienza riservatale
da Lady Jane lusingarono moltissimo Miss Briggs, inducendola a dire una buona
parola in loro favore allorché i biglietti dei Southdown vennero consegnati a Miss
Crawley. Il biglietto da visita di una contessa, consegnatole a titolo strettamente
personale, non era cosa da poco per la povera dama di compagnia priva di
amicizia e relazioni personali.
«Vorrei proprio sapere come mai Lady Southdown ha lasciato un biglietto
da visita anche per voi, Miss Briggs,» osservò con spirito altamente democratico
Miss Crawley. Al che l'altra rispose in tono mellifluo e sottomesso come sperasse
«non vi fosse nulla di sconveniente se una dama dell'alta società usava un cenno
di riguardo nei confronti di una povera dama di compagnia come lei», e ripose il
biglietto da visita nella sua scatola da lavoro, accogliendolo così fra le cose a lei
più care. Miss Briggs aggiunse di aver incontrato il giorno prima Mr. Crawley in
compagnia della cugina e ormai da gran tempo fidanzata, e aggiunse che la
signorina - la quale era vestita in modo estremamente semplice, per non dire
misero (e descrisse ogni dettaglio dell'abbigliamento, dalle scarpe al cappello,
calcolando il prezzo di ogni singolo capo di vestiario con precisione tutta
femminile) - le era sembrata quanto mai garbata e graziosa.
Miss Crawley concesse alla Briggs l'onore di ciarlare e parlare senza
interromperla. Ora che si sentiva meglio, un po' di compagnia le riusciva gradita.
Mr. Creamer, il suo medico non voleva saperne di lasciarla tornare nel suo
consueto ambiente londinese, poco morigerato e per nulla confacente, onde
l'anziana zitella era ben lieta di trovare a Brighton chiunque fosse disposto a
intrattenerla in un modo purchessia. Pertanto, non solo il giorno seguente fece
rispondere ai biglietti, ma spinse la sua benevolenza fino a invitare Mr. Crawley
ad andarla a trovare. Egli vi si recò in compagnia di Lady Jane e di Lady
Southdown, la quale si guardò bene di intrattenere Miss Crawley sulla salute della
sua anima, ma avviò una normale e cautelosa conversazione sul tempo, sulla
guerra, sulla batosta subita da quel mostro di Buonaparte, e soprattutto su dottori,
ciarlatani, nonché sui meriti preclari che in quel momento godeva della sua stima
incondizionata.
Nel corso di quella visita Pitt Crawley mise a segno un colpo da maestro: un
colpo atto a dimostrare che, se non fosse stata compromessa all'inizio dalle sue
mosse troppo lente e svogliate, la sua carriera diplomatica avrebbe potuto
affermarsi in termini né più né meno clamorosi.
Allorché la contessa madre di Southdown prese a parlare di quel losco
avventuriero corso, in omaggio a un argomento alla moda che stava diventando di
prammatica in tutte le conversazioni, e a dimostrare come fosse un essere abbietto
macchiatosi di ogni crimine possibile e immaginabile, di un codardo e di un
tiranno indegno di vivere, la cui caduta era un segno incontestabile della Volontà
divina, Pitt di punto in bianco cominciò a pronunciarsi in favore dell'Uomo del
Destino. Descrisse il Primo Console così come lo aveva visto a Parigi all'atto della
stipulazione della Pace di Amiens; quando lui, Pitt Crawley, aveva avuto l'onore
di conoscere il grande e ottimo Mr. Fox, lo statista del quale si poteva non
condividere le opinioni, ma che nondimeno meritava la generale ammirazione, lo
statista che aveva sempre nutrito sentimenti della più viva ammirazione nei
confronti dell'Imperatore Napoleone. E si diffuse commentando il vile contegno
degli alleati nei riguardi del monarca detronizzato; il quale era stato perfidamente
e malvagiamente bandito mentre lui si era fiduciosamente affidato alla loro mercé.
Quanto alla Francia, eccola soggetta alla tirannia di gentaglia bigotta e papista.
Questo ortodosso orrore per la superstiziosa Chiesa cattolico-romana valse a
salvare Crawley nell'opinione della contessa Southdown, mentre - per altro verso la conclamata ammirazione per Fox e Napoleone lo accrebbe in misura
notevolissima nella considerazione di Miss Crawley. Abbiamo già accennato,
all'inizio della nostra storia, all'antica amicizia fra la vecchia zitella e il defunto
uomo di stato. Da autentica Whig, Miss Crawley si era schierata all'opposizione
durante tutta la campagna bellica e, quantunque la caduta dell'imperatore non
l'avesse soverchiamente addolorata, e il modo in cui Napoleone era stato trattato
non fosse destinato a toglierle il sonno né ad accorciarle la vita, Pitt, lodando i
suoi due idoli, aveva parlato al suo cuore; con quattro parole era riuscito a far
passi da gigante verso la definitiva conquista del suo affetto.
«E voi cosa ne pensate, mia cara?» chiese Miss Crawley a Lady Jane, che
aveva subito preso in simpatia, come sempre le accadeva con le giovani graziose e
modeste (simpatia che d'altronde si raffreddava con la stessa rapidità con la quale
si accendeva).
Lady Jane si fece di bragia e rispose che... che lei non s'intendeva di politica,
che affidava simili problemi a menti più profonde della sua. D'altra parte riteneva
che sua madre avesse ragione, anche se Mr. Crawley si era espresso in termini
degni della massima considerazione...
Quando, a conclusione della visita, le signore si congedarono, Miss Crawley
disse a Lady Southdown che sperava sarebbe stata così gentile da mandarle
qualche volta Lady Jane, se poteva privarsi talvolta della sua presenza e spartirne
la compagnia, onde potesse allietare la giornata di una povera vecchia malata e
solitaria. Il permesso venne graziosamente accordato e si separarono in termini di
viva amicizia.
«Non ho nessuna intenzione di rivedere Lady Southdown,» disse Miss
Crawley a Pitt. «È sciocca e vanesia come tutti quelli della tua famiglia, che mi
sono sempre stati antipatici. Invece puoi condurmi la tua buona e vezzosa Jane
ogni qual volta lo desideri.» Pitt promise che lo avrebbe fatto, e naturalmente si
guardò bene dal riferire alla contessa quale opinione la zia nutrisse sul suo conto.
Sua Signoria era convintissima di aver suscitato in Miss Crawley un sentimento di
immediata simpatia e un'impressione di altissima dignità.
Da parte sua Lady Jane, per nulla maldisposta a confortare una vecchia
signora malata, e forse ben lieta - in cuor suo - di potersi risparmiare i foschi
sproloqui del reverendo Bartholomew Irons e di tutti gli uggiosi parassiti che
sedevano in crocchio attorno al posapiedi della pomposa contessa sua madre,
prese a far visita quasi quotidianamente a Miss Crawley. L'accompagnava nelle
passeggiate in carrozza e con la sua presenza ne allietava molte serate. Era di
carattere così buono e remissivo, che persino la Firkin non si sentì di alimentare
nei suoi confronti il minimo sentimento di gelosia. Quanto alla povera Briggs, si
convinse che la sua padrona era molto meno crudele con lei quando Lady Jane era
presente. Con la fanciulla in questione, Miss Crawley era di una dolcezza
sorprendente. La vecchia signorina le raccontava una sfilza di aneddoti sulla sua
giovinezza, ma usava nei suoi riguardi un tono affatto diverso da quello col quale
era solita rivolgersi a quella piccola miscredente di Rebecca. In effetti, Lady Jane
dava prova di tanto innocente candore, che un frasario troppo esplicito sarebbe
riuscito inopportuno, e Miss Crawley - da quell'autentica gentildonna che era non avrebbe mai osato offendere simile purezza. Peraltro, la giovane non aveva
mai ricevuto gentilezze in vita sua se non da suo padre, da suo fratello ed ora da
Miss Crawley, onde ricambiava l'engoûment di quest'ultima con l'attestazione di
una dolce e ingenua amicizia.
Nella sere d'autunno (mentre Rebecca folleggiava a Parigi più spensierata di
qualsiasi spensierato vincitore, e Amelia ahimè, dov'era mai la nostra povera,
ferita Amelia?) Lady Jane sedeva nel salottino di Miss Crawley e nella penombra
le cantava dolcemente inni religiosi o semplici canzoni, mentre fuori il sole
tramontava e le onde si frangevano scrosciando lontano, sulla spiaggia. La
vecchia zitella si svegliava quando la canzone terminava e ne chiedeva un'altra.
Quanto a Miss Briggs, e alle innumerevoli lacrime di felicità che spargeva mentre
se ne stava seduta fingendo di lavorare a maglia e dalla finestra contemplava la
splendida distesa dei mare farsi sempre più cupa, sotto le lampade del cielo che si
facevano sempre più luminose e scintillanti; ebbene, ditemi, chi avrebbe potuto
misurare l'emozione e l'allegrezza di Miss Briggs?
Nel frattempo Pitt sedeva in sala da pranzo leggendo un opuscolo sulle leggi
agrarie, o con accanto il «Missionary Register», e si crogiolava in quel piacevole
ozio pomeridiano che riesce accetto a tutti gli uomini, non importa se romantici e
meno. Sorseggiava madera, costruiva castelli in aria e meditava su se stesso per
concludere che era una persona veramente dabbene. Si sentiva molto più
innamorato di quanto lo fosse stato nei sette anni trascorsi dall'inizio della loro
liaison senza che in quel lasso di tempo avesse mai palesato la minima
impazienza. Inoltre dormiva, e non poco. All'ora del caffè, Mr. Bowls entrava
rumorosamente nella stanza e chiamava il nobile Pitt, il quale si faceva trovare al
buio, immerso nella lettura dell'opuscolo di turno.
«Mia cara, sarei veramente lieta di poter trovare qualcuno disposto a fare
una partita di piquet con me.» disse una sera Miss Crawley, mentre il domestico
entrava recando il caffè e i candelabri accesi. «La povera Briggs non è capace,
perché è stupida come un'oca.» (La vecchia zitella non si lasciava mai sfuggire
l'occasione di svillaneggiarla di fronte alla servitù). «Sono certa che riposerei
meglio se potessi farmi una partitina prima di andare a letto.»
Lady Jane arrossì dalla punta delle orecchie fino alla punta delle sue
graziose ditina; poi, quando Mr. Bowls ebbe lasciato la stanza e la porta venne
accuratamente richiusa, disse:
«Io so giocare un pochino, Miss Crawley... Giocavo un po' col mio povero
papà...»
«Vieni a darmi un bacio. Vieni subito a darmi un bacio, tesoro mio,»
esclamò Miss Crawley, giubilante. E quando Mr. Pitt sali al piano di sopra col suo
opuscolo in mano, trovò la vecchia dama e la giovinetta impegnate in
quell'amichevole e pittoresca occupazione. Come arrossì quella sera, la nostra
povera Lady Jane!
Sarebbe errato supporre che le trame esercitate da Pitt Crawley sfuggissero
all'attenzione dei suoi beneamati parenti del presbiterio. Lo Hampshire e il Sussex
non sono poi tanto lontani, e Mrs. Bute Crawley annoverava in quest'ultima
contea amici fidati i quali si affrettarono ad informarla di tutto ciò che accadeva,
con particolare riferimento a ciò che accadeva nella casa di Miss Crawley a
Brighton. Pitt vi soggiornava con crescente frequenza. Per mesi non si faceva
vedere al Castello, dove suo padre si abbandonava vieppiù alla crapula e
all'indecorosa dimestichezza con la famiglia Horrocks. Il successo che incontrava
Pitt suscitava il motivato furore della famiglia del vicario, e Mrs. Bute Crawley
recriminava sempre più (anche se si mostrava sempre meno disposta ad
ammetterlo apertamente) di aver commesso un madornale errore dileggiando
acidamente Miss Briggs e trattando con tanto sussiego e tanta avarizia Mrs. Firkin
e Mr. Bowls, col risultato che ora - in casa di Miss Crawley non c'era anima viva
disposta ad informarla su quanto vi accadeva. «È tutta colpa della tua clavicola,
Bute,» insisteva a ripetere. «Se non ti fossi rotta la scapola di là non mi sarei
mossa a nessun patto. Sono una vittima del dovere, una martire di quella tua
odiosa passione per la caccia, affatto indegna dell'abito che porti!»
«Cosa c'entra la caccia! Fandonie! Sei stata tu a disgustarla!» replicò
l'apostolo, reagendo alle reprimende della consorte. . Tu sei una donna
intelligente, chi non lo sa? Ma hai un pessimo carattere. E poi sei troppo avara.»
«Se non avessi badato io al tuo denaro, a quest'ora saresti in galera, caro
mio!»
«Lo so, cara,» rispose il vicario in tono più benevolo. «Tu sei una donna
davvero intelligente. Ma sei... sei troppo economa, ecco.» E il brav'uomo cercò
consolazione in un bicchiere di porto.
«Ma cosa diamine può trovarci in quell'imbecille di Pitt?» continuò la
moglie. «È un tipo che si spaventerebbe anche davanti a un branco di oche e di
galline! Ricordo quando quell'accidente di Rawdon - che però, se non altro, è un
uomo - lo faceva correre per le scuderie frustandolo come fosse stato una trottola.
E Pitt che si rifugiava a piagnucolare in casa della mammina! Ah! Ah! I miei
ragazzi sarebbero in grado di scaraventarlo a terra con una sola manata! Jim mi ha
detto che a Oxford ancora adesso parlano di lui come di "Miss Crawley!"»
«Senti, Barbara...» disse il vicario dopo una pausa.
«Cosa?» rispose la moglie, che si stava mangiando le unghie e tamburellava
una mano sul tavolo.
«Che ne diresti di mandare Jim a Brighton a vedere se riesce a combinare
qualcosa con quella vecchia befana? Ormai è prossimo alla laurea. È stato
respinto due volte come me, ma lui ha avuto il vantaggio di poter andare a Oxford
e frequentare l'università. Lì conosce tutti i giovani di maggior valore e fa parte
della squadra dei vogatori. E poi è un bel ragazzo, maledizione! Perché non
proviamo a mandarlo dalla vecchia? Non sei d'accordo? E se Pitt avesse il
coraggio di protestare, digli che gliele suoni di santa ragione!»
«Sì, sì,» rispose Mrs. Bute Crawley sospirando. «Mandarle Jim può essere
una buona idea. Certo, sarebbe meglio mandarle in visita una delle ragazze, ma lei
purtroppo non le ha mai potute soffrire perché non sono carine.» E inoltre la
madre parlava di loro, quelle squallide ragazzette rivelavano la loro presenza nel
vicino salotto, dove con mano goffa e pesante strimpellavano al piano un brano
piuttosto difficile. In omaggio alla verità, occorre ammettere che studiavano il
piano, o disegnavano, o studiavano storia e geografia tutto il santo giorno. Ma a
cosa servono queste eccelse virtù alla Fiera della Vanità, se le titolari delle
medesime sono ragazzucce piccole, insulse, povere e con una bruttissima
carnagione? Mrs. Bute Crawley non osava pensare che una persona purchessia
(salvo, magari, il curato) potesse manifestare il desiderio di portargliele via di
casa. Ma a questo punto Jim, che rientrava dalla scuderia entrando in casa dalla
porta-finestra del salotto con una pipa infilata nel berretto di pelle, si rivolse al
padre e prese a parlare con lui delle previsioni circa l'esito delle corse di St. Leger,
cosicché il colloquio tra il vicario e sua moglie ebbe termine.
Mrs. Bute Crawley non riponeva alcuna speranza sui vantaggi che
l'ambasciata di James avrebbe potuto arrecare alla loro causa, e assistette alla sua
partenza con animo alquanto pessimista. Del resto, quando gli vennero illustrate
le motivazioni del suo viaggio, anche il giovanotto non parve attendersi risultati
molto soddisfacenti; tuttavia lo incoraggiava l'idea che la vecchia potesse
lasciargli qualche opimo ricordo della sua visita, bastante a saldare, in occasione
del primo trimestre, alcuni fra i debiti più impellenti che aveva lasciato inevasi in
quel di Oxford. Pertanto salì in diligenza, giunse quella sera stessa sano e salvo a
Brighton in compagnia del bagaglio, del suo bulldog prediletto e di un enorme
paniere ricolmo dei prodotti dell'orto e della fattoria che i cari parenti del
presbiterio inviavano in omaggio alla diletta Miss Crawley. Data l'ora tarda
ritenne non fosse il caso di disturbare la malata la sera stessa dell'arrivo, onde
James prese alloggio in una locanda e solo l'indomani, nella tarda mattinata, si
presentò a casa dell'anziana parente.
L'ultima volta che sua zia lo aveva visto, James Crawley era un goffo
giovincello nell'età ingrata, quando il timbro di voce varia dall'acuto
sovrannaturale al basso più cupo e tenebroso, e quando non di rado il volto appare
cosparso di quegli antiestetici foruncoli che si dice possano essere efficacemente
curati col «Kalidor» di Rowland. È, l'età in cui i ragazzi si tagliano di nascosto la
barba incipiente con le forbici delle sorelle, e alla sola vista di sconosciute
esponenti del gentil sesso si sentono invadere da un indicibile sentimento di
terrore; quando polsi e caviglie fuoriescono dalle maniche e dai calzoni degli
abiti, sempre troppo corti e troppo stretti; quando dopo cena la loro presenza
riesce importuna alle signore, desiderose di scambiarsi confidenze a bassavoce
nella penombra del salotto, e addirittura intollerabile agli uomini che indugiano in
sala da pranzo, perché la loro coffa innocenza impedisce di dar corso a una
conversazione troppo libera, o ad uno scambio di salaci facezie; quando, dopo il
secondo bicchiere papà dice: «Jack, caro, va' a dare un'occhiata fuori e guarda se
il tempo si mantiene sul bello»; e il ragazzo in questione, soddisfatto di quella
libertà, ma indispettito di non essere ancora considerato un uomo, si vede
costretto ad alzarsi da tavola prima degli altri. James, che a quel tempo sembrava
uno spaventapasseri, adesso era diventato un giovanotto, grazie ai benefici che
derivano dall'educazione universitaria e più esattamente a quell'inestimabile
vernice di cui ci si riveste quando è possibile vivere nell'ambiente spigliato di un
piccolo collegio, contraendo debiti, facendosi bocciare nonché sospendere dalle
lezioni.
Ad ogni modo, recandosi in visita da sua zia, fruiva del vantaggio di
presentarsi come un bel ragazzo: e la prestanza fisica era sempre, agli occhi della
vecchia dama, un titolo di merito. Né la goffaggine e il rossore costituivano ai
suoi occhi un motivo di minor apprezzamento, dal momento che Miss Crawley
ravvisava in quei sintomi i sani contrassegni rivelatori dell'ingenuità del
giovincello.
James dichiarò di esser venuto a Brighton per qualche giorno a trovare un
suo amico che frequentava lo stesso collegio universitario. «Ed anche,» aggiunse,
«per porgere... per porgere a voi, signora, i miei ossequi, non disgiunti da quelli di
mio padre e di mia madre, i quali si augurano che voi stiate bene.»
Quando il ragazzo venne annunciato, Pitt, che si trovava in compagnia di
Miss Crawley, a quel nome impallidì. La vecchia, che aveva un acuto senso
dell'umorismo, trovò divertentissimo l'imbarazzo e il disappunto che il suo
impeccabile nipote non aveva saputo dissimulare. Chiese notizie di tutti i parenti
del presbiterio e precisò che stava pensando di recarsi da loro in visita. In
presenza di Pitt elogiò il giovanotto dicendogli come, crescendo, il suo aspetto
fosse migliorato in misura altamente lusinghiera. Peccato che le sorelle non
avessero proprio nulla della sua avvenenza! Quando poi, in risposta a una sua
domanda, seppe che James alloggiava in un alberghetto, non volle assolutamente
che vi si trattenesse oltre: invio tosto Mr. Bowls a prelevare il bagaglio del
ragazzo e aggiunse: «Mr. Bowls, abbiate la cortesia di pagare da parte mia il
conto di Mr. James.»
La vecchia zitella lanciò a Mr. Pitt una sarcastica occhiata di trionfo e il
nostro diplomatico rischiò letteralmente di crepare d'invidia. Infatti, per quanto
fosse riuscito ad entrare nelle grazie di sua zia, costei non si era mai sognata
d'invitarlo ad andare ad abitare in casa sua. E invece, ecco che quel giovane
fannullone vi veniva accolto al momento stesso del suo arrivo!
«Scusate, signore,» chiese Mr. Bowls facendosi avanti con un profondo
inchino, «a quale albergo Thomas deve andare a prelevare le vostre valigie?»
«Per carità!» esclamò il giovanotto, balzando in piedi come impaurito, «ci
vado io stesso.»
«Cosa?» disse Miss Crawley.
«Al Tom Cribb's Arms,» dichiarò James facendosi di porpora.
Nell'udire quel nome Miss Crawley scoppiò a ridere; ed anche Mr. Bowls
uscì in una risata quale poteva permettersela un fidato domestico di famiglia, ma
subito la represse. Quanto al diplomatico, si limitò ad abbozzare un sorrisetto.
«Non sapevo dove andare,» si giustificò James, lo sguardo chino al
pavimento. Me lo ha consigliato il cocchiere. Non sono mai stato a Brighton
prima d'ora.»
Frottole! La verità era tutt'altra: il giorno prima, sulla diligenza di
Southampton, James aveva fatto conoscenza col Campione di Tutbury che si stava
recando a Brighton per un incontro di pugilato con l'Asso di Rottingdean; e
affascinato dalle chiacchiere del suddetto individuo aveva passato la sera nella
locanda in questione, conversando con quell'arca di scienza e col suoi compari.
«Mi sembra... mi sembra più giusto che vada io a pagare il conto, signora,»
proseguì James, «non posso permettere che ve lo assumiate voi,» concluse
generosamente. E questa delicatezza suscitò un'altra esplosione di risò nella
vecchia zia.
«Bowls, andate a pagare il conto,» disse Miss Crawley, «e poi portatemelo.»
Povera donna, non sapeva quel che stava facendo! «Veramente... veramente
c'è anche un cagnolino,» disse James in tono spaventato e con espressione
colpevole.
Al che tutti scoppiarono a ridere, ivi incluse Miss Briggs e Lady Jane, che
nel corso di tutta la visita non aveva aperto bocca ed era rimasta seduta fra Miss
Crawley e suo nipote. Bowls non aggiunse altro e uscì dalla stanza.
Miss Crawley, con l'evidente proposito di mortificare il nipote più anziano,
continuò a mostrarsi estremamente affabile col giovane studente di Oxford. Una
volta preso l'aìre, i suoi complimenti e le sue gentilezze non avevano limiti.
Nondimeno disse a Pitt che poteva trattenersi a cena, ma al contempo insistette
perché James l'accompagnasse durante la sua passeggiata in carrozza, e lo
spupazzò solennemente su e giù per il lungomare, seduto sul sedile posteriore del
calesse. Ebbe la benevolenza d'intrattenerlo per tutto il tempo con espressioni
oltremodo affabili; recito poesie in francese e in italiano al giovanotto allibito e
continuò a ripetere che era uno studente encomiabile, che senza dubbio si sarebbe
meritata una medaglia d'oro e sarebbe diventato un senior Wrangler.
«Un Senior Wrangler? Ah! Ah!» rise James, incoraggiato da tutte quelle
espressioni complimentose. «Questa è roba dell'altra parrocchia!»
«Dell'altra parrocchia? Come sarebbe a dire?»
«I Senior Wranglers sono di Cambridge, non di Oxford,» rispose quello
straordinario erudito con aria saccente. E con ogni probabilità avrebbe continuato
sullo stesso tono se lungo la passeggiata non avessero fatto la loro comparsa, in
una carrozza pubblica trainata da un pony vistosamente bardato, e vestiti di un
appariscente abito di flanella bianca con bottoni di madreperla, i suoi due amici,
vale a dire il Campione di Tutbury e l'Asso di Rottingdean, in compagnia di altri
tre individui di loro conoscenza. E tutti salutarono il povero James, seduto in quel
calesse. Questo incidente ebbe l'effetto di smorzare a tal punto il buonumore del
nostro giovanotto, che per il resto della passeggiata non fu possibile cavargli una
sillaba di bocca.
Al ritorno trovò la sua stanza pronta, i suoi indumenti disposti nell'armadio,
e forse avrebbe potuto cogliere sul volto di Mr. Bowls - mentre costui lo
accompagnava in camera - un'espressione mista di gravità, di stupore e di
compatimento. Ma a dire il vero i pensieri di James non erano nemmeno
lontanamente rivolti a Mr. Bowls. Stava invece meditando sulla stravagante
posizione nella quale si trovava, in quella casa piena di vecchie signore che
cianciavano in francese e in italiano e gli citavano versi ad ogni piè sospinto.
«Guarda un po' in che maledetto covo sono andato a sbattere, accidenti!» pensava
il ragazzo, il quale non trovava l'ardire di rispondere a una donna purchessia che
gli rivolgesse la parola, anche se costei era la creatura più affabile del mondo,
anche se si trattava della Briggs! Se per contro lo aveste portato a Iffley-Lock,
sarebbe stato in grado di rispondere in termini adeguati al più volgare e sboccato
degli scaricatori.
All'ora di cena James si presentò semistrozzato da un enorme cravattone, ed
ebbe l'onore di condurre a tavola Lady Jane, mentre Miss Briggs e Mr. Pitt
seguivano Miss Crawley con un carico imponente di scialli, scialletti e cuscini. La
Briggs consumò metà del tempo dedicato al pasto occupandosi della posizione e
del comfort della sua padrona, e l'altra metà tagliando a minuti pezzettini il pollo
per cibarne il cagnolino. La conversazione di James non fu particolarmente fitta e
vivace, si prodigò nell'incoraggiare le signore a bere vino e, accettando la sfida di
Mr. Crawley, scolò buona parte della bottiglia di champagne che Bowls aveva
avuto l'ordine di servire in suo onore. Più tardi, quando le signore si ritirarono e i
due cugini rimasero a tu per tu, Pitt, l'ex diplomatico, assunse un tono molto
amichevole e disinvolto. Manifestò il più vivo interesse per gli studi di James
all'università e per la carriera che intendeva seguire in futuro, augurandogli con
molto calore di riuscire nei suoi propositi. Insomma, si mostrò molto schietto e
cortese. Così, insieme col porto, la lingua di James si sciolse: raccontò al cugino
la sua vita, gli esternò i suoi progetti, gli confessò di avere dei debiti, si sfogò
parlandogli dei suoi fiaschi coi primi esami, dei suoi attriti coi prefetti. Frattanto
andava incessantemente colmando il suo bicchiere, versandovi il contenuto della
bottiglia che posava dinanzi a lui e passando con assoluta indifferenza dal porto al
madera.
«Se c'è cosa che faccia veramente piacere a nostra zia,» disse Mr. Crawley
riempiendosi a sua volta il bicchiere, «è che in casa sua la gente viva come meglio
le aggrada. Questo è il regno della Libertà, mio caro James, e il modo migliore per
far felice la zia sta nel fare ciò che più si desidera e nel chiedere ciò che si vuole.
So perfettamente che vi siete tutti burlati di me perché sono un Tory. Ma Miss
Crawley è troppo liberale per non rispettare le opinioni di chicchessia. Da vera
diplomatica qual è, ha in spregio i titoli nobiliari e ogni sorta di discriminazioni.
«Come mai, allora, vi accingete a sposare la figlia di un conte?» domandò
James.
«Mio caro, sappiate che non è colpa di Lady Jane se appartiene a un nobile
casato,» rispose Pitt con sussiego. «Non è colpa sua se è una dama dell'alta
società; senza contare che io sono un Tory, come ben sapete.»
«Oh, in quanto a questo,» rispose Jim, «so perfettamente che niente è
importante quanto il sangue blu, maledizione! Eh, sì, è proprio vero. D'altronde io
non sono un radicale, su questo punto potete star tranquillo, maledizione! So cosa
significhi essere un gentiluomo. Basta dare un'occhiata a chi partecipa alle gare di
canottaggio, o agli incontri di pugilato... e persino ai cani che danno la caccia ai
topi. Chi sono i vincitori? Quelli di razza! Portaci dell'altro porto, Bowls, vecchio
mio mentre io vuoto questa bottiglia. Voglio scolarmela fino all'ultima goccia.
Dunque.. cosa stavo dicendo?»
«Se non sbaglio stavate parlando della caccia ai topi,» rispose Pitt con voce
suadente, porgendo al cugino la bottiglia da «scolare».
«Ah, sì? Stavo parlando della caccia ai topi? Ditemi un poco, Pitt, siete uno
sportivo, voi? Vi piacerebbe vedere un cane veramente in gamba nel dar la caccia
ai topi? Se ci tenete, venite insieme a me da Corduroy, in Castle Street Mews: vi
mostrerò un bull terrier che... Ah, ma sto dicendo un mucchio di stupidaggini!»
esclamò James interrompendosi e scoppiando a ridere delle assurdità che stava
raccontando. «Cosa diamine può importare a voi di cani o di topi? Queste sono
pure idiozie. Che mi prenda un accidente se voi siete il tipo capace di distinguere
un cane da un'oca!»
«Infatti,» replicò Pitt con voce sempre più suadente. «Ma stavate parlando
anche della nobiltà del sangue e dei vantaggi che l'appartenenza al ceto elevato
conferisce al prossimo. Tenete, ecco un'altra bottiglia.»
«C'erto, certo, il sangue ha molta importanza,» confermò James tracannando
la bevanda color rubino, «nei cani, nei cavalli e anche negli uomini. Ma proprio
l'anno scorso (è stato prima che mi sospendessero... cioè, volevo dire... prima che
mi ammalassi di rosolia, ah, ah, ah...) io e Ringwood del Christchurch College,
sapete, Bob Ringwood, il figlio di Lord Cinqbar, stavamo bevendo una birra al
"Bell" di Blenheim, quando il barcaiolo di Bambury ci ha sfidati a fare a pugni
con tutti e due per una tazza di punch. Io però non potevo accettare perché avevo
un braccio al collo: non riuscivo a fare il minimo sforzo. Due giorni prima quella
canaglia della mia cavalla mi era franata addosso e temevo di essermi rotto il
braccio. Dunque, come stavo dicendo, io non ero in grado di accettare la sfida, ma
Bob non esitò un istante: si tolse la giacca, per tre minuti tenne a bada quel tizio di
Bambury e in quattro riprese lo fece fuori. Per Dio, se lo fece fuori! E sapete
perché riuscì a stenderlo? Per il sangue! Nient'altro che per il sangue!»
«Ma voi non bevete, James,» disse l'attaché, «ai miei tempi i ragazzi di
Oxford vuotavano le bottiglie un po' più alla svelta di quel che sapete fare voialtri,
a quanto pare!»
«Adagio, adagio, vecchio mio,» disse James battendosi un dito sul lato del
naso in un gesto significativo e fissando il cugino con gli occhi resi lucidi dalle
abbondanti libagioni «niente scherzi, mi raccomando. Con me non è nemmeno il
caso di tentare. Voi cercate di farmi parlare, ma non c'è niente da fare. Già, già, in
vino veritas, vecchio mio. Mars Bacchus Apollo virorum, vero? Vorrei proprio
che la zia mandasse un po' di questo nettare al mio vecchio. È veramente
squisito.»
«Basta chiederglielo,» rispose il nostro Machiavelli, «oppure cercate di
berne quanto più potete mentre siete qui. Ricordate cosa dice il poeta? "Nunc vino
pellite curas, Cras ingens iterabimus aequor". E il seguace di Bacco, dopo aver
citato solennemente quei versi come se stesse pronunciando un discorso alla
Camera dei Comuni, alzò con un gesto vistoso il bicchiere e sorbì non più di un
dito del suo contenuto.
Al presbiterio, quando a conclusione della cena veniva aperta la bottiglia del
porto, le ragazze prendevano un'altra bottiglia, di vino comune, e ne bevevano un
bicchiere. Mrs. Bute Crawley beveva un bicchiere di porto, James ne beveva due,
e siccome il padre andava in bestia ogni qual volta lui cercava di metter le mani
sulla bottiglia, il giovanotto si adattava al vino comune, oppure, nel segreto della
scuderia, tracannava del gin-and-water fumando la pipa in compagnia del
cocchiere. A Oxford, di vino ce n'era a volontà, ma la qualità lasciava molto a
desiderare, mentre ora che in casa di sua zia la qualità e la quantità procedevano
di comune accordo, James mostrava di saperle apprezzare entrambe quanto
meritavano. E occorre aggiungere che l'incoraggiamento del cugino era del tutto
superfluo: James vuotò senza la minima difficoltà anche la seconda bottiglia
portata da Bowls.
Quando però fu la volta di bere il caffè e di far ritorno dalle signore, al
cospetto delle quali provava sempre una certa soggezione quella piacevole
disinvoltura d'eloquio lo abbandonò di colpo per lasciar posto alla consueta, goffa
timidezza. In conclusione si limitò ad esprimersi a monosillabi, guardando Lady
Jane con la coda dell'occhio e rovesciando una tazzina di caffè.
A peggiorare le cose va detto che, se James non parlava, in compenso
sbadigliava di continuo (visione in verità poco edificante), e la sua presenza
suscitò un certo malumore tra quel gruppo di persone impegnate a trascorrere una
tranquilla serata, poiché sia Miss Crawley e Lady Jane intente a giocare a piquet,
sia Miss Briggs che lavorava a maglia, sentivano i suoi occhi lucidi fissi su di
loro, e quello sguardo alterato dall'ubriachezza le metteva a disagio.
«Sembra un ragazzo molto taciturno, molto impacciato, molto timido,» disse
Miss Crawley a Mr. Pitt.
«Con gli uomini chiacchiera più volentieri che con le donne,» rispose
Machiavelli in tono asciutto, forse un po' deluso che il porto non avesse
alimentato la scarsa loquacità del ragazzo.
James aveva trascorso la mattinata scrivendo alla madre una minuziosa e
pittoresca relazione circa l'accoglienza riservatagli dalla zia. Poverino! Ancora
ignorava quale fosca tempesta si stesse addensando sul suo capo, e come il favore
di cui godeva fosse destinato a dissolversi in brevissimo volger di tempo. La sera
precedente, prima di recarsi dalla zia, al Tom Cribb's Arms era accaduto qualcosa
di assolutamente irrilevante, ma destinato ad avere conseguenze fatali. Jim, che
era per natura incline alla generosità, e dopo aver bevuto diventava addirittura
prodigo, nel corso della serata aveva ripetutamente offerto da bere ai suoi amici, il
Campione di Tutbury e l'Asso di Rottingdean. Il beveraggio offerto era gin-andwater, onde sul conto di Mr. James Crawley figuravano a suo carico non meno di
diciotto bicchieri di tale bevanda, al prezzo di otto pence ciascuno. Quando Mr.
Bowls si recò a pagare il conto di James per ordine della zia, non fu tanto
l'ammontare della somma, quanto il numero di quei bicchieri, a svolgere un'azione
nefasta a danno del povero giovincello. Infatti l'oste, forse temendo che tutto quel
gin non gli venisse pagato, giurò e spergiurò che era stato il giovanotto - lui e
soltanto lui - a consumare i diciotto bicchieri. Bowls pagò senza fiatare, ma non
appena tornato a casa si affrettò a mostrare il conto a Mrs. Firkin, la quale,
sgomenta di fronte a quell'inaudita consumazione del summenzionato liquore,
portò la nota a Miss Briggs nella sua qualità di capo-contabile; e quest'ultima,
infine, ritenne doveroso parlare della cosa alla sua padrona.
Se James si fosse scolato sei bottiglie di chiaretto, forse la vecchia zitella
avrebbe chiuso un occhio. Mr. Fox e Mr. Sheridan bevevano chiaretto. Era la
bevanda della nobiltà. Ma diciotto bicchieri di gin consumati in compagnia di
pugili in una lurida bettola costituivano un crimine né più né meno odioso, per
nulla facile da perdonare. Tutto congiurava ai danni del giovanotto. Stava
rincasando portandosi appresso una scia di lezzo di stalla, ove era andato a
prelevare Towzer, il suo cane, per fargli fare una passeggiata, quando s'imbatté in
Miss Crawley, accompagnata dal suo asmatico spaniel Blenheim. Towzer
l'avrebbe sbranato facendone un solo boccone, se Blenheim tra mille guaiti non
fosse corso a rifugiarsi da Miss Briggs, in cerca di protezione, mentre il perfido
padrone del boxer mostrava di divertirsi di fronte a quell'agghiacciante spettacolo
di persecuzione.
Per di più quel giorno il povero giovane sembrava aver messo da canto la
consueta timidezza. A pranzo avviò una conversazione allegra e spiritosa; ebbe
due o tre battute di spirito all'indirizzo di Pitt, bevve lo stesso quantitativo di vino
della sera innanzi e, raggiunto un adeguato grado di sicurezza, quando passò in
salotto prese a intrattenere le signore raccontando loro alcuni episodi ameni della
sua vita universitaria. Si diffuse nel commentare le diverse virtù di Molineux e di
Sam l'Olandese nello sport pugilistico, propose scherzosamente a Lady Jane di
scommettere contro di lui sul Campione di Tutbury o sull'Asso di Rottingdean,
lasciando a lei di scegliere il pugile che le ispirasse maggior fiducia, e per
completare questa trovata scherzosa propose al cugino Pitt Crawley di battersi con
lui, con o senza guantoni. «È una proposta molto sportiva, caro mio,» disse
battendogli una manata sulla spalla e scoppiando in una risata sonora. «Anche
mio padre lo ha detto. Anzi, ha aggiunto che era disposto a pagare metà della
scommessa. Ah! Ah! Ah!» E nel dir questo il socievole giovanotto ammiccò
furbescamente alla povera Miss Briggs, indicando Pitt Crawley, che gli stava alle
spalle, con un divertito e ironico gesto del pollice.
È probabile che la cosa non riuscisse troppo gradita a Pitt, il quale peraltro
non ne fu risentito. Quanto al povero Jim, scoppiò in un'altra risata. Allorché Miss
Crawley si alzò per andare a coricarsi, il ragazzo con passo malcerto attraversò la
stanza, fece luce alla vecchia zia reggendo la candela e la salutò col più dolciastro
sorriso che possa rimediare un ubriaco. Poi a sua volta si ritirò nella sua stanza,
soddisfattissimo di sé e crogiolandosi dolcemente all'idea che i quattrini della
zitella con ogni probabilità sarebbero finiti nelle tasche di suo padre e dei suoi
familiari.
Era lecito presumere che, una volta in camera da letto, non facesse
nient'altro atto ad aggravare la situazione. E invece lo sciagurato giovanotto ci
riuscì. La luna splendeva lucente sul mare, e Jim, affascinato dalla romantica
visione del mare e del cielo - e di conseguenza attratto al davanzale della finestra pensò che avrebbe potuto gustarsi maggiormente lo spettacolo facendosi una
fumatina con la pipa. Nessuno, pensò avrebbe potuto percepire l'odore del tabacco
se avesse avuto la precauzione di tenere la pipa e la testa fuori della finestra,
all'aria libera. Così fece, infatti; ma dato il suo stato di eccitazione Jim aveva
dimenticato aperta la porta della camera, cosicché la brezza che entrava dalla
finestra stabiliva una corrente perfetta portando nuvole di fragrante tabacco al
piano di sotto, ove si trovavano Miss Crawley e Miss Briggs.
Questa pipa e questo tabacco furono la goccia che fece traboccare il vaso, e
la famiglia di Bute Crawley non seppe mai quante migliaia di sterline gli siano
costati. La Firkin si precipitò da Mr. Bowls, che in quel momento era impegnato a
leggere con voce possente e cavernosa al suo aiutante di campo qualche pagina de
La padella e la brace. L'orrendo segreto gli venne rivelato dalla Firkin con uno
sguardo talmente sconvolto dallo sgomento, che a tutta prima Bowls e il suo
giannizzero pensarono a un'incursione ladresca e che la Firkin avesse scorto le
gambe del malfattore sotto il letto di Miss Crawley. Ad ogni modo Bowls, una
volta informato dell'avvenimento, senza por tempo in mezzo corse di sopra
salendo i gradini a quattro a quattro ed entrò nella stanza dell'ignaro James
gridando con voce soffocata dall'indignazione: «Mr. James, per l'amor del cielo,
smettete subito di fumare quella pipa! Oh, Mr. James, che cos'avete fatto!» Poi
con voce patetica e profondamente addolorato, mentre gettava l'abominevole
oggetto dalla finestra aggiunse: «Miss Crawley non sopporta assolutamente il
fumo!»
«Chi obbliga Miss Crawley a fumare la pipa?» rispose James scoppiando in
una risata clamorosa e del tutto inadatta alla circostanza, convinto com'era che si
trattasse di uno scherzo bello e buono. Ma fu costretto a cambiare bruscamente
idea quando l'indomani mattina l'aiutante di Mr. Bowls, il quale gli puliva gli
stivali e gli portava l'acqua calda per radersi quei quattro peli che ambiva tanto a
togliersi dalle guance, gli consegnò mentre ancora giaceva fra le coltri un
bigliettino pugno di Miss Briggs.
Egregio signore, diceva il biglietto in questione, Miss Crawley ha trascorso
una pessima notte a causa del disgustoso odore di tabacco che si è sparso per
tutta la casa. La signorina m'incarica di dirvi che non si sente bene; pertanto è
spiacentissima di non potervi salutare prima della vostra partenza, e rimpiange
di avervi indotto a lasciare quella bettola dove è sicura che potrete trascorrere in
modo più piacevole e adeguato il periodo del vostro soggiorno a Brighton.
Così crollò la candidatura del buon James quale nipote prediletto della zia.
Forse, senza rendersene conto, aveva combattuto quell'incontro di pugilato
«sportivo» che aveva proposto al cugino Pitt.
Dove si trovava, nel frattempo, l'ex gran favorito nella corsa all eredità?
Come abbiamo visto, dopo la battaglia di Waterloo Becky e Rawdon si erano
riuniti e trascorrevano a Parigi l'inverno 1815 in un'atmosfera di festosa
spensieratezza. Rebecca era un'oculata amministratrice, e il prezzo che il povero
Jos Sedley aveva pagato per i due cavalli bastava di per sé a garantire per almeno
un anno la sussistenza della famigliola. Di conseguenza non si rese necessario
convertire in denaro «le mie pistole, quelle con cui ho ucciso in duello il capitano
Marker», né il servizio da toeletta d'oro o il mantello foderato di zibellino. Becky
l'aveva trasformato in una pelliccia per se e l'indossava per andare a cavallo nei
viali del Bois de Boulogne suscitando la generale ammirazione. E avreste dovuto
assistere all'incontro tra Rebecca e suo marito a Cambrai, ove la consorte lo aveva
raggiunto dopo l'ingresso dell'esercito: nel momento in cui lei scucì la fodera del
vestito e ne cavò orologi, gioielli, assegni, banconote e altri oggetti di valore che
vi aveva nascosto quando aveva meditato di fuggire da Bruxelles! Tufto era
affascinato e sbalordito a un tempo, mentre Rawdon scoppiava in una fragorosa
risata e continuava a ripetere che, per Giove!, quella scena era più divertente di
qualsiasi commedia a teatro. Quando poi lei descrisse in termini di strepitosa
comicità in che modo fosse riuscita a turlupinare Jos, Rawdon si divertì
moltissimo e credette d'impazzire a furia di risate. La sua fiducia nella moglie era
cieca, proprio come i soldati francesi confidavano ciecamente in Napoleone.
A Parigi Rebecca riportò il più vivo successo. Tutte le signore della capitale
concordarono nel giudicarla affascinante. Parlava la loro lingua alla perfezione e
in brevissimo tempo acquisì la loro grazia, la loro spigliatezza, il loro tratto. Il
marito era uno sciocco (come tutti gli uomini inglesi, del resto), ma in fondo, a
Parigi, un marito stupido faceva maggiormente risaltare le qualità della moglie. E
poi era l'erede della ricca e spirituelle Miss Crawley, la cui dimora, durante la
Rivoluzione, aveva accolto tanti esponenti della nobiltà francese. Tutti l'accolsero
nei loro salotti. Una dama dell'alta aristocrazia scrisse una lettera a Miss Crawley,
che in tempi ormai lontani aveva acquistato i suoi pizzi e i suoi gioielli senza
discutere sul prezzo, e innumerevoli volte l'aveva accolta a cena nei momenti
peggiori della Rivoluzione. «Perché la nostra cara Miss,» scrisse dunque, «non
viene a Parigi a trovare i suoi nipoti e i suoi affezionati amici di Francia.? Tutti
raffolent di quell'affascinante signora e della sua bellezza espiègle. Credete, noi
ravvisiamo in lei lo stesso spirito, la stessa grazia, lo stesso charme della nostra
diletta Miss Crawley. Ieri alle Tuileries è stata notata persino da Sua Maestà, e
siamo tutte gelose delle attenzioni che le riserva Monsieur. Avreste dovuto vedere
il dispetto di una certa Lady Bareacres (una cretina della quale spiccano, in
qualsiasi riunione o ricevimento, il naso a becco e il cappello adorno di piume)
quando la duchessa d'Angouléme, augusta figlia e parente di monarchi chiese
che le venisse presentata Mrs. Crawley in qualità di vostra figlia e protégée, e le
espresse i suoi ringraziamenti in nome della Francia per la benevola solidarietà
di cui avete dato prova ai nostri sventurati amici durante il crudele periodo
dell'esilio! Non c'è salotto nel quale non sia invitata, partecipa a tutti i balli. Ai
balli notate: non alle danze. Sì, perché questa bella e intelligente creatura,
sempre circondata dall'ammirazione del sesso mascolino sarà presto madre! A
udirla parlare di voi, sua protettrice, oserei dire sui madre, farebbe piangere un
orco! Vi è davvero affezionata come noi siamo affezionati alla nostra mirabile e
rispettabile Miss Crawley!»
Temo fortemente che questa lettera della gran dama parigina non sia stata
l'espediente migliore per far tornare Becky nelle grazie della sua mirabile e
rispettabile parente. Anzi, la vecchia zitella fu assalita da un accesso di collera
senza precedenti, quando seppe come viveva Rebecca e con quale improntitudine
avesse sfruttato il suo nome per ottenere un'entrée nell'alta società di Parigi.
Troppo sconvolta qual era sia nel fisico, sia nella psiche, per redigere di suo
pugno una risposta in francese, dettò a Miss Briggs una furibonda lettera nella
propria lingua, nella quale ripudiava formalmente Mrs. Crawley e diffidava
chiunque dal cadere nella pania di quell'astuta e perniciosa filistea. Ma siccome la
duchessa di... era vissuta solo vent'anni in Inghilterra e non capiva un'acca
d'inglese, si limitò a informare Mrs. Crawley, alla prima occasione, che la
suddetta missiva trasudava di espressioni oltremodo benevole nei suoi confronti,
cosicché Becky cominciò a nutrire serie speranze che finalmente l'anziana zitella
avesse ceduto.
Frattanto era la più brillante e ammirata fra le signore inglesi residenti a
Parigi, e la sera in cui diede un ricevimento si può dire che in casa sua ci fosse un
piccolo congresso europeo. Del resto, tutto il mondo era radunato a Parigi, in quel
memorabile inverno: vi s'incontravano cosacchi e prussiani, spagnoli e inglesi.
Quella profusione di fusciacche e decorazioni, nel modesto salotto di Becky,
avrebbe fatto crepare d'invidia tutta Baker Street. Generali dal nome famoso
cavalcavano accanto alla sua carrozza al Bois, o si mostravano nel suo piccolo
palco all'Opera. Dal canto suo Rawdon non avrebbe potuto essere di un umore
migliore: per ora, almeno a Parigi non si facevano vedere ufficiali giudiziari. Ogni
giorno c'erano feste in casa di Véry o di Beauvilliers. Ovunque si giocava e la
fortuna continuava ad assisterlo. Tufto invece appariva piuttosto imbronciato.
Mrs. Tufto, dopo essersi autoinvitata, era piombata a Parigi; ma
indipendentemente da questo inopinato contretemps, attorno alla poltrona di
Becky ormai facevano ressa una buona dozzina di generali, onde lei aveva agio di
scegliere tra una dozzina di mazzi di fiori quello che maggiormente gradiva
portare a teatro la sera. Dal canto loro, Lady Bareacres e le signore più in vista
della buona società inglese, donne tanto imbecilli quanto irreprensibili, si
torcevano di rabbia, insofferenti del successo che riscuoteva quella piccola
avventuriera, i cui scherzi velenosi raggiungevano sempre come strali i loro
castissimi petti. Gli uomini erano tutti schierati con lei, e Rebecca combatteva
facilmente contro le donne, dato che potevano sparlare di lei solo nella loro
lingua.
Così, tra fêtes, piacevoli trattenimenti e agi d'ogni genere, Mrs. Crawley
trascorse l'inverno 1815-16, ed entrò a far parte della vita del bel mondo quasi la
sua famiglia vi avesse appartenuto per secoli prima di lei. Del resto, in fatto di
arguzia, talento, energia, nessuno, alla Fiera della Vanità, si meritava quel posto
più di lei. All'inizio della primavera del 1816 il «Galignani's Journal» pubblicava
con particolare risalto la seguente notizia: «Il 26 marzo u.s. la consorte del tenente
colonnello Rawdon Crawley delle Life Guards Green ha dato alla luce il suo
primogenito.»
Questo annuncio venne ripreso dai giornali inglesi. Miss Briggs lo lesse e ne
informò Miss Crawley all'ora di colazione. L'evento mandò la zitella su tutte le
furie. Immediatamente fece convocare il nipote Pitt Crawley e Lady Southdown a
Brunswick Square, e impose che venisse celebrato senza ulteriore indugio il
matrimonio che da tanto tempo era stato deciso fra le due famiglie.
Contemporaneamente dichiarò che vita natural durante avrebbe versato la somma
di mille sterline annue a Pitt e alla cara Lady Jane Crawley, ai quali, dopo la sua
morte, sarebbe andata la quasi totalità del suo patrimonio. Waxy venne
appositamente da Londra per ratificare il contratto. Lord Southdown condusse la
sorella all'altare e le nozze vennero celebrate dal vescovo anziché dal reverendo
Bartholomew Irons, con grave disappunto del poco ortodosso ecclesiastico.
Pitt avrebbe desiderato fare un viaggio di nozze in tutto degno delle persone
appartenenti al suo rango sociale, ma l'attaccamento della vecchia zia a Lady Jane
si era a tal punto cementato, ch'ella dichiarò di non potersi assolutamente separare
dalla sua beniamina. Di conseguenza Pitt e sua moglie andarono ad abitare in casa
di Miss Crawley, fra l'irritazione del povero Pitt che si reputava il più disgraziato
degli uomini. Infatti era costretto a sopportare sia i capricci della zia che le fisime
della suocera, perché dalla sua non distante abitazione Lady Southdown cominciò
ad esercitare il suo implacabile dominio su tutta la famiglia: Pitt, Lady Jane, Miss
Crawley, Miss Briggs, Mr. Bowls, Mrs. Firkin e tutti gli altri. Senza un'oncia di
misericordia li obbligò a leggere i suoi opuscoli e a trangugiare le sue pozioni;
inoltre congedò Creamer, installò Rodgers in qualità di medico di famiglia e non
tardò a sottrarre a Miss Crawley le ultime parvenze di autorità. La povera vecchia
divenne così timorosa, che smise di seviziare la povera Briggs e si abbarbicò alla
nuova nipote con un misto di terrore e di affetto che andavano accentuandosi di
giorno in giorno. Pace a te, vecchia pagana amabile ed egoista, generosa e
vanagloriosa! Non ti vedremo più. Auguriamoci che Lady Jane ti abbia aiutata
amorevolmente e guidata con mano affabile a uscire dalla farraginosa lotta della
Fiera della Vanità.
XXXV • VEDOVA E MADRE
Le notizie delle grandi battaglie di Quatre Brase e di Waterloo giunsero in
Inghilterra contemporaneamente. La «Gazette» pubblicò innanzitutto l'esito dei
due combattimenti, e a questa nuova gloriosa tutto il paese fu scosso da un
sentimento di trionfo e di timore. Poi si seppero i particolari, e all'annuncio della
Vittoria seguì l'elenco dei morti e dei feriti. Chi potrebbe descrivere il sentimento
di terrore e di panico col quale si apriva e si leggeva quell'elenco! Pensate che in
ogni villaggio, praticamente in ogni singola abitazione o fattoria dei tre regni
pervenivano le notizie delle grandi battaglie svoltesi nelle Fiandre; e provate a
immaginarvi quali fossero le reazioni di giubilo e di gratitudine, oppure di
sconforto e di disperazione quando, dopo la lettura delle perdite subite nel corso
degli eventi bellici, si sapeva che un parente o un caro amico era incolume o era
caduto. Chiunque si provi, oggi, a sfogliare i giornali dell'epoca, non può fare a
meno di provare - sia pure con minor spasimo - l'ansia attanagliante di
quell'attesa. Ogni giorno il giornale riportava l'elenco dei caduti, e si sapeva che il
giorno successivo sarebbe continuato come se si fosse trattato di un romanzo a
puntate. Pensate a ciò che debbono aver provato coloro che quotidianamente
scorrevano i giornali freschi di stampa. E se un siffatto interesse animava i nostri
concittadini dopo una battaglia che aveva impegnato ventimila uomini, pensate a
quali debbono essere state le condizioni dell'Europa nei vent'anni precedenti,
quando gli uomini si trovarono a combattere non a migliaia ma a milioni. Ognuno
di quegli uomini, quando colpiva il proprio nemico, colpiva nel modo più orrendo
un cuore innocente che pulsava a miglia e miglia di distanza.
La notizia che la famosa «Gazette» recò agli Osborne fu un colpo terribile
per tutta la famiglia e per il suo capo. Le ragazze si abbandonarono al loro dolore
senza ritegno. Il vecchio padre, già cupo e afflitto, parve addirittura sopraffatto dal
suo doloroso destino e si ostinò a coltivare la convinzione che il figlio fosse stato
punito da Dio a causa della sua disubbidienza. Non osava ammettere che quella
punizione, così severa, lo colmava di spavento, e che era giunta troppo presto,
come causata dalle sue maledizioni. A volte rabbrividiva di terrore, come se fosse
stato lui a firmare quella condanna, invocandola sul capo del proprio figliolo.
Prima la possibilità di una riconciliazione era aperta: la moglie del figlio sarebbe
potuta morire, oppure George avrebbe potuto far ritorno da lui e dire: «Padre mio,
ho sbagliato.» Adesso invece non c'era più speranza. Ormai George aveva
raggiunto la riva opposta del fiume: di quel fiume che non si può attraversare, e i
suoi occhi tristi continuavano a fissare il genitore Tristi, sì: così ricordava gli
occhi di George. Li aveva veduti tristi una volta, tanto tempo fa, quando si era
ammalato e tutti avevano temuto per la sua vita. Era ancora un fanciullo e giaceva
nel suo letto con espressione cupa e desolata. Ah, come il padre si era aggrappato
alla parola dei medici, allora! Con quale ansia terribile aveva seguito il decorso
della malattia Da quale peso spaventoso era stato liberato il suo cuore quando,
superata la fase cruciale del morbo, il giovinetto era guarito e di nuovo i suoi
occhi avevano riconosciuto il volto paterno! Ora invece tutto era vano: cure,
assistenza, speranze di riconciliazione. Ma soprattutto nessuna parola che
esprimesse sottomissione avrebbe placato la vanità offesa di Mr. Osborne o
addolcito il suo sangue avvelenato dall'ira. È difficile determinare quale angoscia
recasse maggior tormento al cuore del padre indignato: che il figlio non avesse
più alcuna possibilità di accogliere il suo perdono, o che non potesse più
rivolgergli quelle parole di scusa che l'orgoglio paterno esigeva.
Ad ogni modo, quali che fossero in realtà i suoi sentimenti quel vecchio
implacabile non volle palesarli a nessuno. Non profferì mai il nome di George
davanti alle figlie, ma impose alla maggiore che in casa tutte le donne vestissero a
lutto, e pretese altresì che la servitù portasse il lutto stretto. Inutile dire che feste e
ricevimenti vennero disdetti. Nessuna comunicazione in proposito venne data al
futuro genero circa il matrimonio del quale era già stata fissata la data, d'altra
parte l'espressione di Mr. Osborne bastava di per se a dissuadere Mr. Bullock dal
fargli qualsiasi domanda o dal tentare di accelerare le nozze. Pertanto si
accontentava d'intrattenersi nel salottino parlando a bassa voce con le signorine,
perché in quella stanza il vecchio non metteva mai piede. Mr. Osborne non si
allontanava mai dal suo studio. Inoltre, per un lungo periodo dopo la fine del
lutto, le finestre della facciata rimasero ermeticamente chiuse.
Erano trascorse circa tre settimane dal 18 giugno, quando un conoscente di
Mr. Osborne, Sir William Dobbin, si presentò alla casa di Russell Square e,
turbato, pallido in volto, chiese con insistenza un abboccamento col padrone di
casa. Venne pertanto introdotto nella sua stanza, e dopo qualche parola
preliminare che riuscì inintelligibile, vuoi al padrone di casa, vuoi al suo ospite,
quest'ultimo trasse da una busta una lettera chiusa da un vistoso sigillo di
ceralacca scarlatta.
«Mio figlio, il maggiore Dobbin,» prese a dire in tono alquanto esitante, «mi
ha inviato una lettera per il tramite di un ufficiale del ...° Reggimento che è giunto
oggi. La lettera di mio figlio ne contiene una anche per voi, Osborne.»
Il consigliere posò la lettera sul tavolo e Osborne indugiò qualche istante a
guardarla senza dir parola. Quello sguardo colmò di sgomento il latore della
missiva che, dopo esser rimasto a sua volta a osservare per un momento l'anziano
signore sopraffatto dal dolore, quasi si sentisse colpevole di qualcosa, si affrettò a
lasciare silenziosamente quella stanza.
La lettera recava i caratteri fermi e ben noti della scrittura di George, ed era
la stessa che aveva scritto all'alba del 16 giugno, prima di accomiatarsi da Amelia.
Il grosso sigillo rosso portava impresso lo stemma che George aveva tratto dal
Peerage, col motto «Pax in bello»: lo stemma ducale del casato col quale il
vecchio presuntuoso lasciava credere di essere imparentato. La mano che aveva
vergato quelle parole non avrebbe più retto né la penna né la spada. Persino il
sigillo era stato depredato sul campo di battaglia, dalla salma di George appena
spirato. Questo particolare era ignoto al padre, che peraltro rimaneva seduto,
fissando la lettera con occhi pervasi di angoscia e di smarrimento. Alla fine l'aprì
e per poco non venne meno.
Vi è mai accaduto di litigare con un intimo amico? Come vi fanno soffrire,
quale rimorso suscitano in voi le lettere che costui vi ha scritto quando tra Voi
regnavano solo affetto e confidenza! Quale malinconia indugiare sopra quelle
impetuose attestazioni di un affetto ormai estinto! Quali epitaffi menzogneri
recano, sulla tomba di quell'affetto! Quale squallido e crudele commento alla
vanità delle cose terrene! Chi di noi non ne possiede (o non ne ha scritte) da
colmarne cassetti interi? Sono cadaveri che teniamo celati, sforzandoci di
scordarne l'esistenza. A lungo Osborne fu scosso da tremiti nel guardare la lettera
del figlio morto.
La lettera del povero giovane non diceva gran che. Era stato troppo
orgoglioso, in vita, per affidare alla parola scritta la commozione che aveva
provato in quel momento. Si limitava a dire come, alla vigilia della battaglia,
desiderasse dire addio al padre e implorare solennemente il suo aiuto per la
moglie e forse, per il figlio nascituro. Confessava il suo pentimento nei
riconoscere senza riserve come la sua vita disordinata e scialacquatrice avesse già
dilapidato gran parte dell'eredità materna. Infine ringraziava il padre per la
generosità sempre dimostrata nei suoi riguardi e gli prometteva di comportarsi in
modo degno del nome di George Osborne, sia che cadesse sul campo, sia che
sopravvivesse al combattimento.
Il suo orgoglio, la sua educazione prettamente britannica fors'anche una
certa dose di goffaggine, gli avevano impedito di dire di più. Il padre non vide la
crocetta che George aveva apposto in alto, prima del testo della lettera; il segno di
un bacio. Mr. Osborne lasciò cadere il foglio in preda al dolore cocente e mortale
dell'affetto respinto, della vendetta frustrata. Quel figlio era ancora adorato, non
ancora perdonato.
Tuttavia, trascorsi un paio di mesi, una volta che le sorelle Osborne si erano
recate in chiesa insieme col padre, constatarono che quest'ultimo aveva scelto una
panca diversa da quella ov'era solito sedere quando presenziava al servizio divino;
e che dal suo posto fissava con insistenza la parete sopra le loro teste. Pertanto
anche le signorine guardarono nella direzione ov'era fisso lo sguardo tetro del
genitore, e sulla parete videro un complicato monumento ove Britannia era
raffigurata nell'atto di piangere sopra un'urna, mentre una spada spezzata e un
leone prostrato indicavano come quell'opera scultorea fosse stata eretta in onore di
un guerriero caduto. A quell'epoca gli scultori si sbizzarrivano in siffatti simboli
funerari, come si può osservare dando un'occhiata alle pareti della cattedrale di St.
Paul, letteralmente rivestite di centinaia di siffatte, retoriche allegorie pagane delle
quali vi fu continua richiesta nei primi tre lustri del nostro secolo.
Sotto il monumento celebrativo in questione era scolpito il ben noto e
pomposo stemma degli Osborne, mentre un'epigrafe dicava. «Dedicato alla
memoria di George Osborne junior, capitano del ...° Reggimento di fanteria di
Sua Maestà, caduto il 18 giugno 1815 all'età di 28 anni combattendo per il re e per
la patria nella gloriosa battaglia di Waterloo. Dulce et decorum est pro patria
mori.»
La vista di quel monumento funebre sconvolse a tal punto le due sorelle, che
Miss Maria si vide costretta a uscir di chiesa. I fedeli aprirono rispettosamente un
varco per lasciar passare le due donne scosse dai singhiozzi, vestite a lutto, e
guardarono con occhio compassionevole il povero vecchio padre, seduto di fronte
alla pietra funeraria che ricordava l'eroe deceduto in combattimento. «Riuscirà
mai a perdonare la moglie di George?» si chiesero le sorelle non appena ebbero
superato il primo accesso di dolore. Anche gli amici degli Osborne, informati
della rottura tra padre e figlio causata dalle nozze di quest'ultimo, si scambiavano
innumerevoli congetture circa l'eventualità di una riconciliazione con la giovane
vedova. Più d'uno, sia nella City che in Russell Square, arrischiava addirittura
delle scommesse in proposito.
Se le due sorelle nutrivano qualche ansietà circa l'ipotesi che Amelia venisse
accettata in seno alla famiglia, le loro apprensioni si accentuarono quando in
autunno il padre esternò il suo proposito di recarsi all'estero. Non precisò dove
intendesse andare, ma le figlie compresero all'istante che la sua meta era il Belgio,
così come sapevano che la vedova di George si trovava tuttora a Bruxelles. In
effetti, esse erano abbastanza informate sulla sorte di Amelia tramite Lady Dobbin
e le sue figliole. L'ottimo capitano Dobbin era stato promosso in seguito alla
morte in battaglia del secondo maggiore del reggimento, e l'ardimentoso maggiore
O'Dowd, che in quell'occasione aveva dimostrato una volta di più di esser dotato
di coraggio e sangue freddo, era diventato colonnello nonché cavaliere dell'Ordine
del Bagno.
Nel corso di quell'autunno, innumerevoli combattenti del prode ...°
Reggimento che nelle due battaglie avevano subito pesantissime perdite, si
trovavano ancora a Bruxelles, quivi costretti a soggiornare per curarvi le loro
ferite. Nel corso dei mesi successivi alla campagna di guerra, in pratica la città era
diventata un immenso ospedale militare. Poi, a mano a mano che soldati e
ufficiali guarivano, i giardini pubblici e i luoghi di divertimento andavano
popolandosi di guerrieri invalidi vecchi e giovani, i quali, ormai scampati alla
morte, cedevano alla tentazione del gioco e dei divertimenti, e riprendevano a fare
all'amore secondo le inveterate regole che vigono alla Fiera della Vanità. Mr.
Osborne non ebbe dunque difficoltà a imbattersi in qualcuno del ...° Reggimento.
Ne conosceva benissimo l'uniforme e ne aveva sempre seguito promozioni e
trasferimenti, così come in altri tempi si compiaceva di parlare dei suoi ufficiali
quasi fosse stato uno di loro. Fu così che, il giorno stesso del suo arrivo a
Bruxelles, uscendo dall'albergo che dava sul parco, vide un soldato con le ben
note mostrine seduto su una panchina di pietra del giardino, e andò a sedere
tremebondo accanto a quel ferito in via di guarigione.
«Per caso facevate parte della compagnia del capitano Osborne?» domandò.
E aggiunse dopo una pausa: «Era mio figlio.»
Il soldato non apparteneva alla compagnia del capitano Osborne, ma sollevò
il braccio incolume per portarvi la mano al chepì in segno di mesto e rispettoso
saluto al vecchio smarrito e sconsolato che gli aveva rivolto quella domanda. «In
tutto l'esercito,» disse il militare, «non c'era un ufficiale più bravo, più
coraggioso.» Però il sergente della compagnia del capitano Osborne, che adesso
era diventata la compagnia del capitano Raymond, si trovava in città, essendosi da
poco ripreso da una ferita alla spalla. Sua Signoria poteva rivolgersi a lui: il
sergente avrebbe potuto dirgli tutto quello che desiderava su... sull'azione del ...°
Reggimento. Ma senza dubbio Sua Signoria si era già incontrata col maggiore
Dobbin, che era grande amico del defunto capitano. E poi anche Mrs. Osborne si
trovava ancora a Bruxelles; a quanto gli avevano riferito, era stata molto male. Per
sei settimane, se non di più, avevano temuto che smarrisse la ragione. «Ma
sicuramente Vostra Signoria è informata di tutto ciò. Chiedo scusa,» concluse
l'uomo.
Mr. Osborne mise una ghinea nelle mani del soldato e gli promise di
dargliene un'altra se gli avesse condotto il sergente all'Hotel du Parc: argomento
che ebbe l'effetto di condurre senza indugio l'ambito ufficiale alla presenza di
Osborne. Poi il soldato se ne andò, e avendo raccontato a due o tre commilitoni
che era giunto il padre del capitano Osborne, e che era un gentiluomo molto
generoso, andarono insieme a consumare - mangiando e bevendo a volontà - le
due ghinee uscite dalla borsa orgogliosa del vecchio padre in gramaglie.
In compagnia del sergente Mr. Osborne si recò a Quatre Bras e a Waterloo:
un pellegrinaggio che in quei giorni compivano, come lui, migliaia di suoi
concittadini. Accolse il sergente a bordo della sua carrozza, e con quella guida
percorse i due campi di battaglia. Vide in quale punto della strada il reggimento
era entrato in azione il giorno 16, e il pendio dell'altura donde aveva respinto la
cavalleria francese che incalzava le truppe belghe in rotta. In quel punto il nobile
capitano aveva ucciso l'ufficiale francese impegnato in un corpo a corpo con
l'alfiere per strappargli la bandiera, perché il sergente portabandiera era stato
ucciso. Lungo quella stessa strada il giorno seguente si erano ritirati e quella era
l'altura sulla quale la notte del 17 il reggimento aveva bivaccato sotto la pioggia.
Più in là c'era la posizione che avevano conquistato e difeso per tutta la giornata,
serrando di tanto in tanto le file per reggere l'assalto della cavalleria nemica, e
gettandosi a terra sul pendio opposto dell'altura per proteggersi dal furioso
cannoneggiamento francese. Ed era su quel declivio, ove la sera lo schieramento
inglese aveva avuto l'ordine di avanzare sul nemico che si ritirava dopo l'ultima
carica, che il capitano Osborne, gridando urrah e correndo a precipizio giù per la
scarpata della collina a spada sguainata, era stato colpito da una fucilata
stramazzando a terra esanime. «Come saprete, è stato il maggiore Dobbin a far
riportare il corpo del capitano, a Bruxelles e a farvelo seppellire,» disse il sergente
a bassa voce. Frattanto, mentre il sergente raccontava i particolari di
quell'episodio attorno a loro si aggiravano contadini e venditori di reliquie
belliche, i quali a gran voce offrivano ogni sorta di ricordi: croci, spalline, aquile,
corazze.
Dopo aver visitato i luoghi che avevano visto le gesta estreme di suo figlio,
Osborne prese congedo dal sergente e gli diede una lauta ricompensa. Aveva già
visitato la tomba di George: vi si era recato subito dopo il suo arrivo a Bruxelles.
Le spoglie di George riposavano nel grazioso camposanto di Laeken, non lontano
dalla città. Era il luogo nel quale, un giorno che vi si era recato nel corso di
un'allegra scampagnata fra amici, aveva espresso il desiderio di essere seppellito.
Quivi il corpo del giovane ufficiale era stato deposto dall'amico Dobbin, in un
angolo sconsacrato del recinto che una piccola siepe separava dai tempietti, dalle
cappelletto, dai monumenti di varia foggia, dai cespugli e dalle piantagioni fiorite
sotto i quali dormono i defunti di fede cattolica romana Parve umiliante a!
vecchio Osborne che suo figlio, un gentiluomo inglese, capitano dl un esercito
glorioso come quello britannico, non fosse stato reputato degno di giacere nella
stessa terra ove venivano sepolti i corpi di stranieri qualsiasi. Chi di noi può dire
quanta vanità si celi dietro le premurose cure che abbiamo per gli altri e quanto
egoistico sia, per contro, il nostro amore? Ad ogni modo il vecchio Osborne non
indugiò molto a meditare sui suoi sentimenti così intricati, e sulla lotta in atto, nel
suo intimo, tra affetto istintivo ed egoismo. Era saldamente convinto di aver
sempre ragione, e che tutti dovessero agire in conformità a quanto lui diceva, e, al
pari del pungiglione della vespa o del morso del serpente, il suo odio si avventava,
velenoso, bellicoso, contro chiunque gli si opponesse. Era fiero del suo odio,
com'era fiero di tutto ciò che lo riguardava. Aver sempre ragione, procedere
calpestando tutto e tutti senza mai esser colti dal dubbio, non sono forse le eccelse
qualità che consentono alla stoltezza d'imperare sul mondo?
Mentre verso il tramonto, di ritorno da Waterloo la carrozza di Mr. Osborne
rientrava in città, incrociò un'altra carrozza nella quale sedevano due signore e un
uomo in borghese, e di fianco alla quale cavalcava un ufficiale. Osborne ebbe un
sussulto, e il sergente, seduto accanto a lui, gli lanciò un'occhiata sorpresa mentre
si portava la mano al chepì per salutare l'ufficiale, che meccanicamente rispose.
Era Amelia, accanto alla quale sedeva il giovane sottotenente zoppo, mentre di
fronte a lei aveva preso posto la fedele amica Mrs. O'Dowd. Sì, era proprio lei:
Amelia. Ma quant'era mutata dalla fresca e leggiadra fanciulla che Osborne aveva
conosciuto! Il viso era pallido, emaciato. I bei capelli bruni, spartiti sulla fronte,
erano celati dalla cuffietta vedovile. Poverina! Il suo sguardo vagava nel vuoto,
indifferente a tutto. E quegli occhi fissarono il viso del vecchio Osborne, mentre
le carrozze s'incrociavano, ma non lo riconobbero. Nemmeno lui, del resto, la
riconobbe, fin quando alzò lo sguardo e vide che l'ufficiale che cavalcava di
fianco alla carrozza era Dobbin. Solo allora comprese chi era. La odiava non
sapeva di odiarla tanto sino a quando non se la trovò davanti. Quando la carrozza
fu passata, si volse a guardare il sergente con un'espressione mista di sdegno e di
sfida, con la quale sembrava volesse dire al suo interlocutore, che non poteva
esimersi dall'osservarlo: «Come osate guardarmi? La odio, certo che la odio. È lei
che ha messo fine alle mie speranze e ha dilacerato il mio orgoglio.» «Dite a quel
mascalzone che corra di più!» con una bestemmia urlò allo staffiere che sedeva a
cassetta. Ma poco dopo dietro la carrozza risuonò uno scalpitio di zoccoli. Era
Dobbin che si stava avvicinando. Nel momento in cui le due carrozze si erano
incrociate il pensiero di Dobbin era rivolto altrove, e solo dopo gli era riuscito di
puntualizzare e rendersi conto che nella carrozza passata accanto alla loro sedeva
Mr. Osborne. Allora si era subito volto a guardare Amelia, per cercar di capire se
la vista del suocero avesse suscitato in lei qualche emozione, ma la povera
giovane non sapeva proprio chi fosse l'uomo che le era passato accanto.
William, che era solito accompagnarla nel corso della sua quotidiana
passeggiata in carrozza, dopo questa constatazione levò prontamente di tasca
l'orologio, disse di essersi ricordato all'improvviso di un precedente impegno e,
scusatosi con le signore, si allontanò. Ma Amelia non si accorse nemmeno di
questo: i suoi occhi rimasero fissi a contemplare quel paesaggio ormai familiare,
quei boschi che s'intravedevano in lontananza, verso i quali George, quel giorno,
si era allontanato.
«Mr. Osborne! Mr. Osborne!» gridò Dobbin mentre il suo cavallo si
accostava alla carrozza del vecchio signore, e protendendo una mano. Osborne
non si sporse per stringerla, ma al contrario gridò una volta ancora al conducente
di accelerare l'andatura.
«Signore, debbo parlarvi,» disse Dobbin appoggiando una mano allo
sportello della carrozza. «Ho un messaggio per Voi.»
«Da parte di quella donna?» chiese Osborne con voce alterata dalla collera.
«No,» rispose Dobbin, «da parte di vostro figlio.»
A queste parole Osborne ricadde sul sedile senza replicare, e Dobbin,
continuando a cavalcare di fianco alla carrozza, attraversò l'intera città fino a
quando giunsero all'albergo di Mr. Osborne senza scambiarsi una sola sillaba. Qui
Dobbin seguì Osborne nelle sue stanze. George le conosceva bene quelle camere:
erano le stesse che i Crawley avevano occupato durante il loro soggiorno a
Bruxelles.
«Desiderate forse qualcosa da me, capitano Dobbin? Oh scusatemi. Dovrei
dire maggiore Dobbin, dal momento che uomini migliori di voi sono caduti in
battaglia e voi avete avuto modo di soppiantarli tranquillamente!» esclamò Mr.
Osborne facendo appello a quel tono sarcastico che a volte si compiaceva di
assumere.
«È vero,» confermò Dobbin, «uomini migliori di me sono morti. Ed è
appunto di uno di loro che intendo parlarvi.»
«Allora siate breve, signore,» rispose l'altro, sbottando in un'imprecazione e
fissando il suo interlocutore con la fronti corrugata.
«Se mi trovo qui è perché ero il migliore amico di George sono il suo
esecutore testamentario,» riprese a dire il maggiore. «Vostro figlio ha fatto
testamento prima che iniziassero le operazioni belliche. Sapete quanto siano scarsi
i suoi mezzi e in quali strettezze viva la sua vedova?»
«Non conosco la sua vedova, signore,» rispose Osborne. «Del resto, non ha
che da tornare da suo padre.» Ma Dobbin era ben deciso a non perder le staffe e
continuò a parlare, incurante delle astiose parole del vecchio.
«Conoscete, signore, in quali condizioni fisiche e psichiche versi Mrs.
Osborne? Ella è stata così scossa dalla calamità che si è abbattuta su di lei che
difficilmente riuscirà a riprendersi. Le rimane una sola speranza, e di questo
appunto sono venuto a parlarvi. Presto sarà madre. Vorreste dunque far ricadere la
colpa del padre sul capo del bambino? O invece perdonerete al bimbo per amore
di George?»
Osborne esplose in un profluvio di imprecazioni e di lodi di se stesso. Le
seconde miravano a dilatare la portata del cattivo comportamento di George,
mentre con le prime cercava di mostrare la propria condotta di fronte alla sua
coscienza. Nessun padre in tutta l'Inghilterra avrebbe potuto comportarsi così
generosamente nei confronti di un figlio, il quale si era ignominiosamente
ribellato alla sua volontà. Era morto senza nemmeno riconoscere i propri errori,
quindi era giusto subisse le conseguenze della sua follia, della sua
irresponsabilità. Quanto a lui, era una persona coerente: aveva giurato di ignorare
quella donna e di non riconoscere mai in lei la moglie di suo figlio. «Vi autorizzo,
anzi, a riferirglielo: ditele che sarò fedele a questo proposito sino alla fine dei miei
giorni.»
Dunque, da quella parte non c'era speranza alcuna. La vedova avrebbe
dovuto vivere con la sua modesta pensione e con gli aiuti che eventualmente
avrebbe potuto ricevere da Jos. «Anche se lo dicessi ad Amelia, la cosa la
lascerebbe indifferente,» pensò Dobbin. Infatti dal giorno della disgrazia la mente
della povera infelice non sembrava rendersi conto della realtà delle cose, ed ella,
in muta e sconsolata contemplazione del proprio dolore, non reagiva né al bene né
al male. E purtroppo reagiva allo stesso modo anche alla gentilezza e all'amicizia.
Ne accoglieva le attestazioni senza accorgersene, per poi ritornare - dopo averle
accettate - al suo disperato dolore.
Ammettiamo che dal momento in cui si era svolta questa conversazione
siano trascorsi dodici mesi di vita della nostra povera Amelia, una parte dei quali
consumati in uno stato di così tragico dolore, di così cieca prostrazione, che
persino noi, osservatori e commentatori di quel dolce, tenero cuore, abbiamo
dovuto ritrarci al cospetto di quello strazio indicibile che lo faceva sanguinare. Ci
siamo allontanati in silenzio dal letto su cui posava mestamente quella creatura
sfiancata dalla sua pena. Dolcemente abbiamo richiuso la porta della stanza buia
nella quale essa trascorreva il suo tempo soffrendo, come fecero i buoni che si
presero cura di lei durante i primi cinque mesi del suo soffrire, e che non
l'abbandonarono mai fino a quando il Cielo non le mandò qualcuno capace di
recarle conforto. Poiché venne un giorno - un giorno di letizia straordinaria e
quasi inverosimile - in cui la povera donna, così giovane e già vedova, strinse al
seno un bambino: un bambino con gli occhi di George che non c'era più, un
maschietto bello come un cherubino! Quale miracolo fu per lei udire il suo primo
vagito! Come pianse e rise di felicità, mentre in lei rinascevano fede, speranza,
amore! Amelia era salva. I medici che l'avevano curata e avevano temuto per la
sua vita e per la sua ragione, avevano atteso ansiosamente quella crisi definitiva
per potersi pronunciare e dichiarare che l'una e l'altra fossero salve. Il suo
sguardo, che ora tornava a volgersi su di loro, luminoso e pervaso di tenerezza,
ricompensava gli amici che senza requie l'avevano assistita nei lunghi mesi di
dubbio e di angoscia.
Fra questi amici figurava il nostro Dobbin. Era stato lui a ricondurla in
Inghilterra in casa della madre quando Mrs. O'Dowd, in conseguenza di un
perentorio appello giuntole dal colonnello suo consorte, era stata costretta ad
abbandonare la sua paziente. La vista di Dobbin che reggeva tra le braccia il
piccolo sotto lo sguardo trionfante di Amelia, che ora talvolta persino rideva,
avrebbe divertito chiunque fosse stato dotato di un minimo senso dell'umorismo.
Fu lui il padrino del bimbo, e con tutta la miglior volontà si diede ad acquistare
scodelle, tazze, cucchiai e succhiotti per il suo figlioccio.
Sarebbe ozioso, in questa sede, raccontare come la madre abbia allevato e
vestito il suo bimbo, come abbia vissuto in funzione totale della di lui esistenza:
come abbia rifiutato l'assistenza di bambinaie e solo in rarissime occasioni abbia
permesso a mani diverse dalle sue di toccare il bambino; e come abbia sempre
considerato un altissimo privilegio - il massimo che potesse accordare al padrino quello di consentirgli di cullare talvolta il piccino tra le sue braccia. Quel bimbo
era tutta la sua vita. La sua esistenza era una carezza materna. Amelia avvolgeva
quella tenera, ignara creatura nel suo amore, nella sua adorazione. Era la sua vita
che il bimbo succhiava dal suo seno. Di notte, quando era sola, si abbandonava a
segreti, intensi rapimenti materni: quelli che la meravigliosa Provvidenza divina
ha ritenuto di concedere all'istinto femminile: gioie tanto più alte e tanto più basse
di quelle offerte dalla ragione; cieca, meravigliosa devozione che solo il cuore di
una donna conosce. A William Dobbin restava il compito di studiare queste
manifestazioni di Amelia e indagare nei moti del suo cuore. E se in virtù del suo
grande amore gli riusciva di interpretare tutti i sentimenti che lo agitavano, ahimè,
la sua perspicacia fatalmente lo portava a concludere che in quel cuore non c'era
posto per lui. Così Dobbin, rassegnato, accettava il proprio destino con una sorta
di serena letizia.
Ritengo che i genitori di Amelia interpretassero nel giusto senso i sentimenti
del maggiore nei confronti di Amelia, e si guardassero bene dallo scoraggiarli.
Infatti non c'era giorno in cui Dobbin non si recasse in visita da loro, trattenendosi
per ore a conversare con Amelia, o col bravo padrone di casa, Mr. Clapp, e con i
suoi familiari. Con vari pretesti portava sempre regali per tutti, e la bambina del
padrone di casa, alla quale Amelia era molto affezionata, gli aveva appioppato il
nomignolo di maggiore Zuccherofilato. Di solito spettava appunto a questa bimba
fungere da cerimoniere, recando il maggiore alla presenza di Mrs. Osborne. E rise
di gusto il giorno in cui vide il maggiore Zuccherofilato arrivare a Fulham in
carrozza e scenderne con le braccia cariche di un tamburo, di una tromba, di un
cavalluccio di legno e di altri balocchi del genere destinati al piccolo Georgy che
non aveva ancora sei mesi e per il quale siffatti oggetti erano assolutamente
prematuri!
Il piccolo dormiva. «Ssst!» fece Amelia, forse indispettita perché gli stivali
del maggiore scricchiolavano. Poi gli tese la mano, e sorrise perché, prima di
stringergliela, Dobbin dovette liberarsi le braccia del suo carico di giocattoli. «Ora
scendi al piano di sotto, Mary,» disse William dopo un poco, rivolto alla bambina
«Devo parlare a Mrs. Osborne.» Amelia lo guardò sorpresa e posò il piccino sul
letto.
«Sono venuto a salutarvi, Amelia,» disse il maggiore, prendendole
gentilmente la piccola mano affusolata.
«A salutarmi? Dove andate?» chiese lei con un sorriso.
«Se vorrete scrivermi indirizzate le lettere alla mia banca,» rispose Dobbin.
«Provvederanno loro a farmele recapitare. Mi scriverete, vero? Starò via a lungo.»
«Vi manderò notizie di Georgy,» disse Amelia. «Caro William, come siete
stato buono con lui e con me. Guardatelo non sembra un angioletto?»
La manina rosea del bimbo si strinse con moto meccanico intorno al dito del
buon soldato, e gli occhi di Amelia brillarono di gioia materna. Lo sguardo più
crudele non avrebbe potuto ferire Dobbin più di quell'occhiata, carica di una
gentilezza che per lui escludeva ogni speranza. Si chinò sul bambino e sulla
madre. Per qualche istante non riuscì a parlare, e solo con uno sforzo estremo
riuscì a profferire un «Dio vi benedica». «Dio vi benedica!» rispose Amelia, e
sollevando il viso gli diede un bacio.
«Ssst! Non svegliate Georgy!» aggiunse, mentre William Dobbin si
avvicinava alla porta con passo pesante. Amelia non udì il rumore delle ruote
della carrozza che si allontanava: contemplava il bimbo che rideva nel sonno.
XXXVI • COME RIUSCIRE A CAVARSELA. SENZA UN SOLDO DI
RENDITA
Suppongo che in questa nostra Fiera della Vanità non vi sia una sola persona
così povera di spirito di osservazione da non interessarsi di tanto in tanto ai casi
personali dei suoi conoscenti, o dotata di un così profondo spirito di carità da non
chiedersi come facciano i loro vicini Mr. Jones o Mr. Smith a sbarcare il lunario.
Per esempio (e tenuto conto che la famiglia in questione m'invita a cena due o tre
volte all'anno) con tutto il riguardo per gli Jenkins, non posso fare a meno di
confessare che il vederli comparire per i viali di Hyde Park con una favolosa
carrozza e tre granatieri in veste di staffieri, non cesserà di stupirmi fino all'ultimo
dei miei giorni. So perfettamente che la carrozza è in affitto e gli staffieri sono a
mezzo servizio; tuttavia so altrettanto bene che quella carrozza e quei tre
domestici significano una spesa di seicento sterline all'anno, come minimo. Ci
sono poi gli splendidi pranzi, gli studi a Eton per i due ragazzi, l'istitutrice e gli
insegnanti per le ragazze, un viaggio all'estero ogni tanto e, in autunno, i soggiorni
a Worthing o a Eastbourne, senza contare l'annuale cena danzante da Gunter (che,
tra parentesi, allestisce buona parte dei pranzi di prim'ordine che gli J. sono soliti
offrire: circostanza a me nota per esser stato invitato a uno di essi onde colmare il
posto lasciato vacante da un commensale che non si era presentato. Ho avuto agio
così di constatare che detti pranzi sono di gran lunga superiori a quelli normali, ai
quali vengono invitati i conoscenti degli Jenkins di condizione sociale più
modesta). Ebbene, dico io: chi, anche se si tratta della persona più benevola di
questa terra, può esimersi dal domandarsi come gli Jenkins riescano a cavarsela?
Chi è questo Jenkins, alla resa dei conti: lo sappiamo tutti: è un funzionario
dell'Ufficio del Sigillo, con uno stipendio di 1.200 sterline annue. Forse sua
moglie fruisce di un cospicuo patrimonio personale? Nemmeno per sogno! Era
una certa Miss Flint, una degli undici figli di un nobile del Buckinghamshire, per
nulla danaroso! Al massimo, la famiglia le manderà il tacchino a Natale, e lei in
compenso dovrà provvedere al mantenimento di due o tre sorelle a Londra (non
però durante la stagione) e ospitare i fratelli quando calano in città. Dunque, come
fa Jenkins a barcamenarsi se le sue entrate sono quelle menzionate poc'anzi? Io mi
chiedo come mai non lo abbiano ancora messo al Bando; e come mai l'anno
scorso (tra la sorpresa generale) sia rientrato da Boulogne.
Naturalmente il pronome «io» nel caso in questione vuole alludere alla gente
in generale, la Mrs. Grundy della cerchia personale di ogni cortese lettore, il quale
senza dubbio conosce almeno tre o quattro famiglie delle quali proprio non si sa
come riescano a campare. Dubito che a qualcuno di noi non sia capitato di bere
Dio sa quanti bicchieri di vino chiacchierando del più e del meno col munifico
anfitrione, e domandandosi nel frattempo come diavolo riuscisse a pagare quella
costosa bevanda.
Orbene; circa tre o quattro anni dopo la loro permanenza a Parigi, Rawdon
Crawley e signora abitavano in una confortevole casa di Curzon Street, in Mayfair
e non c'era uno dei numerosi amici ch'erano soliti invitare a cena, che al loro
riguardo non si ponesse il sopraddetto interrogativo.
Come già abbiamo detto, il romanziere sa tutto; e siccome io sono in grado
di rivelare al pubblico come facessero Rawdon e sua moglie a vivere senza un
quattrino di rendita, desidero invitare i giornali che usano pubblicare romanzi a
puntate di non ristampare questa storia, e men che meno i calcoli che sto per
esporre: da questi, infatti, spetta a me cavare i benefici del caso, perché sono stato
io a farli e non senza fatica. Figlio mio, gli direi, se Dio mi avesse accordato la
benedizione di esser padre, tu potrai sempre riuscire a scoprire - frequentando una
data persona e indagando sul suo conto - come riesca a vivere senza un soldo di
rendita. Ma è meglio non entrare in rapporti d'intima amicizia con questa gente:
questi calcoli è meglio farli fare agli altri e poi essere messi al corrente, proprio
come si fa coi logaritmi: fatti di persona, vengono sempre a costare piuttosto cari.
Dunque, senza un soldo per annum, e per un periodo di due o tre anni sui
quali non avremo agio d'indugiare a lungo, Rawdon e Rebecca vissero a Parigi
felici e contenti. In questo periodo lui diede le dimissioni dalle Guardie e
dall'Esercito. Al momento in cui lo ritroviamo i baffi, e la qualifica di colonnello
sono tutto quanto gli rimane della sua carriera militare.
Abbiamo riferito come Rebecca, poco dopo il suo arrivo nella capitale
francese, fosse riuscita a raggiungere un ruolo di rilievo nell'alta società di Parigi,
ed era sempre accolta con la massima cordialità nelle case dell'aristocrazia, che
con la restaurazione monarchica aveva ritrovato il suo antico ruolo. Gli inglesi
della buona società che vivevano a Parigi le facevano la corte, suscitando il
risentimento delle legittime consorti, che provavano la più viva antipatia per
quella parvenue. Per qualche mese i salotti del Faubourg Sait-Germain, ove ormai
il suo posto era assicurato, e gli splendori della nuova Corte, ov'era accolta con il
massimo riguardo, colmarono d'intima soddisfazione Mrs. Crawley, e forse le
diedero alla testa: infatti, per tutto il tempo in cui durò quella breve, esaltante
stagione, ella manifestò la tendenza a trattare con albagia tutti coloro (per lo più
giovani e onesti ufficiali) che costituivano l'entourage del marito.
Ma il colonnello - spettacolo miserando! - sbadigliava fra le duchesse e le
dame di Corte. Le vecchie signore che giocavano all'écarté facevano tali scene
per cinque franchi, che il colonnello pensò non valesse la pena sedersi al tavolo da
gioco. Ignorando il francese, non poteva nemmeno gustare lo spirito della loro
conversazione. Quali vantaggi, si chiedeva, avrebbe tratto sua moglie da tutti gli
inchini che ogni sera elargiva a una tribù di principesse? Pertanto lasciò che
Rebecca partecipasse da sola a quelle soirées per abbandonarsi ai semplici
divertimenti ai quali era assuefatto, tra i cordiali amici che si era scelto
spontaneamente.
La verità sta nel fatto che, quando noi diciamo che un uomo riesce a
condurre una vita brillante senza un soldo in tasca, con l'espressione «senza un
soldo» noi alludiamo a qualcosa su cui non siamo informati: e cioè sul «come» si
procura il denaro necessario per provvedere alle spese di casa. Ora, l'amico
Rawdon era abilissimo in tutti i giochi d'azzardo, e dedicandosi continuamente
alle carte e ai dadi, nonché allenandosi al biliardo, logicamente aveva acquisito
con questi oggetti una dimestichezza e un'abilità assai superiore a quella di coloro
che se ne servono solo sporadicamente. Usar bene la stecca da biliardo equivale a
saper usare bene la matita, oppure il flauto o la spada. Non si può è logico - usare
a dovere questi aggeggi appena li si prende in mano: solo in seguito a incessante e
tenace applicazione, unita a una naturale disposizione, si riesce a primeggiare
nell'uso di uno di essi. Crawley, per esempio, dopo esser stato un ottimo dilettante
nel gioco del biliardo, adesso era diventato un vero e proprio «maestro». Come
accade spesso dei grandi generali, il suo genio sembrava manifestarsi
particolarmente nell'ora del periglio, e quando una partita sembrava volgere al
peggio, con alcuni colpi prodigiosi sapeva capovolgerne le sorti a suo vantaggio:
dalle perdite considerevoli che stava per subire, passava al trionfo della vittoria
che mutava anche l'andamento pecuniario della situazione, lasciando gli astanti
allibiti; intendendo per astanti quelli che ignoravano il suo modo di giocare,
perché gli altri stavano in guardia ed erano molto cauti nel mettere a repentaglio il
proprio denaro giocandolo contro un tizio dotato di tanta abilità e di così
inopinate, brillanti risorse.
Anche al gioco delle carte manifestava altrettanta destrezza: all'inizio della
serata cominciava a perdere, e commetteva errori così marchiani che i nuovi
venuti non credevano di doverlo temere. Ma ecco che dopo aver ripetutamente
perduto somme di modesta entità, Crawley si concentrava e il suo modo di
giocare cambiava, e tutti capivano che, prima della fine della serata, avrebbe
inflitto una clamorosa sconfitta al suo avversario. In effetti, ben pochi potevano
vantarsi di aver avuto la meglio su di lui.
Tale era la costanza della sua fortuna che gli sconfitti e gli invidiosi
sparlavano di lui senza riserve, cosa del resto affatto naturale. I francesi, per
esempio, affermano che se il duca di Wellington non ebbe mai a patire delle
sconfitte, fu solo per una serie di fortunate congiunture tali da permettergli di
uscir sempre vincitore da una battaglia. Nondimeno sono costretti a riconoscere
che a Waterloo seppe giocare d'astuzia e a trarli in inganno. Parimenti in
Inghilterra correva voce che, se il colonnello Crawley vinceva sempre o quasi, ciò
dipendeva solo dal fatto che giocava in modo scorretto.
In quegli anni a Parigi le sale da gioco alla moda erano il «Frascati» e il
«Salon», ma la smania di giocare era così diffusa che i locali pubblici erano
numericamente inadeguati, onde si giocava anche nelle case private, come se non
vi fossero luoghi più idonei a un simile passatempo. Anche nelle squisite, piccole
réunions che si svolgevano la sera dai Crawley ci si abbandonava con notevole
frequenza a questo fatale divertimento, con gran dolore della buona, piccola Mrs.
Crawley, la quale parlava con accenti di autentica desolazione di quel vizio del
marito per i dadi, e se ne doleva con tutti coloro che frequentavano la sua casa.
Supplicava i giovani di stare in. guardia, di tenersi lontani dal bossolo dei dadi; e
quando il giovane Green della Compagnia Fucilieri perse una somma rilevante di
denaro, Rebecca trascorse in pianto l'intera nottata, come poi l'indomani la servitù
ebbe modo di riferire allo sfortunato giocatore, e arrivò al punto di gettarsi ai
piedi del marito supplicandolo di condonare il debito al povero giovanotto. Ma
come era possibile che Rawdon cedesse al desiderio di Bechy? Aveva perso
l'identico ammontare con Blackstone degli Ussari e con il conte Punter della
Cavalleria di Hannover. D'accordo, avrebbe concesso a Green un poco di respiro;
ma in quanto a permettere di non pagare... Suvvia, parlare di bruciare
l'obbligazione era, da parte di Rebecca, una prova di candore quasi colpevole.
Altri ufficiali soprattutto quelli più giovani che facevano crocchio intorno
alla padrona di casa - tornavano dai suoi ricevimenti imbronciati, dopo aver
dovuto lasciare sul tavolo da gioco somme più o meno elevate. Su casa Crawley
cominciarono a correre voci per nulla lusinghiere. I vecchi ammonivano i giovani
sul pericolo al quale andavano incontro. Il colonnello O'Dowd del ...° Reggimento
avverti il tenente Spooney del suo stesso reggimento. Tra il colonnello di fanteria
e sua moglie che stavano cenando al Café de Paris e il colonnello Crawley e
consorte scoppiò una scenata violentissima. Furono le signore a cominciare:
facendo schioccare le dita sulla faccia di Rebecca, Mrs. O'Dowd disse chiaro e
tondo che suo marito «non era altri che un baro». Risultato: il colonnello Crawley
sfidò a duello il colonnello O'Dowd dell'Ordine del Bagno. Ma la notizia della
sfida giunse alle orecchie del comandante in capo. Questi convocò il colonnello
Crawley che stava tirando fuori le pistole «con le quali aveva fatto fuori il
capitano Marker», ed ebbe con lui un colloquio in seguito al quale il duello non
ebbe luogo. Se Rebecca non si fosse buttata in ginocchio davanti a Tufto
supplicandolo di intervenire, Rawdon sarebbe stato rispedito in Inghilterra. Fatto
sta che nelle settimane successive Rawdon badò a giocare soltanto con dei
borghesi.
Ma dopo questi fatti, e ad onta della innegabile abilità di suo marito e della
fortuna costante che lo assisteva, Rebecca capì che la loro posizione si stava
facendo critica e che, anche non pagando nessuno, la loro modesta rendita era
destinata ad assottigliarsi fino a ridursi a zero. «Caro mio, il gioco può servire ad
arrotondare le entrate, ma non può diventare l'unica entrata,» gli disse sua moglie.
Prima o poi la gente potrebbe anche stancarsi di giocare, e allora cosa sarebbe di
noi?» Rawdon si dichiarò d'accordo: del resto aveva cominciato ad accorgersi che
dopo i loro pranzetti gli uomini si mostravano sempre meno inclini a giocare con
lui, ed anche meno disposti a parteciparvi, nonostante lo charme di Rebecca.
Per quanto facile e piacevole, la vita, a Parigi, altro non era che un'oziosa
perdita di tempo, un gradevole svago. Rebecca si convinceva vieppiù ch'ella
doveva tentare di fare la fortuna di suo marito in patria. Si trattava di ottenergli un
posto, un incarico purchessia in Gran Bretagna o nelle colonie. Decise pertanto di
dare inizio a una nuova battaglia in patria, non appena avesse avuto libero accesso
alla medesima. Per prima cosa aveva convinto Crawley a congedarsi dalle
Guardie e a chiedere la pensione. Già da tempo, inoltre, non era più aiutante di
campo del generale Tufto. Poi Rebecca aveva preso a burlarsi di quest'ultimo con
tutti i conoscenti: lo prendeva in giro per il busto, perché aveva la dentiera, per le
sue velleità di donnaiolo e soprattutto per quella ridicola presunzione in forza
della quale credeva di conquistare all'istante tutte le donne che avvicinava. Ora le
attenzioni del generale andavano a Mrs. Brent dalle folte sopracciglia, moglie del
commissario Brent: a lei andavano i regaletti, i mazzi di fiori, i palchi all'opera.
Quanto alla povera Mrs. Tufto, questo cambio della guardia non giovò in minima
misura a suo favore, e continuò a trascorrere le serate in solitudine, con la sola
compagnia delle figlie, sapendo perfettamente che il generale, impettito e
profumato, sedeva a teatro nel palchetto in compagnia di Mrs. Brent. Quanto a
Becky, aveva intorno a sé una tribù di ammiratori che in un battibaleno avevano
sostituito il generale; e, data l'arguzia e l'intelligenza di cui era dotata, avrebbe
potuto (se solo lo avesse voluto) sgominare all'istante la rivale. Ma, come
abbiamo detto poc'anzi, era ormai sazia di quell'esistenza vacua: i pranzetti, i
palchi all'opera ormai le dicevano ben poco. I mazzi di fiori non potevano essere
messi da parte in previsione degli anni futuri, né si poteva vivere di gingilli, di
trine e guanti di capretto. Cominciò ad accorgersi dell'inconsistenza di quei
piaceri, e a puntare su altri più sostanziosi.
Nel frattempo giunse a Parigi una notizia che tosto dilagò fra i molti
creditori del colonnello, colmandoli di motivata e gaia speranza. Miss Crawley, la
facoltosa zia di cui Rawdon Crawley attendeva la colossale eredità, era
moribonda, e il colonnello doveva accorrere al suo capezzale. Quanto a Mrs.
Crawley e al bambino, sarebbero rimasti a Parigi fino a quando lui non avesse
fatto ritorno per venirli a prendere. Rawdon parti per Calais, ove logicamente
avrebbe dovuto imbarcarsi per Dover. Invece prese la diligenza per Dunkerque, e
di lì salì su una diligenza per raggiungere Bruxelles, città per la quale non aveva
cessato di nutrire un'indubbia predilezione. La verità era che aveva più creditori a
Londra che a Parigi, e che preferiva la piccola, quieta capitale del Belgio a
qualsiasi altra capitale più vasta e rumorosa.
La zia era morta. Mrs. Crawley prescrisse il lutto più stretto per sé e per il
piccolo Rawdon. Ormai perché non passare al primo piano, invece di continuare
ad abitare nel piccolo appartamento nell'entresol? Mentre il colonnello si stava
occupando dell'eredità, Mrs. Crawley e il padrone di casa si consultarono sulle
nuove tappezzerie delle quali rivestire le pareti, discussero amichevolmente sui
tappeti e alla fine concordarono su ogni particolare tranne uno: il conto. Rebecca
partì a bordo di una delle carrozze del suddetto padrone di casa insieme col
piccino e con la bonne francese. Saputo della sua partenza, il generale Tufto si
arrabbiò moltissimo, e Mrs. Brent si arrabbiò con lui perché si era arrabbiato.
Quanto al tenente Spooney, ne fu ferito al cuore, mentre il padrone di casa
allestiva elegantemente il suo miglior appartamento in vista del prossimo ritorno
dell'elegante signora e del suo consorte. Ripose altresì con la massima cura i bauli
che Mrs. Crawley gli aveva affidato raccomandandoglieli con particolare calore.
Ciò non toglie che, quando di lì a qualche tempo vennero aperti, si scoprì che
contenevano suppellettili di valore irrisorio.
Ad ogni modo, prima di raggiungere il marito a Bruxelles, Rebecca fece una
puntata in Inghilterra, lasciando il bimbo al di qua della Manica, affidato alla
bambinaia francese. Una separazione che non fu causa di particolare sofferenza né
per l'uno né per l'altra. In effetti, da quando il piccolo era venuto alla luce, non si
può dire che lei lo avesse visto molto spesso. Aveva adottato senz'altro l'uso delle
madri francesi mettendolo a balia in un villaggio non lontano da Parigi, dove il
bimbo aveva trascorso abbastanza lietamente i primi mesi di vita, in compagnia di
una turba di fratelli di latte in zoccoletti. Il padre, invece, andava spesso a
trovarlo, e il suo cuore gioiva di fierezza paterna vedendolo roseo e sudicio
strillare a squarciagola, felice di fare le formine di terra sotto lo sguardo vigile
della sua balia, moglie di un giardiniere.
Rebecca invece non provava lo stesso desiderio di andare a trovare il suo
primogenito, che una volta si era permesso di insudiciare il suo nuovo mantello
color tortora. Del resto, il bambino mostrava. di gradire le carezze della balia assai
più di quelle di sua madre, e quando giunse il momento di separarsi da quella
ridente, cordiale creatura che gli aveva fatto quasi da madre, pianse e urlò per ore
e ore. Per consolarlo, fu necessario che la madre gli promettesse di riportarlo dalla
balia il giorno dopo. In effetti ma anche alla balia, che probabilmente avrebbe
sofferto per quella separazione, fu detto che il bimbo le sarebbe stato riportato
senza indugio, sicché per qualche tempo attese con ansia il momento di rivederlo.
I nostri amici possono infatti essere annoverati tra gli antesignani di quella
stirpe di sordidi avventurieri inglesi che più tardi sarebbero dilagati per tutto il
continente, commettendo truffe in tutte le capitali d'Europa. A quel tempo - siamo
negli anni 1817-1818 - l'onore dell'Inghilterra e il rispetto per la medesima erano
tenuti in altissima considerazione. Si direbbe che i nostri compatrioti non avessero
ancora imparato a discutere dei prezzi con quella pervicacia che oggi li distingue.
Le grandi città europee non erano ancora diventate teatro delle malefatte dei
grandi imbroglioni d'oltre Manica. Ora invece si può tranquillamente affermare
che in qualsiasi città di Francia o d'Italia si aggira qualche nostro distintissimo
compatriota il quale, con la sua aria sufficiente e il suo tono altezzoso, non esita a
truffare il padrone dell'albergo, emette assegni a vuoto approfittando della
buonafede di qualche ingenuo banchiere, deruba i carrozzieri delle loro carrozze, i
gioiellieri dei loro gioielli, alleggerisce i viaggiatori dei loro quattrini giocando a
carte e depreda persino le pubbliche biblioteche dei libri che le corredano.
Tant'anni fa bastava essere un Milord anglais per incontrare persone pronte e
felicissime di far credito, ed in verità gli inglesi erano più facilmente i truffati che
non i truffatori. Orbene, solo parecchie settimane dopo la partenza dei Crawley, il
loro padrone di casa si rese conto di esser stato raggirato; Madame Marabou, la
sarta, lo comprese, dopo aver sollecitato ripetutamente e invano il pagamento del
conto per gli abiti forniti a Mrs. Crawley; e Monsieur Didelot, della Boule d'Or al
Palais Royal, dal quale Rebecca aveva acquistato bracciali e orologi, solo dopo
aver chiesto Dio sa quante volte se la charmante Milady fosse finalmente de
retour. Fatto sta che nemmeno la povera moglie del giardiniere, colei che aveva
fatto da balia per i primi sei mesi di vita al figlio di madame, venne mai pagata
per il latte e per il sincero affe