buoni e cattivi

Servitium, III 187 (2010), 107-116
buoni e cattivi
servitori dello stato
Angelo Bertani
Se dico “servitori dello Stato” mi vengono subito in mente volti e
nomi che mi sono rimasti in mente fin dalla fanciullezza. Penso a
Enrico Roselli, Ezio Vanoni e De Gasperi. Roselli, piemontese venuto a Brescia, era stato eletto per la “Costituente” e poi sempre
confermato alla Camera e infine al Senato. Aveva militato nelle
ACLI e fatto parte del movimento dei Focolari. Morì nel dicembre
1964 pochi giorni dopo aver pronunciato un intervento sui problemi e il futuro del paese, in difesa dei poveri e degli umili. Aveva una famiglia numerosa, sei figli, e morì povero com’era “prima
della politica”. I colleghi fecero una sorta di colletta. E non era l’unico, a quel tempo, a comportarsi così.
Poi ricordo l’impressione che mi fece la morte di Ezio Vanoni, nel
1956, alla fine di un discorso sociale al senato, e quella di De Gasperi, nella sua casa in Valsugana, con la sua famiglia, dopo una vita difficile, di coraggio, di lotte e di servizio. In quegli anni maturai una grande stima per i politici, pensavo davvero che tutti fossero davvero dei servitori eroici della comunità. Poi... ho conservato questa idea: ma solo per merito di alcuni, tanto più coraggiosi quanto più soli.
Alla morte di De Gasperi, Roselli, Vanoni ripensai tante volte durante il sequestro Moro: la politica come servizio, pensavo, non è
una frase retorica. È anche “dare la vita”.
E poi ricordo, dall’infanzia, i martiri della Resistenza, i reduci dai
lager; ho nella memoria le fotografie di Andrea Trebeschi che morì a Gusen; e il volto di padre Manziana che tornò da Dachau s e n[107]
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za astio e con una gran passione per la libertà e l’educazione dei giovani e adulti... e i sopravvissuti da quel lager che era anche la patria
occupata. E tanti altri nomi di resistenti e martiri da Teresio Olivelli
a Giuseppe de Toni; e Mazzolari, don Barbareschi, David Turoldo,
Mario Apollonio, don Vender, padre Bevilacqua.
Imparai che anche i preti, oltre ai laici, sono chiamati ad essere servitori dello Stato, cioè della città dell’uomo (non solo i palazzi del potere). Ho rivissuto quelle immagini nei libri di Luisito Bianchi, protagonista e testimone di quella stagione (La messa dell’uomo disarmato e tante altre opere). E naturalmente dovrei aggiungere che so
bene che anche tanti non credenti, uomini in ricerca, “lontani” come
li chiamavamo, sono stati e sono dei fedeli ed eroici servitori dello
stato. Mi accorgo che io qui sto citando solo credenti, cattolici-democratici perché essi costituiscono una presenza abbastanza omogenea e un discorso riconoscibile, che ha insegnato e vissuto una sintesi feconda tra l’ideale cristiano del servizio e la realtà della comunità
politica moderna e democratica. Ma so bene che ci sono stanti veri
servitori dello stato anche non credenti, e che meriterebbero egualmente un ricordo e una specifica riflessione sulla sorgente e le implicazioni del loro spirito di servizio!
His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti ho incontrato e riconosciuto tante persone che mi sono apparsi come veri servitori dello
stato anche se non erano tutti “uomini di stato”: Dossetti, Bachelet,
Aldo e Carlo A. Moro, La Pira, Ruffilli, Leopoldo Elia, Marisa e
Franco Rodano, Scoppola, Ardigò; e uomini di chiesa come Turoldo
e Balducci, Tonino Bello e Martini, Paolo VI, Costa e Cè, e tanti altri
vescovi più o meno noti: Tredici, Bartoletti, Charrier, Agresti, Pellegrino, Riboldi, Ballestrero, Bregantini, Franceschetti... e cento e cento altri) e monaci (Calati...) e preti e tanti laici giornalisti, educatori,
animatori e intellettuali “incarnati” anche nel servizio allo stato, alla
Città dell’uomo: Giuseppe Lazzati, Gigi Pedrazzi, Angelo Gaiotti,
Piero Pratesi, Giovanni Bianchi, Alberto Monticone, Domenico Rosati, Guido Bodrato, Pietro Scoppola, Achille Ardigò, Leopoldo
Elia, Mino Martinazzoli, Paola Gaiotti De Biase, Paolo Giuntella. Ci
sono diversi modi di essere al servizio dei concittadini nelle istituzioni dello stato; e ci sono tante persone che lo fanno in modo esemplare. Degli altri, i cattivi o falsi servitori dello stato (cioè della comuni108
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tà civile, dei concittadini, dei fratelli) non vorrei proprio neppure
parlare. Se essi sono come li vedo, non basterebbero le parole; se essi viceversa sono diversi, come spero, meglio che abbiano il tempo di
dimostrarlo. Ma di qualche esemplare servitore dello stato vorrei accennare qualcosa di più.
andrea trebeschi, resistere all’indifferenza,
guardare al futuro
Andrea Trebeschi era un giovane bresciano, pressoché coetaneo
di Giambattista Montini. Avvocato, animatore del movimento cattolico bresciano; in dialogo con il mondo e la cultura laica (Calamandrei...), antifascista attivo e coraggioso. Morì deportato a Gusen di Mauthausen nel 1945, ma la sua presenza, grazie anche alla
testimonianza della famiglia, specie del figlio Cesare, è durata fino
ad oggi. Ho potuto così meditare questo suo appunto del ’43, due
anni prima della morte, quando incombeva la tragedia.
Se il mondo fosse monopolio dei pessimisti – scriveva Trebeschi – sarebbe da
tempo sommerso da un nuovo diluvio; e se oggi la tragedia sembra inghiottirci, si deve alla malvagità di alcuni, ma soprattutto all’indifferenza della
maggioranza. Il simbolo di troppa gente non ebbe, fin qui, che due articoli:
“non vi è nulla da fare” e “tutto ciò che si fa non serve a nulla”. Quel che importa è che ognuno, secondo le proprie possibilità e facoltà, contribuisca di
persona alle molte iniziative di bene, spirituale, intellettuale e morale. Un
mondo nuovo si elabora. Che sia migliore o ancor peggio, dipende da noi.
franco salvi, monaco e servitore della politica:
in spe contra spem
Franco Salvi era nipote di Andrea Trebeschi. Lo vedevo quando
tornava da Roma, sempre di corsa, serissimo, con i minuti e le parole contate. Ma con uno sguardo severo ma dolce, attento. Disponibile per ogni servizio, indisponibile a compromessi, traffici o
clientele. Eppure era deputato, anzi dei più autorevoli, il più fidato consigliere di Moro. Cresciuto anche lui negli anni difficili della guerra ancora ragazzo aveva fatto la resistenza attiva; era stato in
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carcere poi, condannato, era sfuggito al lager o alla forca... Durante l’università aveva fatto parte della presidenza nazionale della Fuci; laureato in farmacia e poi legge, avvocato. Fu deputato
per varie legislature svolgendo con grande rigore e acutezza, impegno e umiltà il suo compito. Molte cose, negli equilibri di partito e di governo, lo videro in un ruolo determinante e sempre, credo, positivo.
Soffrì terribilmente la morte di Moro e la successiva decadenza
della politica; e concluse il suo servizio politico con una diagnosi
severissima. La sua spietata lucidità lo portava a confessare, nel
febbraio 1994, di sentirsi il servo inutile di cui parla il Vangelo:
Ho lasciato nel 1992 la politica (cui aveva dedicato la vita dalla Resistenza e il
carcere in poi) e il mandato parlamentare con un senso di frustrazione, dopo
tanti anni vissuti nel partito della DC e nel parlamento perché avevo constatato il continuo peggioramento di quell’ambiente e provato l’inutilità di una
presenza anche solo formale. Me ne sarei venuto via prima ma mi sembrava un
tradimento lasciare il partito nella sua fase calante e non volevo che le mie dimissioni potessero creare un moto di delusione e di abbattimento per i tanti
uomini e donne generosi e onesti che avevano ancora la DC come punto di riferimento. [...] Ognuno di noi fa fatica a rendersi conto che una pagina della
storia della nostra vita politica e sociale probabilmente si è conclusa e scruta
con apprensione, senza ancora intravvederne i contorni, un nuovo futuro che
fa fatica a nascere. Viviamo quindi, e siamo interpreti, più o meno consapevoli, di un cambiamento epocale che ha visto non solo il crollo del comunismo e
del muro di Berlino, ma anche il manifestarsi di guerre fratricide e fenomeni,
purtroppo sempre più evidenti, di intolleranza civile tra cittadini di paesi ricchi e di paesi poveri, nonché tra cittadini di uno stesso popolo (nord e sud,
non solo in Italia). È proprio un momento drammatico. Penso che se vogliamo veramente e sinceramente che la società migliori, atteso che nessun uomo
è un’isola, è indispensabile iniziare a cambiare ciascuno di noi [...].
Eppure aveva fatto tutto il possibile, obbediente all’invito dello
zio Andrea, che era risuonato nella sua coscienza:
Quel che importa è che ognuno, secondo le proprie possibilità e facoltà, contribuisca di persona alle molte iniziative di bene, spirituale, intellettuale e morale.
Un mondo nuovo si elabora. Che sia migliore o ancor peggio, dipende da noi.
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Da lui credo dobbiamo imparare anche la lezione più aspra e severa: che servire, fare tutto il proprio dovere, non garantisce comunque un senso di soddisfazione, la serenità del bene compiuto.
Servire può essere anche soffrire, sentirsi sconfitti.
giuseppe dossetti, la lucidità del profeta
«Sentinella, quanto resta della notte?». La domanda sale alle labbra
anche oggi. Ma a Dossetti l’avevano posta per ricordare Giuseppe
Lazzati, morto da poco spinta dall’incertezza e dall’angoscia di questa oscura stagione. Quando finirà la crisi e la speranza potrà prendere il posto della disillusione?
«La notte è notte» risponde Giuseppe Dossetti il 18 maggio 1994.
Siamo di fronte a evidenti sintomi di decadenza globale. C’è una diffusa inappetenza dei valori che realmente possono liberare l’uomo. E prevalgono invece appetiti crescenti di cose che sempre più lo rendono schiavo. Ognuno è
sempre più solo, la comunità è fratturata sotto il martello che la sbriciola. Bisogna convertirsi.
E quando gli chiesero, a lui che era stato un protagonista della
“Costituente”, un leader della DC e un riformatore della chiesa, un
giudizio sulla situazione (quindici anni fa: una situazione simile all’attuale, ma forse meno grave), rispose:
Dobbiamo convincerci che tutti noi, cattolici italiani, abbiamo gravemente
mancato, specialmente negli ultimi due decenni, e che ci sono grandi colpe (non
solo errori o mere insufficienze), grandi e veri e propri peccati collettivi che non
abbiamo sino ad oggi cominciato ad ammettere e a deplorare nella maniera dovuta. I battezzati consapevoli devono percorrere un cammino inverso a quello
degli ultimi vent’anni, cioè mirare non ad una presenza dei cristiani nelle realtà
temporali e alla loro consistenza numerica e al loro peso politico, ma a una ricostruzione delle coscienze e del loro peso interiore, che potrà poi, per intima coerenza e adeguato sviluppo creativo, esprimersi con un peso culturale e fin a lmente sociale e politico. Ma la partenza assolutamente indispensabile oggi mi
sembra quella di dichiarare e perseguire lealmente – in tanto baccanale dell’esteriore – l’assoluto primato dell’interiorità, dell’uomo interiore.
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Quando dire la verità è servire lo stato
Eppure Dossetti, dopo un lungo silenzio pubblico, sentì il supremo dovere di servire lo stato prendendo le difese della Costituzione italiana, mettendo in guardia contro il “ nuovismo” che aveva
(e ha) invaso la scena politica. Come gli antichi monaci che lasciavano il deserto e tornavano in città in occasione delle invasioni o
delle epidemie. Come san Saba, l’archimandrita degli anacoreti
del deserto di Giuda, che va dagli imperatori, Anastasio e Giustiniano, a perorare il rispetto di alcuni diritti fondamentali, così don
Giuseppe non restò in silenzio
Nel 1994, di fronte al tentativo della maggioranza berlusconiana
per rovesciare la Costituzione, scriveva:
Pur nel costante desiderio di completa e unanime pacificazione nazionale,
che ha sempre ispirato tutta la mia vita, e che tuttora fermamente mi ispira,
tuttavia non posso non rilevare che attualmente i propositi delle destre (destre palesi e occulte) non concernono soltanto il programma del futuro governo, ma mirerebbero ad una modificazione frettolosa e inconsulta del patto fondamentale del nostro popolo, nei suoi presupposti supremi in nessun
modo modificabili. Tali presupposti non sono solo civilmente vitali ma anche, a mio avviso, spiritualmente inderogabili per un cristiano: per chi come
me – per pluridecennale scelta di vita e per età molto avanzata – si sente sempre più al di fuori di ogni parte e distaccato da ogni sentimento mondano e
fìsso alla Realtà ultraterrena. Ciò però non può togliere che anch’io debba
partecipare alle emergenze maggiori dei fratelli del mio tempo (dalla lettera
del 25 aprile 1994 al sindaco di Bologna Vitali).
E aggiungeva:
Si tratta di impedire a una maggioranza che non ha ricevuto alcun mandato
al riguardo di mutare la nostra Costituzione: quella maggioranza si arrogherebbe il compito che solo una nuova Assemblea costituente, programmaticamente eletta per questo e con sistema proporzionale, potrebbe assolvere come veramente rappresentativa di tutto il nostro popolo. Altrimenti sarebbe
un colpo di stato.
Così nel nome di Dossetti nacquero i comitati «per una difesa dei
valori fondamentali espressi dalla nostra Costituzione».
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bachelet, accendere una luce nelle tenebre:
la scelta religiosa
E c’è una persona che mi è sembrata aver obbedito in maniera
specialissima a quell’invito di Trebeschi, nel quale si riassume secondo me lo spirito del “buon servitore”: fare ciascuno qualcosa,
ogni giorno, per la casa comune. Per Vittorio Bachelet è stata quasi come una filosofia.
Anche la “scelta religiosa” dell’Azione cattolica (e, chissà, di tutta
la chiesa...), nasce da un giudizio storico, severo e radicale (e che
gli creò pure incomprensioni...). Nasce dalla convinzione che il regime di cristianità sia avviato a un irreversibile tramonto e che,
piuttosto che tentare restaurazioni – impossibili e neppure desiderabili –, convenga piuttosto prepararsi ai tempi nuovi ripartendo
dalle fondamenta, dal nucleo essenziale della fede, dalla “fede nuda e pura”, per usare un’espressione cara a Dossetti.
Per spiegare la “scelta religiosa” Vittorio Bachelet, in un’intervista
del 1976, aveva detto:
Di fronte a questo mondo che cambia, di fronte alla crisi di valori, nel cambiamento del quadro sociale e culturale, forse con una intuizione anticipatrice, o comunque con una nuova consapevolezza l’AC si chiese su cosa puntare. Valeva la pena correre dietro a singoli problemi, importanti, ma consequenziali, o puntare invece alle radici? Nel momento in cui l’aratro della storia scavava a fondo rivoltando profondamente le zolle della realtà sociale italiana che cosa era importante?
Era importante gettare seme buono, seme valido. La scelta religiosa – buona
o cattiva che sia l’espressione – è questo: riscoprire la centralità dell’annuncio di Cristo, l’annuncio della fede da cui tutto il resto prende significato.
Quando ho riflettuto a queste cose e ho tentato di esprimerle ho fatto riferimento a san Benedetto che in un altro momento di trapasso culturale trovò
nella centralità della liturgia, della preghiera, della cultura il seme per cambiare il mondo, o – per meglio dire – per conservare quello che c’era di valido dell’antica civiltà e innestarlo come seme di speranza nella nuova. Questa
è la scelta religiosa.
Ecco che cos’è la fedeltà autentica nel mutamento delle apparenze e della storia!
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moro, testimone del bene comune
Credo che pochi come Aldo Moro abbiano dimostrato questa speranza e questa fedeltà profonda agli ideali in un lungo, faticoso, intelligente servizio alla società, sempre senza retorica e con una
grande sensibilità alle diverse opinioni e ai cambiamenti.
Scriveva nel 1947:
La sorte della democrazia è nelle nostre mani: che essa si salvi non solo, ma si
consolidi e si sviluppi, dipende da noi, dalla nostra fiducia, dalla nostra lungimiranza, dalla nostra fortezza, dal nostro spirito cristiano. Senza un impegno di tutti gli uomini, che resistano alla tentazione del timore per le prove
alle quali essa espone, per le incognite che comporta, per i sacrifici che richiede, quella salvezza non è possibile.
Quasi venticinque anni dopo (26 settembre 1971), in una stagione
di lotte politiche e di fronte alle novità culturali e sociali aperte dal
sessantotto, manifestava lo stesso spirito di attenzione e di servizio:
Abbiamo sentito, specie dopo il 1968, che importanti novità erano all’orizzonte e che i rapporti tra società civile e società politica non erano, come non
sono, più gli stessi [...]. Quello che i giovani hanno annunciato, anche se questa scoperta sembra oggi velata da stanchezza e delusione, le attese di liberazione e di umanizzazione del mondo del lavoro, l’emergere di più rilevanti
poteri locali a fronte dello stato, una esperienza sindacale sempre più ricca e
incisiva, una consapevolezza di sé, del tutto nuova, della società civile, tutto
questo è la storia di oggi, che non può in alcun modo essere ricacciata indietro, come se essa non fosse mai stata.
E ancora, rivolto al suo partito, tentato di rinchiudersi in una visione conservatrice e pragmatica:
Se noi vogliamo essere ancora presenti, ebbene dobbiamo essere per le cose
che nascono, anche se hanno contorni incerti, e non per le cose che muoiono,
anche se vistose e in apparenza utilissime [...]. Questa Italia disordinata e disarmonica è però infinitamente più ricca e viva dell’Italia più o meno bene assestata del passato. E questa è solo una piccola consolazione. Perché anche nel
crescere e del crescere si può morire. Ma noi siamo qui perché l’Italia viva.
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Infine, nell’articolo pubblicato su Il Giorno per la Pasqua del 1977,
l’ultima che visse prima di subire la violenza, Moro scriveva:
Non è importante che pensiamo le stesse cose, che immaginiamo e speriamo
lo stesso identico destino; ma è invece straordinariamente importante che,
ferma la fede di ciascuno nel proprio originale contributo per la salvezza dell’uomo e del mondo, tutti abbiano il proprio libero respiro, tutti il proprio
spazio intangibile, nel quale vivere la propria esperienza di rinnovamento e di
verità, tutti collegati l’uno all’altro nella comune accettazione di essenziali ragioni di libertà, di rispetto e di dialogo. La pace civile corrisponde puntualmente a questa grande vicenda del libero progresso umano, nella quale rispetto e riconoscimento emergono spontanei, che mentre si lavora, ciascuno
a proprio modo, ad escludere cose mediocri per fare posto a cose grandi.
Questa idea, a mio avviso, è la linea-guida della buona politica e di
chi serve davvero la città dell’uomo.
Concluderei con una parola di Max Weber:
La politica consiste in un lento, tenace superamento di dure difficoltà, da
compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. È perfettamente
esatto e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si tentasse sempre l’impossibile.
Veri servitori sono quelli che faticano, lottano e muoiono per mantenere questo filo sottile ma decisivo che lega la ricerca dell’impossibile con la costruzione del possibile. Quelli che servono l’utopia e
rendono così possibile l’impossibile, con amore e speranza.
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