Premessa I fatti narrati in questa storia sono frutto di

Premessa
I fatti narrati in questa storia sono frutto di
pura immaginazione, nessun riferimento
al passato ha basi storiografiche. Ho semplicemente effettuato molte letture per dare alla
vicenda un minimo di credibilità, ma non ho
svolto ricerche su base scientifica.
La lingua dei manoscritti – un latino precario
frammisto ad un incerto italiano – i personaggi
che delineo, la protagonista nel presente, il confratello del passato, e i pochi altri che popolano
le righe di questo racconto, sono completamente
inventati, cosí come è tutta fantasia il riferimento alle pergamene, ai luoghi, agli avvenimenti.
Si tratta di invenzioni, semplici pretesti per
giustificare la necessità di raccontare che, a un
certo punto della mia vita, ho sentito come una
intima urgenza.
La storia nasce da una leggenda popolare che
molti anni or sono, quando ero bambino, mi
venne raccontata dal nonno di un amico che l’aveva a sua volta appresa da suo padre. Quel
signore, già allora molto anziano, era, dunque, un
testimone che risaliva nel tempo fino ad avvici-
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narsi abbastanza all’epoca in cui si verificarono i
fatti che narrava.
Seduto su una sedia traballante, sull’uscio del
suo negozio di salumi e merceria, le mani congiunte su un ricurvo e nodoso bastone, si divertiva ad intrattenere noi bambini con questa storia,
sempre la stessa.
Ho successivamente trovato labili tracce della
vicenda nei ricordi di amici e di vecchi paesani,
ma tutte contrastanti tra loro, versioni molto
simili nelle premesse che poi divergono e diventano, di fatto, storie autonome.
Mi dispiaceva che questa vicenda del passato,
nella quale c’è senz’altro qualcosa di vero,
andasse perduta con la scomparsa di chi se ne
ricordava ancora alcuni frammenti: troppo spesso la dimenticanza si impossessa di un passato
che non conta, ma sul quale, sovente, si fondano
le tradizioni.
Cosí, con molti limiti, inventandomi situazioni, creando personaggi e movendomi in un
mondo affondato nel tempo, per il quale dimenticati studi mi fanno sentire, ancora oggi, vivo
affetto, mi sono divertito a scrivere, per il gusto
di farlo, ripeto, e giusto per non dimenticare. Ma
senza nessuna pretesa.
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Iniziò tutto con una sonda. L’attrezzo che
usano gli elettricisti per esplorare i percorsi dei
tubi nei quali devono far scorrere i cavi per raggiungere, da una presa, un angolo lontano dell’edificio in cui operano. Un cavetto d’acciaio
che ha la possibilità di viaggiare attraverso i
muri per uscirne magicamente da un’altra
parte, molto lontana da quella in cui era stato
introdotto. Sotto i pavimenti, nelle pareti, nei
soffitti, la sonda viaggia, sinuosa come un sottilissimo serpentello, senza che nessuno ne
veda l’itinerario, e guida l’inserimento delle
linee elettriche nelle tortuosità nascoste degli
edifici, insinuandosi per vie discrete, molte
volte sconosciute agli artigiani stessi che la
manovrano.
L’avevano avvertita solo il giorno prima dell’arrivo della squadra di elettricisti, e lei ne era
rimasta finalmente soddisfatta: era più di un
mese che aveva fatto presente all’amministrazione quel tipo di inconveniente tecnico, di cui
ovviamente ignorava la natura, che impediva alle
luci centrali della sala di accendersi.
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Con le sole luci laterali la lettura non era
impossibile, ma certamente abbastanza difficoltosa. E lei voleva che i suoi lettori trovassero
condizioni confortevoli in biblioteca, dopo tutti i
sacrifici che aveva fatto per renderla accogliente.
Lei si chiamava Carola, non più giovane
bibliotecaria di un piccolo centro della prima cintura metropolitana, che teneva al suo lavoro anche
più che alla sua vita privata. Non era affatto bella,
aveva un aspetto molto ordinato ed ordinario che
non la faceva, tuttavia, appartenere alla categoria
della gente brutta. Ancora desolatamente nubile
per un insieme di sfortunate circostanze sulle
quali non amava soffermarsi, anche se molto solitaria non era una persona rassegnata o introversa,
anzi risultava simpatica con quel suo prendersi in
giro a causa della sua situazione anagrafica.
Erano oltre vent’anni che faceva la bibliotecaria e aveva ormai definitivamente riposto la sue
antiche aspirazioni di quando, adolescente,
sognava di diventare intrepida archeologa all’inseguimento di tesori e di verità del passato, in un
mondo, allora, non ancora a portata di “click”.
Era determinata Carola, persino testarda di
tanto in tanto. Da quando un illuminato Sindaco,
infatti, ebbe l’idea di trasferire la biblioteca nella
vecchia chiesa sconsacrata del paese, restò affascinata da quel progetto, e si tuffò nel lavoro per
raggiungere un cosí ambizioso obiettivo. Poi
quel Sindaco terminò il suo mandato, ma quell’idea, come tutte le idee buone, non morí, e lei ne
raccolse l’eredità. La emozionava la possibilità
di conservare i libri tra mura che furono ecclesiastiche, addirittura risalenti al XVI secolo.
Incontrò una miriade di ostacoli su quel cammino, il progetto subí rallentamenti, ostruzionismi ed attentati di ogni genere, ma lei non mollò,
dedicò tutta se stessa alla concretizzazione del
trasferimento dei libri dalla vecchia sede con
pavimento ad assi cigolanti sovente percorso da
topi indifferenti, alla ex chiesa che necessitava di
un importante intervento di ristrutturazione.
Trovò finanziamenti pubblici e conforti privati,
convinse istituti di credito, abbindolò con cura
politici di non altissima “statura” cercando di
persuaderli dell’impossibile esistenza del binomio “potere-immaginazione”. Riuscí infine nel
suo intento: trasformare un edificio il cui barocco essenziale, poco effimero e per nulla astratto,
ancora memore di influssi romanici, che l’opinione comune, sostenuta da qualche autorevole
politico, avrebbe voluto abbattere per creare un
“comodo” parcheggio, nella sede prestigiosa e
definitva della biblioteca pubblica.
Naturalmente i meriti di quella realizzazione
furono attribuiti alla sagacia di amministratori
lungimiranti, e all’impegno sapiente di eccellenti tecnici e dirigenti, ma a Carola questo non
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importava affatto. Lei era convinta che i “suoi”
libri non potessero avere miglior custodia che
quella garantita da mattoni pieni del 1558. E
tanto le bastava, non cercò mai riconoscimenti.
Tra i numerosi problemi legati alla vetustà
dell’edificio, uno dei più difficili da risolvere fu
quello del suo cablaggio, necessario per renderlo,
oltre a sede aulica e fascinosa, anche in grado di
sostenere il confronto con moderni omologhi in
quanto dotato di infrastrutture capaci di ricevere
le più avanzate tecnologie.
Uno dei motivi di rallentamento dei lavori di
ristrutturazione fu proprio l’intervento di sistemazione dei tubi nei quali far scorrere i chilometri di cavi elettrici e telefonici. Accadde, infatti,
che il posatore, a lavoro quasi ultimato, scomparve misteriosamente non lasciando traccia di sé.
L’amministrazione fu costretta a portare a termine la posa riguardante soprattutto la parte alta
dell’edificio, quella ancora da ultimare, affidando l’incarico ad una nuova persona.
Era l’anno 1986 quando, in una sera d’inverno, l’elettricista Luigi Vanni, scomparve lasciando in sospeso un lavoro di fondamentale importanza per il prosieguo di tutta la sistemazione dell’edificio. I tempi di una pubblica amministrazione sono normalmente molto lunghi, quando poi
subentra un fatto cosí inaspettato e imprevedibile, sembra che la burocrazia scateni la sua fanta-
sia – e ne ha quanta non se ne può immaginare –
e accade che i tempi stessi assumano proporzioni
“geologiche”.
La scomparsa del bravo artigiano avvenne
successivamente alla sistemazione dell’ultima
lastra di granito del pavimento della vecchia
chiesa, proprio dove aveva terminato di installare i cavi elettrici, e fu un fatto stranissimo che
sgomentò tutti nel paese. La scomparsa di una
persona apre sempre interrogativi agghiaccianti
in chi resta e intraprende il doloroso cammino
della sua ricerca. L’uomo non manifestò mai
alcun cenno che avesse fatto supporre l’intenzione di commettere gesti clamorosi. La moglie fece
di tutto per seguirne le tracce, per riaverlo, e in
tal senso l’iniziativa più seguita da tutta la comunità, nella quale addirittura fece scalpore, fu
senza dubbio la trasmissione televisiva della
quale lei fu ospite.
Anche Carola, che normalmente non amava
guardare la televisione, la sera in cui la moglie
dell’elettricista volatilizzato lanciò il suo appello
televisivo tramite la celebre trasmissione che si
occupava di persone scomparse, vi assistette.
Con lo sguardo disorientato da tutte le luci
dello studio televisivo, ed anche un po’ confusa
dal calore che esse emanavano, la donna espose in
modo farraginoso il suo non capacitarsi della sparizione del marito, persona equilibrata, grande
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lavoratore, senza turbe di alcun genere o strane
tentazioni, dedito alla famiglia e al suo mestiere.
Raccontò ai microfoni dell’intervistatrice che
quel lontano giorno – erano ormai trascorsi alcuni mesi – tornò a casa stanchissimo come al solito, ma a lei sembrò strano, come fosse assente,
lontano con i pensieri. Cenò molto silenziosamente e omise persino di seguire il suo rituale
serotino più caro: la lettura del quotidiano ormai
superato dalle notizie del telegiornale della sera.
Ma a lui piaceva cosí. Improvvisamente, per una
strana associazione di idee, appena prima di andare a letto, si rese conto di aver dimenticato di
installare l’ultima presa elettrica, quella che si trovava all’interno di un vecchio armadio a muro.
Pur sapendo di non disporne più del colore
stabilito dagli architetti autori del progetto di
restauro, per evitare che il mattino successivo
qualcuno potesse correre il pericolo di toccare i
fili lasciati scoperti, decise, nonostante l’ora
tarda, di tornare a finire il lavoro. Inveendo contro la sua stessa sbadataggine, ma in modo meccanico, quasi avesse dovuto rispondere ad una
specie di richiamo, salutò distrattamente la
moglie e uscí di casa annunciando il suo rientro
nel giro di mezz’ora. Non tornò mai più a casa.
– Avete sentito, nel racconto della moglie,
comprensibilmente rotto dall’emozione, la storia
della inspiegabile scomparsa di Luigi Vanni...
Poi la conduttrice televisiva arricchí la testimonianza della signora Vanni circostanziando
molto dettagliatamente la situazione con date,
orari, fatti.
– Resta da stabilire, – proseguí, – cosa sia successo a Luigi Vanni quella notte, se si sia incontrato con qualcuno, o se il suo sia stato, ma questo la signora sembra volerlo escludere, un allontanamento volontario. Ecco, – concluse, – la sua
foto e la scheda.
Venne mandata in onda la fotografia di un
uomo di mezza età, un signore sorridente in una
giornata di sole. Indossava un vistoso giubbotto
rosso di jeans.
– È la più recente che ho, – intervenne la
moglie, – eravamo al mare quel giorno, era il suo
compleanno, ricordo che era una domenica e
Gigi era libero da impegni di lavoro...
Purtroppo furono vani gli appelli della donna,
a nulla valse, peraltro, quel disperato pianto televisivo, un po’ strumentalmente utilizzato dalla
conduttrice della trasmissione per aumentare gli
ascolti. Ma quello della moglie dell’elettricista
era dolore autentico, si prestò anche alla sua spettacolarizzazione per trovare davvero il suo uomo.
A Carola rimase impressa soprattutto la descrizione che la donna forní dell’abbigliamento del
marito. La colpí, in particolare, l’affetto e l’emozione con cui parlò del giubbotto rosso di jeans
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da lei stessa acquistato come regalo di compleanno, quello stesso indumento che il “suo Gigi”
indossava nella fotografia utilizzata per la scheda
che ne indicava i dati. Ne parlò con voce rotta dal
pianto, come se in lei la rassegnazione si stesse
facendo strada in modo definitivo, e Carola ne fu
commossa.
Sola davanti al televisore, pensò che le sarebbe piaciuto che qualcuno le avesse regalato un
giubbotto rosso. Lei per i suoi compleanni, i
regali se li faceva sempre da sola, normalmente
sceglieva libri che stupidamente acquistava in
libreria, non approfittando delle possibilità di
sconto che i distributori le offrivano in quanto
bibliotecaria.
Si vergognò un po’ di una riflessione cosí
egoistica e allontanò subito quei pensieri, sia sui
giubbotti che nessuno le regalava, sia sulla sua
incapacità di saper risparmiare del denaro. Si
intristí, questo sí, per la sorte del povero elettricista che peraltro aveva conosciuto molto bene,
persona ragionevole e comprensiva con cui
aveva intrattenuto fin dall’inizio piacevoli conversazioni esponendogli tutte le sue esigenze
tecniche e trovando sempre grande disponibilità
e competenza. Era un uomo molto dolce che,
nonostante il lavoro estremamente manuale che
svolgeva, aveva un’autentica passione per la
storia.
Nelle brevi pause, il tempo di un caffè, di una
sigaretta, Carola conversava volentieri con Luigi
e gli aveva raccontato tutta la “vita” di quella
vecchia chiesa in cui lui amava lavorare e della
quale credeva di conoscere i segreti. Gli spiegò
come il reperimento dei fondi necessari alla edificazione della chiesa, iniziata nel 1558, fosse
stato reso possibile grazie alla generosità dei cittadini e, in particolare, all’opera delle Confraternite.
Luigi era affascinato da quell’edificio.
– ...Ma si rende conto, signorina Carola, che
io, ultimo uomo del mondo, sto appoggiando le
mani in posti in cui nessuno ce le ha più messe
da... uhm... dunque vediamo... da 428 anni? Sa
che queste mani, se ci penso mi tremano da...
da... come posso dire...
– Dall’emozione?
– Ecco, brava! Dall’emozione. Questa è la
parola giusta. Io non trovo mai le parole, trovo
pinze e morsetti, ma mai la parola giusta nel
momento giusto, quando mi serve! Lei invece...
sempre in mezzo a tutti questi libri. Eh, a lei no,
a lei non mancano le parole... è facile eh, farsele
suggerire dai libri...
Carola era felice di poter rispondere alle
domande che l’artigiano le rivolgeva, di chiacchierare con lui. Gli riconosceva una dote non
comune, una dote che possiedono solo le persone
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intelligenti e umili, a prescindere dalla loro estrazione sociale: la curiosità.
L’elettricista avrebbe voluto saperne di più,
Carola gli promise di continuare a parlargli della
storia di quella chiesa, e di come fosse stata
indissolubilmente legata a quella delle Confraternite. Accettò perfino un invito a cena a casa sua
dove la moglie avrebbe preparato la paella che
aveva imparato a cucinare nel corso di una vecchia vacanza trascorsa in Spagna. Quella cena
non si tenne mai.
Intanto, passarono molti mesi senza che di
Luigi si avessero notizie. I lavori furono affidati
ad un’altra ditta e finalmente portati a termine
regalando alla comunità una sede di indubbio
fascino, inaugurata in gran pompa.
Carola aveva realizzato un piccolo sogno: nella
“sua” nuova biblioteca era riuscita ad allocare tutti
quei libri, i più vecchi dei quali erano entrati insieme a lei, circa vent’anni prima, a far parte di quel
servizio di pubblica lettura. Ed ora erano lí,
occhieggianti da scaffali nuovi, in nuovi locali,
sotto antiche volte, muti e composti, e non aspettavano altro che qualche lettore li scegliesse, li
toccasse, ne volesse ascoltare la voce, li prendesse
in prestito per coccolarseli a casa. Era contenta,
intimamente soddisfatta per il lavoro che era
riuscita a portare a termine senza clamori, senza
ridondanti celebrazioni, con alacrità e modestia.
Pur non essendo affatto scontrosa, non parlava molto. Tutte le persone che vivono sole, contrariamente a quanto si potrebbe supporre, non
sentono impellente la necessità di conversare se
non per comunicare; le persone sole sono abituate a pensare molto, e per pensare non è necessario parlare, anzi, spesso la conversazione inibisce
la riflessione. Carola non sfuggiva a questa regola, tuttavia i primi giorni di funzionamento della
nuova sede della biblioteca, ad orario di apertura
al pubblico terminato, mentre il silenzio secolare
di quelle navate ritornava a regnare sovrano
come quando quelle mura erano consacrate, lei
sentiva urgente la voglia di parlare con i suoi
libri.
A tutti quei libri, che poi suoi non erano affatto, ma che sentiva le appartenessero idealmente
almeno tanto quanto lei apparteneva ad essi,
avvertiva la necessità di domandare come si trovassero in quella nuova collocazione. Evidentemente non si aspettava una risposta, era come
parlare con se stessa, conversare con i libri era
come pensare, ma la cosa che la divertiva era
accorgersi, di quando in quando, che lo stava
facendo a voce alta, e che alla mancanza di interlocutore era cosí abituata che una eventuale
risposta, qualsiasi fosse stata, l’avrebbe disorientata. E poi Carola lo sapeva: i libri restano muti
fintanto che non vengono aperti, se li si inizia a
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leggere sanno dare molte risposte, è il volerle trovare che dipende dalla sensibilità di chi li apre.
Loro hanno la capacità di dire, nel silenzio, tutto
ciò che si vuole sapere. Concludeva le sere in cui
avvenivano tra lei e i libri quelle inconfessabili
conversazioni, con un sorriso per quella sua
segretissima follia e, dopo essersi detta: “be’, in
fondo, non faccio male a nessuno!”, inseriva
l’antifurto e tornava a casa.
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II
Anche dopo importanti interventi di restauro
delle parti architettoniche e di ristrutturazione
generale, la manutenzione di un edificio gravato
da oltre quattro secoli di vita, comporta piccole o
grandi difficoltà con cadenza quasi quotidiana.
Quella volta l’inconveniente riguardò l’impianto
di illuminazione. Carola chiamò subito la ditta
che, subentrata all’elettricista scomparso, aveva
piazzato i faretti studiati apposta per rendere agevole la lettura e il cui orientamento e la cui intensità luminosa lei stessa aveva suggerito. La squadra di tecnici era composta da due persone, uno
più anziano, Nicola, l’altro un po’ più giovane,
Nicolino, entrambi poco a loro agio in biblioteca
che, con evidente e rassegnato disappunto di
Carola, si ostinavano a chiamare “libreria”.
Sopraggiunti sollecitamente, furono informati da Carola in merito al problema consistente
nella mancata accensione di una serie di faretti.
Si misero subito al lavoro, consentendo alla
bibliotecaria di tornare alle sue occupazioni di
routine. Trascorsero quasi due ore nel corso
delle quali Carola intuí che il problema era più
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